Egitto. Le lotte delle masse operaie e contadine alla luce dello sviluppo capitalistico
Dopo le violente manifestazioni di gennaio in Egitto molti borghesi si sono chiesti dove stia per sfociare una situazione concordemente definita esplosiva. La risposta non è certo nelle dichiarazioni di Sadat o nelle paure della corrotta borghesia del Cairo. Né gli americani, né i russi, sanno dare un indirizzo coerente [dal loro punto di vista] alla diplomazia delle rispettive sfere d'influenza, né i cervelli del FMI e della Banca Mondiale una risposta ai problemi egiziani.
L'Egitto è il fulcro di tutti gli avvenimenti che si susseguono nell'area da cinquemila anni. Raccoglie il maggior numero di abitanti, ha la produzione più sviluppata, l'esercito più importante. La sua politica è determinata dalle sue condizioni materiali e, a sua volta, influisce sulle condizioni dei paesi circostanti.
Vi sono ragioni precise perché il ruolo centrale dell'Egitto non sia stato assunto da paesi come l'Iraq, il Sudan o la Siria, ben più ricchi di terra abitabile e di risorse agricole, o dai ricchissimi paesi petroliferi. Lo sviluppo materiale determina la storia, ed entrambi non si possono cancellare. Gli avvenimenti futuri nell'area mediorientale non dipendono dalle volontà dei Kissinger o dei Sadat, né il loro errore palese può essere evitato; la politica ufficiale ha un vizio che è di classe: i metallurgici di Heluan, i tessili di Alessandria, i braccianti di Mansurah, scendendo in piazza, confermano il corso storico, e provano che solo il marxismo possiede la chiave per comprendere e quindi per cambiare il mondo.
Una situazione esplosiva
L'Egitto ha una popolazione di 39 milioni di abitanti che, con le loro abitazioni, industrie, strade, campi ecc., debbono dividersi su 35.500 kmq. di territorio abitabile: una media tre volte superiore alla più alta concentrazione europea (Paesi Bassi: 402 ab. per kmq.). La terra disponibile, invece di aumentare, diminuisce a causa sia dell'urbanizzazione, sia della degradazione dovuta all'altissima densità. Nel solo 1976 la popolazione è cresciuta di un milione di unità mentre la produzione agricola aumentava proporzionalmente molto meno; entro la fine del secolo, allo stesso ritmo vi saranno 65 milioni di abitanti con le disponibilità alimentari di oggi.
Fino a pochi anni fa autosufficiente per quanto riguarda la produzione alimentare, oggi l'Egitto è costretto ad aumentare enormemente le importazioni. Nel 1973 importò un milione e mezzo di tonnellate di grano, nel 1974 2,2 milioni, nel 1975 2,8 milioni. Sempre nel 1975 fu costretto ad importare grandi quantità di altri generi di prima necessità: 120.000 tonnellate di carne, 100.000 di zucchero, 40.000 di farina, 40.000 di tè, la bevanda nazionale (1).
Sarebbe sciocco, evidentemente, incolpare di tutto il solito fattore demografico. L'Egitto si estende per un altro milione di kmq., molti dei quali un tempo coltivati e ora desertici. La tecnica moderna potrebbe ripetere, migliorati e moltiplicati, i successi ottenuti dai faraoni; a Deir El Bahari, oggi paesaggio calcinato dal sole, le spettacolari scenografie erano immerse nel verde dei giardini pensili: se non si può fare altrettanto coi mezzi d'oggi, vuol dire che il difetto sta nel sistema sociale, che l'Egitto vive ora con un tipo di società incapace di svilupparsi diversamente.
Il capitalismo non può svilupparsi in modo organico; lo dimostra l'agricoltura. Accanto alle aziende agricole condotte con metodi moderni, sopravvive dovunque la piccola proprietà particellare e nessun governo borghese è mai riuscito ad applicare un piano agricolo per regolare la produzione secondo le necessità. L'Egitto, in alcune aree, ha conosciuto molto presto il capitalismo, addirittura in epoche parallele all'accumulazione originaria di paesi come l'Inghilterra e la Francia. Diventano così più stridenti le contraddizioni.
Ovunque nel mondo, lo sviluppo della produzione ha sempre comportato uno sviluppo demografico, e l'Egitto non si sottrae certo alla regola; inoltre, le vicende che il paese ha attraversato provano come vi sia una stretta relazione fra guerre combattute e subite, fra sviluppo interno e aumento della popolazione, ed è impressionante notare come certi fenomeni si ripetano nel tempo, fatto dovuto senza dubbio alle particolarità di un paese costituito da un esile nastro di terreno coltivabile su un fiume che attraversa uno sconfinato deserto.
Nascita dell'Egitto moderno
L'Egitto è il Nilo: se non esistesse il fiume, non esisterebbe la nazione. La valle del Nilo in tutta la sua lunghezza fu popolata fin dal paleolitico, quando i nomadi abbandonarono gradualmente quello che sarebbe poi diventato un deserto. Diecimila anni prima della nostra èra, la valle aveva già le caratteristiche che oggi conosciamo, fertili pianure nell'attuale Sudan, terrazze di limo fertilissimo fino al Delta, di nuovo fertili pianure fino al mare. Il modo diverso di affrontare la natura del suolo differenziò molto presto le popolazioni dell'Alto e Basso Egitto. Il Sud fertile non si sviluppò ed era ancora al neolitico quando furono innalzate le piramidi, mentre gli abitanti della zona desertica dovettero imparare le tecniche dell'irrigazione, delle costruzioni in pietra ecc.. fino a sviluppare estesi gruppi che, formatisi in nazione, finirono per conquistare sia il Delta (3000 a.C.) che l'attuale Sudan (2620 a.C), garantendo l'alimentazione all'ormai esuberante popolazione e, insieme, un ulteriore sviluppo. Un alternarsi di espansione e di declino caratterizzano i 5.000 anni di storia della valle del Nilo, e vi si è sempre dimostrata una contraddizione fondamentale: le condizioni ambientali permettono una produzione altissima su un territorio troppo ristretto per contenere il potenziale di espansione che ne deriva.
L'impatto col modo di produzione capitalistico, date le condizioni di partenza, non poteva non portare a situazioni esplosive. Con l'entrata di Napoleone al Cairo (dopo la sconfitta dei Mamelucchi) il 23 luglio 1798, l'Egitto esce dal medioevo e si affaccia al mondo moderno. I 40.000 soldati francesi con al seguito uno stuolo di scienziati, economisti, ingegneri e agronomi, costretti ad organizzare la propria permanenza dopo Abukir, distruggono i vecchi rapporti feudali e impongono le loro leggi e il loro modo di produzione. In 38 mesi di alterne vicende, che vedono riforme, rivolte, guerre e repressioni, l'Egitto è trasformato per sempre, e il successivo tentativo di restaurazione dei vecchi rapporti non approda a nulla. Nel 1805 Muhamed-Alì, giovane ufficiale albanese al servizio dei turchi, viene nominato viceré, e inizia la marcia verso l'indipendenza con la formazione di un esercito, di una flotta e di uno Stato efficienti sul modello europeo. Nel 1811 più di 500 beys e capi mamelucchi, rappresentanti del potere feudale, sono convocati col pretesto di una riconciliazione generale, e massacrati dalle truppe nazionali. La via è libera per il giovane potere: nel 1812 le armate egiziane conquistano i luoghi santi islamici e, entro il 1819, tutto l'Hegiaz al di là del Mar Rosso. Vecchi ufficiali e tecnici francesi lavorano per il nuovo regime, vengono introdotte nuove colture, l'esercito si rafforza sempre più; viene annesso il Sudan e fondata Khartum (1822); la Siria, la Palestina, il Libano e parte dell'Anatolia vengono occupate, il potente esercito turco sconfitto. Preoccupate dei successi egiziani, Inghilterra, Russia, Prussia e Austria fermano l'Egitto e lo costringono a rinunciare alle conquiste. Con l'appoggio della Francia, il Sudan viene mantenuto e l'Egitto considerato provincia dell'impero ottomano, ma con statuto particolare e dinastia propria.
Durante il periodo di governo di Muhamed-Alì l'agricoltura viene rivoluzionata con la costruzione di dighe e canali, vengono messe a coltura nuove terre e si impiantano produzioni per l'esportazione. Nasce l'industria tessile; costituiti con criteri europei, l'esercito e la flotta contribuiscono all'incremento della produzione. All'espansione segue la crisi, violenta come in Europa nello stesso periodo; il dissesto finanziario provoca l'intervento massiccio degli inglesi che sfocia in una vera e propria occupazione.
L'importanza delle guerre nello sviluppo egiziano
Periodi critici si alterneranno a periodi floridi fino ai giorni nostri, dimostrando come l'esistenza dell'Egitto si inserisca sempre più nelle vicende dell'imperialismo, divenendo di volta in volta il punto focale della strategia delle grandi potenze, come durante le due guerre e come oggi.
Le guerre in particolare hanno influito sull'Egitto, e la seconda guerra mondiale più di tutte. Dal 1940 al 1945 le esigenze belliche generarono un milione di posti-lavoro in più. La già alta produzione di cotone aumentò ancora, crebbero i proletari. La produzione di filati subì un incremento del 42%, quella dei tessuti del 241%; gli investimenti nell'industria aumentarono del 23%, la produzione industriale del 30%, i salariati di fabbrica passarono da 247.000 a 360.000, la produzione dell'acciaio salì da 191.000 a 252 mila tonnellate, mentre la produzione agricola calava del 20%. Aumentarono i prezzi e il costo del denaro, i borghesi divennero più ricchi, i proprietari grandi e medi si impadronirono della terra dei piccoli contadini. Nel 1947, su 18 milioni di abitanti c'erano già 6,9 milioni di salariati.
La guerra è un fatto contingente, ma innesca un processo irreversibile. Le altissime produzioni che le sono necessarie non cessano del tutto, i contadini non ritornano alla terra; le nuove industrie, dopo il primo contraccolpo, si ripresentano sul mercato. Nel 1945 vi sono 300.000 licenziati nell'industria, ma la produzione totale aumenta. Dal 1945 al 1952 il tempo medio di occupazione è di 37-40 settimane all'anno; il tempo di lavoro medio degli occupati supera le 50 ore la settimana. Il 6% degli operai ha orari di 40 ore, il 48% da 40 a 49, il 46% di oltre 50. Il 10% della forza-lavoro è rappresentato da bambini, non è riconosciuto per legge il riposo settimanale, il 6% della popolazione totale non ha né casa né lavoro, e vive di espedienti nelle grandi città. Ripetute agitazioni sono duramente represse. I tessili di Alessandria e gli operai del Cairo e di altre città danno vita alle prime organizzazioni sindacali autonome, e scatenano le prime autentiche lotte proletarie. La stampa governativa accusa i sovversivi di «complotti comunisti» che «estendono i loro tentacoli in tutto il paese» guidati da «politici accecati dall'ambizione e dall'odio, incapaci di vedere al di là dei loro interessi immediati». (Journal d'Egypte, 12-7-'46).
La guerra del 1948 allevia le tensioni sociali ma non le elimina; anzi, le aggrava. Il prestito nazionale di 30 milioni di lire egiziane si rivela più che insufficiente. In confronto a una spesa complessiva di 95 milioni di lire, il solo costo della guerra raggiunge i 125 milioni. Ad una riunione di azionisti della Banca Nazionale d'Egitto, si inneggia alla buona salute dell'economia, mentre la produzione tessile - la più importante, perché pilastro delle esportazioni che procurano la valuta necessaria per pagare i debiti - cresce del 14% in un anno.
La cessazione di fatto del condominio anglo-egiziano sul Sudan contribuisce alla grave crisi economica del 1949-50, e il tentativo di Faruk di ristabilire i rapporti precedenti (autoproclamazione a re d'Egitto e del Sudan nel 1951) ha il solo risultato di provocare l'invio di truppe inglesi nella zona del Canale e precipitare gli avvenimenti verso i grandi scioperi del '51-'52 che, il 23 luglio, portano i «liberi ufficiali» al potere.
Il peso del cotone sullo sviluppo economico
Malgrado le trasformazioni capitalistiche e un eccezionale sviluppo del mercato interno, l'Egitto stenta a divenire un vero e proprio paese industriale. La maggior parte delle attività sono dominate da capitale straniero; soprattutto manca completamente una produzione interna di mezzi di produzione, quindi esiste solo l'industria leggera, che, a lungo andare, non può svilupparsi ulteriormente. Si aggiunga lo stretto legame fra la quasi-monocoltura del cotone e le oscillazioni del prezzo internazionale, che crea scompensi e dipendenze accentuati. Il tentativo, durante la crisi del 49, di stimolare gli investimenti con il via libera all'inflazione e con la svalutazione della lira egiziana fallisce semplicemente perché i capitali si investono non secondo la volontà del governo, ma secondo le leggi economiche, cioè nel redditizio campo del cotone, che dall'inizio alla fine del 1950 sale enormemente di prezzo. Ciò provoca un aumento della superficie coltivabile a scapito della resa, danneggiando la produzione agricola di sussistenza. Dal 1949 al 1950 vengono coltivati a cotone 300.000 feddan (1 feddan = 4.200 mq.) in più, ma la produzione totale invece di migliorare scende da 8,5 milioni di kantar (1 kantar = circa 56 Kg.) a 8,3 milioni. Non è un fattore stagionale, dato che in Egitto le stagioni contano poco, né il prodotto di qualche altra particolarità, dato che il fenomeno si accentua negli anni successivi. Probabilmente, dopo il raccolto record del 1948 (8,7 milioni di kantar su 1,6 milioni di feddan), la mancanza di fertilizzanti e lo sfruttamento intensivo del suolo provocano un impoverimento della terra. Le rese sono di 6,6 kantar per feddan nel 1948; 6,06 nel 1949; 5,03 nel 1950; 4,2 nel 1951; 3,96 nel 1952; solo nel 1953 si risale a 4,94, quando si cerca di spezzare il vincolo della monocoltura mantenendo soltanto le aree coltivabili a qualità pregiate ad alta resa.
Il cotone è stato uno dei fattori di industrializzazione dell'Egitto e aveva già contribuito alla formazione del proletariato egiziano nella prima metà dell'800, ma nello stesso tempo ha agito come remora a un successivo sviluppo.
Ogni crisi internazionale, facendo crescere i prezzi delle materie prime, «obbligava» il capitale egiziano ed estero ad investirsi in quel ramo, anche perché il cotone egiziano, grazie al clima e alla incredibile fertilità del suolo, ha rese ineguagliate: 606 libbre per acro contro le 368 dell'URSS, le 239 degli USA, le 112 dell'India. L'Egitto nel dopoguerra è stato il massimo produttore di cotone a fibra lunga con i 2/3 della produzione mondiale (5/6 esportati), ma questa sua caratteristica l'ha costretto a tagliare i ponti sia con i residui di feudalesimo, sia con le dipendenze esterne.
Il capitale in un vicolo cieco
Oggi l'Egitto rivive la necessità di porre l'alternativa tra uno sviluppo autonomo e la dipendenza esterna. Ma quale sviluppo?
La necessità di espansione si manifesta nel modo classico: ristagno degli investimenti, impiego del capitale nella sfera finanziaria e immobiliare, inflazione altissima, compressione della forza-lavoro e quindi estese rivolte.
Le lotte del proletariato e dei fellahin si intensificano dal gennaio '72 all'ottobre '73, preannunciate, come al solito, da manifestazioni studentesche. La guerra del Yom-Kip-pur porta una tregua in campo sociale, ma dal dicembre '74 le ribellioni riprendono al Cairo e a Porto Said. L'1 gennaio '75, i fieri proletari di Heluan danno il via a scioperi sempre più estesi e violenti che si propagano ai fellahin. Manzalah, Damietta, Mahalla, El-Kubra, Damanhur, Qetta; gli scioperi continuano nel '76 quasi in sordina, finché nell'agosto esplodono i tessili di Alessandria (150 arrestati, decine di feriti) e a settembre la capitale è paralizzata dallo sciopero, durissimo e ad oltranza, dei trasporti.
Come si vede, il gigantesco sciopero del gennaio '77 non nasce nel vuoto e per solo effetto dell'annuncio dell'aumento dei prezzi. Di fronte alle mitragliatrici e ai mezzi corazzati, i proletari e le masse sfruttate d'Egitto sono state spinte da una realtà sociale esplosiva al punto da non avere soluzione. Non a caso un grido raccolto nella folla diceva: «Sadat, ammazzaci pure, tanto saremmo morti comunque di fame!»
Il grido disperato è terribilmente reale, se guardiamo alla situazione economica generale. Oggi ogni egiziano ha a disposizione 897 mq. di territorio, un quadrato di neanche 30 mt. di lato, da cui ricava i mezzi per vivere, le città, le strade, le fabbriche. All'inizio del secolo ogni individuo disponeva di 2.800 mq.; quando sbarcò Napoleone, di 11.000. Il giovane capitalismo egiziano trova molto presto un limite invalicabile: lo spazio vitale, la terra abitabile. Il problema non è solo demografico; perché, con i mezzi di cui dispone, il capitalismo non riesce dove sono riusciti gli antichi? Il modo di produzione antico seppe risolvere il rapporto tra spazio e popolazione distribuendo il lavoro a tutti gli abitanti in uno schema semplice e perfetto che durò tre millenni praticamente senza varianti, e né lotte dinastiche, né periodi di guerra civile e pestilenze lo intaccarono. Il capitalismo è accentratore, non può fare a meno di agire alla massima potenza: ha a disposizione spazi sconfinati, ma costruisce grattacieli; il capitale genera più profitto se concentrato; inutile chiedergli di comportarsi in altro modo.
Il capitalismo egiziano non ha ancora raggiunto uno sviluppo di livello «occidentale» ed è già ingolfato in contraddizioni insuperabili. Di fronte a sé ha poche alternative: o una nuova guerra, che però sposta solo nel tempo i problemi, inasprendoli; o un'espansione territoriale, con tutto quel che comporta nell'attuale fase imperialistica e nello scacchiere mediorientale; o una rivoluzione comunista, la unica via per portare a termine e superare compiti capitalistici che la borghesia non è in grado di assolvere. Solo la prima è un'alternativa realistica, alla quale naturalmente bisogna aggiungere la prospettiva di una lunga crisi fra aiuti internazionali, provvedimenti speciali, repressioni ecc.
Per provarlo con dati e cifre, dobbiamo ricorrere ancora al modo di produzione antico.
Superiorità della società non proprietaria e potenza del capitale per sé stesso
Quando gli « scienziati » borghesi provarono a calcolare, dati alla mano, come si fossero potute erigere le grandi piramidi della IV dinastia, non riuscirono a trovare una risposta. Infatti, dal punto di vista borghese, le piramidi sono « impossibili ». Da allora, i dispensatori di cifre sui monumenti di pietra sono diventati schiere, giungendo a scomodare perfino gli extraterrestri. Il fatto è che quelle costruzioni non furono innalzate secondo i criteri capitalistici, così come la terra coltivabile non fu strappata al deserto seguendo la legge del profitto.
Il borghese si pone davanti al monumento e prende le misure: tanto per il taglio della pietra, tanto per il trasporto, tanto per l'innalzamento, tanto per i servizi di cantiere, tanto per le vettovaglie. Per far quadrare i conti gli servono troppi operai, e non riesce a farli stare tutti insieme in un cantiere che si spinge fino a 140 metri d'altezza, né riesce a mantenerli tutti o a distoglierli dalle altre produzioni; oppure gli serve troppo tempo, ed egli non riesce a capacitarsi come dalla prima all'ultima costruzione passino appena cent'anni durante i quali si sono pure costruiti templi, scavati canali, dissodate terre, combattute guerre e colonizzati paesi.
La scoperta che durante il regno di Snofru si costruirono contemporaneamente, almeno tre piramidi, invece di complicare il problema lo risolse. Le forze disponibili, distribuite su più costruzioni contemporanee, rendono il problema solubile dal punto di vista tecnico, anche se da quello sociale per la « scienza » d'oggi quel periodo rimane ben misterioso. Una società capace di utilizzare tutte le risorse di un paese e di una popolazione distribuendo gli sforzi secondo un piano centrale riesce, pur non disponendo di apparati tecnologici, là dove fallisce un'altra società ben più dotata di mezzi. La società attuale, tanto amante del « kolossal », dimostra tutta la sua meschinità proprio dove vorrebbe mostrare la sua grandezza: è capace di realizzazioni fantastiche ma non sa utilizzarle a profitto della specie. Nella formula del saggio di profitto, troviamo al denominatore sia il capitale costante (mezzi di produzione), sia il capitale variabile (valore della forza-lavoro). Concentrando in un unico punto la costruzione, vi è risparmio sia di capitale costante che di forza-lavoro.
La diga di Assuan, che Nasser paragonò ad una « piramide moderna », è un monumento al « risparmio sul capitale costante» (1) della moderna società borghese che agisce e conquista i paesi che si affacciano al capitalismo. Lunga 3600 metri, spessa alla base 980, alta 111, è stata magnificata come la salvezza dell'Egitto. Con le grandiose opere connesse, è stata ultimata in meno di cinque anni; vi si è concentrato il lavoro di 35.000 uomini e 40.000 tonnellate di macchine; 300 proletari l'hanno battezzata con il loro sangue. Assorbe la massima piena prevedibile del Nilo formando un lago lungo 500 km., largo mediamente 10 e capace di 157 km cubi. Fu un bel sogno; le delusioni non tardarono.
Con l'elevatore a contrappeso (shaduf) o con la ruota a zucche (sakieh) si crearono giardini pensili nel deserto; è mai possibile che con le dighe, gli scavatori per canali, le idrovore per irrigazioni non si possa fare ancora di più? Non siamo certo dei cultori del buon tempo antico; ma le cifre parlano. Nel 1956, all'epoca della nazionalizzazione del Canale in seguito al rifiuto americano dei prestiti per Assuan, erano coltivati 2.610.000 ettari di terreno che risultavano immutati al tempo dell'inaugurazione della diga nel 1964. Secondo il progetto tedesco, la diga avrebbe permesso la coltivazione di 800.000 ettari in più, ma nel 1970 si erano appena raggiunti i 2.835.000 (+ 225.000 = 7,9%) che rappresentavano quasi il tetto, perché nel 1971 e 1972 ne furono aggiunti solo 8.000 e 9.000 rispettivamente. Da quell'anno la cifra resta fissa fino al 1975, l'ultimo di cui si hanno i dati. Intanto però la popolazione è passata da 23.000.000 (1956) a 39.000.000 (1976, + 70%) mentre la produzione agricola di sussistenza è cresciuta assai di meno.
Nonostante gli sforzi, l'Egitto resta un paese prevalentemente agricolo. Non essendo in grado di nazionalizzare il suolo per spezzare la schiavitù della proprietà particellare e del latifondo condotto con metodi arcaici, la borghesia egiziana non potrà mai superare la contraddizione fra grandi investimenti accentrati e impossibilità di utilizzarne gli effetti.
Riforme disastrose della borghesia inconseguente
Senza la proprietà privata e finché non fu estesa come è oggi, il contadino egiziano raccoglieva gratuitamente il fango grasso proveniente dalla manutenzione dei canali, ramazzava il sebàkh, polvere organica che si deposita nei villaggi e fra le rocce, utilizzava lo sterco raccolto lungo le strade ecc., e si costruiva negli anni un campo ai limiti del deserto. Su di esso viveva con la famiglia, e l'irrigazione proveniva in genere da un pozzo con shaduf, capace in genere di elevare a 3 metri d'altezza 50 litri d'acqua al minuto con la sola forza delle braccia. I villaggi erano sempre costruiti fuori dal terreno fertile e dalla portata delle piene del Nilo. La proprietà privata ha migliorato la resa unitaria, ma ha distrutto il rapporto naturale della popolazione con la terra: il fango, il sebàkh, il concime animale, se li tiene chi già li possiede, o sono messi in vendita. L'accesso alla terra è limitato dalla proprietà e lo sfruttamento del deserto non è più possibile, perché chi ha già la terra, se è un latifondista, non è portato a compiere nuovi investimenti; se è un capitalista agrario, dovrà fare i conti con la media ottenuta fra deserto e terreno fertile, che gli abbasserà il saggio di profitto. Chi non ha la terra non può permettersi il necessario per averla; quindi, o lavora per il proprietario o se ne va ad ingrossare l'esercito dei proletari e sottoproletari delle città, che a loro volta si mangiano man mano il suolo coltivabile. Così, mentre nel complesso dei paesi arabi si coltiva meno del 10% della superficie potenzialmente agricola, in Egitto non solo la si coltiva tutta, ma la maggior parte è sfruttata con tre culture all'anno (shitui, sefi, nini), sfruttamento che non può più avere in futuro incrementi notevoli, a meno che lo stato non inizi opere di bonifica del deserto (ma quello di Sadat non è certo un regime capace di riforme radicali!).
Non tutto il deserto è sterile. Vi sono ampie zone costituite da antichi depositi di limo o di polvere organica cui basterebbe apportare l'acqua per ottenere fertili terreni. L'eccezionale fertilità del suolo ha una sua spiegazione peculiare che dimostra il nostro assunto: il limo da solo non influisce molto sulla fertilizzazione; il suo contributo è un deposito medio di 1 mm., pari a 10 mc. per ettaro, corrispondenti a 16,6 kg. di prodotti azotati assimilabili. Il processo di rigenerazione del suolo avviene in seguito alla permanenza della terra sott'acqua, per cui, grazie all'azione del sole, si forma una rete fittissima di screpolature profonde che permettono l'aereazione mantenendo l'umidità. Si verifica quindi una reazione chimica più estesa di quanto non permetterebbe lo scasso tradizionale con il vomero; l'ossigeno, l'ozono, l'anidride carbonica e specialmente l'azoto si combinano tramite l'azione fisica dell'argilla porosa e le proprietà comburenti dell'ossido di ferro delle colline di Assuan, trasformandosi in prodotti fertilizzanti naturali. La disponibilità di acqua permette di moltiplicare questo processo per tutto l'anno e infatti i primi sbarramenti portarono all'introduzione delle tre colture annuali. Ora occorre altro terreno, ma fino ad oggi non ne è stato recuperato neanche un terzo del previsto. Non basta il gigantesco bacino: occorrerebbe mobilitare tutte le risorse umane ed economiche non impiegate nell'industria per distribuire l'acqua con migliaia di canali e serbatoi come gli alveoli di un immenso polmone. Ma la borghesia egiziana non ha certo la propensione ad opere rivoluzionarie: procedendo con progetti a concorso, assegnazione di appalti, corruttele immobiliari sui terreni da espropriare, distribuzione di profitti e calcoli di convenienza, gli Egiziani faranno in tempo a tirare ben più la cinghia.
Per quanto riguarda invece la bonifica di terre desertiche da parte di aziende agrarie con investimenti per impianti di irrigazione meccanici fissi, il discorso coinvolge in pieno il problema della rendita, insolubile in regime capitalistico.
In zone desertiche del Nebraska (USA) più di 9000 impianti rotativi per l'irrigazione da pozzi hanno richiesto mediamente investimenti di 870 dollari per ettaro con un costo d'esercizio di 50-70 mila dollari l'anno. Nell'oasi di Kufra, in pieno Deserto Libico, decine di impianti del genere irrigano zone circolari di 1600 m. di diametro intorno ad ogni pozzo. Con i 200 milioni di dollari spesi in prodotti alimentari importati nel solo 1976, si potrebbero bonificare 230.000 ettari di deserto; ma la soluzione non è evidentemente aritmetica.
L'investitore privato americano o statale libico investirà capitali nel deserto solo quando il prezzo del prodotto che se ne ricava sarà abbastanza alto da garantire un profitto e quindi da giustificare la spesa. Ma il prezzo di quasi tutti i prodotti agricoli importanti è un prezzo internazionale; il proprietario e il capitalista agrario egiziani devono fare i conti con la rendita differenziale per l'uno e il sovrapprofitto per l'altro, garantiti da tre raccolti all'anno su un terreno fertilissimo. Non dimentichiamo che le rese del frumento mediamente in Egitto sono doppie di quelle americane per ogni raccolto, cioè 34,4 quintali per ettaro contro 18,4.
Oggi l'Egitto utilizza l'8% delle spese di bilancio per l'agricoltura mentre utilizza il 30% per l'esercito. Potrebbe certo investire di più sulla terra, se non ci fosse di mezzo l'ostacolo della proprietà.
La prima riforma agraria varata nel settembre 1952 stabilì che la proprietà fosse limitata a 200 feddan, ma escluse chi aveva due o più figli e chi dimostrava di fare opere di bonifica; non rientravano nella riforma le industrie che possedevano terra, le società agricole « scientifiche » e le associazioni di beneficienza. Indipendentemente dal significato che noi diamo alla spartizione della terra così attuata, senza cioè badare al fatto che una distribuzione in appezzamenti troppo piccoli consegna la società « alla miseria della schiappa », notiamo come la riforma fosse timida nel colpire gli interessi dei singoli: quali famiglie in Egitto non avevano almeno due figli? Su 6,5 milioni di feddan ne furono acquistati dallo stato 645.000, circa il 10% del totale, che furono divisi in lotti di non oltre 5 feddan a chi li richiedesse. Agli acquirenti fu offerto un pagamento dilazionato in 30 anni all'interesse del 3% su un prezzo maggiorato del 15%. Beneficiarono della riforma 226 mila famiglie, e aumentarono ancora di più i piccoli proprietari.
Prima della riforma (dati 1947) esistevano 2,6 milioni di famiglie proprietarie così suddivise: 1.875.000 con meno di un feddan; 600.000 con meno di 5 feddan; 600.000 con meno di 5 feddan; 113.000 con meno di 50, e 12.000 con più di 50. Ma, mentre dall'inizio del secolo era invariato il numero di chi possedeva più di 50 feddan, il numero di chi ne possedeva meno di 5 era quadruplicato. Con la riforma del 1952 si diede un colpo alla possibilità di introdurre il capitalismo in agricoltura su vasta scala, solo mezzo per trasformare la campagna arcaica in un settore in grado di recepire investimenti. L'ulteriore spezzettamento sbarrò la strada al trattore e alla pompa meccanica e moltiplicò il bufalo e il shaduf. Dal 1951 al 1961 i braccianti diminuirono di 20.000 unità; nel 1951 i piccoli proprietari partecipavano alla formazione del reddito per il 17,5%, nel 1961 solo il 14%.
La seconda riforma agraria (1961) peggiorò ancora la situazione e, dividendo ulteriormente la terra impoverì a tal punto la media dei contadini da aprire le porte alla successiva riappropriazione degli antichi proprietari. Il limite della proprietà fu dimezzato e furono eliminate le distinzioni fra terra e terra. Nessuno, nemmeno le industrie e le aziende agricole, poteva possedere più di 100 feddan e farne coltivare da braccianti più di 50. Il provvedimento tendeva a creare una sorta di kulaki egiziani, ma l'eccessiva esiguità degli appezzamenti e l'aggiramento della legge da parte dei grandi latifondisti portarono ad un « ritorno » delle ricche famiglie che nel frattempo avevano investito il ricavato degli espropri '52 in attività immobiliari e finanziarie. Nel 1961 gli espropri furono pagati in buoni del tesoro quindicennali, giunti perciò a scadenza nel 1976. Che ne sarà di quei capitali? È ovvio che, come i precedenti, saranno impiegati in buona parte a ricostruire i patrimoni delle famiglie e in attività legate alla finanza internazionale. Il continuo rinvio moralistico dei corrispondenti-stampa, durante i fatti di gennaio, al « lusso sfrenato » dei ricchi, alla concentrazione del capitale in caste ristrette ecc., ci fa sorridere, ma è certo che la politica dell'infitah ha provocato un vero terremoto economico pagato dalle classi sfruttate a prezzi inauditi. Il debole tessuto capitalistico di una società ancora in gran parte arcaica non regge alla potenza del capitale concentrato; è naturale che potenti gruppi (famiglie) finanziari riescano a diventare proprietari insieme di industrie, latifondi, immobili e agenzie turistiche.
I ricchi agrari erano passati dal 25% del reddito agricolo nel 1951 al 4% dopo la seconda riforma, ma l'esproprio con indennizzo li buttò sulle attività collegate all'esplosione urbanistica, aumentandone la potenza economica. Oggi, con la vendita all'asta delle terre nazionalizzate, con la legge per cui il fellah può essere cacciato dalla terra per debiti dopo 3 mesi, con la soppressione dell'esonero dalle imposte dei piccoli proprietari, l'ex proprietario si riprende i campi, ripristina il contratto a mezzadria con pagamento in natura, respinge verso le città nuove schiere di proletari e sottoproletari.
Perché il «parassitismo»
Sarà ben difficile risolvere i problemi dell'agricoltura (e quindi dell'alimentazione) dell'Egitto senza ricorrere a massicce importazioni.
Impossibile utilizzare l'enorme potenziale umano per corvées di tipo cinese in mancanza di un processo rivoluzionario anche se borghese; impossibile un balzo verso l'utilizzazione di tutte le risorse in un piano statale centralizzato (pensiamo alle bonifiche olandesi) in mancanza di un capitalismo sviluppato al punto da trasformare lo stato in capitalista collettivo, capace di mediare i singoli interessi capitalistici per sopravvivere all'anarchia insita nel modo di produzione; impossibile un'accumulazione come quella che caratterizzò i primi paesi capitalistici in presenza di un'arretratezza profonda insieme ad isole di capitalismo avanzato che motivano la loro esistenza più con i legami internazionali che con le necessità di sviluppo interno. E poi i tempi permessi non sono più quelli del secolo scorso.
Mentre la popolazione è aumentata dal 1970 del 15,5%, la produzione di cereali è aumentata della metà (7,4%), quella di cotone, canna, agrumi e datteri, dell'8%, quella di patate, fave, pomodori, cavoli e cipolle, cioè i cibi più consumati, dell'8,6%.
Dalle statistiche che, se ce lo consentirà lo spazio, potremo pubblicare, si rivela inoltre come sia aumentata meno della popolazione la produzione di carne: benché i capi di bestiame siano cresciuti complessivamente da 8,04 milioni nel 1969 a 9,25 milioni nel 1974 ( + 15%), escludendo il bestiame da soma, che rappresenta la quasi totalità, si ha un aumento dell'8-10% al massimo.
Un altro dato mostra la tendenza all'impoverimento del suolo dovuta a una rotazione più fitta delle colture: mentre la produzione di cereali è aumentata complessivamente del 7,4%, l'area coltivata è rimasta invariata ed è cresciuta del 3,6% l'area seminata. Ciò significa che la resa è aumentata, ma, senza un apporto di fertilizzanti che oggi non sono prodotti a sufficienza, a breve scadenza sarà inevitabile un declino della produzione. Dalle stesse statistiche appare chiaro come sia problematico un aumento del livello massimo finora raggiunto dalle aree coltivate, sia della produzione e delle rese: una agricoltura in sviluppo avrebbe infatti massimi di produzione e resa concentrati verso l'ultimo anno, cosa che in Egitto non si verifica. Bisogna anche tener presente che, se non sarebbe lecito per un paese, poniamo, europeo basarsi sui dati di pochi anni, date le variazioni anche notevoli dovute al clima, per l'Egitto il procedimento da noi seguito, che abbraccia il solo quinquennio 1970-1974, è corretto perché le condizioni sono estremamente stabili. Il fatto che dal 1972 le statistiche riportino sempre la stessa area coltivata mentre la resa non aumenta per tutti i prodotti, prova che la terra si impoverisce.
I dati sull'allevamento dimostrano infine come la riforma agraria abbia spezzettato la terra impedendo l'accumulazione che sarebbe stata resa possibile dalla creazione di aziende agricole, le sole in grado di meccanizzarsi. Il grande incremento del numero di asini, bufali e bovini da soma (bovini, utilizzati quasi totalmente come animali da lavoro e da riproduzione da 1,39 milioni nel 1958 a 2,16 nel 1974; asini, da 950 mila a 1,48 milioni; bufali da 1,39 a 2,15 milioni) mentre contribuisce ben poco all'aumento dell'energia totale impiegata nella produzione, pesa gravemente sul bilancio agricolo per via del consumo di foraggio, che ovviamente esiste anche quando l'energia animale non è utilizzata. Un milione di animali da lavoro in più consuma ogni anno 40 milioni di quintali equivalenti di foraggio in più.
In Egitto vi è una società capitalistica giovane, cui fa riscontro un'agricoltura favorita da un clima e un suolo eccezionali. Entrambe hanno altissime potenzialità di sviluppo che però si scontrano da un lato contro la realtà di un territorio tragicamente limitato, dall'altro contro l'impossibilità per il capitalismo non solo di conquistare nuova terra alle colture, ma di conservare l'esistente.
Di fronte ad una capacità di sviluppo frustrata da cause che lo rendono impossibile, il giovane capitalismo egiziano risponde in modo classico, cioè espandendo la sfera della rendita. Nel 1947 i 18 milioni di abitanti erano così suddivisi: 69% nelle campagne, 30,1 nelle città, 0,9 nel deserto. Nel 1952, con 19 milioni di abitanti, abbiamo il 66,4% in campagna, il 32,7, in città, lo 0,9 nel deserto. Nel 1967, 31 milioni di abitanti: 58,8% campagna, 40 città, 1,2 deserto. Nel 1973, 35,5 milioni di abitanti: 55% campagna, 43,2 città, 6,8 deserto. Gli incrementi annui dal 1952 al 1967 sono stati del 2,4% in campagna, del 3,5% in città. L'aumento della popolazione sotto la voce « deserto » comprende sia gli abitanti delle oasi e i nomadi, sia soprattutto gli emigrati.
Dal 1947 al 1960, i salariati nell'agricoltura crescono del 10%, mentre nell'industria aumentano del 37%. Dopo il 1960, abbiamo un aumento dei salariati agricoli in 10 anni dell'I % (il che dimostra l'« efficacia » delle due riforme agrarie) mentre in soli quattro anni, dal 1960 al 1964, i salariati dell'industria aumentarono del 7,1%. I dati provano che la tendenza all'industrializzazione è ben marcata, ma la mancanza di un mercato interno ed estero (a parte il cotone) la soffoca. Una riforma agraria che aiutasse la formazione di aziende agricole invece di poderi parcellari avrebbe creato sia un embrione di mercato per i prodotti dell'industria, sia un aumento delle produzioni agricole per l'esportazione, un tempo tradizionali ed ora appena sufficienti per l'interno (agrumi, cipolle, datteri, zucchero). L'espropriazione senza indennizzo avrebbe consentito di investire massicciamente i capitali — che ora si impiegano in attività finanziarie e immobiliari — anche in quelle attività, come la messa a coltura di nuove terre, che i proprietari privati non potevano e non possono intraprendere. Questo lo può fare anche una società capitalistica, a patto però che la borghesia eserciti il potere in modo conseguente, con un vero organo di dominio statale, con una vera dittatura sulle vecchie classi sconfitte.
L'Egitto ha acciaierie e impianti petrolchimici moderni, un'estesa industria tessile, ha avuto persino un'industria aeronautica nazionale che produceva alcune centinaia di velivoli da guerra di concezione dignitosa negli stabilimenti di Heliopolis e di Heluan, ora riconvertiti agli elettrodomestici. Ha, naturalmente, un'industria bellica sviluppata con grandiosi progetti di ampliamento per fornire armi a tutti i paesi arabi tramite la costituita AMIO (Arab Military Industries Organisation, 28 milioni di dollari l'expo 75). Ma nel 1975 il 30% del potenziale industriale complessivo è inattivo per mancanza di mercato.
La seguente tabella, che raccoglie i dati per settore, dimostra la deviazione del capitale verso l'area dei servizi e delle costruzioni.
% del PNL | Agr. | Ind. | Costr. | Trasp. | Comm. | Altro |
---|---|---|---|---|---|---|
1952-1960 | 22,8 | 24,8 | 5,8 | 11,6 | 15,9 | 19,1 |
1961-1970 | 15 | 27 | 8,3 | 2,7 | 7,5 | 39,5 |
Economia senza sbocchi
Quando il ministro Kayddoumi rese operativo il provvedimento di rimozione del blocco dei prezzi, molti corrispondenti parlarono di pazzia. Come si poteva credere di evitare la reazione di operai il cui salario minimo era 12 lire egiziane con la carne che costava 1,5 lire al Kg, un paio di scarpe 8, l'affitto mensile di due camere alla periferia del Cairo fino a 20? Non che il ministro fosse pazzo: si era semplicemente arreso ad una legge ferrea (il meccanismo che ha portato in piazza i proletari egiziani è quello stesso che ha provocato i moti in Polonia).
Alla base della formazione dei prezzi dei generi alimentari vi è la produzione agricola, ed è un fatto comune a tutto il mondo capitalista che il valore dei prodotti agricoli aumenti man mano che un paese si incammina verso il capitalismo. Mentre nell'industria il valore unitario delle merci scende storicamente, perché la produzione industriale virtualmente non ha limiti, in agricoltura la produzione trova un limite nella terra stessa che non può essere aumentata a piacere e ciò vale tanto più, come si è visto, in Egitto.
Nel 1975 il sostegno statale dei prezzi politici raggiunse il 40% del budget nazionale; nel 1976, su richiesta del FMI e della BM, venne diminuito del 20% e scese alla pur rispettabile cifra di 1,3 miliardi di dollari. Il fatto che molte derrate siano acquistate all'estero aggrava la tensione sui prezzi interni; nel 1972 le importazioni alimentari sommano a 250 milioni di dollari; nel 1975 raggiungono già i 1.750 milioni. Nello stesso anno, ad un aumento della produzione del 3% corrisponde un aumento della massa monetaria del 20,9% che provoca un rialzo dei prezzi intorno al 50%. Se si pensa che nel 1974 l'aumento fu del 30% e i salari rimasero praticamente fermi, si può ben capire come l'annuncio del governo di voler aumentare i prezzi sovvenzionati abbia fatto saltare il detonatore delle tensioni sociali, sfociate nella più grande rivolta delle masse sfruttate nella storia d'Egitto.
D'altra parte, la già tragica situazione economica non potrà che peggiorare, se si considera che, com'è ovvio, gli USA subordinano la concessione di prestiti ad una acquisizione di influenza; per questo sono già in pericolo, dato i sempre peggiori rapporti con l'URSS, le esportazioni verso il COMECON, che assommano al 60% del totale; solo verso l'URSS l'Egitto esporta il 37% del cotone, il 52% della fibra, il 37% del riso, il 94% delle calzature.
Non stupisce neppure che la politica della «infitah» (apertura) verso gli investimenti esteri sia completamente fallita. Economisti americani hanno calcolato che all'Egitto servono nel prossimo quinquennio 12 miliardi di dollari per tamponare i pericoli immediati, 40 miliardi per recuperare i danni delle guerre, 14 miliardi per pagare i debiti verso l'URSS e almeno 42 per creare infrastrutture che diano un significato agli investimenti industriali. Anche se il disastro economico avesse proporzioni ben più modeste, è chiaro che ogni investitore potenziale si guarderebbe dall'investire nella zona. A proposito dell' «infitah» il settimanale radicale «Rose El Yussef» osservava: «perché il capitale arabo [i petroldollari] dovrebbe investirsi in Egitto, quando il capitale privato egiziano che dispone di mezzi conseguenti non si investe esso stesso?». L'unico canale attraverso il quale arriveranno i petroldollari, sarà l'industria militare. La «solidarietà araba» non si è mai tradotta in soldoni se non c'era un utile, si trattasse pure di far combattere gli egiziani per conto terzi.
Nel 1975 le spese militari dell'Egitto sommavano a 6,1 miliardi di dollari, il 30% del PNL (18 mil. $), con un incremento impressionante negli ultimi anni: dal 1972 al 1975, 1512, 2757, 4071, 6103 milioni di dollari; il 400% in un triennio! Le spese militari aumentano anche come percentuale del PNL. Mentre dal 1960 al 1967 esso cresceva del 6-7% all'anno e le spese militari ne rappresentavano il 9-10%, negli anni dal 1967 al 1975 il PNL è cresciuto del 3-4% all'anno, e le spese militari ne rappresentano il 25-30%.
Le attività militari incidono dunque profondamente sull'economia egiziana, ma non si pensi che siano necessariamente dannose dal punto di vista capitalistico. Di fronte ad una emigrazione di 1 milione di persone (220.000 solo in Libia) e ad una disoccupazione ufficiale dell' 11%, un'alta militarizzazione della società offre un sollievo ai guai economici. L'esercito tiene occupati 322.500 uomini per tre anni; altri 120.000 sono inquadrati permanentemente in organismi paramilitari (polizia ecc.); molte altre migliaia lavorano nelle attività indotte e proprio su questa base poggia il futuro rilancio dell'industria. Tra l'altro, è l'unico settore che abbia interessato i capitali dei paesi sviluppati, alcuni dei quali parteciperanno direttamente al programma AMIO. Un accordo sugli armamenti è stato firmato anche a Pechino (24-4-76) tra il ministro dell'industria bellica Sidki e il vice capo di stato maggiore Chang Tsai-chen.
Strategia obbligata
Assodato che esiste un potenziale esplosivo in grado di sconvolgere lo scacchiere mediorientale non appena si apra uno spiraglio nella barriera del doppio controllo imperialistico russo-americano, quale sarà il futuro dell'Egitto e dell'area di cui esso è il perno centrale?
L'«infìtah» non ha dato risultati apprezzabili; le difficoltà economiche dipendono da una crisi agricola cronica senza via d'uscita al di fuori delle importazioni, e da una crisi industriale dovuta all'impossibilità di produrre per mancanza di mercato. Senza un'esportazione di prodotti dell'industria e di materie prime (ma, se si coltiva cotone, non si può coltivare grano) non si possono importare alimenti. La concessione di prestiti condiziona la vita politica, ma un assetto interno ottenuto per decreto si risolve in una farsa come quella della democratizzazione. Il nuovo assetto costituzionale, a dire il vero un po' ingenuo per i vecchi sciacalli parlamentari europei, diventa uno schema semplificato di quel che sono i parlamenti di tutto il mondo; cioè la finzione del gioco democratico è ottenuta fondando tre tribune dello stesso partito borghese, destra, centro e sinistra, in lotta per la spartizione dei seggi e di ciò che essi rappresentano. Giunta al potere con una finta rivoluzione, la borghesia egiziana assomma solo i difetti dei suoi predecessori occidentali, tassi di sfruttamento da capitalismo giovane e brutalità d'intervento verso le classi oppresse, accompagnati da corruzione, speculazione e clientelismo da borghesia putrefatta.
Ma, senza un'esperienza di controllo e di corruzione della classe operaia, la borghesia egiziana non può evitare le reazioni al supersfruttamento e alla miseria del proletariato. Neanche i miti dell'unità araba o le spinte nazionalistiche delle guerre contro Israele hanno ormai potere contro una classe che ha già provato di saper combattere e attende solo che nascano forti organizzazioni di classe per vibrare colpi ancor più duri. E, in questo, la paura di Sadat è veramente premonitrice, perché, vedendo negli embrioni di organizzazioni economiche proletarie un inesistente «partito comunista operaio», evoca lo spettro del vero pericolo per la sua classe. Anche personalmente il capo di stato egiziano rappresenta bene lo schema concentrato della borghesia non solo indigena. Iscritto prima della guerra al partito fascista Misr El-Fatàt, Sadat è in contatto con gli agenti di Rommel e di Graziani; arrestato per spionaggio dagli Inglesi, appena fuori dal campo, prende contatto con i reazionari Fratelli Mussulmani e agisce da agente di collegamento tra questi e gli Ufficiali Liberi di Nasser. Nel 1953 è il più acceso sostenitore della soppressione dei partiti; nel 1976 promette la «vera» democrazia. Una parabola limpida e, per noi, niente affatto incoerente.
Slegata dai vincoli dell'ideologia panaraba e nazionalista «prima maniera», la borghesia egiziana incomincia a sviluppare un nazionalismo meno parolaio e più consistente, da potenza economica e militare. Superata la demagogia della RAU e di una fusione senza futuro tra paesi ormai diventati singole "patrie", mira ai suoi interessi nell'ottica di un mini-imperialismo, trovandosi così in una situazione di continuo confronto-scontro con gli altri paesi che tendono a sottrargli tale ruolo, specialmente la Siria, l'unico ad averne le possibilità materiali.
Ma, se hanno senso (e per noi l'hanno) le determinazioni materiali che per cinquemila anni hanno scritto la storia dell'Egitto, gli sviluppi prossimi della strategia nello scacchiere mediorientale non dovrebbero essere difficili da individuare. L'unione con la Libia non offriva interesse particolare per l'Egitto se non dal punto di vista del petrolio; ma altri paesi sono in grado di offrirne senza problemi. L'Egitto ha invece soffiato molto sul fuoco del preteso complotto libico nel Sudan, perché questo paese può fornire molto alla fame egiziana. Dopo la fucilazione dei sei maggiori organizzatori e la condanna all'ergastolo di altri 45 ufficiali, l'Egitto e il Sudan conducono una campagna contro Gheddafi, accusato di interferire negli affari interni dei due paesi. Il 15 luglio 1976, Nimeiry e Sadat si incontrano ad Alessandria per stipulare un patto di difesa comune, e il 17 si recano da re Khaled dell'Arabia Saudita. Dopo tre giorni di consultazioni la monarchia dà il suo appoggio all'operazione, e subito dopo incomincia la battaglia di accuse contro "agenti libici" sempre presi con le mani nel sacco intenti a fomentare disordini. Intanto alcuni reparti aviotrasportati, forti di 20.000 uomini con mezzi e materiali, vengono spediti a Khartum «per difendere l'ordine interno», mentre tecnici egiziani preparano un piano agricolo ed economico per la sistemazione e lo sfruttamento delle fertili pianure della Guezireh, tra i due bracci del Nilo a sud della capitale.
Fino al 1956, anno della proclamazione d'indipendenza, il Sudan non è mai stato separato dall'Egitto se non formalmente. Da Zoser, primo unificatore dell'Egitto nel III millenio a.C., al grande Amenophis I, conquistatore di tutto il Medio Oriente nel 1525 a.C, ai Romani, al medioevo islamico, a Muhamed Ali, il Sudan è stato sempre considerato parte integrante di un'unica entità, la valle del Nilo. Le secessioni furono sempre temporanee, le riconquiste portarono sempre prosperità e ricchezza. Il già citato Snofru, fondatore della dinastia costruttrice delle grandi piramidi, riconquistò il Sudan nel 2620 a.C. e fece affluire verso la capitale Memphis grandi quantità di grano e 200.000 capi di bestiame, cifra in confronto alla quale quella dei prigionieri (7000) è poco più che simbolica. Il Sudan ha oggi (1974) 14 milioni di abitanti (39 milioni l'Egitto) 7.134.000 ettari coltivati (2.852.000), 24.000.000 di ettari di prati e pascoli permanenti (nessuno) 91.500.000 ettari di foreste (nessuno), 45 milioni di capi di bestiame (9,5 milioni).
Con un'agricoltura molto più arretrata di quella egiziana, esso può, per le sue caratteristiche naturali, offrire un simile confronto di cifre che dimostrano come possa rappresentare il retroterra alimentare per più di un altro paese.
Molti paesi africani hanno caratteristiche simili e molti paesi arabi hanno bisogno di prodotti agricoli subito, non potendo aspettare di aver sviluppato tecniche di bonifica del deserto. L'Egitto può, a questo punto, confondere la proprie esigenze con quelle di tutti e porre sullo stesso piano le proprie necessità di espansione con le generali affermazioni di reciproci interessi. La conferenza afro-araba svoltasi al Cairo alla metà di marzo, rappresenta il culmine diplomatico di esigenze materiali dei vari convenuti. In cambio di capitali l'Africa può offrire agli stati arabi materie prime, cibo e, soprattutto, un vasto terreno per lo sfogo alternativo dei petroldollari; l'Egitto approfitta del fatto che ogni singolo stato arabo non possiede le caratteristiche necessarie per assumere in proprio un'operazione di così vasta portata: solo la combinazione della potenza economica petrolifera con la realtà di una struttura industriale e con solide tradizioni militari può esserne la base; ed esso la possiede.
Come la «scoperta» di un ruolo africano più che mediorientale dell'Egitto è dovuta a precise determinazioni, così l'affermazione di questo ruolo non mancherà di determinare una serie di effetti concatenati. Ecco allora come la Siria assuma d'un tratto una importanza decisiva quale gendarme nella «sua» area per la soluzione della guerra civile in Libano; come la Giordania torni alla ribalta quale tutrice-sentinella dei profughi palestinesi con tanto di abbraccio tra il traditore Arafat e il boia Hussein in margine alla citata conferenza; come l'Arabia Saudita perfezioni il suo ruolo mediatore nel doppio giuoco tra normalizzazione imperialistica (con relative garanzie petrolifere) e tutela dell'«unità araba»; come, infine, la ruota di questa grande operazione stritoli fra i suoi denti le masse sfruttate palestinesi ormai con le spalle al muro (in quanto «resistenza») dopo la capitolazione delle ultime forze cosiddette del rifiuto.
Nel volgere incredibilmente rapido di due anni, l'imperialismo americano, nel tentativo di «normalizzare» un'area troppo calda rispetto alle sue esigenze, si trova a dover controllare a breve tempo un pericolo infinitamente più grave: la nascita di una concorrenza nel continente. Certo, oggi le carte non sono giocate tutte, ma l'Europa ha già imboccato la via di un sostegno materiale; non dimentichiamo che dall'epoca del famoso viaggio del presidente egiziano nei paesi della CEE, gli impegni europei verso il mondo arabo si sono fatti sempre più interessati, non solo per la questione energetica.
A questo punto risulta chiaro che le già gravi potenzialità del conflitto nel Medio Oriente si spostano ad un livello qualitativamente superiore. Non è affatto casuale, inoltre, che, in mezzo a tante affermazioni generiche, l'unico discorso inequivocabile uscito dalla conferenza del Cairo sia il sistema di aiuti militari ai movimenti di liberazione africani, proprio mentre si negano questi aiuti ai «fratelli» palestinesi e si cancellano dal repertorio gli appelli alla guerra santa contro il nemico sionista.
Il diavolo imperialista è costretto a fare le pentole senza il coperchio; accanto alle centinaia di migliaia di proletari e diseredati che hanno infiammato l'Egitto, altri proletari e diseredati lontani migliaia di chilometri combatteranno altre battaglie tessendo inconsciamente la rete invisibile destinata a collegarli. Più è rimandata la rivoluzione proletaria, più si estende l'integrazione capitalistica nel mondo, più questa rete si estende. Ha ragione Sadat quando chiama in causa forze esterne per la grande ribellione di gennaio: ad Heluan si sono ancorati fili che vanno da Radom a Soweto, da Detroit a Osaka!
Source | Il programma comunista nn. 7,8,9 del 1977 | |
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