Controllo dei consumi, sviluppo dei bisogni umani

Una volta ridotto il volume della produzione con un piano di sottoproduzione che la concentri sui campi necessari, la nuova formazione sociale eserciterà un controllo autoritario sui consumi, combattendo le mode pubblicitarie che creano artificialmente quelli voluttuari e, nello stesso tempo, abolirà di forza ogni sopravvivenza delle attività che alimentano la psicologia reazionaria del consumismo (cfr. punto "d" del Programma rivoluzionario immediato, riunione di Forlì del Partito Comunista Internazionale, 28 dicembre 1952).

Oggi

Nel dopoguerra europeo la politica economica dei partiti nazional-comunisti fu basata, manco a dirlo, sull'aumento dei consumi, reso possibile sia da un aumento dei salari sia, principalmente, attraverso una politica statale dei "consumi sociali". Ancora negli anni '70, in occasione della profonda crisi economica partita dall'aumento del prezzo del petrolio, i tre grossi partiti sedicenti comunisti d'Europa, l'italiano, il francese e lo spagnolo, lanciarono le ultime campagne populiste per sollecitare un intervento dello Stato a favore degli investimenti sociali. Per superare la crisi, diceva per esempio Marchais, segretario del PCF, "occorre un vero cambiamento di rotta, un'altra politica. Questa politica si orienta soprattutto verso un rilancio del consumo popolare e sociale. Un rilancio del consumo popolare è la condizione per l'utilizzazione effettiva dell'apparato industriale". Nello stesso periodo, e sulle stesse basi, il segretario del PCI, Berlinguer, avviava quella politica di corresponsabilità verso la stabilità economica e politica che prese il nome di compromesso storico.

Proudhon, e poi Dühring, furono gli antenati di questo populismo spicciolo. "L'inadeguatezza del consumo popolare, il sottoconsumo artificialmente prodotto, l'ostacolo incontrato dal bisogno popolare nella sua crescita naturale, ciò che rende così criticamente vasta la voragine tra scorta e smercio", ecco la causa delle crisi per Dühring. Non ci soffermeremo qui a riprendere la risposta di Engels, basti pensare che una cinquantina d'anni dopo Keynes faceva dello stimolo al consumo privato e sociale il suo cavallo di battaglia: "I lavori pubblici, anche se di dubbia utilità, possono rendere parecchie volte più del loro costo. La costruzione di piramidi, i terremoti, e persino la guerra possono apportare ricchezza se l'educazione degli uomini di stato nei principii dell'economia classica si oppone ad una soluzione migliore". Contrariamente a quanto egli credesse, però, la proposta di trovare dei sostituti migliori alle piramidi e ai terremoti non costituiva di per sé un superamento dell'economia classica.

Si consumano privatamente oggetti, oppure energia, servizi telefonici e televisivi (questo, è ovvio, anche nell'ambito di consumi "popolari"), e si consumano socialmente strade, parchi, infrastrutture varie, ecc. Il nazionalcomunismo del dopoguerra, in specie quello italico che era meno trogloditico, cioè più modernamente borghese di quello dei vari partiti fratelli, si distingueva per il suo carattere marcatamente keynesiano, vale a dire per la teorizzazione del consumo sociale più che popolare, sottolineando la differenza fra i due termini. Il ragionamento riformistico si può riassumere così: se la funzione del consumo prevede il reddito nazionale come keynesiana variabile indipendente e il consumo come variabile dipendente, e se inoltre la propensione marginale al consumo è tanto più alta quanto più il reddito è basso (cioè un operaio spende tutto un eventuale aumento di salario, mentre per un borghese l'aumento di reddito in pari proporzione è quasi indifferente), allora il salario può essere considerato come una variabile indipendente, al pari del reddito nazionale di cui è parte. In pratica: forzando la distribuzione del reddito si alzano i salari, cresce il consumo e cresce più ancora il profitto, di conseguenza il reddito nazionale.

Sostegno statale a produzione e consumo

Mentre certo sindacalismo ultrasinistro costruiva demagogiche teorie sul salario come variabile indipendente e la Confindustria fingeva di spaventarsi e ne approfittava, al solito, per chiedere vantaggi allo Stato, il PCI ne traeva conclusioni politiche lungimiranti, al pari della borghesia meno stupida: 1) il salario ha una parte differita (cioè non in busta paga, come la previdenza, la salvaguardia dell'ambiente, il prezzo politico dei trasporti, delle cure mediche, ecc.) ed è quella cui occorre badare più che alla cifra visibile a fine mese; 2) consumo e produzione interagiscono, quindi il loro livello dipende dalla capacità dello Stato di sostenere alla fonte il sistema produttivo (ovvero, direbbe Marx, sostenere l'investimento nella sfera dei mezzi di produzione). Ecco spiegate, per esempio, le origini del famigerato protocollo del luglio 1993, battistrada e modello per la politica di tutte le borghesie d'Europa.

In una società moderna il lavoro è altamente socializzato; quindi il rafforzamento dell'apparato produttivo, ottenuto con l'apporto di tutte le componenti sociali attraverso lo Stato, si ripercuote non solo sui singoli soggetti ma su tutta la società, permettendo un ampliamento delle possibilità di consumo. E poiché ciò è in gran parte già avvenuto proprio con l'applicazione delle politiche keynesiane dagli anni '30 in poi, gli interventi attuali in realtà non sono più di stimolo ma di salvataggio. Dato che il sistema di produzione-consumo delle merci è premessa per la riproduzione allargata del Capitale, cioè per la sua stessa sopravvivenza, ogni intervento a tale riguardo è tutto ossigeno per l'asfittico modo di produzione attuale, che sopravvive così in camera di rianimazione continua.

Come le droghe, gli stimolanti economici danno assuefazione. Il sistema ha bisogno di sempre più materia ed energia, dunque di consumare sempre più risorse naturali in rapporto alle risorse umane che richiede. Perciò cresce, anziché diminuire, il divario fra produzione e consumo; o meglio: fra produzione e consumo per la produzione stessa, e consumo degli uomini.

Il ciclo infernale, in cui materia ed energia nel processo produttivo sono in continua trasformazione per valorizzare capitale e non per soddisfare bisogni umani, ha conseguenze catastrofiche sull'ambiente. E' di conseguenza impossibile parlare di consumi senza parlare della produzione che li permette e delle relazioni di entrambi con l'ambiente stesso.

I consumi "privati" hanno spiccate caratteristiche qualitative e quantitative di classe, mentre quelli "sociali" dovrebbero coinvolgere tutte le classi, favorendo, nelle intenzioni dei populisti, quelle meno "abbienti". Ma poiché nel capitalismo è consumo sociale tutto ciò che contribuisce a rafforzare la produzione di mezzi di produzione, la tendenza naturale di tutti i difensori del capitalismo è quella di mettere le politiche economiche al servizio della produzione stessa, cioè crearle un ambiente adatto, dal credito alla fabbrica, dalle infrastrutture che le stanno intorno all'edilizia per chi ci lavora.

La produzione che rende possibili smodati consumi privati e ancor più inumani consumi "sociali" non può essere indirizzata ad altro che ad ingigantirli entrambi incessantemente, per cui produzione e consumo interagiscono in un sistema globale input-output in cui entrano energia e materia e ne escono prodotti e scorie; e siccome anche i prodotti al loro rinnovo diventano scorie, il sistema si allarga disastrosamente all'intera biosfera in cui vivono tutte le classi. Essa in tal modo non soltanto è alterata ma è parte integrante del ciclo produttivo, così come alla singola fabbrica (input) è integrato il singolo scarico (output). Non è un caso che la borghesia (affiancata dai residui della scomparsa nobiltà) abbia scoperto per prima la "difesa" dell'ambiente in cui vive: quest'ultimo finisce per essere troppo simile a quello in cui vivono i proletari, ma soprattutto, senza controllo, finisce per essere alterato a tal punto che la sua degenerazione risulta dannosa persino per la sopravvivenza del capitalismo stesso.

L'ecologismo borghese (si potrebbe togliere l'aggettivo, poiché non può esistere un contrapposto ecologismo "comunista") è un non-senso e la dimostrazione viene dallo stesso ambiente scientifico della borghesia. Lo scienziato, basandosi sulle leggi di dissipazione dell'energia (il secondo principio della termodinamica, entropia), non si nasconde l'impossibilità materiale della sopravvivenza del capitalismo: "La visione di un mondo beato nel quale la popolazione e il capitale rimangono costanti, dopo essere stata esposta con la consueta abilità da John Suart Mill (1848), è rimasta in oblio fino a poco tempo fa. Data la spettacolare rinascita di questo mito di salvezza ecologica, è bene indicarne le numerose pecche logiche e fattuali. L'errore cruciale consiste nel non vedere che, in un ambiente finito, non solo la crescita, ma nemmeno uno stato di crescita zero, anzi, addirittura nemmeno uno stato di contrazione che non converga verso l'annichilimento, può esistere indefinitamente" (Georgescu-Roegen).

Anche su basi fisiche è dunque dimostrato che la dinamica del capitalismo possiede intrinseci elementi di "automatismo" rispetto al suo superamento; rispetto al marxismo queste capitolazioni ideologiche della borghesia di fronte ad esso sono prive dell'elemento sociale, ma vedremo in seguito come il comunismo (che non è un'idea o una "politica" ma un fatto materiale) potrà risolvere i problemi del passaggio politico alla società futura e delle sue realizzazioni pratiche in armonia con le leggi della fisica.

Critiche al consumismo dal suo interno

Introducendo il concetto di entropia persino il borghese, dunque, ammette che il problema del bisogno-consumo (usiamo sempre i termini in senso non moralistico) è strettamente legato non solo a quello dell'ambiente e delle classi ma a invarianti leggi di natura che regolano tutti i fenomeni dell'universo. A qualcuno potranno sembrare esagerate affermazioni del genere, ma intanto tali leggi obbligano la borghesia a produrre studi ponderosi che, anche se non giungono tutti all'estremo citato, sono nati e nascono per dimostrare comunque che consumi e bisogni dovrebbero essere ridimensionati e che occorrerebbe trovare un equilibrio cessando di idolatrare la crescita capitalistica. Il fatto è che la produzione esasperata richiede un consumo altrettanto esasperato, con i riflessi che sappiamo sull'ambiente, e gli studi borghesi contro il consumismo si rivelano un'angosciosa corsa contro l'insorgere delle reazioni sociali dovute ai processi potenzialmente autodistruttivi del capitalismo.

Ora, nessuna delle correnti anticonsumistiche è mai uscita dal ciclo produzione consumo: ha solo sempre proposto di regolarlo. Vi sono aspetti particolarmente evidenti delle trappole che l'anticonsumismo di maniera può tendere anche ai più volonterosi paladini di una "società migliore". Paradigmatico in questo senso è l'impegno di un Beppe Grillo, bravissimo e coinvolgente nel fustigare le mode e gli sprechi di questa società, sempre però dal suo interno: per lui, ad esempio, l'automobile è una merce che deve esistere, certo solo col motore a idrogeno, un combustibile che si può produrre con le cellule fotovoltaiche ("ma v'immaginate il traffico, la vita cittadina, con queste macchine", diceva respirando vapore dal tubo di scarico). La sua verve ecologista anticonsumista, che piace a molti sinistri anche dal punto di vista politico, trova il suo fondamento scientifico nei testi di Marco Morosini, un analista dell'ambiente che lavora a Stoccarda e che milita fra i propugnatori del cosiddetto sviluppo sostenibile, cioè uno "sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro propri bisogni".

Ma l'espressione "sviluppo sostenibile" – con la spiegazione annessa – risulta una palese contraddizione in termini, dato che nessuno sviluppo economico, cioè quantitativo, in linea di principio è sostenibile senza alternanza di sviluppo e crisi; perciò nessun soddisfacimento di bisogni presenti è compatibile con i bisogni umani futuri, dato che lo sviluppo presente è – e non può essere diversamente – accumulo di problemi gravissimi per il futuro. L'enunciato di Morosini ha il suo risvolto politico in un motto che ha il pregio di riassumere in poche parole ciò che ecologisti, anticonsumisti e antiglobalizzatori vanno teorizzando su migliaia di pagine stampate o elettroniche: "Dopo Seattle non basterà più difendere i consumatori. Occorrerà difendere anche i consumati" (citato sul sito di Peacelink nell'articolo Libera volpe in libero pollaio; anche le altre citazioni sono rilevate dal Web). Per difendere il consumatore, "per aumentare il benessere", occorre, sempre secondo Morosini, "ridurre i consumi". Sennonché difesa del consumato, cioè di colui che oggi è impoverito dal sistema del consumo altrui, significa miglioramento del suo "tenore di vita", quindi del suo consumo.

Consumatori e consumati

Dunque difendere i consumatori in ogni modo e sempre. Ma l'uomo non è un consumatore di merci per disposizione innata o legge divina; se nel capitalismo non consuma, cioè non fa girare le fabbriche, muore disoccupato. L'unico "benessere" che il capitalismo conosce è la produzione per la produzione, il consumo è una conseguenza e i bisogni umani non sono presi in considerazione. Perciò difendere da "qualcuno" i consumatori di merci per fare in modo che i consumati diventino a loro volta consumatori significa non solo accettare la società attuale, ma addirittura farne l'apologia sfrenata. Tutti dovremmo diventare "moderati consumatori". Quanto moderati? Giungendo tutti per esempio alla metà del consumo di un americano medio? Secondo i dati ufficiali dovremmo allora triplicare la produzione mondiale d'oggi a popolazione costante. L'altra proposizione cara a questo milieu parapolitico, e logicamente connessa a quanto già detto, è commercio equo e solidale. Addio leggi oggettive della società: il commercio è la sfera della circolazione di merci, dove si realizza il plusvalore, dove regna la legge della jungla, dove perciò nessun delitto è troppo efferato per combattere la concorrenza; chi e che cosa lo farà diventare il luogo dell'equità e della solidarietà? Dei buoni propositi?

A Seattle c'erano i consumatori in strada e i consumati seduti al tavolo degli organismi internazionali. Paradossalmente i consumati chiedevano ai potenti prevaricatori di essere accettati e integrati nel sistema come "uguali", di essere più consumati ancora: occorre avere più capitali in prestito ad equo interesse per realizzare le infrastrutture che servono ad attirare i capitali internazionali. Insomma, chiedevano di poter essere appetibili sui mercati così come lo è qualsiasi merce con buon valore d'uso. Di essere utilizzati razionalmente e non con l'anarchia attuale. Non per caso nelle operazioni di equità internazionale sono coinvolte banche specializzate.

Ne esiste anche una nostrana che si chiama "Banca Etica". Non è uno scherzo. Non è una banca specializzata per il Terzo Mondo: agisce qui da noi, ha sede a Padova e sul suo statuto sta scritto un programma che fa il paio con quello di Morosini: "La finanza eticamente orientata è sensibile alle conseguenze non economiche delle azioni economiche; il credito, in tutte le sue forme, è un diritto umano; l'efficienza e la sobrietà sono componenti della responsabilità etica; il profitto ottenuto dal possesso e scambio di denaro deve essere conseguenza di attività orientata al bene comune e deve essere equamente distribuito tra tutti i soggetti che concorrono alla sua realizzazione; va favorita la partecipazione alle scelte dell'impresa, non solo da parte dei Soci, ma anche dei risparmiatori".

"Bene comune" dal maneggio di denaro? Commentare criticamente simili assunti sarebbe come sparare sulla Croce Rossa; prendiamo quindi semplicemente atto che il mondo borghese e capitalistico ha una sua ramificazione eco-moralistica per nulla alternativa, anzi, così ben integrata, che comprende strumenti-simbolo del capitalismo, come le banche. L'etica e il lessico sono del tutto conseguenti. Quando in Arabia la rivoluzione degli austeri pastori del deserto si scontrò con la civiltà urbana corrotta dei mercanti, il Corano fu certo più "etico" proibendo senz'altro il credito a interesse. Inferiorità morale dei civilizzati!

Le manifestazioni di protesta che da Seattle in poi si sono susseguite e che si ripeteranno in futuro, in realtà sono a difesa di questo mondo consumistico e non contro di esso; chiedendo di migliorarne i meccanismi, chiedono implicitamente che esso sia più efficiente e duraturo. Per parte nostra stiamo sempre attenti a non cadere nell'indifferentismo, a non sottovalutare i riflessi sociali del soggiacente meccanismo economico, ma non si può non registrare che la violenza epidermica espressa dal movimento anti-globalizzazione è consona più alla società dello spettacolo che all'autentica rabbia sociale. Risulta perciò del tutto inadeguata non solo a raggiungere gli obiettivi che si prefiggono i vari movimenti, ma anche a spiegare il malessere materiale delle popolazioni e delle classi. Anche le statistiche sulla criminalità, sui suicidi e sul consumo di Prozac ci danno un indice di malessere sociale, ma non per questo avrebbe senso scendere in piazza con manifestazioni interclassiste.

Il mestiere dei personaggi come Morosini e anche come Grillo ha come risultato, voluto o meno, di convogliare l'attenzione verso progetti di compatibilità entro il sistema, presentato come riformabile, e il tutto viene ricondotto alla fin fine ad un unico grande problema: quello, appunto, dello sviluppo e dei consumi compatibili, lo stesso che sta alla base di innumerevoli commissioni delle Nazioni Unite con i loro studi firmati dai massimi economisti del mondo. Mondo capitalistico come non mai.

La critica riguarda in genere l'incapacità di limitare lo strapotere delle multinazionali da parte delle amministrazioni, globali o locali; le si accusa di farsi anzi loro portavoce e di spianargli la strada verso il dominio sul mondo. E' una critica all'interno dell'economia politica, dato che riguarda l'utilizzo delle risorse in rapporto ai risultati che si sono ottenuti, quindi è un richiamo all'efficienza, al rendimento del capitale investito, come in un'azienda che si rispetti. Non prende di mira solo l’utilizzo delle risorse rispetto ai bisogni, ma anche la loro allocazione sia a livello territoriale e nazionale che a livello mondiale. "Cancella il debito", cantava l'anno scorso Jovanotti a San Remo rivolto al Presidente del Consiglio D’Alema. Un cantante è un cantante, ma quell'appello è una politica seguita da migliaia di persone che credono di essere molto radicali. Invece non è neppure riformismo: più che a una politica assomiglia all'attività filantropica delle associazioni contro le gravi malattie. In alcuni casi i debiti sono stati cancellati, non per pressione della politica neo-missionaria, ma perché il debitore, il quale, nonostante tutto, fa parte di un sistema integrato di produzione-consumo, deve rimanere sul mercato. Senza contare che i vecchi debiti, specie quelli a lunga scadenza, erano già stati praticamente onorati dalla massa degli interessi pagati dissanguando intere popolazioni. E senza contare, inoltre, che il creditore in genere utilizza la rinegoziazione del debito per accendere un nuovo debito, quando sia conveniente l'investimento locale piuttosto che il ritorno tout court dei capitali al paese d’origine.

Riformismo impotente

Del resto questa brava gente che vuole il mercato libero dovrebbe sapere che il livello più alto raggiunto dalla scienza borghese a questo proposito, proprio rispetto alla teoria della distribuzione di risorse, è rappresentato dall’ingegner Vilfredo Pareto il quale, nel 1906, dimostrava con eleganza matematica l'assunto smithiano della "mano invisibile"; e cioè che in ambiente di concorrenza perfetta è impossibile riallocare le risorse "con giustizia". In poche parole: secondo rigorose dimostrazioni di capitalisti, non è matematicamente possibile, nel capitalismo, aumentare il benessere di un consumatore senza diminuire quello di un altro (l'ottimale paretiano è poi stato dimostrato anche con sofisticate modellizzazioni al computer).

Naturalmente potrebbe esservi una distribuzione forzata rispetto alla curva "naturale"; questo, però, che avvenga a favore dei paesi "opulenti" o di quelli "poveri", non si chiama "libero mercato" (situazione di libertà che tra l'altro non è mai esistita) ma fascismo. L'azione del Capitale sugli apparati esecutivi al suo servizio può benissimo produrre una politica di ricollocazione delle risorse, ma soltanto quando ci sia un vantaggio immediato per l'accumulazione. Perciò i governi potranno indifferentemente varare politiche di "oppressione" come di "liberalizzazione" umanitaria, sempre schierando, comunque, apparati di centralizzazione totalitaria, meglio ancora se sovranazionali. Non si può pretendere che il movimento del "consumo compatibile" non sia com'è, ma di certo la sua analisi dei fenomeni degenerativi del sistema globale è ad un livello più basso di quella ufficiale. Se l'economia politica avesse fondamenti scientifici e fosse solo distorta da interessi particolari, sarebbe in effetti sufficiente l'intervento dei governi per rimettere le cose in quadro, con l'utilizzo della scienza odierna, la quale mette già a disposizione abbondanti conoscenze e mezzi per limitare i danni del consumismo e quindi dell'esasperata modifica negativa dell'ambiente.

Non c'è un limite tecnico alla quantità di merci producibili: la vulcanica produzione è in grado di soddisfare bisogni illimitati; ma c'è un limite sociale, cioè legato al modo di produzione capitalistico e all'ambiente in cui esso si manifesta. L'uomo odierno sa già come rigenerare artificialmente ambienti distrutti, e sa da millenni intervenire trasformando terreni incolti in orti e giardini. Le civiltà "idrauliche" d'Asia e l'agricoltura delle abbazie medioevali europee hanno profondamente trasformato il paesaggio. Gli israeliani d'oggi sono assai abili nel propagandare il dry farming, l'agricoltura del deserto, che è in realtà un'arte antica quanto le civiltà mediorientali. Il Sahara è costellato di oasi millenarie che rappresentano ambienti del tutto artefatti in cui si stabilizza un equilibrio climatico che permette un'agricoltura di per sé naturalissima. Erano mirabilmente coltivate, e in parte lo sono ancora, le montagne del Perù, dell'Arabia Felix, dell'India, della Cina, e la produzione che ne derivava non era affatto povera rispetto ai bisogni delle scarse popolazioni locali. L'uomo ha oggi mezzi infinitamente superiori, ma invece di adoperarli dimentica persino quelli antichi, abbandonando opere millenarie alla rovina, dedicandosi all'ingordigia del possesso e del consumo o perlomeno a coltivarne il miraggio con poco edificante invidia universalizzata.

Anche per questa via si dimostra come il Capitale sia il vero limite del capitalismo: la legge della rendita moderna ci dice che è il peggior terreno coltivato a stabilire la base per la quota di valore che va al proprietario, ma è la produttività capitalistica ottenuta sul terreno migliore (investimento) a stabilire se il terreno peggiore debba essere ancora coltivato o abbandonato. Il mondo offre ancora risorse estrattive e terra per l'agricoltura in quantità considerevoli, e la scienza agraria d'oggi permetterebbe di gestire tale disponibilità più di quanto siano disposti ad ammettere gli ecologisti; ma ciò dipende dal capitale che può esservi investito con profitto. Il borghese sa far calcoli precisi sulla razionalità e sulla convenienza dei suoi programmi produttivi, e ciò ha ovviamente un riflesso anche sugli aspetti meno controllabili dell'economia. La sua scienza gli permetterebbe di sostituire molte delle materie prime utilizzate oggi quando queste dovessero diventare troppo scarse e costose per la legge della rendita. Per tutti questi motivi, ad orizzonte limitato, l'ottimismo del borghese ha una sua giustificazione oggettiva, specie oggi che la minaccia di classe sembra sotto controllo. Ma la questione sociale esploderà molto prima che il problema tecnico della finitezza del mondo e della quantità di materie prime diventi acuto, perché il consumismo è più dinamico dei cicli a tempo limitato che la terra può permettere: il ciclo agricolo quasi dovunque è lungo un anno e le materie prime sono sempre più inaccessibili.

E' ovvio che bisogni illimitati sono funzionali ad un capitalismo ottimista, che non potrebbe neppure esistere in quanto modo di produzione senza ricrearne di sempre nuovi e artificiali. Se all'illimitatezza tecnica della produzione si accompagnasse – più di quanto non succeda ora – una limitatezza dei bisogni, il capitalismo non sopravviverebbe un mese a sé stesso. Nel capitalismo ogni bisogno esiste in funzione della produzione e solo la pubblicità si basa sull'assunto bugiardo che la produzione di una data merce esista in funzione di un bisogno. Per questo il bisogno deve essere sempre stimolato, fino all'assurdo, senza che si badi alla sua nocività fisica e sociale.

Il business ecologista, un nuovo bisogno-consumo

I problemi provocati dai costi di estrazione delle materie prime, sono per ora superati grazie al fatto che sempre più plusvalore va alla rendita, la quale per definizione si trasforma, tramite il sistema bancario, in capitale creditizio che l'industria utilizza (a caro prezzo) per reinvestire nell'ulteriore ciclo di produzione del plusvalore. Dato che ogni attività produttiva è trasformazione di materia e dissipazione di energia con relativo residuo da smaltire, vi sono limiti dovuti ai costi sociali dell'iperproduzione-consumo, normalmente chiamati diseconomie esterne alla produzione (Marx fa l'esempio della civiltà della macchina a vapore che insozza l'acqua nello stesso tempo in cui ha bisogno di averla più pura di prima). Queste diseconomie sono esorcizzate provvisoriamente con appositi investimenti tesi ad evitare il collasso ambientale.

Siccome il capitalismo conosce soltanto la via del denaro e ogni intervento non può prescinderne, l'ecologismo non può che diventare oggetto di investimento e di profitto. Questo è un ciclo perverso, perché il bilancio economico non corrisponde al bilancio energetico-sociale, che in questo caso è sempre passivo. Ma il capitalista non vede ciò che vede lo scienziato, anzi, il capitalismo ha il potere di "comprare" la stragrande maggioranza degli scienziati stessi, non tanto con il volgare portafoglio quanto con la sua ideologia, affinché tessano le sue lodi e ne cantino l'immortalità.

Non si tratta di autocelebrazione dovuta a mera vanità di classe. La borghesia si è accorta da un pezzo che la razionalità del sistema impresa cozza contro l'anarchia del sistema ambiente e cerca di porre rimedio a quelle che chiama esternalità negative. La borghesia, finché ha avuto la possibilità di espandere la produzione dal punto di vista della forza produttiva sociale del lavoro e da quello del territorio, non si è affatto preoccupata degli effetti esterni provocati da questa espansione. Un sistema elementare di bisogni e di consumo in crescita era sufficiente come base morale allo sviluppo. Ma a partire dalla crisi del 1929 negli Stati Uniti si fa strada un'esigenza dettata da considerazioni pratiche, una business ethics – estesasi poi anche ai paesi europei – secondo la quale l'intrapresa doveva tenere conto anche dei riflessi sociali e dell’impatto ambientale. Durante la Grande Crisi il capitalismo scopre, attraverso il keynesismo e in definitiva il fascismo, che produzione, quindi bisogni e consumi, possono essere stimolati, cioè essere mantenuti artificialmente ad alto livello attraverso la spesa pubblica: lo Stato diventa strumento per migliorare la mobilità del Capitale sul mercato e, nello stesso tempo, per impedire il naturale formarsi di monopoli troppo potenti. Con lo stimolo statale che drogava il sistema produttivo si ampliarono le condizioni per l'adozione di teorie giustificatrici dell'attività capitalistica sfrenata. Nacque così il "bilancio sociale", un sistema di rendiconto che, affiancandosi al bilancio tradizionale civilistico, illustra i meriti sociali dell’impresa ai suoi interlocutori privilegiati, a coloro cioè che possono vantare sia interessi di capitale che agganci di altro genere (gli stakeholder, coloro che partecipano all'impresa ma sono anche fiduciari, politici di riferimento, lobbisti).

Più il capitalismo diventa inaccettabile dal punto di vista umano, più escogita sistemi per farsi accettare trovando persino degli ammiratori di tendenza. Nel 1962 l'economista Friedman affermava che i dirigenti delle imprese dovevano avere una responsabilità sociale, oltre a quella verso i loro azionisti. E come no: tutte le multinazionali stanno facendo pubblicità sulle riviste economiche internazionali mettendo al centro della loro attenzione… l'Uomo con la maiuscola. Un esempio fra tutti, la Shell, responsabile di un disastro ecologico ed etnico in Nigeria, che annuncia su una panoramica multietnica di volti sorridenti: "Diritti umani, non è una normale priorità nel business", ma, per quanto la riguarda: "E' parte del nostro impegno per lo sviluppo sostenibile bilanciare il progresso economico con la cura ambientale e la responsabilità sociale", poi, in fondo pagina, con caratteri piccolissimi, a scanso di responsabilità: "Ogni società Shell è una distinta entità […] termini come 'noi', 'nostro' sono riferiti al gruppo e non alle specifiche compagnie". Questa attività di pubbliche relazioni non toglie dunque che imprese del genere devastino intere regioni e corrompano governi, così come non è escluso che impegnino i loro capitali in campagne legalitarie e ambientaliste quando ciò sia utile al loro profitto. Il bisogno di ecologia non può essere che consumo di ecologia.

I sistemi legislativi ed esecutivi delle borghesie del mondo affrontano il problema dell'iperconsumo-produzione e dell'ecologia esattamente col criterio degli ecologisti, cioè dal punto di vista del capitalismo. Siccome però devono tentare di risolvere i problemi invece che parlarne soltanto, devono anche assecondare il sistema del denaro-capitale in modo da ottenere effetti pratici sul meccanismo dei bisogni individuali e sociali, vale a dire sulle fabbriche, sui consumatori e sulla società intera. Ora, il sistema di scambio, capitalistico o meno, funziona sulla base di differenziali di valore, e il valore si esprime in denaro da che esso esiste: gli incentivi alla produzione non possono che essere in denaro e i disincentivi anche. Avremo quindi un sistema basato su di un flusso di valore sia nel caso di un differenziale positivo (profitto) sia nel caso contrario, negativo (perdita).

Non può essere diversamente, perché, se ad un livello primitivo lo scambio può solo avvenire quando vi sia un'eccedenza reciproca di valori d'uso, con lo sviluppo della produzione, il motore dello scambio è l'eccedenza di valore monetario. Nello schema di Marx ogni eccedenza di capitale è sempre, nello stesso tempo, eccedenza di merci: D (denaro) diventa D1 (denaro in quantità maggiore) grazie al fatto che una merce M, nel processo di produzione P, diventa M1 (merce con maggior contenuto di valore) nel generale processo di produzione. L'intero capitalismo si basa allora sul flusso ininterrotto di merci e capitali rinnovantisi all'interno del ciclo di produzione e nel mercato: D → M → P → M1 → D1 ecc. Essendo un processo ciclico, è indifferente raffigurarlo incominciando a scrivere da D, M o P, ma il capitalista non riesce a strapparsi di dosso lo spirito mercantile, quindi vede soltanto il processo da D a D1, quello che risponde alla sua percezione immediata di anticipatore di capitale che mira ad un profitto.

Questa visione, limitata alla potenza del denaro che tutto risolve, non può che essere abbracciata anche dai legislatori e dai governanti borghesi chiamati a disciplinare le attività in materia di rovina dell'ambiente per rimediare ai possibili danni all'intero sistema dell'iper-produzione-consumo. Essi quindi escogiteranno qualche espediente per aggiungere o togliere una quota di D tramite quei passaggi M che comportino un pericolo per il sistema capitalistico nel suo complesso: cioè, banalmente, elargirà incentivi o graverà di imposta quelle merci. Il legislatore, diminuendo o aumentando d'autorità il loro prezzo d'acquisto e rendendo più o meno conveniente il loro utilizzo, ha effettivamente la possibilità di intervenire, in un particolare momento del ciclo produzione-consumo, per modificarne la natura a favore della salvaguardia ambientale. Egli può utilizzare il denaro, per risolvere tutta la gamma dei problemi di produzione e di mercato, perché esso è l'unico equivalente universale. Il citato Marco Morosini è, ad esempio, uno dei sostenitori di una "fiscalità ecologica europea" per stimolare l'adeguamento della produzione industriale alle esigenze dell'ambiente e dei consumatori (se la benzina costasse di più, le aziende progetterebbero auto dal rendimento migliore che consumino e avvelenino meno ecc.).

Quattro contraddizioni non riformabili

Un simile modello "fiscale" ha il difetto di funzionare a livello locale, cioè nell'ambito particolare in cui lo si utilizza, mentre ha delle contraddizioni insanabili a livello globale. E' ovvio, da quest'ultimo punto di vista, che tutto ciò che interessa l'uomo come specie va osservato dinamicamente nel tempo: come oggi abbiamo ciò che ci hanno lasciato i nostri predecessori, dovremmo preoccuparci di ciò che lasciamo ai nostri successori, in una catena da cui l'egoismo esistenziale dovrebbe essere bandito. L'economia politica non può neppure lontanamente sognarsi di risolvere questo problema, perché il Capitale vuole profitto o interesse a scadenza sempre più breve. Per questo solo l'estinzione dell'economia lascerà il posto alla vera ecologia, a quel metabolismo naturale che tiene conto della specie umana e della sua produzione-riproduzione come di un tutto unico con la biosfera.

Scambiare l'economia con l'ecologia è tipico errore ideologico; sperare che la prima abbia risposte anche contingenti per la seconda è pia illusione smentita dalla legge fisica della trasformazione della materia-energia, la quale richiede un ciclo virtuoso di trasformazione qualitativa e non uno mortale di dissipazione quantitativa. Questa è la contraddizione fondamentale fra capitalisti, legislatori, economisti ed ecologisti da una parte e, dall'altra, i pochissimi scienziati borghesi come il Georgescu-Roegen citato all'inizio: non si può trattare un sistema chiuso, limitato, non sensibile globalmente agli spostamenti locali della dissipazione di energia, come se fosse un sistema aperto, in grado di non dissiparne affatto. In natura la creazione di energia non esiste, c'è solo la sua trasformazione e la sua perdita in forme non più utilizzabili. Anche l'utilizzo di energia eolica, solare, marina ecc. ha il suo risvolto in una finale dissipazione energetica maggiore di quella utile che si ricava localmente dalla natura. A meno di non giungere all'eliminazione del "consumo" in quanto tale, come vedremo, e di rimanere nell'ambito del sistema aperto, cioè della Terra e dell'energia che riceve dal Sole, annullando il ricorso alla sua trasformazione a partire dai minerali. Ma nel capitalismo, per quanto possano durare le riserve, non si possono fare calcoli del genere: finché è accessibile, ogni materia prima è anche immediatamente consumabile; un governo cosciente dei bisogni e dei consumi della specie nel tempo è, in termini di valorizzazione, un assurdo.

Le contraddizioni dell'ecologia fiscale sono insormontabili. In primo luogo il prezzo delle merci su cui il legislatore dovrebbe influire non è stabilito dal singolo capitalista ma deriva dallo stato della produzione di un determinato settore in tutto il mondo. Se un ramo produttivo ha successo nella trasformazione di D in D1, allora vi saranno imprenditori allettati da questo risultato, essi entreranno in quel ramo col solo risultato di far abbassare ulteriormente, con la loro concorrenza, il prezzo delle relative merci facendone aumentare automaticamente la diffusione quindi il consumo. Se un governo agisse d'autorità per aumentare il prezzo di quelle merci tramite tassazione per ragioni ecologiche o anticonsumistiche, potrebbe trovarsi semplicemente nella condizione di uccidere un'industria nazionale, che sarebbe sopraffatta dalla concorrenza. Potrebbe elevare protezioni doganali, ma entrerebbe in contraddizione col sistema del libero mercato e delle sue istituzioni, cui deve aderire proprio per non essere tagliato fuori.

D'altra parte un accordo mondiale si scontrerebbe, come si scontra, con il differente sviluppo dei vari paesi. Predicare il rispetto ecologico a chi si inoltra solo adesso sulla strada dei consumi capitalistici non ha senso; e infatti ogni volta gli interessati rispondono per le rime, come per esempio hanno fatto a gran voce Cina, India e Brasile.

In secondo luogo, il fine della produzione non è il soddisfacimento dei bisogni umani. Ogni merce uscita dalla fabbrica e immessa sul mercato ne esce nel momento in cui è acquistata da un consumatore, il quale paga il suo valore di scambio e usufruisce del suo valore d'uso, che consiste nel soddisfare un bisogno. Se quest'ultimo fosse sempre lo stesso, il modello non sarebbe più dinamico ma statico, in quanto si verrebbe a creare un equilibrio di rimpiazzo delle merci, sempre le stesse per le stesse persone, e non vi sarebbe crescita. Né ha senso pretendere di ridurre il superconsumo di certe popolazioni per ovviare al sottoconsumo di altre: per essere consumatori bisogna disporre di valore, proprio o derivante dall'altrui lavoro, cioè avere un reddito. E' possibile giustificare il movimento complessivo della produzione di merci solo partendo dal presupposto che la produzione ha bisogno di espandersi, e questa è una contraddizione enorme: essa può crescere solo con la creazione di nuovi bisogni presso chi ha troppo reddito (e già troppi bisogni), per cui il legislatore non può che rivelarsi impotente di fronte al consumismo e al relativo danno per l'ambiente.

Terza contraddizione che lega le mani al legislatore è l'impossibilità per la borghesia di stabilire a priori il valore delle merci. Nel sistema dei prezzi questi sono rilevabili a posteriori, quando tutto è già successo in un sistema mondiale estremamente complesso sul quale ogni capitalista non può influire; egli deve guardare a ciò che fanno tutti gli altri per stabilire il prezzo delle proprie merci. Per fare scienza occorrerebbe invece avere una conoscenza a priori, avere quantità misurabili, dati di partenza su cui applicare algoritmi di uso provato e consolidato. Ogni imprenditore può analizzare il proprio ciclo produttivo e trarne dati parziali molto precisi, ma l'intervento su consumi e ambiente necessiterebbe di una conoscenza dell'intero sistema mondiale da parte di un organismo dell'intera umanità per l'intera umanità, e non di nazioni e ditte concorrenti per egoistici interessi nazionali e di classe.

Un'ulteriore contraddizione deriva dal fatto che il sistema del valore di scambio funziona quando un prodotto o un servizio si confronta con denaro e viceversa, o anche si confronta prodotto con prodotto; il confronto diviene però assurdo nel caso della regolamentazione dei consumi e dell'inquinamento ad essi dovuto. Una merce si scambia quando c'è il compratore, e il prezzo medio viene fissato tramite milioni di interazioni; ma non si può, capitalisticamente, fissare il prezzo di una non-cosa, cioè pagare per non avere il consumismo e l'inquinamento. Sono sempre possibili, intendiamoci, calcoli economici anche molto accurati. I danni ambientali sono per esempio valutabili calcolando quanto occorrerebbe investire per ripristinare le condizioni iniziali. Quindi ex post è possibile, per la borghesia, quantificare le già citate esternalità negative. Ma si tratta di interventi possibili a danno avvenuto, di rattoppi su cui innescare operazioni ragionieristiche, incapaci di sfiorare la vera radice del problema.

Domani

Nel modo di produzione capitalistico ogni produttore cerca di differenziarsi dagli altri produttori costruendosi una sua nicchia di mercato, cioè attirando nuovi consumatori con la promessa di soddisfare nuovi bisogni, cosa che potrà avvenire solo con nuove merci. Dato che il suo scopo non è la soddisfazione di bisogni umani ma la realizzazione del profitto, la merce deve ad ogni costo attirare l'attenzione, creare un bisogno per poi soddisfarlo con un valore d'uso, non importa quanto derivante da pura fantasia. In una società in cui la produzione socializzata sia libera da una tale remora, ogni attività umana sarà indirizzata alla ricerca del soddisfacimento di bisogni umani, i quali cambieranno per il semplice fatto che verrà invertito, in un primo tempo, il ciclo D → D1 in M → M1, dove M1 non sarà più espressione di valore ma di cambiamento qualitativo, come avviene ora all'interno della produzione prima che la merce diventi tale sul mercato.

Perciò, mentre in questa società quanto più aumentano i nuovi tipi di merci tanto più crescono i nuovi bisogni da soddisfare, nella nuova saranno i prodotti ad adeguarsi ai bisogni, i quali non nasceranno dalle esigenze della valorizzazione ma dai rapporti fra gli uomini. Mentre oggi la merce diventa un oggetto sempre più estraneo all’individuo, che necessita nello stesso tempo di sempre maggiore denaro per acquistarne in quantità, domani la negazione di essa e la sua metamorfosi in un bene utile eliminerà il problema quantitativo e accentuerà quello qualitativo.

Infatti un uomo non è "povero" in relazione a ciò che possiede, ma in relazione ai bisogni insoddisfatti, i quali non hanno nessun riferimento quantitativo con il possesso di oggetti o denaro. Si può possedere molto ed essere insoddisfatti per ciò che non si possiede ancora, ma non si può possedere tutto. Mentre oggi la produzione di merci che soddisfano bisogni artificiali è strettamente legata alla valorizzazione crescente del Capitale, il cui bisogno è soddisfatto nella pura accumulazione, nella società futura la soddisfazione sarà slegata dal possesso, perché ognuno potrà godere di tutto senza possedere nulla. In questa società, tra l'altro, la capacità di possesso da parte dell'operaio cozza contro la legge della miseria crescente: in proporzione alla massa di plusvalore che egli produce, il suo consumo diminuisce.

Bisogni e merci usa-e-getta

Oggi, più il denaro acquista potenza, cioè capacità generalizzata di scambiarsi con merci equivalenti, più l’individuo perde il controllo sui propri bisogni. Non riuscendo a procurarsi merci in quantità sufficiente rispetto ai bisogni indotti dalle mode consumistiche, la sua frustrazione cresce. Il vulcano produttivo capitalistico deve fornire denaro al consumatore affinché la fabbrica non si fermi mai e il profitto non smetta di alimentare l'accumulazione del Capitale, ma l'aumento della produttività del lavoro fa sì che aumenti la produzione più di quanto aumenti il salario. Abbiamo già visto che il sistema cresce ed è dinamico perché M aumenta, e solo così permette a D di aumentare. Il flusso è circolare ma orientato, ha un senso unico ed è irreversibile. E’ la produzione, la valorizzazione continua dei prodotti che aggiunge valore a M; è lì che avviene la trasformazione del valore d'uso delle merci parziali che vanno a formare quella finale, che a sua volta, sul mercato, sarà venduta al valore di scambio. Ma abbiamo visto che M valorizzata si trasforma in D accresciuto a scapito del salario e, siccome anche il saggio di profitto del capitalista tende a scendere, il maggior valore non andrà tanto a beneficio dei consumi medi, quanto dell'infernale ciclo produttivo.

Domani, la società di transizione al comunismo, eliminando il mercato e quindi la categoria merce, abbasserà drasticamente i consumi anche perché non avrà più nessun interesse nella irreversibilità del processo produttivo capitalistico, che deve produrre merci che non durino troppo, che siano usa-e-getta. Quando scomparirà la divisione assurda tra tempo di vita e tempo di lavoro, gli oggetti d'uso saranno ideati e ingegnerizzati in modo che soddisfino il bisogno di durare efficienti e razionali nel tempo, non quello di sfasciarsi secondo i tempi stabiliti dal marketing. E godranno di una manutenzione accurata ed efficiente finché nuovi bisogni non interverranno a far sentire l'esigenza di oggetti più evoluti.

Ciò non è banale come potrebbe sembrare a prima vista al nostro occhio assuefatto allo spreco. La produzione veramente umana metabolizzerà gli oggetti d'uso, per cui non esisterà la moda, la differenza tra il vecchio e il nuovo come riflesso mentale del bisogno materiale della produzione, tra il vecchio rattoppato e il nuovo fiammante. Tutto sarà immerso in un unico processo, dove gli oggetti e l'ambiente richiameranno il lavoro continuo degli uomini e l'obsoleto lascerà il posto al nuovo in un susseguirsi organico. Scompariranno i cicli economici, dove si discretizza fabbricazione, manutenzione in "garanzia", obsolescenza, riparazione e sostituzione. Allora non avrà più senso il criterio usa-e-getta, oggi indispensabile per ottenere un ciclo breve e diretto, dalla fabbricazione alla dissennata distruzione.

Perciò, mentre le sofisticate merci capitalistiche sono di rozzezza relativa crescente, nel senso di poco valore contenuto rispetto alle conoscenze scientifiche raggiunte (Marx), i prodotti della società futura avranno un altissimo contenuto di valore d'uso, saranno cioè di perfezione relativa crescente, e saranno accuditi esclusivamente in quanto beni utili.

E' assolutamente falso che la cura per l'esistente provochi un inceppamento del progresso tecnologico impedendo il sorgere del nuovo: il bisogno umano spingerà all'innovazione tecnica e scientifica più di quanto non succeda ora, in quanto è proprio adesso che ragioni di investimento, ammortamento, monopolio o altri motivi legati al ciclo del valore di scambio, impediscono in certi casi vere e proprie rivoluzioni tecnologiche. Si possono fare mille esempi di tecnologie rimaste nel cassetto per convenienza economica, brevetti acquistati al solo scopo di impedirne l'utilizzo ecc. Un esempio fra tutti: milioni di ragazzi devono acquistare, nell'intero ciclo scolastico, più di un quintale di costosi libri ognuno. Per di più devono portarsi ogni giorno a scuola una decina di chili di carta. Da anni tutto ciò sarebbe perfettamente ovviabile adottando un banale computer portatile progettato ad hoc, del peso di un libro, dal costo irrisorio, in grado di caricare in memoria biblioteche intere e di durare per tutta la vita scolastica e oltre. Per rimanere nel campo più tecnologico che ci sia, quello dei computer, si sa che una gran parte dell'innovazione non proviene da scelte programmate dell'industria-mercato, ma dalla spontanea ricerca e applicazione di migliaia di appassionati che mettono le loro individuali energie a disposizione di tutti e che sono inferociti contro le multinazionali del settore, oggettivamente d'intralcio nei confronti del potenziale sviluppo.

Quando si abbassa il saggio di profitto (rapporto di valore fra il profitto e il capitale anticipato), significa che il valore finale di M1 supera di poco il valore di M. Allora il capitalista, non potendo agire liberamente sul valore di M, cioè sul suo costo di produzione (le materie che compra da altri e la forza-lavoro), cercherà, attraverso il sistema fabbrica, di aumentare il numero di merci prodotte, in modo da compensare con l'aumento della massa del profitto il saggio diminuito. Cercherà di "produrre" beni nei quali il ridotto valore dell'oggetto sia più che compensato da servizi che all'oggetto possono accompagnarsi, come nel caso dei telefonini, che in sé valgono poco ma sono veicolo di valore. La società futura non avrà nessun bisogno di preoccuparsi dei fenomeni quantitativi di questo genere perché essi, in ciò abbondantemente assecondati dalla politica rivoluzionaria del periodo di transizione, non avranno più nessuna ragione materiale di sussistere.

L'economia del buco-rattoppo e il suo contrario

Soffermiamoci sulla parte centrale della sequenza ciclica prima tratteggiata, quella inerente alla produzione (M ® P ® M1). All'interno della fabbrica, finché non c'è collegamento con il mercato, non c’è scambio di merci ma di prodotti, e questi non hanno perciò valore di scambio ma solo valore d’uso. Nel flusso produttivo non c’è moneta, non c’è mercato, non c’è concorrenza, non c'è scambio ma, appunto, flusso. C'è cooperazione tra uomini che devono raggiungere un risultato. La limitazione dello spreco è garantita dalla finalizzazione delle risorse esistenti in un piano di produzione razionale secondo progetto. Non c'è quindi anarchia.

Una fabbrica, a differenza della società capitalistica, non è un sistema di parti non comunicanti e anzi concorrenti. In essa gli eventuali fenomeni indesiderati provocati dal flusso produttivo non sono per nulla paragonabili a quelle "esternalità negative" citate, le sole intellettualmente accessibili ai vari rattoppatori del Capitale, quelle monetizzabili attraverso gli interventi del legislatore. I fenomeni ambientali in una fabbrica possono essere affrontati come parte integrante del processo produttivo, ne sono una componente e quindi, contrariamente a quanto abbiamo visto, non sono conosciuti a posteriori ma previsti nel progetto generale, trattati come fenomeni sotto controllo e non forieri di affannosi tacòn che sono, come si sa, peggio del buso. In fabbrica la dannosità dell'ambiente, gli incidenti e il pericolo derivano esclusivamente dal risparmio sul capitale anticipato da parte del capitalista: sparito costui, la loro eliminazione diventa un problema tecnico di ordinaria amministrazione.

Le "esternalità negative" esistono perché il sistema ha isole di produzione separate da un mare mercantile che le rende incomunicanti; per questo occorre un ente "esterno" che attribuisca un prezzo agli inconvenienti. Il capitalista e il suo fiancheggiatore ambientalista non possono capire che tutto il sistema può essere ridotto ad un'unica unità produttiva come la fabbrica e che quindi si può eliminare il concetto stesso di "esternalità" monetizzabile. Dal punto di vista della società futura non c'è da una parte l'ambiente e dall'altra la fabbrica che l'inquina: c'è solo un unico sistema complesso che si auto-organizza secondo criteri razionali e non anarchici.

Il programma immediato della rivoluzione ha oggi molte più possibilità di quante se ne potessero intravedere negli anni '50, come mostra l'accento ancora marcatamente "politico" delle citazioni che mettiamo in apertura di questa serie di articoli. Non che ogni rivoluzione non abbia bisogno d'autorità politica e di decisi caratteri totalitari ma, come osserva anche Lenin a proposito della rivoluzione d'Ottobre, meno una rivoluzione è matura dal punto di vista economico, più il potere proletario necessita di forza coercitiva; più è matura, meno è necessario difenderla politicamente, essendo facilitato il compito di assecondare e liberare gli elementi della società nuova già presenti in quella vecchia e responsabili del suo trapasso. La rivoluzione possibile è quindi già in grado di dirigere immediatamente la reale trasformazione qualitativa.

Nel capitalismo maturo il rapporto bisogno-prodotto-consumo-bisogno è giunto al suo limite e gli esempi sono chiari a tutti: nella scassata italietta vi sono 60 milioni di radio, 50 milioni di televisori, 29 milioni di automobili, 70 milioni di telefoni, l'80% di abitazioni in proprietà, ecc. Sono cifre che accompagnano anche la più alta capacità media di risparmio del mondo e dimostrano che un ulteriore consumo di merci senza un frenetico ricambio di quelle esistenti è problematico. Per questo il capitalismo incide continuamente sulla reciproca influenza fra produzione e consumo.

La produzione si mette da sé in rapporto col consumo, dice Marx (Introduzione del '57), gli crea la premessa materiale mettendogli a disposizione l'oggetto che ne giustifica la dinamica. Ma, aggiunge, il consumo a sua volta media la produzione, mettendole a disposizione il soggetto in grado di dare un senso al prodotto. Una ferrovia sulla quale non corrano vagoni pieni di passeggeri sarebbe solo una ferrovia in potenza e non una realtà effettiva. Perciò il prodotto del lavoro umano, a differenza degli oggetti che si trovano in natura, si afferma e si moltiplica attraverso mille forme soltanto in quanto consumato: senza bisogno non vi è produzione, ma senza consumo non vi è riproduzione del bisogno. Questo vale per ogni società basata sul lavoro e sulla produzione, dato che in "ogni insieme organico si esercita un'azione reciproca fra tutti i diversi momenti". Che in generale il consumo sia anche immediatamente produzione e viceversa è un fatto: in natura quando una pianta consuma la combinazione di elementi che le permettono di vivere, osserva ancora Marx, produce sé stessa, cresce, così come fa l'uomo quando consuma il cibo. Produrre in una industria è immediatamente consumare o viceversa, dato che la produzione trasforma materia ed energia e questa trasformazione si può chiamare produzione soltanto quando vi sia il risultato ulteriormente consumabile.

Un conto è però il discorso in generale, un altro è quello legato ai tipi di società, continua Marx. L'invariante è chiaro: in qualsiasi soggetto, individuo o fabbrica, produzione e consumo appaiono come momenti di un solo atto. Ogni merce acquistata è stata prodotta da altri e viene consumata per produrre altra merce per altri mercati (D ® M ® P ® D1 ® M1 ® P1…). Nello stesso schema rientra anche la merce forza-lavoro, che è parte dell'uomo e viene utilizzata nella produzione, si "consuma" e deve essere rigenerata con il salario. Isolando i singoli momenti, è indifferente partire dalla produzione o dal consumo, dipende da cosa si vuol descrivere: se guardiamo alla produzione come elemento centrale essa è fattore non solo di merci ma di un bisogno di consumo; se fissiamo l'attenzione sul bisogno esso pretende la produzione come mezzo per la sua soddisfazione attraverso il consumo; se privilegiamo keynesianamente il consumo, bisogno e produzione sono elementi passivi e vanno stimolati. Il soggetto che osserva, specie nel capitalismo, ha percezione dell'insieme come di un movimento gravitante attorno ai propri interessi particolari, perciò pone indifferentemente un momento o l'altro come effettivo punto di partenza.

Verso una società veramente organica

La società capitalistica non è una società qualsiasi: essa più di tutte quelle che l'hanno preceduta ha fatto della produzione il suo fattore principale e l'ha separato dalla distribuzione esasperando la divisione sociale del lavoro: adesso il soggetto del bisogno è più che mai nella condizione di non averne uno specifico finché non viene prodotta una merce che lo suscita con ossessiva pubblicità e spinta all'emulazione. La merce precede il bisogno, e l'individuo non se ne impossessa immediatamente ma tramite un generalizzato scambio con denaro. Tra il produttore e i prodotti, tra il bisogno e la sua soddisfazione col consumo, si frappone la distribuzione che, tra l'altro, stabilisce secondo leggi sociali quanto prodotto debba essere distribuito ai "produttori" e a quali.

Dato che il processo storico è irreversibile, nella società futura il meccanismo della soddisfazione del bisogno, e quindi della produzione-consumo, non potrà essere un ritorno all'indifferenza primitiva (come vorrebbero gli ecologisti puri). Né potrà essere un compromesso basato sull'equa distribuzione e sulla riforma del meccanismo perché, come abbiamo mostrato, l'accumulazione capitalistica (produzione per la produzione) è sinonimo di indifferenza verso i bisogni umani. Perciò la società futura eliminerà la divisione sociale del lavoro e si terrà il piano di produzione, dimostratosi così efficiente all'interno delle unità produttive, ed estenderà il programma, il progetto, all'intera compagine sociale. Solo quando sparirà la separazione attuale in comparti che comunicano esclusivamente tramite categorie di valore, l'unità dialettica (vale a dire relazionale) tra bisogno, produzione e consumo sarà veramente raggiunta. Non avrà più senso l'ordine in cui si dispongono (ed espongono nella descrizione) i singoli momenti nella società: essa li comprenderà in un effettivo "insieme organico" in cui "si esercita un'azione reciproca" fra le parti. Non vi sarà dunque scambio di merci, bensì una catena di passaggi di valori d'uso, unidirezionale, così come avviene in un normale piano di produzione.

Quando ci si riferisce ad un sistema complesso qual è una società, una spiegazione completa di "insieme organico" comprende non soltanto relazioni generiche ma soprattutto relazioni che, registrate nei meandri della società stessa, sono in grado di modificarla in quanto sistema, cioè di produrre un aumento della conoscenza di sé, rispetto alla sua origine e al suo divenire, di permettere un'accumulazione di tale conoscenza al fine di adoperarla quando sia il momento, utilizzando il suo insieme di cellule differenziate, la sua rete di nervi sensibili, fatta di uomini, organizzazioni, memoria, esperienza. Si dice in questo caso che il sistema produce meno entropia, o che produce neg-entropia, cioè meno dissipazione, cioè informazione nuova. Nessun sistema complesso di questo genere può rimanere indefinitamente uguale a sé stesso, deve cambiare, e più il capitalismo matura più produce gli elementi del suo proprio superamento.

Le necessità dell'accumulazione hanno fatto della società capitalistica il modo di produzione meno organico che ci sia mai stato dal punto di vista delle relazioni fra gli uomini, separati come sono dalla divisione del lavoro e dalla necessità della mediazione tramite lo scambio; ma ne hanno fatto anche il più organico dal punto di vista della produzione sociale che ormai da tempo avvolge il mondo. Spezzando i rapporti capitalistici l'umanità riuscirà a liberare completamente le potenzialità organiche saldando la produzione sociale con l'intera gamma delle relazioni umane, comprese quelle dell'uomo con la natura che lo circonda; e allora sembreranno ridicole tutte le attuali proposte per un capitalismo più vivibile dal punto di vista dei bisogni, del consumo e dei rapporti con l'ambiente.

La transizione è matura

Non si tratta semplicisticamente di stabilire che "faremo" meno automobili perché il trasporto pubblico sarà privilegiato rispetto a quello individuale e il nuovo bisogno sarà quello di andare in autobus; oppure che "faremo" stabilimenti petrolchimici più sicuri perché useremo meno plastica e concimi sintetici nella nostra esistenza rispettosa dell'ecologia; oppure che non "faremo" più scatoloni di cemento per abitazione ma distribuiremo (oh, certo, "come dice Marx") la popolazione sulla superficie terrestre (magari ognuno nella propria villetta!); oppure che utilizzeremo "risorse rinnovabili" per l'energia. Queste sono idiozie che scaturiscono, per pigrizia mentale e adeguamento all'andazzo dominante, da un contesto che attinge, almeno da settantacinque anni a questa parte, al patrimonio dello stalinismo. Lo stalinismo era, come e più dei suoi omologhi sistemi occidentali, adoratore del quantitativismo produttivo e ha lasciato il segno anche nei cultori della diminuzione della mera quantità. Il problema della transizione non si risolve con in testa le categorie quantitative del valore: esse lo rendono insolubile, mentre invece la soluzione è semplice quando le eliminiamo.

Prima di tutto, tra i bisogni dell'umanità ci sarà quello di non estinguersi troppo in fretta a causa di processi messi in moto dalle società classiste. Per quanto sembri eccessiva la preoccupazione, oggi nessuno conosce la sorte futura dell'umanità, non a scadenza delle cedole di un investimento in borsa, ma a qualche secolo più in là. La nuova società incomincerà finalmente, per la prima volta, a preoccuparsi del futuro della specie. Non sarà tanto un bisogno contingente, dettato da situazioni d'allarme immediato, quanto il normale interagire con il mondo di cui fa parte, come fa ogni altra specie. Solo che l'uomo lo farà secondo un progetto razionale.

Se oggi non vi sono conoscenze specifiche in questo campo, vi sono però alcune certezze che hanno il valore di assioma scientifico: primo, l'umanità non è eterna come non lo è nessuna specie, se non altro perché non è eterno il Sole, dato che esso darà qualche fastidio molto prima dei quattro o cinque miliardi di anni calcolati per la sua fine; secondo, non sono eterne le risorse naturali da cui per ora la società trae la sua energia e la sua produzione (in questo caso il tempo si valuta in decenni, non in migliaia di millenni); terzo, ogni sistema produttivo basato sulla crescita è destinato a perire di morte "entropica" (perdita di energia e di ordine, e in questo caso i decenni sono sicuramente pochi); quarto, anche se non fosse basato sulla crescita, se fosse cioè stazionario, ogni sistema produttivo è destinato a morire ugualmente per la stessa ragione (e anche in quest'ultimo caso gli anni si contano a decine e non a migliaia).

Marx, sia nel Manifesto che nella Critica al programma di Gotha, è ancora costretto a tratteggiare la transizione rivoluzionaria come una fase di crescita e parla di aumento della "massa delle forze produttive", di "moltiplicazione delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione", mentre oggi il problema è l'opposto. Dal lassalliano "reddito" collettivo, cioè dal prodotto sociale complessivo che sarebbe da distribuire, egli detrae tra l'altro "una parte supplementare per l'estensione della produzione". Nel testo logicamente distrugge la concezione secondo la quale sopravviverebbero "reddito" e "diritto" alla sua equa distribuzione, perché "questi inconvenienti sono inevitabili [solo] nella prima fase della società comunista", ma in questa fase dà ancora per scontati sia l'aumento quantitativo, sia gli accantonamenti assicurativi contro le catastrofi prodotte dall'uomo o naturali, sia le "spese d'amministrazione, ciò che è destinato alla soddisfazione collettiva dei bisogni come le scuole e un fondo per gli inabili"; tutte misure che sono già risolte dall'esuberanza della forza produttiva sociale, senza bisogno di accantonamenti speciali, persino nel capitalismo (è più che sufficiente l'estremo sviluppo del credito e della ripartizione sistematica del plusvalore all'interno della società).

Durante l'ascesa del capitalismo lo stato stazionario vagheggiato per esempio dal citato J. St. Mill, contemporaneo di Marx, era un'utopia reazionaria che ricordava l'immobilità feudale, mentre le teorie dell'equilibrio senza crescita, tipiche della fase imperialistica, sono semplicemente sciocchezze. L'avanzata della forza produttiva sociale dell'epoca del vapore non doveva ancora fermarsi, l'elettricità non aveva ancora conquistato la produzione e la crescita quantitativa era rivoluzionaria. Oggi nulla più è da "edificare", come invece pretendevano gli edificatori di socialismo con Stalin in testa. La società futura non dovrà più neppure passare attraverso lo stato stazionario, che è una versione edulcorata del quantitativismo produttivo morto per sempre, almeno in potenza. L'attuale bassa crescita mondiale pro-capite, dovuta alla media fra l'alta crescita in aree limitate e la stagnazione in tutte le altre, è la dimostrazione che la ricerca dell'equilibrio non solo è vana ma è controrivoluzionaria perché lo stato stazionario convive benissimo con l'accumulazione sfrenata del capitalismo moderno, con l'iper-consumismo di pochi e con la fame di molti.

Equilibrio economico contro organicità

Un capitalismo in equilibrio è impossibile. O, il che è lo stesso, l'equilibrio capitalistico si basa sulla periodica cancellazione di capitale per mezzo di crisi incontrollabili, acute o striscianti. Ma non è assurda in assoluto una società che entri in una relazione particolare con la natura e in questa relazione trovi il suo equilibrio. La storia ci mostra sia esempi di società espansioniste che esempi di stabilità ed equilibrio. L'impero romano era una società molto più equilibrata del capitalismo ma, come quest'ultimo, mostra una relazione diretta fra l'espansione, la distruzione di risorse e quindi la necessità di espansione ulteriore: per una flotta occorreva una foresta intera, le legioni avevano bisogno di grano e di denaro, il mantenimento dell'Urbe, da sola, rendeva necessario l'accaparramento di risorse immense, ecc. La crescita territoriale, l'unica possibile all'epoca, era perciò un obbligo e un limite. Ma sono esistite società pre-classiste che si configurarono come sistemi in equilibrio. Erano sistemi aperti dal punto di vista dello scambio di energia, perché usufruivano sia di apporti energetici naturali (fiumi, climi favorevoli) che di scambi con altri popoli, anche se non di tipo mercantile. L'Egitto antico, per esempio, fu relativamente stabile e uguale a sé stesso per più di tre millenni grazie alla particolarità del ciclo regolare legato alle piene del Nilo che, rilasciando a scadenze fisse limo fertile e umido, permettevano più raccolti l'anno, facendo di un territorio limitatissimo un bio-sistema ad alto rendimento molto particolare. Inoltre, i nilometri scaglionati lungo il fiume misuravano qualità e quantità di limo offrendo la possibilità di previsioni sul raccolto e quindi una prima forma di programmazione e accantonamento razionale delle scorte, come registra anche la Bibbia. Ancora esente dalla proprietà, dallo sfruttamento del lavoro schiavistico e dal denaro, questa società poté non accumulare e rimanere praticamente identica nel tempo in un rapporto organico quanto esclusivo con la natura. Poté scaricare la sua esuberanza sociale in costruzioni e attività che oggi noi non riusciamo neppure a comprendere, condizionati come siamo, nel paragone, dal nostro concetto di esuberanza produttiva, cioè di spreco. A proposito di spreco, ora l'Egitto blocca tutto il limo del Nilo con la diga di Assuan e acquista concimi chimici per sostituirlo; probabilmente non ricava tanto valore in elettricità quanto gli costano i concimi, e mineralizza, sterilizzandolo, un suolo che fu fertile per 5.000 anni.

Oggi un bio-sistema organico ad alto rendimento non potrebbe più essere dato dalla natura. Ma potrebbe benissimo essere progettato coscientemente a livello mondiale da un'umanità che ha ben altri mezzi rispetto a quella egizia antica. Un'umanità che ha già scoperto l'antitesi fra equilibrio economico e organicità, ma che per ora tratta questa scoperta come una curiosità scientifica di cui nessuno sa che farsene.

Fine dei sistemi "produttivi"

Il potenziale per cambiare c'è. Non con il capitalismo, però. Entro questo sistema non ci possono essere soluzioni né organiche né aperte, nonostante l'auspicio di Popper e del suo allievo Soros. Non solo perché il sistema è definitivamente sviluppato e ha raggiunto i limiti del globo terracqueo, diventando un sistema chiuso, ma soprattutto perché ha bisogno di accumulare e perciò aborre l'equilibrio. Anche se stessimo ad ascoltare i cultori delle balle spaziali per renderlo nuovamente aperto cercando spazio vitale su altri pianeti, il bilancio energetico per abbandonare la Terra o addirittura il sistema solare non può che essere negativo: ci vorrebbe più energia di quanta se ne ricaverebbe da qualsiasi risorsa che si andasse a cercare così lontano. Ogni fantascientifica evasione spaziale è negata.

L'umanità non farà, come adesso, i suoi calcoli basandosi sulla "navigazione a vista", cioè non improvviserà soluzioni esistenziali per l'oggi senza pensare al domani e nemmeno si limiterà al tempo di un paio di generazioni. Perciò il primo "bisogno" dell'umanità di domani sarà quello di valutare seriamente quale potrà essere il suo futuro sia immediato che lontano. Siccome è già assodato che l'esistenza di ogni sistema produttivo ha un limite, questo primo bisogno fondamentale sarà quello di adeguare l'esistenza della specie a un nuovo sistema che non sia "produttivo" ma che produca secondo altri criteri. Di qui discenderanno i nuovi bisogni, i nuovi consumi e il nuovo modo di vivere dell'umanità in armonia con la biosfera.

Questo processo non è semplicemente "ipotizzabile", non stiamo parlando di una ennesima utopia, stiamo parlando di una scienza che oggi si chiama impropriamente "marxismo" ma che è uno tra i tanti elementi della conoscenza che l'umanità ha accumulato, nonostante il cattivo uso di classe che ne fa (anche cattivo uso del marxismo da parte del proletariato, certo).

Attribuiremmo all'umanità nuova un notevole grado di stupidità se pensassimo che essa procederà più o meno come adesso, soltanto emanando decreti per proibire certe attività o indirizzarne altre, sovrintendendo con appositi organismi alla eliminazione del lavoro salariato e del denaro.

La tenacia e la forza con cui il comunismo ha criticato la scienza borghese non erano suscitati dalla pochezza di questa, dato che sarebbe sciocco non riconoscerne i grandi risultati: gli attacchi sono sempre stati diretti contro l'impossibilità di questa scienza, nonostante le sue grandiose realizzazioni ("grandiosa, non commestibile civiltà"), di prevedere il futuro della specie umana, poiché utilizza ogni scoperta per fare l'apologia di sé stessa, inquinando purtroppo anche il cervello di molti pseudocomunisti.

Il programma immediato della rivoluzione contempla la fine del sistema produttivo e dell'avvio del sistema organico in senso biologico-cibernetico (cibernetica, letteralmente = arte del guidare; in senso moderno = arte dell'ottenere risultati secondo un programma). Siccome più che in passato nessun individuo o gruppo del tipo di quelli esistenti potrà essere depositario di un programma così vasto, l'umanità dovrà dar vita a un organismo di tipo nuovo che rappresenti il suo divenire e lo anticipi in sé. Ecco il motivo per cui la Sinistra Comunista "italiana" iniziò già negli anni '20 a parlare di partito come compagine organica in senso biologico-cibernetico, si sforzò di realizzarne le premesse e pretese che l'Internazionale intera facesse altrettanto. Applicare gli aggettivi biologico e cibernetico al partito può sembrare una novità ardita, ma il concetto è classico del marxismo. Non ci stancheremo mai di ripetere che la continuità consiste soprattutto nell'individuare invarianti e maneggiarli secondo le trasformazioni avvenute, e anche l'organo della classe non si sottrae a questo criterio.

La biologia moderna ha origine nella seconda metà dell'800 e solo recentemente si integra con la chimica, e soprattutto con la fisica, permettendoci di utilizzarla per rafforzare il concetto di organicità. Il termine cibernetica ha origine ancora prima, con Ampère, nella prima metà dell'800, e da concetto si trasforma in scienza intorno alla Seconda Guerra Mondiale: ogni organismo vivente nasce, cresce e si riproduce secondo un programma registrato a livello molecolare, il quale stabilisce quali debbano essere gli apporti differenziati delle parti che si integrano nel tutto. Come si vede non solo c'è corrispondenza generale tra fisica, cibernetica e biologia, ma la concezione organica della società futura e del partito che la rappresenta in anticipo – propria del comunismo e registrata con precisione solo dalla Sinistra Comunista – collima in modo del tutto conseguente anche con il discorso specifico che stiamo facendo a proposito dell'umanità futura.

Dalla produzione di merci ai bisogni umani

Se dunque ogni sistema produttivo è dissipativo e ha limiti fisici non soltanto per quanto riguarda la sua crescita, ma anche per quanto riguarda la sua durata pur senza crescita, allora che cos'è il sistema biologico-cibernetico che caratterizzerà la società futura? In che cosa consisteranno la sua produzione-riproduzione, i suoi bisogni, il suo consumo?

Nei Grundrisse Marx annota che, con il capitalismo, la scienza viene integrata nei mezzi di produzione e rappresenta il maggior contributo allo sviluppo della forza produttiva sociale. Con questo sviluppo si incrementava anche la conoscenza del mondo fisico e delle sue leggi, quindi all'epoca il processo aveva caratteristiche di crescita esponenziale. Oggi tutti i maggiori studiosi di modelli economici basati sui fenomeni di crescita tengono in gran conto l'apporto della scienza, ma sono tutti d'accordo nel sostenere che vi è una "legge dei rendimenti decrescenti della tecnologia". Il motivo di questa unanime posizione è assai chiaro: la tecnologia è impotente a risolvere il problema del bisogno di crescita legato al ciclo capitalistico produzione-consumo. Possiamo avere le migliori scoperte scientifiche, ma se le nuove merci, prodotte con nuovi metodi, non riescono a creare nuovi bisogni e quindi un mercato specifico aggiuntivo, tali scoperte non serviranno a nulla. Affinché la scienza abbia la possibilità di manifestare in pieno il suo potere d'innovazione occorre spezzare il ciclo capitalistico.

Come la biologia, la chimica e la fisica si stanno integrando in una sola conoscenza, così l'economia politica si integra, anzi, viene sostituita dall'ecologia, intesa quest'ultima nell'accezione originaria, come scienza delle relazioni tra il vivente e l'ambiente di cui esso fa parte, e non come particolare "politica" ambientale. Dato che, come abbiamo visto, vi è un limite fisico ad ogni tipo di economia-produzione quantitativa, questi passaggi nella conoscenza devono necessariamente comportare nel tempo anche il passaggio conseguente a livello di sistema sociale. Addirittura, se lo intravediamo nella teoria, significa che esso è già in corso nella prassi, dato che il pensiero per ora si forma su di questa. Qualunque sia la durata delle riserve minerarie della Terra, occorrerà dunque passare dall'utilizzo di materia ed energia estratte a perdere e tendere verso un ciclo nel quale sempre più ogni risorsa derivi da un rinnovarsi periodico di quanto viene consumato. E ciò non può avvenire in un "sistema di produzione", ma soltanto in un processo bio-cibernetico, vale a dire in un processo guidato da un programma cosciente di armonizzazione tra il vivente e il suo habitat, basato sulla conoscenza profonda di tutti i parametri di riproduzione biologica di gran parte delle risorse. Questo processo non dovrebbe affatto essere inteso come un impossibile e per nulla auspicabile "ritorno alla natura", ma come massima applicazione della scienza al ciclo vitale della specie. Solo in questo modo l'umanità potrà tener conto, nello stesso tempo, delle generazioni passate e della conoscenza acquisita, di quelle presenti e di quelle future, in una autentica vita di specie.

Invece nella società capitalistica non si può far altro che contabilizzare valori di scambio in senso contingente, affannarsi tra produzione, mercato e consumo affinché questi valori si accrescano. E ogni organismo economico e politico che il Capitale si è dato non può far altro che adoperarsi affinché gli uomini si pieghino con le buone o le cattive alle esigenze della valorizzazione. I bisogni dipendono totalmente dal modo di produzione e non viceversa. Per fare un esempio: in generale, se un uomo vive in Alaska o in Siberia, il suo bisogno è di non patire il freddo. Ma se un tempo cercava semplicemente di non morire ghiacciato mettendosi una pelliccia, accendendo della legna e costruendo una capanna, adesso avrà bisogno di abitare in una casa calda e confortevole. Vivrà come i suoi simili in tutto il mondo, abbandonando i materiali ricostituibili e utilizzando al loro posto petrolio, carbone, energia elettrica, mattoni, acciaio, cemento, vetro ecc. Tutto in grande quantità, per via del clima avverso, con ulteriore perforazione della Terra, costruzione di condutture e linee ad alta tensione, acciaierie e altre industrie, le quali avranno bisogno di altre materie prime ecc. Un analogo discorso vale per quanto riguarda i deserti arroventati e le aree tropicali umide e paludose.

Ma dovrebbe essere evidente che il vivere in posti inabitabili non l'ha ordinato un dio perverso né una infame legge degli uomini: è avvenuto secondo spinte materiali incontrollabili lungo millenni, seguendo gli animali da cibo, fuggendo pericoli, cercando nuovi spazii rispetto a terre diventate insufficienti e inospitali. La stessa spinta all’urbanizzazione è stata effetto della produzione e della ricerca di condizioni ambientali migliori per la sopravvivenza dei primi nuclei sociali più complessi del clan e della tribù. Va da sé che in un sistema caratterizzato da un piano di specie a livello planetario anche i nuclei umani si distribuiranno nel modo più efficiente, coerente col nuovo assetto sociale. Una volta che l'uomo controlli la propria esistenza potrà benissimo decidere di non abitare in luoghi a 50 gradi sotto e sopra lo zero, nelle paludi o nell'aridità totale, e nemmeno in strutture dissipative di energia come le case isolate o le metropoli. Ovviamente la critica comunista alla teoria del "socialismo in un paese solo", per quanto vasto come la Russia staliniana, è particolarmente calzante in questi esempi, ma siccome non è pensabile l'affermarsi del potere rivoluzionario soltanto in una piccola area, la contrazione dei consumi in generale è ottenibile anche a partire dalla distribuzione ottimale della popolazione sul territorio con la reimpostazione di tutta la struttura abitativa.

Energia dal Sole

Se consideriamo il bisogno energetico generale di un uomo capitalistico e consumista nella sua produzione-riproduzione ci troviamo di fronte a un altro fenomeno di portata enorme, e nessuna cellula fotovoltaica, nessun generatore a vento, nessuna turbina idraulica, nessun carburante biologico, nessun marchingegno che sfrutti le maree potrà spegnere la sete di energia delle sue acciaierie, delle sue manifatture, dei suoi mezzi di trasporto, delle sue megalopoli sempre "accese" in ogni stagione, ad ogni ora del giorno. Ma questa mostruosa quantità di energia è indispensabile soltanto perché il capitalismo si è creato un mondo quantitativo siffatto; e questo non è l'unico modello possibile.

L'uomo oggi non ha neppure incominciato a pensare seriamente che cosa significhi, in termini ingegneristici, utilizzare appieno il ciclo solare (compresa l'attività della bio-massa esistente sulla Terra). Nessuno oggi sa calcolare esattamente il bilancio energetico di impianti a generatori eolici o a cellule fotovoltaiche, cioè quanta sia, nel ciclo totale, la differenza fra l'energia dissipata nella loro costruzione e quella resa. Bisognerebbe comprendere nel calcolo l'intero sistema, con la trasformazione della materia prima, il trasporto, la costruzione delle fabbriche di generatori e di cellule, quella delle infrastrutture ad essa necessarie, gli operai addetti a tutto questo e i loro consueti consumi, le loro abitazioni, i loro trasferimenti, ecc. Tutti sanno comunque che il riciclo dei materiali è del tutto deficitario dal punto di vista dell'energia e della materia recuperata, vale a dire che è uno dei cicli industriali dal rendimento più basso, del quale però non si può fare a meno perché non si sa più dove mettere i rifiuti. Pochissimi invece credono sia possibile una società in cui non si parli più di "risparmio energetico", ma semplicemente non ci sia più bisogno di produrre energia e rifiuti inorganici nella mostruosa quantità attuale.

L'umanità prima o poi dovrà dunque sviluppare una conoscenza approfondita del ciclo biologico-solare e passare all'utilizzo razionale dell'energia che può offrire, dato che è l'unica fonte disponibile ancora per qualche miliardo di anni e che per tutto questo tempo giungerà sulla Terra in modo continuo e senza sorprese. Il Sole invia nello spazio una quantità immensa di energia, e, anche se ben poca arriva sulla Terra, e di quella poca una parte è riflessa dall'atmosfera, quella che ogni anno giunge fino al suolo è pur sempre 6,5 volte superiore al totale delle riserve dei combustibili di qualsiasi tipo conosciute e ipotizzabili come esistenti sul nostro pianeta. Ed è costante, mentre le materie prime sono soggette a esaurimento e occorre andare ad estrarle in luoghi sempre più inaccessibili. Questo tipo di energia può essere utilizzata direttamente o tramite gli effetti che provoca sulla biomassa, la quale produce sia materie prime come legname e fibre che ulteriori fonti d'energia, come combustibili di vari tipi.

L'energia nucleare ottenuta tramite impianti autofertilizzanti sarebbe una fonte di energia utilizzabile più a lungo dei combustibili, ma pone problemi enormi di sicurezza e smaltimento delle scorie, problema che il capitalismo non è riuscito a risolvere e che, a prescindere dai costi, forse non è risolvibile affatto. L'energia da fusione nucleare è per ora un'ipotesi e, anche se le apparecchiature che l'hanno ottenuta per tempi brevissimi dovessero un giorno essere perfezionate e dare più energia di quanta ne richiedano per funzionare, rimane sempre il problema pratico del contenitore in cui imprigionare plasma a temperature simili a quella del nucleo solare, cioè 100.000 volte più alte della resistenza dei materiali più resistenti.

Il bisogno di un uomo immerso nel sistema del consumo individuale, il cui fondamento sociale rimane il nucleo della famiglia ristretta, è di possedere merci in quantità adeguate alle necessità dell'individuo stesso e di quel tipo di famiglia. Tale possessore con famiglia è anche un consumatore forsennato di energia. Ma basterebbe spezzare l'isolamento in cui vivono un tale uomo e una tale famiglia (superando in via del tutto naturale anche questo istituto, inutile ad una società non proprietaria) ed inserirli in una comunità umana dove l'interesse non sia verso gli oggetti ma verso gli altri uomini. Così la morbosa attenzione per il possesso individuale – che presuppone possesso di denaro e quindi i modi per ottenerlo – sarebbe superata con l'utilizzo di strutture adeguate in cui gli oggetti sono semplicemente a disposizione e non accaparrati egoisticamente. Anche in questo caso l'umanità non imbocca strade completamente sconosciute: essa ha già sperimentato in passato e sperimenta in continuazione situazioni in cui il possesso individuale è messo seriamente in discussione, in cui si realizza il semplice utilizzo comune di beni a disposizione di tutti.

Bisogno di comunismo

Engels analizza gli esperimenti "comunistici" americani dell'800 sottolineando come nelle comunità dei beni sia realizzata in modo del tutto naturale una economia collettiva, senza che per questo vengano intaccati la disponibilità e il godimento di ognuno. Occupandosi dei risvolti pratici di queste comunità, sorvolando sull'ideologia o sulle credenze religiose che le muovevano, annotò esclusivamente i vantaggi rispetto alla quantità di lavoro erogato, al consumo e alla disponibilità di tempo per attività non-produttive. Si trattava di comunità che in genere duravano poco, e solo alcune di esse passavano indenni attraverso il tempo. Quelle poche che ci sono riuscite hanno oggi tutte, indistintamente, utilizzato i vantaggi dell'uso comune delle risorse per diventare vere e proprie potenze economiche. Non è affatto strano che oggi nel mondo si assista ad un loro nuovo proliferare e che, specialmente negli Stati Uniti, raccolgano milioni di persone. Analizzando le comunità attuali, si osserva con regolare invarianza come siano perpetuate o rinnovate nel tempo le caratteristiche già notate da Engels, soprattutto per quanto riguarda la scomparsa del bisogno di possesso individuale quando siano a disposizione sufficienti beni comunitari. Gli individui fanno volentieri a meno della preoccupazione del possesso, non appena abbiano un'alternativa.

Sarà interessante prossimamente affrontare il difficile collegamento tra questa esigenza di comunismo e il partito delle rivoluzioni nella storia dell'uomo. Per ora, in conclusione, basti osservare che attualmente negli Stati Uniti anche ordinari fatti sociali, come ad esempio la cosiddetta flessibilità del lavoro e la caduta del valore del salario, costringono gli uomini ad affrontare, se pure in modo indiretto, il duplice problema del comunismo e del consumismo. Ragioni pratiche di sopravvivenza portano sempre più spesso gli americani verso la pratica del co-housing, dove spazi privati si alternano a spazi collettivi e dove, per ragioni di mero risparmio e senza teorizzazioni particolari, viene realizzata una parziale comunità dei beni. Questo fatto è così diffuso e apparentemente senza implicazioni che solo con sforzo ci rendiamo conto dell'importanza di quanto la società ultracapitalistica ci mostra: chi pratica il co-housing lo fa spesso perché vi è costretto, dato il grande vantaggio "economico" derivante dal modo di vivere in modo più razionale, e quindi con meno dispendio rispetto alla media degli americani; spesso lo fa soprattutto perché la società è così invivibile che la coalizione di persone con interessi comuni in comunità è una valvola di sfogo. Ma non sempre questo tipo di vita è semplicemente affrontata per mancanza di alternative: è interessante osservare come alla rinuncia sopravvenga, in milioni di uomini, il frequente rifiuto del possesso, di cui si perde facilmente l'angosciante concetto di necessità.

Vi sono naturalmente casi di pura e semplice speculazione immobiliare e casi, all'opposto, di fanatismo settario; ma nella maggior parte delle esperienze vi è un'evasione cosciente da una società vampiresca che assorbe ogni energia per correre dietro ai consumi; e infatti sempre più queste esperienze si chiamano intentional communities, per differenziarsi dagli insiemi di persone che sono aggregate dai meccanismi della società senza averne precisa consapevolezza. In molte di queste comunità – e sono migliaia – l'accesso comune ai beni permette ad ognuno dei loro membri di disporne in quantità maggiore e, allo stesso tempo, di essere indifferenti rispetto alle mode consumistiche. La competizione tra individui sul terreno della corsa all'ultimo modello è eliminata alla radice in quanto tutti partecipano alle attività collettive usufruendo di tutto ciò che è disponibile; nessuno è "privato" dell'uso di qualche bene, nessuno ha bisogni individuali diversi da quelli che può avere ogni componente dell'intera comunità, e proprio per questo, perché non è omologato al consumo di massa, può coltivare meglio passioni, emozioni, interessi diversificati.

Letture consigliate

  • Partito Comunista Internazionale, Riunione di Forlì, "Il programma rivoluzionario immediato", ora in Per l'organica sistemazione dei principii comunisti, Quaderni Internazionalisti.
  • Karl Marx, Per la critica dell'economia politica (Introduzione del 1857), Editori Riuniti; Manoscritti economico-filosofici del 1844, Editori Riuniti, Opere Complete vol. III.
  • Partito Comunista Internazionale, "La relance de la consommation populaire ou l'elixir du docteur Marchais", Programme communiste n. 68 del dicembre 1975.
  • Quaderni Internazionalisti, "Come un logaritmo giallo", Lettera ai compagni n. 29.
  • Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri.
  • Jeremy Rifkin, Entropia, Mondadori.
  • Orio Giarini e Henri Loubergé, La delusione tecnologica, Mondadori.
  • Beppe Grillo, Dalla Svizzera l'economia e la politica, all'indirizzo Internet: Beppe Grillo On-Line, http://www.mpnet.it/Beppe_Grillo/
  • F. Engels, Descrizione delle colonie comunistiche sorte negli ultimi tempi e ancora esistenti, Editori Riuniti, Opere Complete, vol. IV.
  • Elenco di 540 intentional communities: http://www.ic.org/ ("Ma stimiamo ce ne siano altre diverse migliaia", si legge nella presentazione del sito).

Rivista n. 3