Donchisciottismo

Ogni tentativo di abbattere il capitalismo, dice Marx, sarebbe donchisciottesco se non si fossero già prodotte in questa società - così com'è - relazioni tra uomini e condizioni produttive adatte alla società futura. Individuare queste relazioni e condizioni dev’essere quindi possibile. Ed è indispensabile per chi non voglia cadere in atteggiamenti utopistici e velleitari. Questa ricerca fa parte di un programma di lavoro che abbiamo raccolto come lascito della Sinistra Comunista e che da quasi vent'anni condividiamo con i nostri lettori.

La serie di nove articoli sul "Programma immediato della rivoluzione proletaria nell'Occidente sviluppato" - di cui pubblichiamo il secondo - è dettata, appunto, dalla necessità di mostrare il comunismo come realtà operante e non come utopia, e di combattere i diffusi atteggiamenti donchisciotteschi di fronte ai caratteri materiali del processo rivoluzionario. Un processo che non è mai cessato, dato che coinvolge permanentemente la struttura economica e i rapporti fra le classi. Proprio per questo la rivoluzione produce da tempo, dialetticamente, una controrivoluzione altrettanto permanente.

Che occorra una controrivoluzione preventiva l'aveva capito bene anche Keynes. Il suo lavoro mirava, per sua esplicita ammissione, ad evitare che il capitalismo, lasciato ai suoi meccanismi spontanei, portasse all'esplosione sociale. Lo sviluppo incessante delle forze produttive, se non fosse frenato dallo stesso capitalismo, provocherebbe una crisi letale per l’attuale modo di produzione. Normalmente la crisi, distruggendo capitale pletorico, permette l'autoregolazione del sistema, ma ha il difetto di provocare rivolte. Per questo i vari fascismi applicarono alla società un correttivo ancora oggi in uso: la crisi distruttrice fu esorcizzata indirizzando il capitale pletorico alla produzione e sostenendo il consumo con piani d'intervento statali. Anche assurdi, se necessario, come "scavare buche al solo scopo di riempirle", secondo una battuta di Keynes. La crisi venne lo stesso e fu necessaria la più devastante guerra della storia per uscirne, ma la borghesia imparò a mettere in atto espedienti per limitare sia la caduta del saggio di profitto che i problemi sociali.

Nonostante ciò, l'enorme forza produttiva sociale odierna è ancora il limite specifico contro cui urta il capitalismo, e non sono affatto scongiurati né la crisi né la rivolta sociale. Quindi l'adozione del sistema neo-keynesiano-fascista è diventata universale. Esso è definito liberistico ma è basato sul controllo statale dell'economia, poiché impone il liberismo contro la naturale tendenza del capitalismo al monopolio e permette di manovrare in modo totalitario il flusso di capitali attraverso espedienti monetari, fiscali, legislativi.

In poche parole, la controrivoluzione continua, ma prepara essa stessa condizioni favorevoli, più mature, per la rivoluzione. Il fascismo, sconfitto militarmente, è stato politicamente adottato. Dopo adeguata rigenerazione, si è rivelato come la forma più adatta al controllo dell'economia e dei rapporti fra le classi. Del resto un fenomeno che nel volgere di un decennio o poco più si era presentato contemporaneamente in paesi come l'Italia, la Germania, gli Stati Uniti, la Russia e il Giappone, con le stesse caratteristiche fondamentali (anche se con abiti diversi), dimostra di essere l'esigenza primaria dell'intero sistema e non certo un errore della storia.

Fascismo, New Deal e stalinismo avevano strutture economico-sociali analoghe e non erano diversi neppure sotto l'aspetto più propriamente ideologico, come è rivelato dalla comune santificazione del lavoro, della patria e della famiglia. Questo tentativo capitalistico di controllare il fatto economico ha per i comunisti estrema importanza, perché sempre più viene calpestata la "libertà" del singolo capitalista, mentre viene esaltato il risultato globale.

La struttura dei nove articoli citati ci permetterà di operare nel tempo un collegamento stretto fra il capitalismo attuale e la fase di transizione, quindi ci occuperemo a più riprese proprio degli aspetti peculiari che la società odierna anticipa rispetto a quella futura. In questo numero il secondo articolo della serie è preceduto da uno studio sulle trasformazioni imposte dal capitalismo maturo sull'intero processo di produzione e che può essere inteso come introduzione a tutta la rivista e anche a lavori futuri. Così ci è parso indispensabile avvicinare prima di tutto il lettore alla metafora di Marx sulle velleità donchisciottesche attraverso l’analisi del processo materiale che ha trasformato l'intero modo di produzione capitalistico. Processo che ha coinvolto non solo le strutture della fabbrica ma anche l'operaio, adattandolo a ciò che sarà la produzione e riproduzione nella società futura. Lo studio è la naturale premessa a tutti i temi sul programma immediato, in quanto li affronta sulla base della natura specifica del capitalismo: l'azienda moderna, dalle mille attività ma sempre basata in ultima istanza sulla fabbrica, non solo espropria capitalisti, ma è già largamente generatrice di strutture che negano le categorie capitalistiche di valore. L'umanità futura ucciderà l'azienda e terrà la fabbrica. Insieme all'azienda si estingueranno anche democrazia, fascismo, filosofia, scienza compartimentata, tutto ciò che è ormai giunto al culmine delle possibilità di utilizzo sociale ed è ormai materia del passato.

Un articolo sugli sviluppi delle manifestazioni partite da Seattle, si collega direttamente alla prassi sociale che, dagli anni '20 in poi, è stata esclusivamente donchisciottesca sia sul versante dei costruttori di socialismo, sia su quello dei velleitari contestatori del capitalismo. Un acuto donchisciottismo si impadronisce sempre di chi si limita a "contestare" alcuni effetti sociali dell'azione del Capitale: la contestazione prevede che si entri nel merito suggerendo soluzioni positive, e ciò ha sempre portato chiunque la praticasse a diventare schiavo del confronto, mentre l'alternativa, cioè il non-capitalismo, cioè il comunismo, è una soluzione negativa, nel senso che, negando ogni categoria esistente presuppone un ben diverso tipo di azione.

Il bersaglio della contestazione è l'azione degli uomini e dei governi, mentre i fatti si svolgono indipendentemente dalla volontà di uomini e governi. Questi ultimi sono sottomessi alla dittatura del Capitale, anonimo, impersonale, per sua natura globalizzante. Non è un caso che la malattia contestataria si riveli anch'essa globale, contagi democraticamente gli individui, al di là dei confini di pittoresche armate multiclassiste o di gelosi custodi dell'ortodossia proletaria. Non per nulla la prassi contestatrice predilige le manifestazioni unitarie, e se poi ci sono alcune parole chiave come "imperialismo", "antifascismo" o "multinazionali" il fronte si amplia, reclutando anche il 99% delle forze di tutti gli pseudo-marxismi sparsi per il mondo. Il "popolo" di Seattle - come giustamente si è autobattezzato dichiarando guerra perenne ad alcune organizzazioni internazionali di controllo - non può uscire da un immediatismo di tipo esistenziale perché si accontenta di attribuire moralisticamente "colpe" al suo nemico, senza riconoscerne la radice materiale; e non può in definitiva che farsi pilotare dal nemico stesso, come del resto hanno sempre fatto tutti gli attivismi nella storia del mondo.

Naturalmente ogni movimento suscitato dal disagio sociale è importante e nessuno può negare che occorra seguire con attenzione il suo svolgersi. Ma da questo punto di vista tutto è importante, dai moti di Los Angeles alla mobilitazione per Lady Diana, dalle statistiche di polizia sulla degenerazione sociale ai due milioni di giovani chiamati a Roma per il comizio del Papa. Marx ed Engels si scrivevano lettere compiaciute ogni qual volta si manifestava la febbre della malattia capitalistica e si rendeva evidente la necessità di una società senza classi.

Le strutture produttive globalizzate furono, secondo Lenin, anticipatrici di forme sociali nuove, perciò una lotta contro i fenomeni sovrastrutturali che da esse sono generati non ha alcun senso, o almeno, ha lo stesso senso dei sit-in degli attori americani in difesa del contadiname. Senza un contesto di scontro classista prevale il moto interiore ideologico basato su pulsioni personali, e si finisce per attribuire caratteri feticistici o demonizzare istituti che, visti in quest'ottica miope, diventano meri apparati di coercizione voluti da uomini prevaricatori.

Gli attuali donchisciotte sono destinati all'insuccesso perché tali istituti non sono il frutto della volontà del demonio di turno, ma del fatto che il capitalismo non può fare a meno di distruggere i vecchi rapporti locali, di cui le borghesie nazionali sono ormai l'impotente riflesso. E’ una sua necessità, che ha conseguenze fondamentali sui centri mondiali imperialistici, e ciò è di grande interesse per ogni comunista che cerchi di indagare sullo svolgersi futuro dei fatti.

In tal senso Commercio britannico, un articolo di Marx ancora inedito in Italia, ci è utilissimo per capire attraverso quali determinazioni la fase imperialistica diventi altamente contraddittoria per le strutture stesse del capitalismo. Il sistema, mentre riesce ad elaborare un piano di controllo sulla produzione in fabbriche ormai mondializzate (unico luogo dove funziona bene la ri-forma delle strutture), non è in grado di predisporne uno per il controllo dei capitali sui mercati. Ma è ovvio che tenta ugualmente in tutti i modi di darsi degli organismi che siano in grado di estendere al mondo "esterno" l'efficienza esistente all'interno della sfera produttiva per mitigare l'anarchia che lo assilla. Così facendo, genera continuamente le forze che contribuiscono ad affossarlo.

Tutto ciò suscita una moralistica indignazione mentre noi proviamo una materialistica soddisfazione. Oggi, nelle più svariate occasioni, si continua ad attingere a piene mani dall’esistente, dai principii di democrazia alla morale corrente sull'ingiustizia, dalla concezione del lavoro come "diritto" alla lotta di classe come confronto giuridico. Fenomeni quali lo sfruttamento, la globalizzazione, le biotecnologie, la mercificazione della "persona", dovrebbero in tal modo soltanto soggiacere a regole differenti. Ma il Capitale non può che diventare più Capitale o sparire: non può fare altro, non può essere "riformato" con regole, espedienti umanitari o ricorsi al diritto. Possono invece essere riformate le strutture al servizio del Capitale, i governi, gli Stati, gli organismi internazionali, possono cioè essere rese più efficienti per lo svolgimento dei loro capitalistici compiti. In fondo è proprio questo che in genere si chiede. Anche la maggior parte dei movimenti anti-riformisti, l'abbiamo visto, lo sono soltanto perché non hanno ancora potuto sedere nei parlamenti.

L'atteggiamento contestatario è oltre tutto in contraddizione con i mezzi che sarebbero adeguati per realizzare le istanze riformiste. Il contestatore è democratico e antifascista, quando è ovvio che, per rendere realistico ogni piano di riforma occorre liberare il potere esecutivo dalle chiacchiere, come sta appunto succedendo ovunque nel mondo. Se vuoi essere "progressista", affermò la Sinistra nel dopoguerra, sii almeno fascista: il fascismo, nella storia, viene dopo la democrazia, è più moderno, quindi è più efficiente per la realizzazione delle aspirazioni riformiste. Essere in contestazione al sistema muovendosi all'insegna dell'antifascismo per la democrazia, è una sciocchezza; credere che un fenomeno passato sia stato generato dalla follia di pochi uomini, e continuare a credere che altri uomini siano all'origine dei guai del mondo, è la stessa cosa.

Sono costanti ideologiche dure a morire. Tra la maggior parte delle migliaia di movimenti che si richiamano a vario titolo al socialismo, al comunismo, alla rivoluzione o semplicemente ad un mondo migliore, non vi è nessuna differenza, spesso neppure nel lessico. Possono essere coinvolti gli aspetti più disparati della vita sociale, dai conflitti di lavoro alle biotecnologie: le credenze e i luoghi comuni si sprecano. Il luogo comune si fa strada nel modo più subdolo persino negli ambienti che si ricollegano ai grandi tentativi storici di rimettere in carreggiata le questioni programmatiche, come quello di Lenin, come quello della Sinistra Comunista cui ci ricolleghiamo. Occorre riconoscere il comunismo per riuscire a smascherare il "luogocomunismo" e a farne a meno. La controrivoluzione ha devastato così a fondo il campo comunista e l'intero movimento operaio, che molti si stupiscono di fronte alla nostra consapevole calma rispetto a quella che è considerata l'immane tragedia della "passività di classe".

Non c'è bisogno di inventare nulla da parte nostra per rispondere, basta copiare il Marx del dopo-quarantotto: è per temprare il partito della rivoluzione che la storia getta nella spazzatura il partito della politica corrente, ed è bene che il proletariato non sia coinvolto. Chi piange sulla disfatta del movimento operaio dimentica che non è affatto sconfitta la rivoluzione ma il ciarpame democratoide rappresentato dallo stalinismo e da ciò che gli è sopravvissuto. Per eliminare definitivamente questo ingombro sulla strada ancora da percorrere, nessuna vittoria parziale può essere utile più della sua definitiva batosta.

Un'altra considerazione di Marx, questa relativa al colpo di stato bonapartista, risponde alla demoralizzazione nei confronti di un avversario considerato onnipotente: la rivoluzione ha lavorato per elevare i consessi democratici solo al fine di farli morire nel ridicolo del cretinismo parlamentare; ora lavora per innalzare i poteri esecutivi "forti" al solo fine di isolarli di fronte ai colpi della rivoluzione. Tutti i grandi apparati mondiali devono farci gridare con Marx: ben scavato vecchia talpa! La globalizzazione del Capitale non è affatto una novità, ma le strutture politiche nate di conseguenza sì: Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale per il Commercio, Banca Mondiale, NATO ecc. non sono la stessa cosa dei vecchi organismi come la Società delle Nazioni o l'ONU. Si tratta di strutture mondiali che rappresentano il nuovo apparato esecutivo. Non sono al servizio di nazioni, bensì del Capitale. Insieme formano un esecutivo mondiale che esce ormai dai dominii delle singole borghesie e che sempre meno ne è controllato.

Si dirà: un esecutivo senza una classe alle spalle? Non proprio. Come facciamo notare nel commento all'articolo di Marx Commercio britannico, il Capitale si è forgiato uno strumento potente di dominio: l'imperialismo americano. Si tratta di un apparato regolatore per il capitalismo globale attraverso gli appositi istituti e, legando a sé le borghesie del mondo, si staglia anch'esso isolato nel mirino della rivoluzione. La vecchia talpa è un movimento materiale, non una battuta di spirito.

Rivista n. 1