Il preteso feudalesimo nell'Italia meridionale
La tesi centrale degli opportunisti che in Italia vi siano avanzi di rapporti feudali, predominanti del tutto nel Mezzogiorno, non rispecchia soltanto una tattica politica di compromesso e di rinnegamento del socialismo classista, ma si fonda su di una triplice serie di madornali errori di fatto, circa la natura dell'economia e delle relazioni sociali feudali, la storia politica del sud d'Italia, e la situazione dell'agricoltura meridionale.
Un formidabile repugnante "chiodo" del peggiore opportunismo che regna nel movimento socialista e comunista italiano è quello della deprecata esistenza e sopravvivenza del feudalesimo nel sud d'Italia e nelle isole, specie a proposito dell'abusata questione del latifondo agrario meridionale, vero cavallo di battaglia dell'istrionismo retorico e del ruffianesimo politico italiano. Il dedurre da quest'immaginaria e inventata constatazione una tattica politica bloccarda e di collaborazione coi partiti borghesi radicali anche dell'Italia del nord (cui sì e no si concede da questi signori la patente di paese capitalistico) sul piano e nel quadro del limaccioso Stato unitario di Roma, bastava e basterebbe a qualificarli di rinnegati della dottrina e dell'azione rivoluzionaria. Ma essi, i socialcomunisti nostrani, campioni della collaborazione demoborghese, mostrano ogni disprezzo per il rispetto ai princìpi, rivendicando l'impegno dell'arma generale del compromesso e tutto fanno derivare dalla contingente valutazione delle situazioni. E' quindi il caso di mettere in tutto rilievo che quel loro giudizio sulla situazione semifeudale del Meridione calpesta qualunque seria conoscenza della reale situazione dell'economia e dell'agricoltura meridionali, di quelle che sono le caratteristiche distintive della gestione feudale della terra, ed infine dei grandi tratti delle vicende storiche delle Due Sicilie.
Quella che banalmente si considera come arretratezza dello sviluppo sociale del Mezzogiorno, analogamente alla pretesa scarsa e deficiente evoluzione sociale dell'Italia in generale, non ha nulla a che fare con un ritardo storico nell'eliminazione di istituti feudali, ed anche dove presenta le famose zone depresse è invece un diretto prodotto dei peggiori aspetti ed effetti del divenir capitalistico, nell'Europa specie mediterranea, nell'epoca postfeudale. In pochi paesi come nel reame delle Due Sicilie, se guardiamo alla storia delle lotte politiche, il feudalesimo come influenza dell'aristocrazia fondiaria fu combattuto, fronteggiato e debellato dai poteri dell'amministrazione centrale dello Stato, sia sotto il regno dei Borboni e la dominazione spagnuola, che sotto le precedenti monarchie, e si possono prendere le mosse fin da Federico di Svevia. La lotta fu a molte riprese appoggiata da moti delle masse contadine ed urbane, e ben presto arbitri della situazione del regno furono gli intendenti e i governatori dei solidi ed accentrati poteri di Palermo e di Napoli. I risultati della lotta si tradussero in una legislazione anticipata di molto rispetto a quella degli altri staterelli italiani, compreso l'arretratissimo Piemonte, e lo stesso può dirsi nei riguardi del controllo a cui si sottoponevano le comunità religiose e la chiesa secolare da parte dell'autorità politica; né occorre colorire questa ovvia rievocazione con le lotte in Napoli degli eletti del popolo e la impossibilità di stabilire in quella città il tribunale dell'inquisizione. Il processo storico e giuridico, dopo la rivoluzione repubblicana nel 1789 condotta da una borghesia audace e cosciente, si perfezionò sotto il robusto potere di Murat, e i restaurati Borboni ben si guardarono dall'intaccare la compatta e avveduta legislazione lasciata da quel regime nel diritto pubblico e privato. E' quindi un errore triviale confondere la storia sociale del Mezzogiorno d'Italia con quella dei boiardi e degli Junker dell'Europa nordorientale, che seguitarono a governare in feudi autonomi i loro servi, a taglieggiarli e giudicarli ad arbitrio, quando da secoli gli abitanti dell'Italia mediterranea erano cittadini di un sistema giuridico statale moderno, per quanto assolutistico.
Quanto alla struttura economica agraria, il quadro di un paese feudale ci presenta il rovescio di quello a cui si collegano le deficienze delle zone latifondistiche del Mezzogiorno italiano. Quel quadro presenta una agricoltura sia pure non decisamente intensiva ma omogenea e diffusa in piccoli esercizi con la popolazione lavoratrice allogata con uniformità sulla superficie coltivata, in abitazioni sparse e in piccoli casali. Il villaggio, che il nostro Mezzogiorno purtroppo ignora, è la cellula di base della ricchezza agraria dei tanti paesi di Europa che i signori feudali sfruttavano per le loro grandezze e su cui si precipitò lo strozzinaggio dei borghesi, facendo talvolta il deserto e la brughiera, come descrive Marx a proposito dell'Inghilterra, lasciando altra volta vivere tale ricco cespite e limitandosi a smungerlo, come nella campagna francese.
I latifondi del sud e delle isole sono grandi zone semincolte su cui l'uomo non può soggiornare, e non vi si incontrano case coloniche e villaggi, in quanto la popolazione è stata ammassata da un urbanesimo preindustriale e tuttavia nettamente antifeudale in grossi centri di diecine e diecine di migliaia di abitanti come in Puglia e in Sicilia. La popolazione sovrabbonda, ma la terra non può essere occupata per difetto di organizzazione e di un investimento di lavoro e di tecnica che da secoli nessun regime statale riesce a realizzare, o trova conforme alle esigenze della classe dominante, sia tale regime nazionale o meno. Non vi è casa, non vi è acqua, non vi è strada, la montagna è stata denudata, la pianura ha le acque naturali sregolate e vi domina la malaria. L'origine di questo decadimento della tecnica agricola è molto lontana, più lontana del feudalesimo che, ove fosse stato forte, l'avrebbe contrastato (come il bonificamento tecnico ed economico avrebbe meglio consentito nei secoli di mezzo un vero regime di signoria feudale decentrata ed autonoma). Se si pensa che tali plaghe all'epoca della Magna Grecia erano le più floride e civili del mondo conosciuto, che restarono sotto Roma fertilissime, si deve considerare che le cause del loro scadimento si trovano sia nella posizione marginale rispetto al dilagare del germanesimo feudale con la caduta dell'Impero romano (che le espose alle alternative di invasioni e distruzioni dei popoli del nord e del sud), sia alla depressione dell'economia mediterranea con le scoperte geografiche oceaniche, sia appunto al prorompere del moderno regime capitalistico industriale e coloniale, che fu condotto a localizzare altrove, giusta la ubicazione delle materie prime di base dell'industrialismo, i suoi centri di produzione e le sue grandi vie di traffico, sia infine alla costituzione dello Stato unitario italiano la cui analisi ci condurrebbe molto lungi e che istituì un rapporto tipicamente moderno, capitalistico e imperialistico, perfino precursore dei tempi più recenti.
Tuttavia, prima e dopo tale unificazione, il gioco delle forze e dei rapporti economici fu più che conforme ai caratteri dell'epoca borghese, costituendo un settore essenziale dell'accumulazione capitalistica in Italia, la cui limitatezza è in quantità e non in qualità.
Infatti, prima e dopo il 1860, malgrado lo scarso sviluppo industriale (su cui non va dimenticato che l'influenza dell'unità nazionale fu gravemente negativa, determinando il decadimento e la chiusura d'importanti opifici), l'ambiente economico è stato di natura completamente borghese. Si può dire del Mezzogiorno d'Italia e del suo preteso feudalesimo ciò che disse Marx per la Germania del 1849 parlando al processo di Colonia - si noti bene - proprio per mettere in rilievo che la rivoluzione politica borghese e liberale doveva ancora trionfare:
"La grande proprietà fondiaria era la vera base della società medievale, della società feudale. La moderna società borghese [corsivi del testo], la nostra società, per contro, poggia sull'industria e sul commercio. La proprietà fondiaria stessa ha perso tutte le sue precedenti condizioni d'esistenza, è divenuta dipendente dal commercio e dall'industria. Perciò l'agricoltura è oggi esercitata industrialmente e i vecchi signori feudali sono decaduti al livello di industriali di bestiame, lana, grano, barbabietola, acquavite ecc., al livello di gente che commercia in prodotti industriali come qualsiasi altro commerciante! Per quanto si aggrappino ai loro vecchi pregiudizi, nella prassi si trasformano in cittadini che producono il massimo possibile al minor costo possibile; che comprano dove si compra a prezzo più basso, e che vendono dove si vende al prezzo più caro. Già il modo di vivere, di produrre, di guadagnare di questi signori smentisce quindi le loro fantasticherie sorpassate e arroganti. La proprietà fondiaria come elemento sociale dominante presuppone il modo di produzione e di scambio medievale ".
Se la disposizione soprattutto del carbone e del ferro minerale ha fatto sì che dopo quel tempo (e dopo anche la stesura del Capitale, che a modello di una società pienamente capitalistica dovette prendere l'Inghilterra) la Germania è divenuta un grande paese di industria estrattiva e meccanica, oltre che di agricoltura condotta al modo economico e più moderno, riesce tuttavia evidente come quel giudizio di ambiente e di situazione sociale si applichi ancora più radicalmente al Mezzogiorno d'Italia dopo un secolo, e dopo ben 90 anni di regime politico del tutto borghese liberale e democratico, regime che, dopo le sconfitte del '48, la Germania attese fino al 1871, e, secondo i soliti sgonfioni chiacchieroni sul feudalesimo teutonico, fino a molto più tardi.
Nel sud d'Italia vige un attivissimo mercato del suolo, con frequenza di trapassi certamente molto più alta che in province di alto industrialismo; ed è questo il criterio discriminante cruciale tra economia feudale ed economia moderna. Vi si accompagna un non meno attivo mercato del grande e piccolo affitto e naturalmente dei prodotti del suolo. Proprio dove la coltura è latifondista ed estensiva essa si fa per grandi unità economiche con impiego esclusivamente di lavoratori giornalieri salariati e braccianti, e da molti decenni primeggia economicamente su quella del proprietario fondiario, spesso in gravi difficoltà di cassa e oberato di ipoteche, la figura del grande affittuario capitalista, largo possessore di contanti e di scorte. Sia laddove il prodotto si riduce al grano, sia dove prevale l'allevamento zootecnico di tipo arretrato e perfino brado, non solo il capitale mobile è nelle mani dei grandi fittavoli e non dei proprietari fondiari, ma molti dei primi incettano e sfruttano a fondo, talvolta determinandone non la bonificazione ma il deperimento, le proprietà appartenenti a titolari diversi.
A considerazioni analoghe conduce l'esame della gestione della proprietà urbana. Anche a prescindere dalla attività industriale diffusa nelle zone più evolute, attorno alle città principali ed ai porti, tutto questo movimento di mercati ormai a giro e ciclo moderno determina da decenni e decenni un'accumulazione di capitali che è servita largamente di base alle industrie libere, semiprotette e protette del nord (l'Italia, molto prima di Mussolini, era un paese protezionista di avanguardia). Non solo i depositi in banca di borghesi meridionali, proprietari, intraprenditori e speculatori, hanno alimentata sempre con forti correnti la finanza privata nazionale, ma alle risorse del sud ha largamente attinto il fisco, che raggiunge assai più facilmente la ricchezza immobiliare ed ogni movimento economico legato alla terra che non i profitti e sovrapprofitti industriali commerciali e affaristici. L'economia capitalistica italiana sta dunque a cavallo di questi rapporti di carattere del tutto moderno, e che è semplicemente risibile voler paragonare ad una situazione feudale, e presentare, anziché come una solida alleanza, sotto la maschera di un conflitto inesistente tra una borghesia evoluta e cosciente, avida tuttora di perfezionate e rinnovate rivoluzioni liberali o meridionali, e i leggendari "ceti retrivi" e "strati reazionari" della sporca demagogia alla moda.
In rapporto a questa chiara inquadratura di legami economici sta la spregevole funzione della classe dirigente del sud. I resti della storica aristocrazia depauperata vivacchiano in qualche palazzo semicrollante delle città maggiori; in tutta la regione spadroneggiano non signori feudali ma borghesi arricchiti, proprietari, mercanti, banchieri, affaristi, di taglio più cafonesco che signorile. Al margine del movimento della costoro ricchezza, la cosiddetta "intelligenza" é discesa al rango d'intermediaria e mezzana del potere centrale dello Stato borghese di Roma, cui offre il meglio del suo pletorico personale, succhione delle forze produttive di tutte le province, dal commissario di pubblica sicurezza al giudice togato, dal deputato sostenuto da tutti i prefetti e che vota per tutti i governi, all'uomo di stato pronto a servire monarchie e repubbliche capitalistiche.
La lotta sociale nel Mezzogiorno, non meno che quella nel quadro dello Stato italiano in generale, ha posto per i veri marxisti all'ordine del giorno, prima durante e dopo l'abusatissimo ventennio, il superamento delle ultime e più recenti forme storiche dell'ordine capitalistico e mai più l'aggiornamento a modelli oltremontani di rapporti e istituti rimasti "indietro".
Questa tesi della sopravvivenza feudalistica meridionale merita di essere appaiata con l'altra che interpretava il movimento fascista quale una riscossa delle classi agrarie contro la borghesia industriale. L'indirizzo del gruppo che tolse ai marxisti rivoluzionari il controllo del partito comunista d'Italia (il cosiddetto gruppo dell'"Ordine Nuovo") poggia fino dai primi anni su queste due cantonate, su queste due piattonate basilari. Esse bastavano in partenza a costruire tutta una prassi e una politica di alleanza tra capitalisti industriali e rappresentanti traditori del proletariato, come si è poi vista in atto in Italia. Non era indispensabile la iniezione degenerante di virus disfattista da parte della centrale internazionale staliniana, nel suo indirizzo mondiale di patteggiamento e collaborazione tra i poteri del capitalismo e quello dello Stato falsamente definito socialista e proletario.
Da "Prometeo" n. 12 del 1949