Sua maestà l'acciaio (LIV)
Nel corso di una vita di uomo è stato dato assistere tre volte alla preparazione di un conflitto armato avente per scena tutta la terra.
La terza guerra mondiale non è in atto ancora, ma forse nove persone su dieci la considerano certa. Se anche avesse ragione la decima, è sicuro che siamo nel periodo di aperta preparazione; per una volta si avvererebbe l'antico monito che si evita la guerra preparandosi ad essa. Un tale evento non è fuori della storia; si verifica quando uno dei contendenti è così prepotente ed armato che l'altro alza le mani in alto senza lottare, o dopo pochi assaggi e schermaglie. Getta la spugna e prende la borsa, si direbbe sul ring.
Non occorre dunque impegnarsi in profezie sulla terza guerra e subordinatamente sulle chances di avere un posto attorno al quadrato vita natural durante, per avere il diritto di trarre conclusioni dalla diretta esperienza della volgente "terza preparazione".
Come sempre i guidatori delle grandi propagande lavorano, purtroppo con successo, a far sì che sugli scenari di primo piano le folle ravvisino cause e colpe del pericolo di guerra in fattori ideali, morali, sopratutto nazionali, nel fatto che non solo certi determinati governi e classi dominanti, ma certi determinati popoli, nazioni, razze perfino, presi da una indomabile sete di dominio e di sangue, provochino, minaccino, si accingano ad aggredire il resto del mondo, ove invece masse, folle, élites, uomini di stato sarebbero propensi alla pace, al disarmo, al commovente generale idillio.
Tutti fanno spade e cannoni, ma tutti dichiarano che se non ci fossero quegli altri, i cattivi, i crudeli, i figli del Maligno, sarebbero pronti a dedicarsi esclusivamente alla coltura dei rami di olivo, all'allevamento delle colombe.
Duro lavor negli anni, e non lieve (come al buon poeta della borghesia giacobina sembrava il minare il Vaticano) ma durissimo, è quello di gettare luce su ciò che sta dietro le quinte, le scene, le chiuse porte del tempio di Giano, liberandosi dai bestiali odii di razza e di nazione, per collegare la guerra alle sue vere e materiali cause economiche e sociali, allo svolgersi del processo produttivo e ai rapporti e contrasti di classe.
Ieri
Non di Marte, di Thor, o di Michele Arcangelo ci occuperemo qui, ma di un Dio antico quanto loro, tremendo più di loro al tempo moderno, l'Acciaio.
Al tempo di Marx non era ancora l'acciaio l'indice espressivo del modo di produzione capitalistico, utile al confronto dello sviluppo industriale tra i vari paesi. Serviva meglio il numero dei fusi per i telai da cotone. Il Medio Evo aveva vestiti gli uomini di acciaio ed avuta una fioritura di armerie e fabbriche di corazze e lame. La borghesia, dandosi l'aria di aborrire gli eccessi di quella crudele e sanguinaria età, preannunziava l'era civile in cui si sarebbero vestiti delle stesse lane e cotonine i ci-devant baroni e i nudi aborigeni della Papuasia. Egalité, fraternité.
Da allora il marxismo non credette a questo, e denudò la sottostruttura feroce e sanguinaria del modo capitalistico di organizzare il mondo, scrivendo le leggi dell'orbita che esso avrebbe descritto verso sempre maggiore potenza di classe, prepotenza, oppressione, e distruzione delle masse umane. L'analisi e la prospettiva nostre stanno in piedi da allora; non potevano essere più pessimiste sullo svolgimento dell'epoca borghese. Questa non poteva dare loro conferme più piene di quelle che ha date.
Dobbiamo arrivare al 1880 perché le statistiche della produzione mondiale di acciaio divengano eloquenti: epoca di pace, e l'acciaio serviva a fare macchine e locomotive, navi ed aratri, lo si sa bene. Parlino tuttavia un poco le cifre.
Seguiremo sei soli paesi, perché tutti gli altri, all'incirca, non aggiungono che l'ultimo decimo alla massa prodotta nel mondo. Saranno i big six, e per il 1880 ce ne bastano quattro soli. Troviamo in prima linea la cotoniera Inghilterra, con un milione e trecentomila tonnellate annue di acciaio, subito dopo gli Stati Uniti di America con 1.200.000, la Germania, staccata, con 700, la Francia con 400. Totale 3.600.000 tonnellate. Le cifre nelle varie fonti variano non poco, ma bastano quelle arrotondate al nostro fine.
Passano oltre trent'anni di pace borghese, di civile progresso, di giuggiolismo liberale e riformista, di ironie cretine di tutti i revisionisti prolifici di analisi e di prospettive, cangianti colle stagioni della moda, a carico delle fallite visioni catastrofiche di Marx. Giungiamo alla piena epoca della concentrazione e dell'imperialismo, all'epoca di Lenin, alla gestazione della Prima Guerra Mondiale nel turpe ventre del capitalismo.
Nelle statistiche del 1913 la quantità del 1880 è divenuta nientemeno che venti volte maggiore. La popolazione della terra sarà cresciuta del 25%; la sua soddisfazione con consumi utili, i cibi, le case, il vestiario, e mettiamoci un poco di quell'acciaio (sebbene un aratro pesi meno delle zappe che rimpiazza, una fresa delle lime, e così via, tenendo conto che i pennini di acciaio hanno sostituito tutte le penne di oca con vantaggio della produzione di fesserie) concediamo che si sia raddoppiata; negando sempre alla borghesia anche nella fase iniziale di aver accresciuto il vero benessere. La sproporzione tra i due rapporti resta paurosa. Può essa non avere influenza sullo svolgersi degli eventi mondiali? Non basta una causa di tanta mole, prima e significativa ma non certo unica nel quadro della virulenza del Capitale, al prorompere di effetti imponenti? No, occorre il babau, il cattivaccio, il tiranno da tragedia, l'orda dei barbari che proviene, chi sa come, dal di fuori di questo magnifico mondo dell'economia borghese!
Della nuova cifra di 71 milioni di tonnellate annue di acciaio già la parte maggiore, nel 1913, la producono gli Stati Uniti: 31 milioni. Dopo 33 anni, venti volte di più. La Gran Bretagna, a primato perduto, con 10 milioni e poco più ha fatto un balzo minore. Intanto l'industrialismo capitalista ha fatto passi da gigante nel terzo grande, la Germania, che si è posta tra i due primi con oltre 19 milioni aumentando 27 volte. La Francia ha poco più di 5 milioni. Dobbiamo allineare due altri personaggi: la Russia, con forse 5 milioni, il Giappone, che si limita a 200.000 tonnellate, pure essendo stato vincitore di quella.
I possessori di queste masse metalliche organizzate in mostri semoventi si guardano ferocemente nella contesa di giacimenti minerari, di carbone, di petrolio e di mercati di consumo; con l'altezza delle cifre della produzione cresce il concentramento in grandi aziende, l'alleanza internazionale tra gruppi di queste, la pressione sulle masse lavoratrici dell'industria, sulle popolazioni dei paesi non industriali. Lenin ricalcola, da osservazioni, le posizioni previste dalla teoria sull'orbita che, coerentemente al progredire di questi dati di produzione, vede crescere la pressione del potere borghese, lo smascheramento della dittatura di classe, il carattere schiavistico della oppressione salariata e della "civilizzazione" delle razze non bianche. Non fa una nuova analisi; dimostra che vige in pieno la prima, quella di Marx, che ci deve servire, a noi classe, a noi partito, fin quando scriveremo nel registro delle letture da osservazioni: in tutto il mondo, il capitalismo è stato ucciso; e poi ancora: il sozzo suo cadavere è stato rimosso. Non è una nuova tappa del capitalismo, ossia una tappa diversa e imprevista, è la più recente, e in certe traduzioni del titolo la suprema fase, quella che più avvicina alla esplosione, quella che da tanto tempo era attesa, quella che non occorreva per aumentare il nostro odio, già integrale, ma per alimentare la nostra speranza.
Sono quelle cifre con troppi zeri che preparano la guerra e prendono il posto delle varie Elene e dell'incriminamento ingenuo delle varie Troie. Un solo, immenso troione ha fatto il sinistro lavoro: il capitale.
Con le nuove cifre, il concorrente più affamato di sbocchi e di colonie economiche e politiche, la Germania, può in Europa guardare da pari a pari i suoi rivali. La produzione tedesca pareggia quella di Inghilterra Francia e Russia messe insieme. Siamo alla prima guerra imperialista. La guerra in epoca capitalistica, ossia il più feroce tipo di guerra, è la crisi prodotta inevitabilmente dalla necessità di consumare l'acciaio prodotto, e dalla necessità di lottare per il diritto di monopolio a produrre altro acciaio. Sono gli inevitabili sbocchi del modo borghese di produzione, le fatalità tanto rimproverate dalla saggezza dei caca-dubbi pseudo-scientifici alla ardente prosa di Carlo Marx.
Ma come il finto pacifismo borghese era stato sbugiardato dalla discesa in campo - poi documentata come freddamente premeditata dagli stessi governanti - della pretesa non militarista Inghilterra, un secondo evento viene a mutare tutto il rapporto delle forze, allorché l'altro campione della "neutralità", del "non intervento", del tipo di civiltà "non militare", getta nell'incendio della lotta i suoi trenta milioni di tonnellate, perché anche questi non potevano più dormire. La Germania è schiacciata.
La "storia del lupo" si racconta per i fessi, democraticamente fortissimi, tutta diversa. La guerra non ci sarebbe stata se non fosse esistito un popolo, quello tedesco, imbevuto di spirito bellicoso, militare, nazionale, imperiale, e se i fumi più ubriacanti di questo "spirito" non fossero saliti al malato cervello di un unico paranoico, megalomane, frenetico despota, che a un dato giorno scosse il cordone del campanello e invece di chiamare per il caffelatte gridò alla storia: la guerra sia! Trattossi allora di Guglielmone di Hohenzollern, di cui tutto si disse, per elevare teoremi di questa forza, che per volontà di un solo sodomita milioni di virili guerrieri sguainarono il brando. Dateci la scampanellata, il passaggio della frontiera belga e il siluro nello scafo del Lusitania, e le avverse tonnellate di acciaio, in numero di cinquanta milioni contro venti, sono assolte davanti agli uomini e a Dio, in virtù della loro buona intenzione tradita di essere cinquanta milioni di tonnellate di latte-miele.
Lo "spirito" guerriero e i fumi della sua volatilizzazione sono privi di peso e non si possono mettere sulla bilancia della statistica. È perciò molto comodo e facile farne i protagonisti, attribuirli in massa ad una nazione e ad un governo, e dichiararne immune il proprio regime e il proprio paese. Noi ci teniamo sul solido, e seguiamo con le cifre dell'acciaio. Non è lo spirito, buono o cattivo, che governa il mondo, ma la forza degli agenti materiali.
La Germania fu bensì vinta ma non occupata né disarmata. Gli altiforni e i convertitori si rimisero al lavoro in tutto il mondo. Subito dopo la guerra le cifre ripresero a salire ovunque, e alla vigilia della crisi del 1929 avevano superato l'anteguerra: nei sei paesi considerati 108 milioni contro i 71 del 1913. La crisi butta giù la produzione nel 1932 a soli 40 milioni circa. La crisi economica è stata potente, ma la crisi politica la ha preceduta nel suo acme, e il capitalismo mondiale le ha superate. I suoi centri di direzione ne sanno abbastanza sull'analisi e la prospettiva: prima di un'altra crisi al tempo stesso economica e politica, un'altra guerra generale.
Al 1938-1939 il fragore delle acciaierie batte il suo pieno. Siamo ben oltre i 100 milioni di tonnellate annue. La Germania ha fatto del suo meglio: oltre 23 milioni, molto più del 1913. L'Inghilterra è sullo stesso piede di 10, ma forzerà nel '39 a quasi 14 milioni, la Francia forzerà pure da 6 a 8,5. La Germania le sovrasta di nuovo, ma vi è un altro personaggio, la Russia. La rivoluzione antifeudale nei suoi complessi sviluppi non poteva non tradursi storicamente in indice acciaio: sono già 18-19 milioni di tonnellate ad oriente del "nuovo pazzo", Hitler. Ad oriente più ancora era il Giappone, ma col solo indice di 5 milioni. Era Hitler, col suo stato maggiore di gente straordinariamente in gamba, tanto pazzo da non fare i conti con la cifra americana, che da 29 milioni di tonn., con una frustata che era una erotica carezza alle casseforti dei siderurgici, si era portata a 47? Anche un pazzo avrebbe levato le mani e calate le brache. Il freddo lucido e rigido Dio non volle, e la guerra, ancora, fu.
Oggi
Vinta dagli "spiriti buoni" la Seconda Guerra, il trattamento da fare alla criminosa e turbolenta Germania si decide a Yalta (febbraio 1945) e si conferma a Potsdam (2 agosto). Picchiando sul popolo folle e sulla sua sinistra gerarchia nazista, i convenuti assicurano il mondo che non sarà mai più turbata la pace, e non vi sarà una terza guerra. Impedito che vi sia in Germania un governo e una industria, non vi potranno più nel mondo essere aggressioni: pacifisti, i governi e le razze anglosassoni slave e latine potranno vivere in pace. E allora? Chiusura delle acciaierie di tutto il mondo, salvo la piccola percentuale per le pennine da scrivere e i tondini del cemento armato? Adagio, Biagio!
Già nella Conferenza tenuta a Mosca il 30 ottobre 1943 vi era stata la solenne Dichiarazione sulle atrocità, a seguito della quale vi fu la gara di impiccagioni, di cui non abbiamo le statistiche, tra russi e occidentali. Non è servibile quella ricetta per le atrocità denunziate dai due lati oggi in Corea?
Si fece un elenco di 858 fabbriche da smantellare o saccheggiare (pare che i russi la abbiano capita meglio, portando via tutto l'acciaio strumentato), e si pose un limite solenne al culto della demoniaca deità siderurgica: la Germania non avrebbe potuto produrre più di 7,5 milioni di tonnellate di acciaio all'anno, di diritto, e di fatto se ne autorizzarono 5,8. Ciò, si disse, contro la media normale di 14, ma in effetti contro il massimo già ricordato di 23. Con ciò il mondo dell'economia industriale ci ha dato atto che del suo potenziale meccanico tre quarti almeno li riconosce destinati ad ammazzare.
Grave errore sarebbe trarne la conseguenza che i cento e più milioni di tonnellate mondiali delle vigilie di guerra, una volta privato lo spirito teutonico di testa e di scheletro, potevano limitarsi ad una trentina: ciò significherebbe ammettere che il capitalismo possa pianificare la vita dell'umanità, mentre non può altro pianificare che la distruzione e l'oppressione.
Già nel 1946 la corsa è ripresa; accentuata nel 1947 quando è incominciata la nuova "tensione", ha ricevuto in questa fine del 1950 una ulteriore tremenda accelerazione di cui le cifre metteranno spavento quando saranno note. Almeno 125 milioni di tonnellate hanno nel 1947 prodotto i sei grandi paesi, benché il Giappone sia sceso ad un milione soltanto. La Gran Bretagna era al suo massimo del 1939: 13 milioni (lasciamo fuori sempre gli anni di guerra guerreggiata in cui la produzione siderurgica "frie e magna" come si dice in Napoli). La Francia al limite 1938 di 6 milioni, la Germania schiacciata a 3 milioni soli, la Russia per il 1945 a circa 21 milioni, col piano '46-'50 fissato in 24,5 milioni annui, ossia un quarto in più dell'altro anteguerra. E gli Stati Uniti? Contro i 29 milioni 1932, e 47 milioni 1939, ne hanno prodotti nel 1946 ben 60, nel 1947 ben 77, nel '48 ottantadue, e in questi ultimi tempi hanno dato il via ad una frenesia industriale che per lo meno li porterà a produrre tanto acciaio quanto alla vigilia della seconda guerra ne produceva il mondo intiero.
Fermiamoci a supporre per un momento che invece delle due guerre, che hanno impresso questo po' po' di terremoto alla curva del fenomeno esaminato, vi fosse sempre stata la pace borghese, la pace industriale. In circa trentacinque anni la produzione era divenuta venti volte tanto, sarebbe divenuta ancora venti volte maggiore dei 70 milioni 1915, toccando oggi 1400 milioni. Ma tutto questo acciaio non si mangia non si consuma non si distrugge, se non ammazzando i popoli. I due miliardi di uomini pesano circa 140 milioni di tonnellate, produrrebbero solo in un anno dieci volte il peso di acciaio. Gli dei punirono Mida trasformandolo in una massa di oro, il capitalismo trasformerebbe gli uomini in una massa di acciaio, la terra l'acqua e l'aria in cui vivono in una prigione di metallo. La pace borghese ha dunque prospettive più bestiali della guerra. Ma ritorniamo alla realtà.
Dalla parte dell'imperialismo americano e dei suoi agenti e servitori si deplora severamente la sciocchezza commessa a Yalta, e si reclama a gran voce la ripresa della tedesca industria di guerra. Fallito il tentativo di intesa colla Russia alla Conferenza di Mosca dell'aprile 1947, cominciò Marshall a protestare all'Università di Harvard (oggi lo hanno richiamato al potere) e finalmente in agosto si convenne di elevare il limite di produzione tedesca a 11,6 milioni di tonnellate.
Adesso una violentissima campagna americana, contro sempre più deboli resistenze franco inglesi, tende al riarmo della Germania, alla riattivazione di tutta la sua industria pesante, alla formazione di un vero e proprio esercito.
Una delle ultime notizie è quella che le grandissime acciaierie Krupp di Essen non verranno più demolite, come il programma prevedeva.
La cosa non può non produrre emozione tra i parigini, almeno tra quelli che ricordano i colpi della famosa Bertha, il primo cannone che, lanciando all'altezza della stratosfera grossi proiettili con una gittata di 120 km, dal fronte del 1914 cominciò a far piovere a ritmo cronometrico colpi a catena sulla "città fortificata", sul "campo trincerato" di Parigi. Ma, tanto, con i modernissimi brevetti i proiettili possono fare un viaggio solo tra Mosca e Nuova York scavalcando il polo, mentre il pianeta gira sotto di sguincio.
È chiaro che i capi dell'industrialismo e del militarismo americano calcolano che per battere in Europa le forze russe occorre il contributo delle fabbriche e delle divisioni tedesche. Gli stessi elementi, è chiaro, sarebbero utili per le armate russe. Nulla di strano in questo, come nulla di strano nel fatto che i due compari, a Yalta, pianificando di disarmare i tedeschi, non si impegnassero al disarmo reciproco.
Quella che ne esce male è la storia del lupo; ma senza limiti è la pagata impudenza dei suoi giullari.
Quando tutte le radio predicavano dalle capitali alleate perché i "partigiani" e le "resistenze" di tutti i paesi non lesinassero vittime alla "causa della civiltà e della libertà", tutte in perfetta intonazione promisero che una volta dispersi i tedeschi guerre non se ne sarebbero avute più. Tutte caricarono la responsabilità del militarismo mondiale sul sistema di governo tedesco, sull'ideologia tedesca, sul popolo tedesco, sulla razza tedesca. Tutte proposero la soffocazione dello "spirito" tedesco di aggressione, e spesso giunsero a proporre lo sterminio, la estinzione del popolo e della razza in toto.
Su questa folle linea la gran parte del movimento proletario barattò pietosamente i suoi principii, le sue tradizioni, la sua organizzazione, la sua forza, quel tanto di armi e di uomini che avrebbe potuto mobilitare sul piano della guerra sociale.
Ed oggi, dopo appena cinque anni dalla fine della guerra e della seconda orgia di collaborazione nazionale e militare tra proletari e borghesi, tra servi e padroni, siamo già a leggere titoli come questi: Per la salvezza della libertà europea è indispensabile l'armamento della Germania!
Ah! Branco ignobile di porci del potenziale di centomila cavalli! Fino a questo punto arriva la sicurezza che vi inspira l'ingenuità, l'amnesia, la credulità delle masse! Da quarant'anni ci avete ammorbato con questi tedeschi, con il delenda Carthago, gridato senza soste contro tutto quanto sapeva di teutonico, colla bugia, colla farsa, coll'infamia della difesa contro le aggressioni! Più ancora; sono in fondo duemila anni che scocciate. Nella violenta campagna per la preparazione della prima guerra europea e mondiale, uno dei tanti da questo gregge suino di traditori tirò fuori e tradusse nientemeno che la Germania di Tacito, vero opuscolo di propaganda militarista ad uso dei romani, con tutte le descrizioni atte a suscitare odio di razza su questi uomini irsuti e villosi in perenne ricerca di guerra e di strage, tra riti feroci e sacrifizi osceni ai loro iddii tenebrosi. Per avventura a quel tempo ancora non avevano invaso l'impero, ed erano proprio i latini che avevano portato tra quei popoli la loro brama di conquista e di dominio. L'ira di Tacito veniva da qualche dura sconfitta delle imbattute legioni.
Il nuovo imperialismo mentisce quanto l'antico, e quanto l'antico aggioga i combattenti al suo carro di oppressione, suscitando l'odio insensato contro uomini di altra lingua o di altro vello e colore.
Gioca impavido col suo apparato di inganni, forte dei mezzi di mobilitazione degli "spiriti" che gli dà il monopolio della stampa, della scuola, della radio e di tutti i mezzi di propaganda. Ride delle masse che gli sono state vendute dai capi traditori, e soffia loro a distanza di pochi mesi, ieri: attendi nel bosco il soldato tedesco armato, e in nome della libertà piantagli nella schiena un coltello; oggi: riarma il soldato tedesco che al fianco tuo combatterà per quella stessa santissima libertà!
Tanto luminosa e diritta sarebbe stata la via storica per colpire le manovre dei "mangiatori di acciaio", per svergognare il carattere universale e internazionale dell'imperialismo, per indurre le masse chiamate ad armarsi a volgere le bocche delle armi prima contro terra e poi contro il fronte interno degli sfruttatori in tutti i paesi, nella fraternizzazione di tutti gli oppressi di ogni lingua e colore - tanto più appare irreparabile la colpa di quelli che la bandiera proletaria hanno volta in bandiera nazionale e che, dopo tanti e così tremendi nefasti dell'inganno patriottardo e razzista, parlano, nel movimento della classe lavoratrice, di motivi e fini nazionali.
Questa politca di disfattismo è "progressivamente" più disastrosa, secondo che, dal sanguinoso obiettivo di una prossima campagna di guerra, volge a quello di una mentita apologia della mostruosa pace tra le acciaiate centrali capitalistiche; o ancora a quello irreale, assurdo, ma ancora più osceno, di una convivenza tra poteri del capitalismo negriero e poteri della rivoluzione dei lavoratori.
da "Battaglia Comunista" n° 18 del 1950