Il programma rivoluzionario della società comunista elimina ogni forma di proprietà del suolo, degli impianti di produzione e dei prodotti del lavoro
I testi marxisti e il rapporto di Torino
Nello svolgere gli argomenti di Torino, e in modo speciale nella seconda seduta, dedicata a trattare le reciproche accuse di revisionismo scambiate tra "comunisti" jugoslavi e russi, fu, come di ordinario, fatto largo ricorso a testi di base del marxismo, con citazioni che non sempre, nel resoconto testé apparso in quattro puntate, si è avuto agio di riportare.
In tale trattazione è stata nostra preoccupazione dimostrare come le nostre valutazioni e formulazioni dei problemi discussi non si discostino mai da quelle classiche della dottrina di Marx. Tanto più tale prova era calzante a proposito di una discussione in cui i contendenti rivendicano ciascuno di essere in pieno sulla linea tradizionale dei princìpi in quanto accusano il contraddittore di averne in modo colpevole deviato.
La polemica potrebbe prendere una forma e uno sviluppo diversi, ove i due gruppi contendenti, che per noi sono entrambi caratterizzati da forme di degenerazione opportunista ancora più spinte di quella dei "revisionisti" storicamente classici della fine dell'ottocento e della Prima Guerra Mondiale, ammettessero apertamente che vanno sempre più discostandosi dalla teoria socialista come fu enunciata da Marx e strettamente difesa da Engels e poi da Lenin. Ma questi signori, se già da molto tempo vanno ammettendo che si abbia il diritto di modificare, nel corso del tempo, i princìpi originari del partito, e se alla fine finiranno - ne siamo certissimi - per confessare apertamente di averli bouleversés, capovolti addirittura, ci hanno oggi presentata una strana fase di lotta "contro ogni revisioniamo", hanno ostentato di essere convinti che questo sia oggi ideologicamente e scientificamente tanto da condannare quanto quello di oltre mezzo secolo addietro, ed anzi hanno scambiato tra loro l'epiteto di revisionasti come l'ingiuria più infamante.
Quindi la contrapposizione a tutto il blaterare di questa gente di citazioni autentiche dei testi classici diviene, per loro stessa scelta, decisiva. La posizione è ben diversa da quella in cui un marxista rivoluzionario si trova di fronte ad un altro settore di contraddittori ed avversari, che dichiaratamente voglia adoperare i dati di fatto storici del periodo trascorso dal 1848 ad oggi per dimostrare che essi arrecano argomenti atti a porre in essere, nella economia e nella scienza storica, teorie opposte a quella di Marx rivendicata dai comunisti rivoluzionari.
Bisogna dire che questo secondo gruppo di nemici è più coerente non solo nella intrinseca sua costruzione teorica e scientifica, ma anche se si confronta la dottrina con la attività politica diretta a conservare quelle forme la cui distruzione e scomparsa era il coronamento della formidabile costruzione del marxismo rivoluzionario.
Contro avversari di tal natura ci volgeremo in altri stadi del nostro lavoro di difesa integrale del marxismo, che per noi si enuncia oggi come oltre un secolo fa venne nei classici enunciato; e ciò tra l'altro in una riunione prossima del nostro movimento.
Si tratta allora di ributtare un attacco frontale e non mascherato; mentre dove si tratta di combattere i pretesi "vergini" da revisionismo di Belgrado o di Mosca e altre capitali, è dello sgarrottamento traditore e della pugnalata nella schiena che si deve aver ragione.
Engels ed i programmi socialisti agrari
Nel 1894, settembre, il partito operaio marxista francese (quello di Guesde e di Lafargue) adottò nel suo congresso di Nantes un programma di azione nelle campagne. In ottobre a Francoforte si occupò dello stesso tema il partito socialdemocratico tedesco. Engels alla fine della sua lunga vita seguiva da presso il movimento della Seconda Internazionale Operaia, fondata dopo la morte di Marx nel 1889. Egli dovette dissentire nettamente dalla risoluzione dei francesi, mentre fu più soddisfatto del congresso tedesco, ove fu respinta una tendenza di destra analoga a quella prevalsa a Nantes.
Engels dedicò al tema un articolo della massima importanza pubblicato nella rivista Neue Zeit del novembre 1894. Questo articolo si trova pubblicato in una non molto esatta traduzione francese nella rivista stalinista Cahiers du Communisme del novembre 1955. I redattori della pubblicazione dicono nella loro presentazione del testo di avere trovato presso un pronipote di Marx (Lafargue ne era come è noto il genero) una corrispondenza notevolissima di Engels col Lafargue stesso. Engels non tace la sua rampogna, e le formulazioni ne sono davvero importanti; è solo strana la disinvoltura degli stalinisti quando presentano un materiale storico che li bolla direttamente!
Voi, dice con una certa amarezza, malgrado il tono sereno, il vecchio Engels a Lafargue, voi, i rivoluzionari intransigenti di un tempo, pendete verso l'opportunismo un poco più dei tedeschi. In una lettera successiva Engels tiene a sottolineare di aver scritto l'articolo critico con spirito amichevole, ma non esita a ripetere: "vi siete lasciati troppo trascinare sulla china dell'opportunismo". Queste citazioni sono utili anche per stabilire a quando risale la terminologia delle nostre discussioni, a cui abbiamo sempre data la più grande importanza. Prima della morte di Engels già i marxisti della sinistra (che nel 1882 al congresso di Roanne si erano scissi dai "possibilisti" fautori dell'ingresso nei ministeri borghesi) si definivano rivoluzionari intransigenti, e con lo stesso termine nel primo decennio del secolo si chiamava la frazione di sinistra del Partito socialista italiano, opposta al riformismo di Turati e al possibilismo di Bissolati, e da cui nacque il Partito comunista in ulteriore selezione.
La parola opportunismo che molti giovani credono coniata da Lenin nella sua travolgente battaglia della Prima Guerra Mondiale, è stata invece usata da Engels e da Marx nei loro scritti. Più volte abbiamo notato che semanticamente non è la più felice, perché conduce all'idea di un giudizio morale, e non sociale-determinista. La parola tuttavia ha ormai diritti storici ed esprime per tutti noi la feccia e la melma davanti al sano marxismo.
Engels ce ne dà in quella lettera, scritta per "ménager" un poco il non sospetto rivoluzionario Lafargue, una definizione diritta come una spada. Alla frase: vi siete messi sulla china opportunista, seguono le parole: "A Nantes, eravate sulla via di sacrificare l'avvenire del Partito al successo di un giorno". La definizione può restare lapidaria: è opportunismo il metodo che sacrifica l'avvenire del Partito al successo di un giorno. Infamia a quanti, allora e poi, lo abbiano praticato!
E' tempo di venire alla sostanza della questione e allo scritto di Engels. Egli conchiudeva che era ancora tempo per i francesi di fermarsi, e sperava che il suo articolo vi contribuisse. Ma dove sono i francesi (e italiani) nel 1958?
Socialisti e contadini in fine dell'800
Allo studio di Engels è premesso un quadro della situazione generale della popolazione agricola di Europa in quel tempo. I partiti borghesi avevano sempre ritenuto che il movimento socialista si svolgesse solo nel campo degli operai industriali urbani, e si stupivano allora che la questione contadina venisse posta sul tappeto da tutti i partiti socialisti del tempo. La risposta di Engels è quella che viene avanti ad ogni passo, ad esempio quando noi mostriamo che in pieno ventesimo secolo le questioni sociali dei paesi di colore e non sviluppati industrialmente non possono essere costrette nel legnoso dualismo capitalisti-proletari; ma il marxismo deve sempre e dovunque avere risposte di dottrina e di azione per tutto il quadro pluriclassista e non biclassista della società.
Engels è in grado di fare due sole eccezioni alla presenza fondamentale di una grande classe di contadini che non sono né salariati né imprenditori: la Gran Bretagna propriamente detta e la Prussia ad est dell'Elba. Solo in quelle due regioni la grande proprietà terriera e la grande industria agraria hanno totalmente liquidato il piccolo agricoltore, conducente per suo conto. Osserviamo che anche il quadro in questi due casi di eccezione è a tre classi (come sempre in Marx quando anche si tratti della società borghese modello): salariato urbano o rurale, capitalista imprenditore industriale o agrario, proprietario della terra al modo borghese, e non feudale.
In tutti gli altri paesi, per Engels e per ogni marxista, "il contadino è un fattore molto importante della popolazione, della produzione e del potere politico". Nessuno può dunque dire: i contadini per me non esistono, sul genere della palinodia: i movimenti dei popoli coloniali per me non esistono.
Ma che la teoria della funzione di tali classi sociali, e la maniera di comportarsi verso di esse del partito marxista, debba essere una copia di quelle dei partiti della democrazia piccolo-borghese, questa è l'altra enormità contro cui Engels sfodera una delle sue "messe a punto". Noi diremo anzi che è altra formulazione della stessa enormità.
Poiché solo un matto potrebbe contestare il peso dei contadini nella statistica demografica ed economica, Engels viene subito al punto scabroso: quale il loro peso come fattore della lotta politica?
La conclusione è palese: il più delle volte i contadini non hanno dato prova che della loro apatia, fondata sull'isolamento della vita dei campi. Ma questa apatia non è un fatto privo di effetti: essa è "il più valido sostegno non solo della corruzione parlamentare di Parigi e di Roma, ma anche del dispotismo russo". Roma non ce l'abbiamo messa noi, ma proprio Engels, la bellezza di 64 anni addietro.
Engels mostra che da quando è nato il movimento operaio cittadino i borghesi non hanno mai desistito dal cercare di aizzare i contadini proprietari contro di esso, presentando i socialisti come quelli che aboliscono la proprietà, e altrettanto hanno fatto i proprietari terrieri, simulando di avere un baluardo comune da difendere col piccolo contadino.
Deve il proletariato industriale accettare per inevitabile che nella conquista del potere politico tutta la classe contadina sia una alleata attiva della borghesia da rovesciare? Engels introduce la visione marxista della questione ammettendo subito che una tale prospettiva è da condannare ed è tanto poco utile alla causa della rivoluzione quanto quella che il proletariato non possa vincere prima della sparizione di tutte le classi intermedie.
In Francia la storia ha insegnato, come i classici di Carlo Marx presentano in modo insuperabile, che i contadini col loro peso hanno sempre fatto pendere la bilancia dalla parte opposta a quella che interessava la classe operaia, dal primo al secondo Impero e contro le rivoluzioni parigine nel 1831, 1848-1849 e 1871.
Come dunque spostare un tale rapporto di forze? Che cosa presentare e promettere ai piccoli contadini? Si è nel pieno del problema agrario. Ma quello che è lo scopo della trattazione engelsiana è scartare come antimarxista e controrivoluzionaria ogni tutela conservativa della piccola proprietà. Che avrebbe detto il vecchio e grande Federico se taluno avesse proposto come oggi in Italia e in Francia, che il programma deve divenire quello di propugnare la diffusione per tutta la popolazione rurale della proprietà totale della terra lavorata?
Programmi francesi
Già nel 1892 al Congresso di Marsiglia il partito operaio francese aveva tracciato un programma agrario (era l'anno in cui in Italia avveniva la separazione dagli anarchici e sorgeva a Genova il Partito socialista italiano).
Questo primo programma è meno condannato da parte di Engels che quello di Nantes, in quanto questo secondo, come subito vedremo, aveva fatto cattivo governo dei principi teorici al fine di introdurre l'appoggio del partito agli interessi immediati dei piccoli contadini. A Marsiglia il partito si limitò ad indicare fini pratici della agitazione tra i contadini (si era allora seguaci della famosa distinzione tra programma massimo e minimo, che poi condusse a tutta la storica crisi dei partiti socialisti). Engels rileva che quelle rivendicazioni richieste per i piccoli contadini, di cui allora più che i proprietari lavoratori si considerarono specialmente i coloni, erano talmente modeste che altri partiti le avevano avanzate e molti governi borghesi già attuate. Consorzi per l'acquisto di macchine e concimi, locazione di macchine dei comuni rurali favoriti dallo Stato nel formarsi un parco, divieto di sequestro da parte del proprietario sul raccolto, revisione del catasto, e simili...
Il gruppo di rivendicazioni per i salariati agrari è ancora meno considerato da Engels; alcune sono ovvie perché sono le stesse che quelle per gli operai industriali, come i minimi di salario, altre tollerabili come la formazione con i terreni comunali (beni civici) di cooperative agricole di produzione.
Tuttavia questo programma determinò per il partito nelle elezioni del 1893 un notevole successo elettorale, che alla vigilia del successivo congresso si volle spingere oltre nella via di conquiste per i contadini. Si sentiva di avventurarsi su un terreno pericoloso, e allora si volle far precedere una premessa teorica per mostrare che non vi era contraddizione tra il programma massimo socialista e la protezione del piccolo contadino, anche nel suo diritto di proprietario! E' qui che Engels, dopo avere riportato i considerando del programma, appunta tutta la sua critica. Si volle, egli dice,
"dimostrare che è nei princìpi del socialismo proteggere la piccola proprietà contadina dalla sua distruzione ad opera del modo di produzione capitalistico, benché ci si renda conto perfettamente che questa distruzione è inevitabile".
Dice il primo considerando che ai termini del programma generale del partito i produttori non saranno liberi che quando saranno in possesso dei mezzi di produzione. Il secondo dice che se per il campo industriale si può prevedere la restituzione dei mezzi di produzione ai produttori in forma collettiva o sociale, nel campo agricolo, almeno in Francia, nel più dei casi il mezzo di produzione, la terra, si trova posseduto dal lavoratore a titolo individuale.
Secondo il terzo considerando la proprietà contadina "è fatalmente destinata a scomparire" ma "il socialismo" non deve "affrettare questa scomparsa, il suo compito essendo non già di separare proprietà e lavoro, ma al contrario di riunire nelle stesse mani questi due fattori di ogni produzione".
Nel quarto considerando è detto che come gli impianti industriali devono essere tolti ai privati capitalisti per essere dati ai lavoratori, così i grandi dominii terrieri devono essere dati ai proletari agricoli, e per conseguenza è dovere, sempre "del socialismo", di "mantenere in possesso dei loro appezzamenti, contro il fisco, l'usura e le usurpazioni dei nuovi signori del suolo, i proprietari coltivatori diretti".
Il quinto considerando è quello che Engels troverà più scandaloso: i primi fanno una tremenda confusione di dottrina, questo addirittura annienta il concetto della lotta di classe: "è il caso di estendere questa protezione ai produttori i quali, sotto il nome di affittuari e mezzadri, mettono in valore le terre altrui, e se' sfruttano dei giornalieri, vi sono in certo modo costretti dallo sfruttamento di cui essi stessi sono vittime".
La lamentevole conclusione
Da queste disgraziate premesse sorge il programma pratico che è "destinato a coalizzare nella stessa lotta contro il nemico comune, la feudalità terriera, tutti gli elementi della produzione agricola, tutte le attività che, a titoli diversi, mettono in valore il suolo nazionale". Qui, come Engels dimostra, pure con l'evidente preoccupazione di non dare degli asini a vecchi professanti marxisti, tutta l'impostazione storica è gettata all'aria, confondendo nella Francia del 1894 i feudatari, annientati dalla grande rivoluzione un secolo prima, non tanto con i grandi affittuari capitalisti, gli industriali dell'agricoltura, verso i quali (se il nostro accorto lettore tiene presente quanto sempre rinfacciamo ai comuntraditori odierni italiani) si lanciano addirittura inviti a entrare nel grande blocco, come attività che mettono in valore la terra(!), ma i proprietari agrari a titolo borghese, che non eserciscono l'azienda agricola, ma vivono della rendita pagata da piccoli coloni o grandi fittuari. Questa terza classe marxista della società capitalista non ha a che fare con l'antica nobiltà feudale; la prima ha comprato i suoi beni fondiari con denaro, e li può vendere, da che "la rivoluzione borghese fece della terra un articolo di commercio"; la seconda (ossia la classe feudale) aveva un diritto inalienabile non solo sulla terra ma sui lavoratori che la popolavano. Engels ricorderà a questi malaccorti discepoli che contro tale classe feudale il blocco vi fu "durante un certo tempo e con scopi definiti", ma è chiaro che a questo blocco storico, il cui tempo in Francia è remoto, in Russia era nel 1894 ancora attuale, gli stessi "signori borghesi della terra" presero parte.
Un tale pestifero errore soffoca ancora l'orizzonte proletario europeo per colpa dell'opportunismo stalinista trionfante. Le armi dottrinali per combatterne gli effetti rovinosi non vanno cercate in dati forniti dal decorso dal 1894 ad oggi, ma nello stesso valido arsenale di cui Engels qui si serve.
Questa politica agraria decisamente bloccarda uccide la lotta di classe, e in quanto condotta dallo stesso partito che accoglie i lavoratori delle fabbriche la uccide anche a tutto vantaggio dei capitalisti industriali, ed è garanzia di sopravvivenza della forma sociale borghese, fino a che quei partiti elefantiaci non andranno in disfacimento.
Ma restando alla parte dottrinale, prima di considerare quella politica, vi è da fare un rilievo altrettanto pessimista, che sarebbe vano omettere, oggi, in quanto a differenza del 1894 l'opportunismo non è allo stato di minaccia ma ha già tutto travolto come energie della classe operaia. Molti, e quasi tutti, i gruppi che si vanno ponendo contro i partitoni stalinisti o post-stalinisti e ne sono usciti, il che farebbe sperare che quel disfacimento invocato si inizi, mostrano di avere sul "contenu du socialismo" (poiché siamo in Francia, riferitevi al gruppo di Socialisme ou Barbarie) idee altrettanto amarxiste di quelle del programma di Nantes. Diremmo antimarxiste se non fossimo in presenza del linguaggio sereno di Federico Engels, che evidentemente sapeva per esperienza, e per gli effetti di molti irsuti rabbuffi di Padre Marx, che il francese non vuole essere choqué (urtato), ma neanche froissé (sfiorato). Nel primo caso fa la grinta di un d'Artagnan, nel secondo quella di un Talleyrand. Alla larga, per chi ricordi uno sfottò del secondo congresso di Mosca: Frossard (un primatista mondiale dell'amarxismo) a été froissé. E chi tanto aveva osato si chiamava Lenin!
Serie di formule false
Le formulazioni false sono utilissime per chiarire il vero "contenuto" del moderno programma rivoluzionario. Le antiche ideologie sociali ebbero forma mistica, ma non per questo non sono condensazioni dell'esperienza umana di specie della stessa natura di quelle più sviluppate a cui si è pervenuti nell'età capitalistica e nella lotta per scavalcarla. Potremmo dire che le antiche mistiche ebbero la forma rispettabile di una seriazione di tesi affermative. La mistica odierna, la normativa dell'azione delle forze eversive della società presente, si ordina meglio in una serie di tesi negative.
Il grado di coscienza dell'avvenire, che non l'individuo ma solo il partito rivoluzionario può raggiungere, si costruisce - almeno fino a quando la società senza classi non sarà un fatto - in modo più espressivo in una serie di norme del tipo: così non si dice - così non si fa.
Ci auguriamo di avere presentato in una forma umile ed accessibile un risultato elevato e piuttosto arduo. A tal fine sarà bene, sulla guida di Engels, maestro di un tale metodo, spulciare le formule sbagliate dei considerando di Nantes.
Engels comincia col dire, sul primo considerando, che non è giusto trarre dal nostro programma generale la formula "i produttori possono essere liberi solo in quanto si trovino in possesso dei mezzi di produzione". Lo stesso programma francese del tempo aggiunge subito che un tale possesso non è possibile che sotto la forma individuale, che non è stata mai generale e che lo sviluppo industriale rende sempre più impossibile, o sotto la forma comune, di cui le condizioni si sono formate con lo stabilirsi della società capitalista. Solo scopo del socialismo, dice dunque Engels, è il possesso comune dei mezzi di produzione e la conquista collettiva di essi. Ad Engels preme qui stabilire che nessuna conquista o conservazione del possesso individuale dei mezzi di produzione da parte del produttore può figurare come scopo nel programma socialista. E aggiunge "non solo nell'industria dove il terreno è già preparato, ma in generale anche nell'agricoltura".
Questa è tesi fondamentale in ogni scritto classico marxista. Il partito proletario - a meno che non si sia dichiarato aperto revisionista - non può per un solo momento difendere e proteggere quella riunione del lavoratore con i mezzi del suo lavoro, che si realizza a titolo individuale, parcellare. Il testo qui studiato lo ripete quasi ad ogni periodo.
Engels contesta inoltre il concetto espresso nella formula sbagliata circa la "libertà" del produttore. Essa non è affatto assicurata da quelle forme ibride, connaturate alla società attuale, in cui lo stesso produttore possiede la terra e una parte anche dei suoi strumenti di lavoro. Nell'economia presente tutto questo è ben precario e non garantito per il piccolo contadino. La rivoluzione borghese gli ha indubbiamente dato i vantaggi di scioglierlo dai lacci feudali, dalla servitù personale di dare parte del suo tempo di lavoro o parte dei suoi prodotti. Ma ciò non gli garantisce, quando sia pervenuto alla proprietà del "lopin" di terra, di non esserne per cento modi separato, che Engels elenca insieme alla parte concreta del programma, ma che sono inseparabili dall'essenza della società capitalista: tasse, debiti ipotecari, distruzione dell'industria domestica rurale, sequestri fino all'esproprio. Nessuna misura di legge (riforma) potrà evitare che il contadino in tutta spontaneità si venda corpo ed anima, terra compresa, prima di morire di fame. La critica qui tocca l'invettiva:
" Il vostro tentativo di proteggere il piccolo contadino nella sua proprietà non protegge la sua libertà, ma solo la forma particolare della sua servitù; esso prolunga una situazione in cui egli non può né vivere né morire! ".
Falso miraggio della libertà
La formula malsana del primo considerando, che dall'errore conduce a un maggiore errore, sarà da noi denunziata con generosità minore di quella del grande Engels; non abbiamo di fronte un Paolo Lafargue in cui il marxismo ha per un momento sonnecchiato, e che si trattava di ridestare, ma una sporca banda di traditori e di disfattisti le cui anime sono già dannate.
Essa mostra rispondere a questa domanda: quando i produttori saranno liberi? E risponde: quando non saranno divisi dal loro mezzi di lavoro. Arriva su questa china ad idealizzare una società impossibile e miserabile di piccoli contadini e artigiani, e il maestro non risparmierà la frase acerba di indirizzo reazionario, perché tale società è molto più arretrata di quella di proletari e capitalisti. Ma l'errore, del tutto metafisica e idealista, che ha dispersa ogni visione storico-dialettica, e determinista, è quello di presupporre un enunciato balordo, che molti pretesi "sinistri" dai due lati dell'Atlantico oggi professano: il socialismo è uno sforzo per la liberazione individuale del lavoratore. Esso iscrive certi teoremi economici entro i limiti di una filosofia della Libertà.
Noi ripudiamo tale punto di partenza: esso è stupidamente borghese e non conduce ad altri sviluppi che la degenerazione di cui lo staliname ci presenta in tutto il mondo lo spettacolo. La formula non diverrebbe meno deforme se si parlasse di liberazione collettiva dei produttori. Si tratterebbe infatti di stabilire il limite di questa collettività, ed è qui che crollano tutti gli "immediatisti", come vedremo nel seguito. Questo limite è tanto vasto che deve riunire in sé la manifattura e l'agricoltura ed in genere ogni forma umana di attività. Quando l'attività umana, che ha senso molto più lato che la produzione, termine legato alla società mercantile, non avrà limiti nella sua dinamica collettiva, e neanche limite temporale tra generazione e generazione, si capirà che il postulato della Libertà era una transeunte e caduca ideologia borghese, un tempo esplosiva, oggi sonnifera e malfida.
Proprietà e lavoro
Nel terzo infelice considerando si mostra di partire da cosa pacifica col dire che compito del socialismo è di riunire e non di separare la proprietà dal lavoro. Engels non voleva essere feroce ma si dà a ripetere che sotto l'aspetto generale non è questo il compito del socialismo, ma al contrario esso consiste nel rimettere a titolo collettivo i mezzi di produzione al produttore. Se si perde questo di vista, dice Engels, è chiaro che si arriva a
" imporre al socialismo di fare una cosa che nel paragrafo prima si è dichiarata impossibile, ossia di mantenere i contadini in possesso della proprietà parcellare, dopo aver detto che essa è fatalmente destinata a sparire ".
Anche qui si deve scarnificare più oltre, tenendo presente tutti i tessuti marx-engelsiani e tutta la nostra dottrina. La questione della "separazione" non è metafisica ma storica, anzitutto. Non si tratta di dire: la borghesia ha separato la proprietà dal lavoro, e noi per farle dispetto li riuniremo. Questa sarebbe una scempiaggine pura. Il marxismo non ha mai descritto nella rivoluzione e nella società borghese un processo di separazione tra proprietà e lavoro, ma quello di separazione degli uomini che lavorano dalle condizioni del loro lavoro. Proprietà è una categoria storico-giuridica; la separazione detta è un rapporto tra elementi ben reali e materiali, da una parte gli uomini che lavorano, dall'altra la possibilità di accedere sulla terra e di brandire gli utensili del lavoro. Il servaggio feudale e lo schiavismo avevano unito i due elementi in un modo ben semplice: serrando tutti e due gli elementi in uno stesso campo di concentramento, da cui si sottraeva quella parte dei prodotti (altro elemento fisico concreto) che alla classe dominante piaceva.
La rivoluzione borghese ruppe a pedate quella recinzione e disse ai lavoratori: siete liberi di uscire, poi la richiuse e realizzò quella separazione di cui si discute. La classe dominante monopolizzò le condizioni alle quali avrebbe dischiuso il filo spinato e permesso di produrre, tenendosi tutto il prodotto: i servi fuggiti verso la fame e l'impotenza stanno ancora a corteggiare il miracolo della Libertà!
Il socialismo vuole abolire in chicchessia, individuo, gruppo, classe o Stato, la possibilità di stendere cerchie di ferro spinoso; ma ciò non si può indicare con le parole dissennate di riunire di bel nuovo proprietà e lavoro! Significa far finire e morire la proprietà borghese e il lavoro salariale, ultima e peggiore servitù.
Quando poi il testo di Nantes dice che lavoro e proprietà sono i due fattori della produzione, di cui la divisione comporta la servitù e la miseria dei proletari, cade in un'ancora maggiore enormità. La proprietà un fattore della produzione! Qui il marxismo è dimenticato, rinnegato in pieno. Anche in sede di descrizione del modo di produzione capitalista la tesi centrale del marxismo è che vi è un solo fattore della produzione, ed è il lavoro umano. La proprietà della terra, o gli utensili e impianti, non è un altro fattore della produzione. Chiamarli fattori sarebbe ricadere nella formula trinitaria annientata da Marx nel terzo volume del capitale; per essa la ricchezza ha tre fonti: terra, capitale e lavoro, e la crassa dottrina giustifica le tre forme di compenso: rendita, profitto e salario. Il partito socialista e comunista è la forma storica in lotta contro il dominio della classe capitalista, nella cui dottrina si sostiene che il capitale allo stesso titolo del lavoro sia un fattore della produzione. Ma per trovare la dottrina che sostiene il terzo termine, la terra fattore della produzione, dobbiamo tornare ancora più indietro, oltre Ricardo, ai fisiocratici del tempo feudale sulla cui teoria si reggeva (vedi un poco!) proprio la giustificazione storica del dominio della esecrata feudalità!
Riunire dunque la terra al lavoro è una grave eresia marxista, e lo è tanto se si tratta di lavoro individuale quanto di lavoro collettivo.
Impresa industriale ed agraria
Proprio il quarto scivoloso considerando che contiene il tranello della difesa della piccola azienda parcellare parte dal paragone delle grandi industrie che "devono essere strappate ai loro detentori oziosi", ossia i borghesi urbani (tuttavia non oziosi al tempo del "Maìtre des Forges"), con i grandi dominii che devono essere dati ai proletari agricoli "sotto forma collettiva o sociale". Più oltre è fatto bene altrimenti da Engels il confronto tra la espropriazione socialista e rivoluzionaria del padrone di officina e di quelli agrari. Nel programma di Nantes, oltre a non essere approfondita la distinzione essenziale appena sfiorata tra conduzione "collettiva" e "sociale", sfugge la non meno importante distinzione tra grande dominio o grande proprietà terriera e grande azienda agraria. Quando la conduzione unitaria della produzione a mezzo di lavoratori salariati - anche quando parte del salario sia data non in moneta ma in derrate, forma che Marx definisce un avanzo medioevale, e che i marxisti togliattiani italiani "proteggono" per meglio vincolare il proletariato rurale alla sporca forma di un partecipante parziario - costituisce un unico esercizio tecnico, non vi è ragione per non trattare questa unità produttiva allo stesso modo della fabbrica, per usare l'esempio engelsiano, dei signori Krupp. Ma il caso difficile sorge quando si ha una grande proprietà rurale di un solo titolare, tuttavia spezzata in un grande numero di piccoli esercizi familiari tecnicamente autonomi, di piccoli coloni o di piccoli mezzadri. In tale caso l'espropriazione non ha il carattere storico di quella della grande industria accentrata, bensì, se sopravvivono ancora forme feudali, come era il caso nella Russia del 1917, si riduce ad una liberazione dei servi della gleba che non supera ancora la inferiorità della divisione parcellare. In regime borghese affermato come quello francese della fine dell'ottocento, la formula programmatica, a parere di Engels, non dovrà limitarsi alla trasformazione dei coloni ad affitto monetario o in natura in "liberi" proprietari lavoratori, ma i partiti socialisti devono decisamente propugnare come obiettivo dei contadini che si possano accettare nel partito e sotto influenza del partito, la formazione di cooperative di produzione agricola a gestione unitaria, forma anch'essa di transizione in quanto dovrà mano mano tendere alla "istituzione della Grande cooperativa nazionale di produzione". Questa formula è usata da Engels per stigmatizzare con severità adeguata ogni inclusione nel programma anche immediato di una partizione della grande proprietà agraria tra i contadini, per ridurla ad aziende parcellari o familiari.
Su questo punto va aggiunta qualche altra considerazione, da ricollegare ad altri testi marxisti, circa il punto di arrivo del programma socialista. La conduzione collettiva di aziende, già unificate sotto il padronato borghese, potrà essere concepita come un espediente transitorio se si pensa come oggetto di tale gestione la collettività dei lavoratori addetti all'azienda. Ma tale considerazione non deve far pensare che il socialismo si esaurisca nel sostituire alla proprietà padronale o capitalista della fabbrica (che oggi nelle società anonime è già collettiva) una proprietà collettiva operaia. Quando le formule sono corrette non vi si trova la parola proprietà, ma quella di possesso, di impossessamento dei mezzi di produzione, e più esattamente ancora di esercizio, di gestione, di direzione, a cui si tratta di stabilire il giusto soggetto. L'espressione gestione sociale vale meglio di quella gestione cooperativa, mentre sarebbe compiutamente borghese e non socialista una "proprietà cooperativa". L'espressione gestione nazionale serve per adeguarsi all'ipotesi che l'espropriazione degli impianti e del suolo possa farsi in un paese e non in un altro, ma fa pensare alla gestione statale che non è altro che una proprietà capitalista dello Stato sulle aziende.
Per restare ancora nel campo dell'agricoltura vogliamo qui stabilire che la terra e i mezzi di produzione devono, nel programma comunista, passare alla società organizzata su nuove basi, che non si potranno più chiamare produzione di merci. Quindi la terra e gli impianti rurali passano al complesso di tutti i lavoratori, sia industriali che agricoli, come lo stesso è degli impianti industriali. Solo in questo senso si legge Marx quando parla di abolizione delle differenze tra città e campagna, e del superamento della divisione sociale del lavoro, quali capisaldi della società comunista. Le vecchie formule di agitazione: le fabbriche agli operai e la terra ai contadini, del genere di quelle ancora più insulse: le navi ai naviganti, se anche troppo usate anche di recente, non sono che una parodia del formidabile potenziale del programma rivoluzionario marxista.
L'estrema aberrazione
Prima di cercare in altri testi di Marx la remota anticipazione dei princìpi che abbiamo ricordati, chiuderemo la nostra ampia parafrasi dello studio di Engels - di cui omettiamo la sottile critica distruttiva anche della parte di dettaglio decisa a Nantes, con misure riformatrici che o erano prive di ogni realizzabilità, o avrebbero riportato gli stessi contadini al punto di partenza da cui la loro miseria e il loro abbrutimento in Francia ed altrove erano partiti, applicando male la leva con cui si voleva smuoverli - col riferire, perché attualissima, la sua indignazione davanti all'ultimo dei cinque considerando, quello che attribuisce al partito il dovere di aiutare anche i contadini coloni e mezzadri che sfruttano operai salariati!
Omettiamo anche la parte finale sulla Germania, ove per fortuna il partito non aveva commesso analoghi errori, in cui si dimostra come bisogna poggiarsi sui contadini nullatenenti dell'est, semiservi dei boiardi prussiani, piuttosto che sul contadiname dell'ovest, privo di potenziale rivoluzionario.
Ci duole non aver trovato in questo scritto di Engels un accenno all'Italia, ove in quel torno il partito con alto spirito classista conduceva la lotta dei braccianti agricoli, come in Romagna e Puglia, contro i grassi mezzadri borghesi, nelle forme più violente, realizzandosi quello che Engels presenta come il giusto desiderato, che i contadini salariati siano nel partito socialista, e i mezzadri e coloni in altro partito piccolo borghese, che in Italia era il repubblicano. Mentre oggi si fa dai "comunisti" quanto sfacciatamente programmato in Francia nel 1894, di strozzare la lotta di classe dei lavoratori presi a salario dai medi contadini e coloni, come abbiamo citato.
Valgano le parole di Engels per i traditori di oggi.
"Qui ci muoviamo già su un terreno affatto singolare. Il socialismo si batte in special modo contro lo sfruttamento del lavoro salariato. Qui invece si proclama dovere imperioso del socialismo proteggere gli affittuari francesi quando "sfruttano dei giornalieri (testuale!). E questo perché essi sono in certo modo costretti a farlo dallo sfruttamento di cui essi stessi sono vittime! ".
"Come è facile e piacevole scivolare all'ingiù, una volta che si è sul piano inclinato! [O padre Engels, voi non immaginavate gli estremi che avrebbe toccati questa libidine del successo demagogico e del tradimento]. Se il grande e medio contadino della Germania viene a pregare i socialisti francesi di adoperarsi presso la direzione del Partito socialdemocratico tedesco affinché lo protegga nello sfruttamento dei suoi servi, maschi e femmine, e a questo scopo si richiama allo "sfruttamento di cui egli stesso è vittima" ad opera di usurai, esattori delle imposte, speculatori in granaglie, mercanti di bestiame, - che cosa risponderanno essi? E chi gli garantisce che, a loro volta, i nostri grandi proprietari agrari non gli spediscano il conte Kanitz [rappresentante al Reichstag germanico dei proprietari fondiari] per chiedere un'eguale protezione socialista nello sfruttamento dei propri lavoratori agricoli, richiamandosi allo "sfruttamento di cui essi stessi sono vittime" ad opera della borsa, degli usurai e degli speculatori in granaglie?".
Possiamo chiudere con un'ultima citazione sui contadini e l'appartenenza al partito che è veramente una norma da non più dimenticare.
"Io nego recisamente che il partito operaio socialista di qualunque paese abbia il compito di riunire nel proprio seno, oltre ai proletari agricoli e piccoli contadini, anche i contadini medi e grossi, o gli affittuari di grandi tenute, gli allevatori capitalistici di bestiame, e gli altri valorizzatosi capitalistici del suolo nazionale"!
"Tuttavia, nel nostro partito possiamo certo inquadrare [esattissimo] individui di ogni classe sociale, mai gruppi di interessi capitalistici, medio-borghesi e medio-contadini".
Ecco come si difende il partito, la sua natura, la sua dottrina non commerciabile, il suo avvenire rivoluzionario! Ed ecco perché solo il partito politico è la forma che salva dalla degenerazione la lotta di classe del proletariato urbano e rurale, di tutti i paesi.
Un grande dettato di Marx
I nostri compagni francesi ci recarono a Torino un testo di Marx la cui pubblicazione annota quanto segue: "Questo manoscritto trovato, dopo la morte di Carlo Marx, nei suoi archivi è probabilmente un'addenda a un lavoro sulla nazionalizzazione del suolo che Marx aveva scritto su richiesta di Applegarth. Questo lavoro non è stato ancora ritrovato. Il titolo dell'estratto è A proposito della nazionalizzazione della terra".
Questo magistrale svolgimento viene a suffragare la nostra modesta ripetizione che il marxismo non modifica le forme della proprietà, ma nega l'appropriazione del suolo radicalmente. Cominciamo col riportarne un passo teoricamente meno arduo.
"Al Congresso internazionale di Bruxelles, nel 1868, uno dei miei amici ha dichiarato [eravamo alla Prima Internazionale e l'espressione dice che non si trattava di un libertario bakuninista] : 'Il verdetto della scienza condanna la piccola proprietà privata; la giustizia condanna la grande. Non resta perciò che un'alternativa: la terra deve diventare o proprietà di associazioni agricole o proprietà dell'intera nazione. L'avvenire deciderà il problema'".
"Io [Marx] invece dico: L'avvenire deciderà che la terra può essere soltanto proprietà nazionale. Trasferire il suolo a lavoratori agricoli associati, significherebbe mettere l'intera società alla mercé di una particolare classe di produttori".
Il contenuto di questa breve espressione è gigantesco. Anzitutto essa prova che non è nella linea marxista liberarsi di questioni ardue rimettendole alla rivelazione e decisione della storia avvenire. Il marxismo sa bene in maniera tagliente fin dagli inizi risolvere le caratteristiche essenziali della società futura, e le enuncia in modo esplicito.
In secondo luogo: il termine nazionale, e proprietà nazionale, non è adottato che a fine di dialogo socratico col primo enunciatore. Nella tesi positiva si parla di trasferimento e non di proprietà, e non più della nazione ma di tutta la società.
Infine si può sviluppare la presente proposizione, magistrale nell'alto senso del termine, in questo modo conseguente. Il programma socialista non è ben espresso come abolizione della consegna di un settore dei mezzi produttivi a una classe di privati, o a una minoranza di oziosi, non produttori. Il programma socialista esige che nessun ramo della produzione sia retto, anziché da tutta la società umana, da una sola classe, anche di produttori. Quindi la terra non andrà ad associazioni di contadini, né alla classe contadina, ma a tutta la società.
In tanto è la condanna spietata di ogni deformazione immediatista che da tempo andiamo perseguendo senza posa, anche in pretesi rivoluzionari di sinistra.
Questo teorema del marxismo abbatte ogni comunalismo e sindacalismo come ogni aziendismo (vedi i capitoli distinti del rapporto alla riunione di Pentecoste dell'anno scorso) perché quei programmi surannés, rovinosamente invecchiati, "consegnano" energie indivisibili della società come un tutto a gruppi limitati.
E prima ancora in questa enunciazione fondamentale è annullata ogni definizione di stalinisti o post-stalinisti - come essi vogliono e secondo il vento a cui si girano - di proprietà socialista nelle forme agrarie in cui gli aggruppamenti colcosiani si sono visti, come classe particolare di produttori, consegnare tutta la società, la vita materiale di tutta la società.
Del resto neanche la consegna allo Stato, quale è oggi in Russia, di tutte le aziende industriali, merita il nome di socialismo. Questo Stato, che per la stessa ragione va passando la consegna a "gruppi particolari di produttori" per azienda o per provincia, non è più un rappresentante storico della società integrale, aclassista di domani. Un tale carattere si attua e conserva solo sul piano della teoria politica, grazie alla forma partito, che ogni immediatismo calpesta brutalmente, mentre sola può scongiurare la peste opportunista.
Ma torniamo brevemente al passo di Marx, che ci dimostrerà come ogni attribuzione proprietaria, anzi ogni materiale consegna della terra, a gruppi limitati, taglia la strada maestra al comunismo.
"La nazionalizzazione del suolo porterà con sé una trasformazione completa nei rapporti fra lavoro e capitale, e infine sopprimerà la produzione capitalistica sia nell'industria che nell'agricoltura. Solo allora le distinzioni e i privilegi di classe spariranno insieme alla base economica dalla quale si originano, e la società diverrà un'associazione di "produttori" liberi. [Notare che le virgolette sono messe da Marx, e una si deve leggere unica]. Vivere del lavoro altrui sarà cosa del passato. Non esisterà più né un governo né uno Stato, in antitesi con la società stessa!".
Prima di svolgere una volta ancora questi princìpi essenziali, immutabili e mai mutati, del marxismo, poniamo agli atti che Marx non esita mai a descrivere recisamente come sarà la società comunista, prendendone per tutto il movimento rivoluzionario di una fase storica una illimitata responsabilità.
E' il puro metallo del getto originario che rifulge fuori della ganga delle mille incrostazioni successive, e risplenderà intatto alla luce di domani.
Marx e la proprietà della terra
Nello scritto di Carlo Marx, già preso ad utilizzare nel capitoletto che precede, egli definisce il programma dei comunisti sotto due aspetti. Storicamente ed economicamente va sostenuta la grande azienda agraria, per la quale spesso si usa il termine di grande proprietà, contro la piccola azienda e la piccola proprietà. Di più nel programma comunista è contenuta la sparizione, o come si suole meno esattamente dire l'abolizione, di qualunque forma di proprietà della terra, il che vuol dire di qualunque soggetto di proprietà, tanto singolo quanto collettivo.
Marx non si attarda molto sulle tradizionali giustificazioni filosofiche e giuridiche del rapporto di proprietà dell'uomo sulla terra. Esse risalgono alla vieta banalità che la proprietà è un prolungamento della persona. Il rancido sillogismo comincia ad essere falso nella stessa sua tacita premessa: la mia persona, il mio corpo fisico, mi appartengono, sono mia proprietà. Noi neghiamo anche questa, che in fondo non è che un'idea preconcetta nata dalle forme antichissime dello schiavismo, per cui la forza predava terra e corpi umani insieme. Se io sono schiavo il mio corpo ha un proprietario alieno, il padrone. Se non sono schiavo sono il padrone di me stesso. Sembra tanto chiaro ed è pura scempiaggine. A quello svolto della struttura sociale in cui tramontava la forma odiosa del padronato sull'essere umano, invece di prevedere il tramonto di tutte le ulteriori forme di proprietà, era logico che la sovrastruttura ideologica - la illustre Ultima di tutti i processi reali! - facesse solo questo passetto da pigmeo: si verifica un semplice cambio di padrone dello schiavo, cosa a cui la povera mente umana era assuefatta. Prima passavo da schiavo di Tizio a schiavo di Sempronio, ora sono passato a schiavo di me stesso... Forse un pessimo affare!
Il modo di ragionare antisocialista volgare è più sciocco del mito che vi sia stato un primo uomo solo soletto, che si credeva re del creato. Secondo la costruzione biblica si doveva pure ammettere che col moltiplicarsi degli umani il sistema di legami fra l'unico e gli altri non fa che infittirsi, e la illusoria autonomia dell'io disperdersi sempre più. Per noi marxisti ad ogni trapasso da modi di produzione semplici ai nuovi più intrecciati, aumenta la rete delle relazioni molteplici tra il singolo e tutti i suoi simili, diminuiscono le condizioni correntemente designate coi termini di autonomia e libertà. Impallidisce ogni individualismo.
Il borghese moderno, ed ateo che difende la proprietà vede il corso storico, nella sua ideologia di classe (i cui rottami sono oggi patrimonio solo dei piccoli borghesi e di tanti sedicenti marxisti), vede il processo alla rovescia, come un seguirsi di tappe di ridicolo svincolamento dell'individuo uomo dai legami sociali (correttamente, anche quelli tra uomo e natura esterna storicamente infittiscono la loro rete). Liberazione dell'uomo dallo schiavismo, liberazione dal servaggio e dal dispotismo, liberazione dallo sfruttamento!
In questa costruzione opposta alla nostra l'individuo si scioglie, si sgancia, e si costruisce l'autonomia e la grandezza della Persona! E molta gente prende questa serie per quella rivoluzionaria.
Individuo, persona e proprietà si intonano bene. Dato il principio falso di cui pocanzi: il mio corpo è mio, e così la mia mano; l'utensile con il quale sempre più li prolungo per lavorare, è anche mio. La terra (e qui la seconda premessa è giusta) è anche uno strumento del lavoro umano. I prodotti della mia mano e dei suoi vari prolungamenti sono anche miei: la Proprietà è dunque un immarcescibile attributo della Persona.
Come una tale costruzione sia contraddittoria, si vede dal fatto che nella ideologia dei difensori della proprietà sul suolo agrario, che hanno preceduto illuministi e capitalisti, la Terra è di per sé produttrice di ricchezza, prima e senza il lavoro che l'uomo vi esplica. Come dunque il diritto di padronato dell'uomo su pezzi di suolo diventa il misterioso "diritto naturale"?
Come se la sbriga Marx
Richiesto di pronunziarsi sulla nazionalizzazione della terra, Marx liquida nei primi periodi tali filosofemi impotenti.
"La proprietà del suolo, questa fonte primigenia di ogni ricchezza, è divenuta il grande problema dalla cui soluzione dipende l'avvenire della classe operaia. Senza voler qui discutere tutti gli argomenti accampati dai difensori della proprietà privata della terra – giuristi, filosofi, economisti - ci limiteremo dapprima ad osservare che essi nascondono sotto il manto del "diritto naturale" il fatto originario della conquista. Se la conquista ha creato un "diritto naturale" dei pochi, basta ai molti raccogliere una forza sufficiente per acquisire il "diritto naturale" alla riconquista di ciò che è stato loro tolto.
"Nel corso della storia [Marx intende dire dopo che i primi atti di violenza crearono la proprietà sulla terra che, lei sì, era nata libera, e fu poi comune], i conquistatori cercano, mediante le leggi da loro emanate, di dare al diritto di possesso ad essi originariamente derivante dalla forza, una certa conferma sociale. Poi viene il filosofo, e dichiara che queste leggi possiedono il consenso generale della società. Se la proprietà privata del suolo poggiasse effettivamente su un tale consenso universale, è chiaro che essa sarebbe eliminata nell'atto in cui non fosse più riconosciuta dalla maggioranza".
Lasciamo tuttavia da parte il preteso "diritto di proprietà"...
E' nostro proposito seguire qui il pensiero di Marx fino alla negazione di "qualunque" proprietà, ossia di qualunque soggetto (individuo privato, individui associati, Stato, nazione, e perfino società) come di qualunque oggetto (la terra, da cui siamo qui partiti, gli strumenti del lavoro in generale, ed i prodotti del lavoro).
Come sempre abbiamo sostenuto, tutto questo è contenuto nella formula iniziale di negazione della proprietà privata, ossia nella considerazione di tale forma come una caratteristica transitoria nella storia della società umana, e che nel corso presente è destinata a sparire.
Anche terminologicamente la proprietà non si concepisce che come privata. Per la terra la cosa è più evidente in quanto la caratteristica dell'istituto è la chiusura entro un confine che non si varca senza consenso del proprietario. Proprietà privata significa che il non proprietario è privato della facoltà di entrare. Qualunque sia il soggetto, persona singola o multipla, del diritto sopravvive questo carattere di "privatismo".
Contro ogni proprietà parcellare
Marx passa subito a prendere posizione contro l'esercizio della produzione agricola in aziende di superficie limitata.
Lasciata da parte la questione filosofica dopo pochi sarcasmi, egli così prosegue:
"Noi affermiamo che lo sviluppo economico della società, l'incremento della concentrazione della popolazione, la necessità del lavoro collettivo e organizzato, come pure l'uso delle macchine e di altre invenzioni nell'agricoltura, fanno della nazionalizzazione del suolo una "necessità sociale", contro cui tutti i discorsi sui diritti di proprietà si spuntano.
"I mutamenti dettati da una necessità sociale si fanno prima o poi valere; quando sono divenuti un bisogno urgente della società, è gicoforza introdurli, e le leggi sono costrette a sanzionarli.
"Ciò di cui abbiamo bisogno è un aumento della produzione giornaliera, le cui esigenze non possono essere soddisfatte se si permette a pochi individui di regolarla secondo i loro capricci e interessi privati, o di esaurire, per ignoranza, le energie del suolo. Tutti i metodi moderni, come l'irrigazione, la bonifica, l'impiego dell'aratro a vapore, i trattamenti chimici, ecc. dovevano infine trovare accesso nell'agricoltura. Ma le conoscenze scientifiche e i mezzi tecnici di cui disponiamo, come le macchine ecc., non si possono utilizzare con successo se non coltivando in grande una parte del terreno.
"Se la coltivazione del suolo su grande scala - perfino nella sua forma capitalistica, che degrada il produttore a semplice bestia da soma - dà risultati di gran lunga superiori a quelli della coltura parcellare e frammentaria, non darebbe essa, applicata su scala nazionale, un gigantesco impulso alla produzione [agraria]? I bisogni sempre crescenti della popolazione da un lato, il continuo aumento dei prezzi dei prodotti agricoli dall'altro, forniscono la prova inconfutabile che la nazionalizzazione del suolo è divenuta una "necessità sociale".
"Il declino della produzione agricola, che ha la sua origine nel cattivo uso individuale, diventa impossibile non appena la coltivazione della terra sia praticata sotto il controllo, a spese e a vantaggio, dell'intera nazione".
E' evidente che questo scritto è di propaganda e diretto ad una cerchia di non ancora seguaci del marxismo. Tuttavia esso ben presto giungerà alle tesi radicali che abbiamo già trattate sotto il titoletto "Un grande dettato di Marx". Qui è dimostrata la preferenza di una gestione nazionale di natura statale, in quanto si parla di spese e di profitti. Più oltre si chiarirà che lo Stato borghese sarà sempre impotente a rialzare l'agricoltura.
Ma l'autore si tiene ancora alle questioni contingenti, e sarà interessante vedere come le pone nel 1868, identicamente ad Engels nel 1894, come abbiamo esposto nella prima parte di questo studio. Come oggi avrebbe il diritto di usurpare il titolo di marxista chi sia giunto a stabilire che prima il colono, poi il mezzadro, poi perfino il bracciante rurale, deve divenire proprietario, come fanno gli odierni "comunista" di Italia e di Europa? Per noi questa parte essenziale del marxismo, come è andata dal 1868 (anzi da molto prima) al 1894, così arriva validissima fino ad oggi.
La questione agraria francese
Marx qui passa a ribattere il luogo comune della "ricca" piccola agricoltura francese. Le sue parole non abbisognano di commento. Le ricolleghi il lettore non solo alla impostazione di Engels ma anche a quella di Lenin, la cui stretta ortodossia come marxista agrario abbiamo nella trattazione russa mostrata a fondo.
"Si è spesso alluso alla Francia; ma questa, con la sua economia di piccoli proprietari contadini, è più lontana dalla nazionalizzazione del suolo che l'Inghilterra con la sua economia di grandi proprietari terrieri. In Francia la terra è bensì accessibile a chiunque possa acquistarla, ma appunto questa possibilità ha condotto alla sua divisione in piccoli e piccolissimi appezzamenti lavorati da uomini che dispongono di mezzi esigui e contano in prevalenza sul lavoro fisico proprio e delle loro famiglie. Questa forma di proprietà, con la sua coltivazione di superfici frammentarie, non solo esclude ogni impiego dei moderni perfezionamenti agricoli, ma fa del contadino il più deciso avversario di ogni progresso sociale e soprattutto della nazionalizzazione del suolo.
"Incatenato all'angolo di terra sul quale deve spendere tutte le sue energie vitali per ottenere un raccolto relativamente minimo; costretto a cedere la maggior parte dei suoi prodotti sotto forma di imposte allo Stato, sotto forma di spese giudiziarie alla consorteria dei giuristi, e sotto forma di interessi all'usuraio; del tutto ignaro del movimento sociale fuori del suo ristretto campo di attività, egli tuttavia si aggrappa con cieco amore al suo campicello e ai suoi titoli d'altronde puramente nominali di proprietà. Il contadino francese è stato quindi spinto al più funesto antagonismo verso la classe degli operai industriali. Proprio perché i rapporti di piccola proprietà contadina sono il maggiore ostacolo alla "nazionalizzazione del suolo", non è certo nella Francia nel suo stato attuale che dobbiamo cercare la soluzione del grande problema.
"Sotto un governo borghese, la nazionalizzazione del suolo, e la sua cessione in piccoli poderi a individui singoli o anche a cooperative di lavoratori, non farebbe che scatenare una spietata concorrenza, la quale porterebbe con sé un aumento progressivo della "rendita" e offrirebbe a chi se l'appropria nuove possibilità di vivere a spese dei produttori".
L'ipotesi fatta in questo ultimo periodo prevede che attribuzioni statali di favore creino una classe di locatori aziendali che si avvalgano della manodopera salariata sfruttandola.
Classi di produttori
A questo punto del manoscritto di Marx si inserisce il passo fondamentale, già da noi riportato e commentato, sulla discussione al congresso internazionale del 1868. In questo passo abbiamo dato rilievo immenso alla tesi che la terra va data alla "nazione" e non ai lavoratori agrari associati. Quest'ultima formula - rilievo da non dimenticare - è antisocialista perché "consegnerebbe tutta la società ad una classe particolare di produttori". Il socialismo non esclude solo la soggezione del produttore al possessore ma anche di produttori a produttori.
Del tutto falsa - come comunismo - è la formula agraria russa con i suoi colcos. I colcosiani formano una classe di produttori che hanno nelle mani la sussistenza di tutta la "nazione". Di anno in anno i loro diritti si vedono aumentare di fronte allo "Stato", con esenzione da consegne a prezzi di imperio, valutazione "economica" degli stessi, ossia ad libitum dell'associazione, ecc. Distingueremo appieno tra i termini Stato, nazione e società; per ora abbiamo il diritto di dire che economicamente ricompaiono nella struttura russa concorrenza e rendita.
Nei sovcos, che tra non molto saranno legalmente liquidati, i lavoratori della terra si riducono come quelli della industria a puri salariati, senza diritti sui prodotti rurali (finora), e non formano una classe di produttori eretta contro la società, come non la formano i proletari dell'industria, vantati padroni (sebbene di questo termine si arrossisca in Russia!) della società stessa, ossia egemoni sui contadini(!).
La classica discussione russa sulla terra si poneva fra tre soluzioni: Spartizione (populisti); Municipalizzazione (menscevichi); Nazionalizzazione (bolscevichi). Lenin sostenne sempre, nella dottrina e nella politica rivoluzionaria, la nazionalizzazione, come Marx testé l'ha difesa. La spartizione populista, ignobile ideale contadino, sta all'altezza della politica dei partiti comunisti odierni, poniamo, in Italia, che si fregiano dell'aggettivo popolare e sono parimenti degni di quello populista. La municipalizzazione corrispondeva al programma di dare il monopolio della terra, non alla società, ma alla sola classe contadina. Il municipio russo qui inteso era il villaggio rurale, dove non vivono che contadini e che sbiaditamente si riunisce alla tradizione (vedi nostre serie sulla struttura russa) del mir comune primitivo. Il sistema del colcos non è né marxista né tampoco leninista, in quanto, specie nelle "riforme" in corso, lo si può ben definire una provincializzazione della terra su cui le città operaie perdono sempre più ogni influenza. Tale deformazione, dataci dal fatto storico del 1958, ben si colpisce con la posizione dottrinale di partito nel 1868, per cui la terra non deve essere data ad "una classe di produttori" (i soci dei colcos) ma a tutta la collettività di operai rurali ed urbani.
La tesi della nazionalizzazione non si deve intendere come quella di Ricardo: la terra allo Stato, con tutta la rendita fondiaria; che vorrebbe dire la terra alla classe capitalista industriale o al suo rappresentante potenziale che è lo Stato capitalista industriale (come il russo). La nazionalizzazione marxista del suolo è l'opposto dialettica della parcellazione e della consegna ad associazioni o cooperative contadine. Tale opposizione dialettica vale sia per la struttura della società comunista senza classi né Stato (vedi brano dato nei precedenti paragrafi), sia per la lotta politica e di partito e di classe entro la società capitalista, ove la rivendicazione della spartizione parcellare è ben più indecente che non fosse quando era agitata sotto il regime degli zar. Le tesi della dottrina del partito, quando si pongano immutabili ed inviolabili sia dal centro che dalla base dei militanti, contengono la difesa contro la minaccia futura del morbo opportunista, e questo è un esempio calzante e tipico.
Nazione e società
Il termine di nazione presenta però un vantaggio nell'uso sia di teoria che di agitazione rispetto allo stesso termine di società. Come estensione nello spazio, è noto che la società socialista noi la consideriamo internazionale e che l'internazionalismo è concetto insito alla lotta di classe. Ma Marx avverte, ogni qualvolta fa la critica della struttura economica capitalista, che egli parlerà di nazione, indifferentemente di società di più nazioni, quando vorrà studiare la dinamica delle forze economiche, ma senza mai voler chiudere in angusti limiti nazionali il trapasso rivoluzionario al socialismo. D'altra parte anche quando sia utile parlare di nazione e non di Stato, non si dimentica che, fin quando esiste lo Stato di classe che esprime il dominio della classe capitalistica, la nazione non riunisce in un complesso omogeneo tutti gli abitatori di un territorio, e questo non sarà ancora attuato nemmeno dopo l'instaurazione in uno o più paesi della dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Il termine nazione, limitativo quanto alla rivendicazione internazionalista ed a quella classista e rivoluzionaria, resta espressivo come contrapposto a consegna di date sfere di mezzi produttivi (nel caso trattato la terra) a parti ed a classi isolate della società nazionale, a gruppi locali o aziendali, a categorie sindacali-professionali.
Ma l'altro vantaggio che abbiamo accennato si ha rispetto alla limitazione nel tempo. Nazione viene da nascere, e comprende il susseguirsi delle generazioni viventi (e passate anche) e future. Il vero soggetto dell'attività sociale per noi diviene più ampio, nel tempo, della stessa società degli uomini vivi ad una certa data. L'idea della stirpe (ammesso che noi la riferiamo alla stirpe di tutto l'umano genere, alla specie, parola usata da Marx e da Engels e che è più potente sia di nazione che di società) supera tutta la ideologia borghese di potere e di sovranità giuridico-politica propria dei democratici.
Il concetto classista basta a smentire che lo Stato rappresenti tutti i cittadini viventi, e noi sorridiamo quando si voglia trarre tale azzardata conclusione dalla iscrizione di tutti i maggiorenni nelle liste elettorali. Ben sappiamo che lo Stato borghese rappresenta gli interessi ed il potere di una sola classe, anche se vi avvenissero votazioni plebiscitarie.
Ma vi è di più. Anche chiudendo una rete rappresentativa o strutturale nei limiti di una sola classe, di quella salariata (peggio se si assume il generico popolo dei russi), non ci accontentiamo di una costruzione di sovranità sul meccanismo (dato che possa esistere) di consultazione di tutti i singoli elementi di base. E questo vale tanto sotto il potere borghese, per dirigere la lotta rivoluzionaria, quanto dopo il suo abbattimento.
Più volte, e specie nel completo rapporto alla riunione di Pentecoste 1957, abbiamo sostenuto che solo il partito, evidentemente minoritario nel seno della società e della classe proletaria, è la forma che può esprimere le influenze storiche di successive generazioni nel trapasso da una all'altra forma di produzione sociale, nella sua unità spaziale e temporale, di dottrina, organizzazione e strategia di combattimento.
Quindi la forza rivoluzionaria proletaria non è espressa da una democrazia consultiva interna alla classe, lottante o vincitrice, ma dall'arco ininterrotto della linea storica del partito.
Evidentemente ammettiamo non solo che una minoranza dei vivi e presenti possa contro la maggioranza (anche della classe) dirigere l'avanzata storica, ma, di più, pensiamo che solo quella minoranza si può porre sulla direttiva che la collega alla lotta e agli sforzi dei militanti delle generazioni passate e di quelle che si attendono, agendo nella direzione del programma della società nuova, quale la storica dottrina se lo è esattamente e chiaramente prefisso.
Questa costruzione, che ci fa proclamare a dispetto di ogni filisteo la rivendicazione aperta: dittatura del partito comunista, è incontestabilmente contenuta nel sistema di Marx.
Nemmeno la società proprietaria della terra
Nel Terzo Libro del Capitale edito da Engels dopo la morte di Marx, il capitolo 46° ha il titolo: Rendita di aree fabbricabili. Rendita mineraria. Prezzo della terra. La deduzione si inquadra nella poderosa dottrina della rendita fondiaria, rigo a rigo in tutta la sua vita rivendicata dal grande combattente Lenin. Poiché nella nostra scienza economica è sostenuto e dimostrato che la rendita tratta dal proprietario fondiario ha il carattere di una aliquota prelevata sul plusvalore che la classe salariata produce e che diviene profitto capitalista, è chiaro che l'avversario può elevare questa obiezione. Si fanno degli affari e il proprietario incassa la rendita anche con la negoziazione dei terreni fabbricabili, mentre stanno lì a dormire sotto il sole e nemmeno un operaio entra a dare un solo colpo di zappa. Questo guadagno padronale da quale lavoro e relativo plusvalore salta fuori?
Ma la nostra scienza economica non cade in difetto per questo. Non siamo una facoltà accademica ma un esercito schierato in battaglia, e difendiamo la causa di chi è morto e ha lavorato come quella di chi non ha ancora lavorato e non è ancora nato.
Chi vuole ragionare entro le formulette burocratiche del dare ed avere delle Ditte in registro, insieme a quello che deduceva potere legale nei limiti dei nomi e dei numeri delle liste elettive, si faccia, di grazia, da parte.
Marx risponde portando sulla scena della battaglia le generazioni future; è un vecchio dato della nostra dottrina, e non una nostra abile invenzione per far passare la giusta tesi; contro la teoria e il programma della rivoluzione, anche la maggioranza della classe proletaria oggi presente può avere torto e stare nello schieramento nemico.
"Il fatto che solo il titolo alla proprietà del globo terrestre permetta a un certo numero di persone di appropriarsi come tributo una parte del pluslavoro della società, e di appropriarsela in una quantità che cresce di pari passo con lo sviluppo della produzione, è celato dalla circostanza che la rendita capitalizzata, quindi proprio questo tributo capitalizzato, appare come il prezzo della terra, la quale può essere venduta come qualsiasi altro articolo del commercio".
E' chiaro? Se stimo che un terreno che nell'avvenire presumibilmente renderà cinquemila lire annue al padrone, si può vendere per centomila, io ho reso forza attiva il sopralavoro di operai che lavoreranno non venti anni, ma un numero infinito di anni futuri.
"Allo stesso modo, a un padrone di schiavi che ha comperato un negro, la sua proprietà sul negro non appare acquisita in virtù dell'istituzione della schiavitù in quanto tale, [che le generazioni passate gli hanno regalato] ma in virtù della compravendita di merci".
Ed egli sconterà in denaro gli anni futuri del negro e dei discendenti!
"Ma il titolo stesso è solamente trasferito, non creato dalla vendita. Il titolo deve esistere prima di poter essere venduto e, al pari di una singola vendita, così neppure una serie di vendite, la loro continua ripetizione, può creare questo titolo [l'allusione del dottore in legge Marx è alla finzione dei codici borghesi che la "prova della proprietà" si raggiunge allineando le scartoffie dei titoli di trapasso che risalgano ad un certo numero di anni, trenta o venti per es.].
"Questo titolo è stato creato in realtà dai rapporti di produzione. Non appena questi sono giunti a un punto in cui devono mutar volto, la fonte materiale del titolo e di tutte le operazioni fondate su di esso, giustificata economicamente e storicamente e derivante dal processo di creazione sociale della vita, viene meno".
Ad esempio, aggiungiamo per chiarire il concetto al lettore, quando la produzione schiavista cadrà perché ormai non più conveniente e per la rivolta degli schiavi, tutti questi diverranno uomini liberi ed ogni contratto passato di vendita di schiavi sarà nullo di effetti! Ma qui invitiamo il lettore una volta ancora a cogliere il passaggio, sempre improvviso quanto possente, dalla geniale e originale interpretazione della storia delle società umane, alla caratterizzazione non meno rigorosa della società di domani.
"Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un'intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come bonis patres familias, alle generazioni successive".
Utopia e marxismo
Anche in questo passo decisivo il metodo di Marx è chiaro. La nostra previsione sulla morte della proprietà e del capitale, sulla loro sparizione, che è ben più alto scopo che il loro imbelle trasferimento dal soggetto individuale a quello sociale ed anche la decisione e la volontà che attribuiremo non al soggetto individuo, sia pure della classe calpestata, ma solo alla collettività partito, collettività la cui energia non è quantità ma qualità, si costruiscono su di una totale analisi scientifica della società presente e del suo passato. Il capitalismo che vogliamo svergognare ed uccidere, abbiamo il dovere prima di studiarlo e conoscerlo nella sua struttura e nel suo corso reale. Ed è un dovere non nel senso morale e personale, ma una funzione impersonale del partito, ente che scavalca le teste degli uomini opinanti e i confini tra generazioni successive.
In questo punto sta la risposta ad una possibile obiezione alla nostra accezione del marxismo, la sola che ne colga la potenza e l'altezza. Il Marx che da decenni e decenni la corrente rivoluzionaria presenta quando pone al primo luogo il programma massimo della struttura sociale comunista, è esattamente il Marx che superò, combatté e lasciò indietro ogni utopismo.
L'opposizione tra utopismo e socialismo scientifico non sta nel fatto che il socialista marxista dichiari che quanto ai caratteri della società futura egli sta alla finestra ad attendere che passino, per descriverne le fogge! L'errore dell'utopista sta nel trarre, dopo una constatazione dei difetti della società presente che per taluni dei suoi maestri Marx esalta con rispetto, la trama della società futura non da una concatenazione di processi reali che legano il corso precedente a noi a quello futuro, ma dalla propria testa, dal razionale umano e non dal reale naturale e sociale. L'utopista crede che il punto di arrivo del corso sociale debba essere contenuto nella vittoria di alcuni princìpi generali che sono insiti nello spirito dell'uomo. Che ve li abbia indotti il dio creatore, o che ve li scopra la critica filosofica introspettiva, sono questi ideologismi dai mille nomi - Giustizia, Uguaglianza, Libertà, e via - che formano i colori della tavolozza ove il socialista idealista intinge i suoi pennelli per dipingere il mondo di domani come dovrebbe essere.
Questa ingenua ma non sempre ignobile origine fa sì che l'utopismo attenda il suo affermarsi da un'opera di persuasione tra gli uomini, di emulazione, secondo la parola venuta oggi di moda per presentare in modo veramente indecoroso la fiammeggiante storia. Gli utopisti trascinati dalle loro buone intenzioni hanno pensato una volta di vincere guadagnando ai loro rosei progetti i centri del potere già costituito. In modo preconcetto erano chiusi all'intendere la partecipazione al processo della lotta, del conflitto sociale, del capovolgimento del potere e dell'uso non della persuasione ma della forza senza riserve nel travaglio da cui uscirà la società nuova.
La nostra posizione del problema umano è l'opposta. Le cose non vanno come vanno perché qualcuno ha sbagliato, ha sgarrato, ma perché una serie causale e determinante di forze ha giocato nello sviluppo della specie umana: si tratta prima di intendere come e perché e con quali leggi generali, e poi di indurne le direzioni future.
Il marxismo dunque non è rinuncia a dichiarare nei programmi di battaglia quali saranno i caratteri della società di domani, e specificamente come essi si contrapporranno a quelli individuati rigorosamente nella forma sociale ultima, la capitalista e mercantile. Il marxismo è la via per dichiararli con validità e sicurezza di gran lunga maggiori di quelle a cui giungevano le pallide, anche se talvolta audaci rispetto ai tempi, descrizioni utopiste.
La rinuncia ad impegnarsi ad anticipare le stimmate della struttura sociale comunista non è marxismo, né è degna del poderoso corpo degli scritti classici della nostra scuola; è essa davvero un revisionismo rinculatore e conservatore, che ostenta come obiettività quello che è solo viltà e cinismo: la rivelazione su uno schermo bianco di un misterioso disegno che è segreto della storia. Nella sua sufficienza filistea questo metodo non è che il preparato alibi per le cricche politiche professionali, che non hanno mai sentita l'altezza della forma partito e l'hanno ridotta a palcoscenico per le contorsioni di pochi attivisti. Se dovevano restare al segreto, tanto valeva attendere nelle sacrestie il rivelarsi del volere divino, o nelle anticamere di servizio dei potenti il turno fortunato dell'andare al lecco dei piatti in cucina.
Proprietà ed usufrutto
Un saggio di questa retta opposizione tra marxismo ed utopismo, che abbiamo voluto mettere a punto in dottrina, lo abbiamo nel passo di Marx che traccia un allineamento tanto impegnativo della struttura avvenire quanto questo che descrive la società non proprietaria della terra.
La gestione della coltura della terra, infatti, non va fatta in modo che soddisfi le brame della sola generazione presente. Giusta un'accusa di continuo ricorrente di Marx al capitalismo, questa forma di produzione esaurisce le risorse del suolo e rende insolubile il problema dell'alimentazione dei popoli. Oggi che questi divengono sempre più numerosi si studiano dagli "scienziati", con la serietà che ci è ben nota, vie nuove per sfamare gli abitanti del pianeta.
La gestione della terra, chiave di volta di tutto il problema sociale, deve essere indirizzata in modo da corrispondere al migliore sviluppo avvenire della popolazione del globo. La società umana vivente pure potendo essere intesa al disopra delle limitazioni di Stati, di nazioni, e quando si sarà passati ad una "organizzazione superiore" anche di classi (saremo non solo al di là dell'opposizione un po' pedestre di "classi oziose" e "classi produttrici", ma anche dell'opposizione tra classi produttrici urbane e rurali, manuali ed intellettuali, come Marx insegna) questa società che si presenterà come aggregato di alcuni miliardi di uomini, nel limite temporale sarà sempre un aggregato più ristretto della "specie umana", pur divenendo più numerosa per effetto del prolungarsi della vita media dei suoi membri.
Essa volontariamente e scientificamente, e per la prima volta nella storia, si subordinerà alla specie, ossia si organizzerà nelle forme che rispondono meglio ai fini dell'umanità avvenire.
Che in tutto ciò non vi sia nulla di fantastico - o, che il cielo ne scampi, di fantascientifico - o di utopistico, risale al criterio realistico e palpabile che Marx richiama: la differenza tra proprietà e usufrutto.
Nella teoria del diritto odierno la proprietà è "perpetua", mentre l'usufrutto è temporaneo, limitato ad un numero prestabilito di anni o alla vita naturale dell'usufruttuario. Nella teoria borghese la proprietà è ius utendi et abutendi ossia diritto di usare e di abusare. Teoricamente il proprietario può distruggere il suo bene; ad esempio irrigare il suo campo con acqua salata, sterilizzandolo, come i romani fecero, dopo averla bruciata, sul suolo di Cartagine. I giuristi di oggi sottilizzano su di un limite sociale, ma questa non è scienza, è solo paura di classe. L'usufruttuario invece ha un diritto più ristretto del proprietario: l'uso, sì; l'abuso, no. Scaduto il termine dell'usufrutto, o morto il godente nel caso del vitalizio, la terra ritorna al proprietario. La legge positiva impone che vi ritorni nella stessa efficienza dell'inizio del periodo di usufrutto. Anche il semplice colono che ha la terra in affitto non può alterarne la coltura ma deve condurla da buon padre di famiglia, come cioè fa il proprietario buono, per cui la perpetuità dell'uso o godimento consiste nel passaggio ereditario ai suoi figli o eredi. Nel codice civile italiano la sacramentale formula del buon padre di famiglia si legge nell'art. 1001 e nel 1587.
La società ha dunque solo l'uso e non la proprietà della terra.
L'utopismo è metafisica, il socialismo marxista è dialettico. Marx nelle rispettive fasi della gigantesca costruzione può successivamente rivendicare la grande proprietà (anche capitalista, sebbene i salariati vi siano bestie da soma) contro la piccola, anche se senza salariati (si taccia per decenza della piccola azienda come quella del mezzadro francese 1894 e italiano 1958, che all'impiego dell'uomo bestia da soma aggiunge la reazionaria parcellazione), rivendicare la proprietà dello Stato anche capitalista contro la grande proprietà privata (nazionalizzazione); rivendicare la proprietà statale dopo la vittoria della dittatura proletaria; rivendicare per la superiore organizzazione del comunismo integrale il solo uso razionale della terra da parte della società, e seppellire nel museo dei ferri vecchi di Engels il termine sciagurato di proprietà.
Valore d'uso e di scambio
La tesi fondamentale del marxismo rivoluzionario estende facilmente la negazione della proprietà individuale e poi sociale dalla terra agli altri strumenti della produzione allestiti dal lavoro umano, ed ai prodotti del lavoro sia in quanto siano beni utensili sia come beni di consumo.
Sulla terra agraria per il suo esercizio vi sono dei beni capitali. Uno fondamentale, quello dal quale è venuta la parola capitale (come Marx spesso ricorda) è il bestiame da lavoro e da allevamento. In italiano lo chiamano scorta viva; in francese cheptel che è la stessa parola di capitale. Il termine che indica la sporca cosa che è il capitale viene da caput, testa in latino. Ma non si illudano i borghesi che si tratti della testa umana, per venirci ad ammannire un altro diritto naturale: il Capitale come prolungamento della Persona.
Si tratta della testa del bue. Il prolungamento della testa del borghese non sono gli eterni princìpi della legge umana, sono soltanto le corna.
E' chiaro che il conduttore della terra non può mangiarsi tutto il suo bestiame, come ve ne sono storici esempi, senza distruggere questo speciale strumento della produzione, che è atto a riprodursi se saggiamente allevato.
La società è usufruttuaria e non proprietaria delle specie animali. Nel lavoretto di Engels vi era un grazioso passo sulla risibile richiesta di libera caccia e pesca - in Francia - ai contadini, a proposito del pericolo della distruzione, poi avvenuta, di certe specie di selvaggina.
Non sarebbe breve, ma nemmeno difficile, l'estensione del nostro dedurre ad ogni capitale di intrapresa nell'agricoltura e nell'industria. Ma cercheremo di procedere per grandi tappe.
In questi capitoli magistrali sulla terra, dove Marx dimostra che il suo prezzo e valore, tratto dalla rendita capitalizzata, non entra nel capitale di esercizio dell'intrapresa agraria perché, se non vi è la deprecata devastazione della fertilità, esso si ritrova intatto alla fine del ciclo annuo, egli stabilisce il confronto ovvio con la "parte fissa del capitale costante industriale" che non entra nel calcolo del capitale circolante se non nella minor parte in cui si logora in un ciclo e va ripristinato (ammortamento). La terra si rinnova da sé; anche la scorta viva si rinnova da sé (con un certo lavoro di allevatore). La scorta morta va rinnovata in gran parte ogni anno, in agricoltura, a carico del valore totale dei prodotti. Nell'industria va invece rinnovata in parte minore.
Lasciando al suo luogo l'esame quantitativo, vogliamo notare che l'umanità ha pure delle scorte morte o capitali fissi il cui ammortamento si fa in cicli lunghissimi, come vi sono dei ponti romani che dopo duemila anni servono ancora. La criminalità capitalista cerca gli ammortamenti a ciclo breve e tenta di rinnovare - a spese del proletariato - rapidamente ogni capitale fisso. Perché? Perché sul capitale fisso si ha la folle proprietà, su quello circolante il semplice usufrutto. Ci riportiamo alla distinzione tra lavoro morto e lavoro vivente svolta nei rapporti di Pentecoste e di Piombino.
Il capitalismo insiste per far dimenare follemente il lavoro dei vivi, e fa del lavoro dei morti la sua disumana proprietà. Nell'economia comunista chiameremo quello che i loro tecnici dicono ammortamento, ossia rinnovo del capitale impianti, nel modo opposto, ossia ravvivamento.
L'antitesi tra proprietà ed usufrutto si riporta a quella capitale fisso - capitale circolante; e a quella lavoro morto - lavoro vivente.
Noi siamo dalla parte dell'eterna vita della specie, i nostri nemici dalla parte sinistra della morte eterna. E la vita li travolgerà, sintetizzando quegli opposti nella realtà del comunismo.
Ma daremo ancora un'altra formula di quella stessa antitesi: scambio monetario, ed uso fisico. Valore di scambio mercantile contro valore d'uso.
La rivoluzione comunista è l'uccisione del mercantilismo.
Lavoro oggettivato e lavoro vivente
I compagni lettori, che sono nel nostro metodo di lavoro collaboratori all'attività comune di partito, devono a questo punto rilevare dai nn. 19 e 20 del 1957 (resoconto breve della riunione di Piombino) tutta la Parte Seconda in cui il testo marxista Grundrisse è ampiamente presentato.
In quella costruzione grandiosa l'individualismo economico viene cancellato, ed appare l'Uomo Sociale, i cui confini sono gli stessi dell'intera Società Umana, anzi della Specie umana.
Il Capitale fisso industriale come contrapposto nella forma capitalista al lavoro umano, che diviene misura del valore di scambio dei prodotti o merci, è - vi sia, o non, dietro il capitalista come persona, e qui le nostre citazioni di Marx sono state innumeri - il Mostro nemico che incombe sulla massa dei produttori e monopolizza un prodotto, che non solo attiene a tutti, ma a tutto il corso attivo della specie nei millenni, la Scienza e la Tecnologia elaborate e depositate nel Cervello Sociale. Oggi che la Forma capitalista scende il ramo della degenerazione, questo Mostro uccide la Scienza stessa, ne fa mal governo, ne conduce l'Usufrutto in modo criminale dilapidando il retaggio delle generazioni avvenire.
In quelle pagine si vede l'odierno fenomeno della Automazione scontato e teorizzato per il lontano avvenire. Quello che ci permettemmo di chiamare Romanzo del lavoro oggettivato, ha per epilogo la sua palingenesi, con cui il Mostro diviene Forza benefica dell'umanità tutta cui consente di non estorcere sopralavoro inutile, ma di ridurre a minimi il lavoro necessario, "a tutto vantaggio della formazione artistica, scientifica, ecc., degli individui", ormai elevati all'Individuo Sociale.
Vogliamo qui trarre dagli autentici materiali, oggi assai più validi ed evidenti dell'epoca in cui nacquero, un'altra non meno autentica formulazione. Fermata dalla rivoluzione proletaria la dilapidazione della Scienza opera del Cervello Sociale, compresso il tempo di lavoro ad un minimo che ne fa tutta gioia, esaltato a forme umane il Capitale fisso mostro di oggi, ossia soppresso, non conquistato all'uomo o alla Società, il Capitale, transeunte prodotto storico, l'industria si comporterà come la terra, una volta liberati da ogni proprietà di chicchessia gli impianti come il suolo.
Poca conquista sarebbe che gli impianti di produzione cessassero di essere monopolio di una banda di oziosi, vuota frase fatta, in quanto agli inizi i borghesi furono una classe di audaci portatori del Cervello Sociale e della più avanzata Prassi Sociale. Gli impianti di produzione, a loro volta, la società organizzata in forma superiore - il comunismo internazionale - non li avrà come proprietà e capitale, ma come usufrutto, salvando ad ogni passo contro la necessità fisica della Natura, solo avversario ormai, l'avvenire della Specie.
Morta la proprietà e il capitale, sia nell'agricoltura che nell'industria, altra frase fatta che era una concessione all'arduo compito della tradizionale propaganda, ossia "la proprietà personale dei prodotti di consumo", va gettata tra le ombre del passato. Infatti tutta la palingenesi rivoluzionaria cade se ogni oggetto non perde il carattere di merce, e se il lavoro non cessa di essere misura del "valore di scambio", altra forma che, insieme alla misura monetaria, deve col modo capitalista morire.
Citiamo allora testualmente:
"Da quando il Lavoro ha cessato di essere, sotto la sua forma immediata, la Grande Sorgente della Ricchezza, il Tempo di Lavoro deve cessare di essere la misura di essa. E lo stesso del Valore di Scambio come misura del Valore di Uso". Considerando la pochezza di Stalin, e dei russi che lo seguono, nel far vivere in socialismo (!) la legge del valore, fummo condotti a chiudere: Le folgori dell'Ultimo Giudizio si abbattano sui loro bersagli!
Il disgraziato che tracanna alcool dicendo: è mio, l'ho comprato coi soldi del mio salario (privato o di Stato) è parimenti, vittima come è della forma Capitale, un usufruttuario fedifrago della salute della specie. Ed anche l'insensato accenditore di sigarette! Tale "proprietà" sarà eliminata dall'organizzazione superiore della società.
Il rinvilimento dello schiavo salariato si esaspera nelle crisi di disoccupazione. Scrisse Engels a Marx il 7 dicembre 1857:
"Tra i filistei di qui la crisi ha l'effetto di spingerli a bere parecchio. Nessuno ce la fa a star solo a casa con la famiglia e le preoccupazioni, i clubs si animano, e il consumo di liquori cresce parecchio. Quanto più uno sta in mezzo ai guai, tanto più cerca di farsi animo. E la mattina seguente è un eloquentissimo esempio di stordimento morale e fisico", 1857 o 1958?!
Non si consumerà dunque da bestia-persona, in nome dell'infame proprietà sull'oggetto scambiato, ma l'Uso, il consumo, si faranno secondo l'esigenza superiore dell'uomo sociale, perpetuatore della specie, e non più, come oggi è la regola, sotto l'azione delle droghe.
Morte dell'individualismo
Non è possibile che il partito proletario di classe governi se stesso nella buona direzione rivoluzionaria se non è totale il confronto del materiale di agitazione con le basi stabili e non evolventi della teoria.
Le questioni di azione contingente e di programma futuro non sono che due lati dialettici dello stesso problema, come tanti interventi di Marx fino alla sua morte, e di Engels e di Lenin (tesi di aprile, comitato centrale di ottobre!) hanno dimostrato.
Quegli uomini non improvvisarono né rivelarono, ma brandirono la bussola della nostra azione, che è troppo facile smarrire.
Essa segna chiaramente il pericolo, e le nostre questioni sono felicemente poste quando si va contro le direzioni generali sbagliate. Le formule e i termini possono essere falsificati da traditori e da deficienti, ma il loro uso è sempre una bussola sicura quando è continuo o concorde.
Se siamo nel linguaggio filosofico e storico il nostro nemico è l'individualismo, il personalismo. Se in quello politico, l'elettoralismo democratico, in qualunque campo. Se in quello economico, il mercantilismo.
Ogni accostata verso questi rombi insidiosi per un apparente vantaggio, vale il sacrificio dell'avvenire del partito al successo del giorno, o dell'anno; vale la resa a discrezione davanti al Mostro della controrivoluzione.
Da "Il programma comunista" nn. 16 e 17 del 1958
Proprietà e Capitale
Quaderni di n+1 dall'archivio storico.
Il lettore d'oggi che pagina dopo pagina arriverà al capitolo finale in cui si tirano le somme sul piano politico, avrà la netta sensazione di avere tenuto fra le mani un libro straordinario. Presa dimestichezza con un linguaggio potente dal punto di vista letterario ma fuori da canoni della saggistica divulgativa, sarà costretto ad ammettere che il metodo d'indagine adottato ha permesso di intravvedere fenomeni poco evidenti all'epoca in cui il libro fu scritto e ancora in embrione nel 1991.
Indice de Il programma Comunista - 1958
Archivio storico 1952 - 1970