La guerra e la classe
"La guerra imperialista non cessa quando i ciarlatani, i parolai o i filistei piccolo-borghesi lanciano una melliflua 'parola d'ordine', ma solo quando la classe che conduce questa guerra imperialistica – ed è legata con essa da milioni di fili economici – viene di fatto rovesciata e sostituita al potere dalla classe realmente rivoluzionaria, dal proletariato. Non c'è altro modo per uscire da una guerra imperialistica o, anche, da una pace imperialistica" (Lenin, Anti-Kautsky).
Nessuna guerra è mai stata combattuta se non con i mezzi e i metodi esistenti nella società che la scatena. Nessuna guerra è mai stata vinta senza una superiorità militare. Nessuna rivoluzione ha mai raggiunto il suo scopo finale senza che la classe vittoriosa avesse espresso in tutti i sensi questa superiorità. Che non è necessariamente rappresentata dal numero di uomini e di mezzi, dalle possibilità economiche o dalla disponibilità di tecnologie, ma può essere il risultato congiunto della debolezza della classe al potere e della qualità dell'organizzazione sociale rivoluzionaria emergente nel corso del collasso di vecchie forme sociali.
Nella teoria marxista ha posto una specifica concezione della violenza come "levatrice della storia", violenza che va individuata non soltanto nelle manifestazioni truculente cui l'uomo si è spesso abbandonato nei millenni. La violenza non si esprime soltanto con ossa rotte, sangue, distruzioni e uccisioni, ma anche e soprattutto con ogni tipo di dominio imposto da uomini e classi su altri uomini e classi. La questione militare è dunque impostata dai comunisti piuttosto sullo scontro fra il potenziale delle classi che non sull'effettivo contatto che scatena violenza cinetica.
Lo scontro fra classi è un qualcosa di completamente diverso dallo specifico scontro fra eserciti, dove la forza dispiegata è determinante, anche là dove si fa valere solo attraverso la dissuasione. E' conoscenza acquisita, e non da oggi, che l'energia nelle due forme, potenziale e cinetica, è assolutamente equivalente e che l'effetto devastante di una valanga a valle è per esempio già contenuto nell'accumulo di neve a monte, o che l'effetto distruttivo di un proiettile sul bersaglio è contenuto nell'energia chimica della carica nel bossolo. L'esplosione rivoluzionaria è come una tempesta in cui l'accumulo di energia nell'aria provoca una differenza di potenziale col suolo; quando il potenziale supera gli effetti dello strato d'aria isolante, della barriera che impedisce la liberazione di energia, allora si scatena il fulmine, energia cinetica, luce, suono, calore, distruttiva trasformazione meccanica e chimica. Per questo diciamo che la società futura si presenterà quando essa verrà liberata dal capitalismo che la intralcia, e che la lotta di classe non "ha da venire", c'è sempre.
Nel rapporto fra capitalista e proletario, e fra l'insieme degli uni e degli altri in quanto classi, la lotta non scompare mai. E' lo stesso potenziale che fa dire a Marx: sul mercato ogni venditore e ogni compratore di merce è libero; il proletario vende liberamente la sua specifica merce forza-lavoro, quindi essa non è più "sua"; il capitalista l'adopera liberamente, l'ha comprata e quindi ha il diritto di trarne il massimo profitto; così come il proletario ha il diritto di salvaguardare la sua capacità di vendere forza-lavoro nel tempo, di richiedere un prezzo. Diritto contro diritto, conclude Marx, decide la forza. Finché sopravvive l'attuale modo di produzione questo rapporto fra capitalista e proletario non cessa mai, quindi non cessa mai la lotta di classe, per quanto essa sia normalmente allo stato potenziale, e solo meno spesso si manifesti allo stato cinetico, in uno scontro più o meno violento. Più il potenziale si accumula, più la soluzione cinetica sarà esplosiva.
Nella maturazione del capitalismo, se scompare il capitalista il proletario può vivere ugualmente, mentre il primo non può neppure esistere senza il secondo. Se spariranno quindi tutti i capitalisti, e il capitalismo stesso, il proletario si trasformerà in uomo che produce liberamente per altri uomini e non per valorizzare un capitale. La guerra di classe fra capitalisti e proletari è veramente "asimmetrica", perché mette di fronte il superfluo col necessario, contiene la morte potenziale del capitalismo e la vita liberata dell'essere umano.
Che cosa c'entra la lotta di classe con un atto terroristico o, com'è più corretto dire, con una guerra che si manifesta nella forma assunta a Washington e New York? Il nesso non è difficile da scorgere. In primo luogo, l'attacco non è altro che una soluzione cinetica del potenziale che la concorrenza anti-americana ha accumulato, così come la risposta americana non è, e non sarà, altro che una soluzione cinetica dovuta al passaggio degli Stati Uniti dall'espansione, e quindi dalla posizione di attacco, alla difesa delle posizioni raggiunte; soluzione dunque al potenziale di salvaguardia della propria egemonia che una lunga crisi ha intaccato, producendo squarci nel rapporto fra essi e il resto del mondo. In secondo luogo, non c'è guerra che non abbia utilizzato il terrore. Paradossalmente, il terrore rappresenta spesso una violenza concentrata, di tipo qualitativo, quindi finalizzata a farne cessare il proseguimento nel tempo, a diminuirne l'accumulo quantitativo. Ciò vale per le piramidi di crani elevate a monito da Gengis Khan, per la bomba di Hiroshima e per le teorie del deterrente nell'equilibrio del terrore atomico durante la Guerra Fredda. Quest'equilibrio, venutosi a formare durante lo scontro non guerreggiato (almeno in modo diretto) tra USA e URSS, conteneva in sé un enorme concentrato di violenza potenziale, immensamente più alto di quello che, nella stessa epoca, si scatenava in violenza cinetica sui campi di battaglia, dalla Corea al Vietnam e oltre. L'equilibrio del terrore portò presto al terrore dell'equilibrio e una corsa all'accumulo insensato di energia militare, sufficiente a distruggere parecchie volte l'intero pianeta con tutti i suoi abitanti.
La guerra è un fatto sociale, e le classi, mentre vi partecipano, ne sono influenzate in quanto tali. Essa scaturisce da rapporti conflittuali già esistenti fra borghesie nazionali, le quali a loro volta hanno rapporti conflittuali con la classe proletaria entro le nazioni; "L'instaurazione di una giornata lavorativa normale – dice per esempio Marx nel primo libro del Capitale – è il prodotto di una lenta e più o meno nascosta guerra civile fra la classe capitalistica e la classe lavoratrice".
All'accumulo caotico di violenza corrisponde la soluzione repentina, che può essere: o la soluzione del conflitto fra le borghesie, o la soluzione del conflitto fra le classi avverse. E' per questo che, posto scientificamente, il problema della guerra imperialista è per i comunisti un problema non di schieramento o di rifiuto, ma di alternativa. Essendo – come abbiamo detto – la soluzione di tensioni economiche e sociali accumulate, la guerra raggiunge il suo scopo riequilibrando il sistema capitalistico, cioè, come si dice classicamente, riavviando il ciclo di accumulazione. Di qui la necessità per il proletariato di bloccare la guerra e non permetterle di raggiungere i suoi scopi. In altre parole: di qui la necessità di trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria, meglio ancora di non lasciar passare la guerra generalizzata, di evitare sia il dispiegamento degli eserciti sui campi di battaglia sia quello della popolazione sul micidiale campo di battaglia ideologico- patriottardo-crociatista.
Detto ciò naturalmente non si è ancora detto nulla, dato che occorrono condizioni ben precise affinché si renda possibile una rottura rivoluzionaria. Essendo la guerra una costante nelle società di classe, è persino ovvio osservare che, se il proletariato non ha l'armamentario programmatico e organizzativo già durante la guerra di tutti i giorni, non l'avrà neanche al suo esplodere come guerra guerreggiata. Per questo sono del tutto patetiche le "melliflue parole d'ordine" contro la guerra, gli slogan lanciati appena gli avvenimenti l'hanno scatenata, espressioni di puro codismo che da subito rivelano storiche impotenze.
Milioni di persone possono scandire slogan senza cambiare una virgola agli avvenimenti, come successe alla vigilia della prima Guerra Mondiale. La chiave del problema non è quantitativa ma qualitativa. La chiave della coerenza programmatica precede il suo utilizzo nella serratura che blocca l'esplosione di classe, e solo essa potrà aprire le porte dei magazzini del quantitativo, cioè della santabarbara con l'attrezzatura utile allo scopo, a partire dalle tanto celebrate "masse" in grado di adoperarla.
Leggiamo da Marxismo e questione militare del 1961: "Ogni forma superiore di produzione conferisce alla classe rivoluzionaria che ne è l’agente una sicura superiorità militare contro la forma precedente e inferiore. Da questa analisi trarremo la conclusione che il proletariato, lungi dall'appellarsi ai superiori 'valori' di una astratta giustizia e di una falsa morale utilizzerà tutti i suoi mezzi superiori di lotta". Il che non significa affatto che il proletariato avrà carri armati più efficaci di quelli della borghesia, missili più intelligenti o software più sofisticato. Questo tipo di armamento, con la conoscenza degli uomini che lo adoperano, si sviluppa di pari passo con lo sviluppo della forza produttiva sociale del capitalismo, permea la società, non è da "conquistare". E' un altro tipo di armamento che ci interessa e che in nessun modo può essere prelevato nei magazzini della borghesia: l'apparato teorico necessario per raggiungere un fine diverso da quello della borghesia e, naturalmente, il tipo di organizzazione che ne ricaviamo. Parliamo del partito rivoluzionario, che per noi non è semplicemente sinonimo di "organizzazione". E' abbastanza facile capire che il programma dev'essere diverso da quello della classe avversaria, ma sembra che invece sia enormemente difficile capire che anche l'organizzazione dev'essere tutt'altra cosa, ammesso e non concesso che si possano scindere le due cose. Al di là delle enunciazioni di principio e dei riferimenti a tesi fondanti o ritenute tali, non esiste oggi – che noi si sappia – un dispiegamento organizzativo che sia conseguente ai compiti che l'umanità dovrà porsi nel superamento del capitalismo.
Questo dispiegamento lo chiamiamo "partito" anche se il termine, come tanti, non è riuscito ad essere nobilitato dalle magnifiche battaglie per la coerenza storica, ma è ormai purtroppo logorato da una storia di infamie che le ha soverchiate e fatte dimenticare. Sta di fatto che contro l'assetto "militare" borghese dovrà necessariamente formarsi un assetto rivoluzionario di potenza superiore, e questo dovrà esprimere una sua intelligenza dello scontro. Nessuna vittoria è concepibile senza tale condizione. Ma ogni vittoria deve procedere dalla sua possibilità materiale, cioè dalle condizioni che possono preparare il terreno, da uno scenario reale, quello dove gli scontri fra Stati e classi producono effetti tangibili.
Per quanto riguarda le spinte rivoluzionarie borghesi, esse si espressero il più delle volte con caratteristiche assai contraddittorie. In Francia la Grande Rivoluzione del 1789 ebbe le sue radici nel disfacimento della società feudale e come artefici materiali, cioè come combattenti che fossero espressione della "questione militare", tutte le classi tranne la borghesia. In Italia l'azione rivoluzionaria fu condotta da un piccolo Stato-regione governato da una monarchia inconsistente. In Germania l'unità nazionale fu raggiunta per mezzo della Prussia con una "rivoluzione dall'alto". Così successe per la stabilizzazione nazionale della Russia con Stalin. Anche la modernizzazione e l'identità nazionale di molti altri paesi furono costruite dall'alto: in Persia con quella che chiamammo "rivoluzione alla cosacca"; in Egitto con Nasser, in India con Nehru; in Indonesia con Sukarno.
Per quanto riguarda le spinte rivoluzionarie del proletariato esse si sono manifestate altrettanto contraddittoriamente e per di più, finora, senza portare ad una soluzione storica definitiva. La contraddizione maggiore è stata quella che ha visto di volta in volta il proletariato in alleanza con altre classi. Tramite tali alleanze la controrivoluzione ha sempre vinto, sia producendo confusione all'interno del campo rivoluzionario, sia producendo la disfatta sul piano generale della "questione militare". Per ora il proletariato può solo far tesoro di vittorie locali, non può avvalersi di nessuna conquista generale sul campo. Ma può affinare la teoria per il prossimo scontro, imparando dagli errori e dalle circostanze materiali che li hanno provocati.
La borghesia, che è nazionale per sua natura, ha bisogno di essere internazionalista nel campo del controllo economico perché è diventato internazionale il Capitale. Ogni borghesia nazionale è annichilita di fronte a questa contraddizione e non riesce più ad avere una specifica "politica estera", vale a dire perde di fatto la sua sovranità nazionale. L'unica nazione che vanta il privilegio di averla mantenuta sono gli Stati Uniti. Ma anch'essi non possono fare quello che vogliono, essendo dominati dalla dipendenza reciproca fra le nazioni. Essi infatti importano merci, materie prime, cervelli e capitali di ritorno dagli investimenti, hanno bisogno delle altre nazioni, come esse hanno bisogno del più forte elemento stabilizzatore. Si è perciò prodotta una strana tendenza all'unità mondiale, alla globalizzazione controllata, che assomiglia alla prussiana "rivoluzione borghese dall'alto", espressa però a livello planetario. E' ovvio che il paragone, per l'immensità e la difficoltà del compito che ha di fronte il Capitale nella ricerca di un'impossibile salvezza, si ferma qui. Nessuna nazione, specie se con un notevole peso specifico nella società mondiale, rinuncerà alle proprie prerogative nazionali, al proprio tornaconto e al tentativo di avere una propria politica estera. Ma d'altra parte non può neppure fare a meno di seguire la corrente. E siccome non possiamo immaginare un'integrazione completa del mondo sotto egemonia americana più o meno forzata, né possiamo prevedere che funzioni ciò che è già fallito storicamente, cioè un governo mondiale federativo tra nazioni, ecco che la prospettiva è semplicemente guerra.
Guerra nella sua più classica accezione: come continuazione della politica con altri mezzi; politica come continuazione della guerra con altri mezzi. Insomma, continuità perfetta fra politica e guerra come mai Clausewitz avrebbe pensato di veder realizzare in pieno. L'assetto del post-Afghanistan lo sta dimostrando, mentre la guerra generale, quella che scaturisce dalla relazione normale fra concorrenti, sarà elevata alle sue massime conseguenze. Diventeranno più feroci la concorrenza e l'uso di armi e strumenti appositi per metterla in atto; ci sarà una estensione del cosiddetto terrorismo, quello visibile e quello invisibile, alla scala mondiale. Gli esperti di guerra globale, americani e no, sanno benissimo che non hanno mai dovuto limitarsi a cercare i focolai di conflitto "terroristico" fra i diseredati del mondo o fra i principi del deserto. Lì semmai si trovano solo alcune pedine.
Finché i petroldollari ritornavano nelle banche americane e inglesi tutto bene; adesso che rischiano di puntare verso le banche europee, giapponesi e soprattutto islamiche, ciò è male assoluto. Perché il mondo, anche non coordinato, ha effettivamente sviluppato un potenziale di concorrenza in grado di mettere in ginocchio gli Stati Uniti. Questi ultimi, anche se nessuno per ora minaccia direttamente la loro potenza, sanno benissimo che il "terrorismo" non è la causa ma l'effetto di questo loro continuo e obbligato pattugliamento lungo il baratro in cui possono cadere se s'incrina l'equilibrio del sistema. E non possono far altro che rispondere cercando di colpire alla radice, modificando di continuo il loro rapporto con gli Stati. Per questo i bin Laden sono prima pagati e poi bombardati. Tutto questo, complessivamente, non si può che definire guerra.
Passata l'epoca del gesto individuale esemplare, della cosiddetta azione educatrice, il termine terrorismo non è facilmente applicabile né a categorie sociali né tantomeno a categorie economiche, dato che è del tutto soggettivo il suo utilizzo. Nessuna utilità militare veniva dai bombardamenti sulla popolazione civile nella Seconda Guerra Mondiale: Dresda e Coventry rappresentarono terrorismo puro. I colonialisti francesi chiamavano terroristi i combattenti algerini e gli americani facevano lo stesso con quelli vietnamiti; mentre francesi e americani pianificavano una strategia del terrore nei confronti dei loro avversari e della popolazione che li produceva. Oggi per gli americani sono terroristi coloro che ammazzano in modo diretto fuori da un contesto bellico ufficiale, ma anche chi è oggetto delle attenzioni delle bombe americane vede benissimo che si tratta di azioni militari in guerre non dichiarate, e quindi giudica terroristi gli Stati Uniti. Tra l'altro, questi ultimi, fuori dalle guerre mondiali, da un secolo tentano di agire in contesto non bellico, predisponendo situazioni sociali (dittature, controguerriglie, forze paramilitari ecc.) che meritano a pieno titolo di essere chiamate terroristiche nell'accezione corrente. Le azioni belliche propriamente dette sono venute di conseguenza, come risposta delle popolazioni e dei governi oggetto delle attenzioni americane. In questo modo è anche facile fabbricare "aggressori" a piacimento. Comunque il termine "terrorismo" è coerentemente applicabile soprattutto ad ogni forma di scontro, militare o meno, in cui sia necessario un deterrente (azione preventiva) o una rappresaglia (azione posticipata). Insomma, una categoria della prassi e non del pensiero, per nulla distinguibile dalla categoria "guerra".
Trattandosi dunque di guerra, il governo americano ha cercato di tranquillizzare il mondo dicendo che ogni tappa di quella in corso e di quella futura avrà una exit strategy, cioè che non vi saranno più coinvolgimenti da vicolo cieco come in Vietnam, in Iran o in Iraq, che gli esperti hanno piena consapevolezza delle questioni, che le opzioni militari sono valutate nel modo più professionale possibile e che l'azione è sempre sotto controllo. Ma Bush, Rumsfeld e Powell mentono spudoratamente. Questa guerra, che per loro stessa ammissione è "infinita", non ha per definizione vie d'uscita, né le può avere. Del resto non le aveva neanche prima. Siccome è impossibile da parte di chiunque muovere classicamente guerra aperta agli Stati Uniti, questa che vediamo oggi svolgersi sotto i nostri occhi in forma così eclatante – e non solo con l'attacco recente – è la forma sostitutiva che caratterizzerà lo scontro nei prossimi anni. Mai come ora l'appello alle crociate, contro nemici nazionali o contro nemici interni, è stato attuale.
C'è bisogno di compattare l'intera popolazione di fronte al pericolo. Ma quale pericolo? Ecco quel che scrive un generale, sulla rivista Limes a proposito di una possibile crisi degli equilibri interni del sistema: "C'è il rischio che vecchi movimenti ideologici e rivoluzionari condannati dalla storia, ma mai debellati, traggano profitto da questa instabilità generalizzata e fomentino disordini, ribellioni e ulteriori destabilizzazioni. Non importa se la matrice sia bianca, nera o rossa. La lotta istituzionale si deve rivolgere anche in questo campo e non sarà né semplice né indolore. Il mondo è cambiato, la guerra globale si è spostata su di un piano completamente nuovo. Il modo di combattere deve cambiare e le priorità per cui lottare devono cambiare". Dai dittatori Saddam e Milosevich al fondamentalismo islamico, da quest'ultimo ad ogni nemico "della nostra società e del nostro modo di vivere", come dice Bush.
Naturalmente non è cambiato proprio nulla dal punto di vista delle difese del sistema contro la "sovversione", e anzi il generale è persino un po' démodé quando pensa che "vecchi movimenti ideologici" possano rappresentare nuovi pericoli materiali. Solo un Berlusconi finge di crederci ancora. Molto è invece cambiato dal punto di vista della vulnerabilità del sistema rispetto alle cosiddette destabilizzazioni, come hanno dimostrato i crolli repentini del Muro di Berlino e dell'URSS. Solo che le destabilizzazioni non dipendono dalla volontà di diabolici mestatori o terroristi ma dalle debolezze intrinseche di un sistema malato. Per questo l'America vera, quella che evita le fanfaronate, che è poco appariscente e molto pragmatica, trema al pensiero che i fuochi di Washington e New York non siano da attribuire soltanto a un qualsiasi bin Laden ma a forze diverse e convergenti, come servizi segreti stranieri, organismi eversivi interni, gruppi internazionali di potere economico, ecc.
"Nessuna grande rivoluzione, dice Lenin, è mai avvenuta e può avvenire senza che sia disorganizzato l'esercito. Perché l'esercito è il baluardo più potente della disciplina borghese, del dominio del Capitale. La controrivoluzione non ha mai tollerato, né poteva tollerare, la presenza di proletari armati accanto all'esercito" (Anti-Kautsky). Ma come mai c'erano i proletari armati? C'erano perché ogni guerra arma tutte le classi. Nelle guerre rivoluzionarie delle classi dominanti, fino alla borghesia, gli antagonisti futuri lottavano al fianco di esse. In Francia, nel 1789, nel 1848 e nel 1871 fu necessario disarmare i proletari che tendevano a muoversi verso la propria rivoluzione. Ma allora si parlava di esercito come di un qualcosa di ben definito, dai confini precisi. Oggi la guerra permea la società, è il suo modo di essere. Non c'è più confine fra le sue varie componenti. La continuità della guerra si esprime non solo nel fatto che essa c'è sempre, ma che tutta la società vi si attrezza, rendendo labilissimo il confine fra "civile" e "militare". Il monopolio americano dei cereali e della soia è un'arma, così com'è un'arma il monopolio del software e del dollaro come moneta internazionale. Idem per quanto riguarda il controllo del petrolio e delle materie prime. A tutto questo si aggiunge il monopolio della scienza e, ovviamente, della tecnologia militare che da essa deriva. I proletari non hanno più bisogno di essere chiamati alle armi: essi sono già presenti come non mai nell'intero apparato di guerra, e ciò è molto pericoloso in un sistema dagli equilibri delicati. Per la guerra guerreggiata bastano poche migliaia di specialisti, ma per la guerra "infinita" occorre un mondo intero.
All'immensità del compito cui si accinge il Capitale, corrisponde perciò l'immensità del compito che spetta al proletariato e al suo partito. Non si può affrontare nessuna questione militare senza avere un'intelligenza della guerra in senso lato, come diceva il solito von Clausewitz. Solo che l'ufficiale prussiano – e giustamente per il suo tempo – tendeva a considerare la guerra come "un frammento della politica", mentre oggi le due categorie sono indistinguibili, a parte gli effetti fenomenici (scoppi, ammazzamenti in massa ecc.). Per questo sarà bene che chi si richiama al comunismo si renda conto che l'attacco all'America ha rivelato d'un colpo l'inconsistenza di tutte le ubbìe pacifiste, intermediste, del tipo no-global, di tutti i residui delle passate rivoluzioni nazionali, di quelle proletarie tentate e, necessariamente, del tipo di organizzazione partitista tradizionale, istituzionale o gruppettara che sia. Ha spazzato via il loro involuto linguaggio. La guerra dell'epoca imperialista ci obbliga ad un maturo "estremismo", ad un radicalismo totale, non quello "della frase" criticato da Marx, ma quello degli strumenti adatti. Di fronte alla chiacchiera movimentista la critica è senza mezzi termini: "il suo oggetto è il suo nemico, non vuole confutarlo bensì annientarlo". Invece il gauchisme è figlio della contestazione, della confutazione, appunto.
La stessa forma borghese ha già posto le basi dell'anti-forma comunista anche dal punto di vista del partito organico anti-tradizionale. Non è una scoperta "nostra": è la società stessa che, aumentando il numero e la qualità delle relazioni fra le sue parti, delle connessioni che formano il cervello globale, ha già anticipato l'organica forma-partito della rivoluzione futura.
Noi non crediamo affatto che nella condizione di guerra e crisi continua come quella cui è giunto l'imperialismo sia possibile affrontare il rovesciamento della prassi con le categorie prese a prestito dalla società presente, anche quando fanno parte di rivoluzioni gloriose del passato. Rovesciare la prassi, cioè far prevalere la volontà e il progetto sull'agire cieco della natura e sulla spontaneità, significa non solo maneggiare bene la teoria che permette la previsione sul futuro stadio sociale, ma anche conoscere il modo pratico per giungervi, quindi sapere quali sono gli strumenti adatti. La democrazia moderna è per esempio un prodotto del movimento del valore; il denaro come equivalente generale rende uguali tutte le merci dal punto di vista del valore, l'uomo stesso diventa valore, e la borghesia ha codificato tale uguaglianza in un sistema di tipo ideologico e giuridico. Di qui il nostro rifiuto della democrazia: andare oltre a questa democrazia significa andare oltre alla democrazia tout-court.
Nella guerra il proletariato è sempre in prima linea. Nella guerra globale e senza limiti la prima linea non è più rappresentata dal "fronte" ma, come abbiamo visto, è diffusa nella società e nel territorio. Perciò non ha senso gridare contro la guerra solo quando cadono bombe da qualche parte; è un assurdo ripetere pappagallescamente, a intermittenza, parole d'ordine sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe. Perché la vita di tutti i giorni è guerra imperialistica. Peggio ancora è riservare questa parola d'ordine ad un futuro imprecisato, a quando ci si aspetta che scoppi una guerra imperialistica classica, tra nazioni perfettamente schierate in alleanze definite come nella Seconda Guerra mondiale. Non ci sarà più quel tipo di guerra. Quando la guerra guerreggiata si generalizzerà, potrà forse incominciare alla vecchia maniera, ma sarà un breve sussulto del passato, come quando la cavalleria, prima polacca e poi russa, affrontò in campo aperto le panzerdivision tedesche.
E allora, se il modo borghese di condurre la guerra è cambiato, come materialisticamente è sempre cambiato col passare del tempo e col susseguirsi delle classi al potere, quale sarà il modo di fare la guerra del proletariato? E quale sarà l'organismo necessario per dirigere questa guerra? Non esiste una "dottrina militare proletaria", come Trotsky dovette faticosamente spiegare di fronte alle nuove leve dell'Armata Rossa: esiste invece una necessità comunista di capire come e con quali mezzi si combatte in determinate epoche storiche, specie nei passaggi tra un'epoca e l'altra.
Oltre tutto, nella marcia verso la rottura rivoluzionaria, più ancora che nelle teorie borghesi dei giochi, non vi è confine fra le forme di scontro, "militare" o meno. La situazione sociale del capitalismo maturo, tendendo ad eliminare la mediazione di tipo rivendicativo, è sempre più improntata ad una estremizzazione dello scontro fra classi. Oggi siamo ancora in una fase intermedia, di grande confusione, dovuta soprattutto alla difficoltà oggettiva di abbandonare schemi classici (non tornerà mai più l'epoca dei sindacati com'erano intesi negli anni '20 o '50) e di svilupparne di adatti a contrastare la potenza della lotta classista condotta dalla borghesia. Sta di fatto che il proletariato sarà costretto ad adottare schemi di lotta dalle caratteristiche sempre più politiche e sempre meno economico-rivendicative. Ciò non significa affatto che la lotta di carattere economico immediato, "sindacale" perderà d'importanza, anzi; solo che assumerà aspetti diversi rispetto a quelli del passato. Anche lo scontro immediato di fabbrica e la necessità di generalizzarlo può essere uno dei frangenti in cui si dispiega con chiarezza la nostra "questione militare".
Questo scontro assume importanza tanto più significativa proprio in quanto si affievolisce la distinzione fra stato di pace e stato di guerra. Nel n. 3 della rivista abbiamo pubblicato un articolo tratto dal materiale prodotto dai lavoratori americani della UPS e da chi aveva studiato il loro importante sciopero contrattuale. Quello era un esempio di come la società odierna renda obbligatoria la comprensione, da parte del proletariato, delle armi a disposizione. Indipendentemente da ciò che quel movimento ha detto e scritto di sé, esso ha dimostrato nei fatti che il proletariato permea più che mai il potente "esercito" avversario e che è possibile scardinarlo, disorganizzandolo. Cambiano gli strumenti e la scala, non cambia il principio. Non è l'unico episodio del genere. In alcuni scioperi nel ramo automobilistico i lavoratori hanno dovuto adottare metodi simili, mentre stanno nascendo forme embrionali di organizzazione fra i precari, gli interinali e persino fra le reti del tele-lavoro. Il movimento no-global, al di là dei suoi contenuti, ha dato buona prova di organizzazione al di sopra delle frontiere e in genere sta avanzando la consapevolezza che qualsiasi lotta locale è destinata al fallimento. Informazione, solidarietà, movimento, determinazione, sono caratteristiche comuni di molte occasioni recenti di scontro; ed è dimostrata la vulnerabilità di un sistema ormai basato in modo eccessivo sull'auto-organizzazione interna (cioè ormai troppo complesso per essere affidato a gerarchie piramidali). Un sistema siffatto, che si riflette anche sul campo di battaglia propriamente detto (gruppi combattenti ad effettivi limitati che attingono informazione da un centro ma in grado di svolgere missioni auto-organizzate) è il massimo che la rivoluzione possa aspettarsi per impadronirsene. E infatti lo sciopero della UPS ha dato vita ad una forma a rete di picchetto mobile coordinato centralmente. Queste forme hanno tutte le caratteristiche ottimali per essere adoperate ai fini del rovesciamento di questa società. La classe proletaria è oggi più forte, non più debole del passato, mentre la borghesia non solo ha abdicato nei confronti del Capitale spersonalizzato e globale, ma ha anche perso il controllo diretto dei suoi classici strumenti di produzione e quindi di dominio.
Certo, questa è ancora in gran parte un fattore in potenza, ma è nello stesso tempo una realtà inconfutabile. E ci dimostra che occorre combattere le posizioni disfattiste all'interno della classe stessa. Prima di tutto nelle loro espressioni barricadiere, frutto di una concezione statica, ferma alla difesa della "trincea" o ferma alla posizione sindacale difesista delle "braccia conserte". Gli scioperi che abbiamo ricordato hanno tentato di spazzare via queste concezioni, introducendo una guerra offensiva di movimento, ricorrendo alle armi più sottili dell'avversario, che sono anche quelle dell'informazione. Il processo di maturazione della "questione militare" è appena agli inizi ed è di grande soddisfazione notare che il proletariato ha addirittura anticipato la borghesia. Alla faccia di quei sinistri ultra-pessimisti che esclamano in continuazione "addavenì la lotta di classe!".
Letture consigliate
- Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap.VIII (una giornata lavorativa normale "è il prodotto di una lenta e più o meno nascosta guerra civile fra le due classi antagoniste").
- Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Opere Complete, vol. 28, Editori Riuniti (cfr. specialmente il cap. "Che cos'è l'internazionalismo?").
- Partito Comunista Internazionale, "Marxismo e questione militare - Premessa", Il programma comunista n. 23 del 1961 (gli articoli comparvero in una serie non regolare fino al 1966 e si interruppero con un saggio sulla Comune di Parigi).
- Partito Comunista Internazionale, "Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe", in Prometeo nn. 2, 4, 5, 8, 9 e 10 del 1946-47-48. Ora disponibile con altri testi in Partito e classe, Quaderni Internazionalisti.
- "I sedici giorni più belli, lo sciopero significativo della UPS", n+1 n. 3, marzo 2001.