L'Europa disunita e la moneta dei suoi Stati
"Abbiamo l'Euro, una moneta unica per l'Europa intera. Abbiamo ceduto la nostra sovranità monetaria in cambio di una sovranità continentale. Abbiamo costruito un'Europa più indipendente e unita. Abbiamo dato vita al mercato unitario più grande del mondo. Abbiamo raccolto la sfida americana".
Un momento, non esageriamo. Distogliamo lo sguardo dagli opuscoli celebrativi, dai foglietti illustrativi, dagli inserti dei giornali, dagli spot televisivi, dai kit di monetine tintinnanti e torniamo ai nostri schemini astratti, cioè esenti da apologia del Capitale e dei suoi possessori.
Oggi non c'è più ramo d'industria che non sia nello stesso tempo ramo di finanza o che, se si tratta d'industria minore, non sia legato con il mondo finanziario. Comunque sia, dietro al capitalista industriale sta il capitalista monetario. Se un unico capitalista raggruppa in sé le due figure il risultato non cambia. Già Marx notava che il vero punto di partenza e di "riflusso" del valore capitale sotto forma di denaro è il capitalista monetario. Più il capitalismo matura verso la sua forma più completa, più il capitale finanziario domina la scena. In qualunque mano passi il denaro, la massa circolante appartiene in ultima istanza alla sezione finanziaria, organizzata e concentrata nel mondo bancario. Benché sia il plusvalore creato nel mondo della produzione ad alimentare il flusso maggiorato che ritorna alla sezione del capitale monetario, "è il modo in cui questa anticipa il suo capitale a determinare il costante riflusso finale". Ogni capitale ha un padrone, è ovvio, questa è la società della proprietà privata. Ma il capitale monetario no, non appartiene più al suo padrone originario, che ne riceve un interesse, ma ad un settore particolare dell'economia capitalistica, quello del credito. E' da qui che viene reimmesso sul mercato. E chi ne ha bisogno deve pagare un prezzo.
Ora, nei vari paesi non ci risulta sia stata eliminata la rispettiva Banca Nazionale. Esiste una Banca Centrale Europea, ma non ha funzioni normative né tantomeno esecutive: non emana alcun ordine vincolante verso le banche nazionali, tranne quello che fissa il tasso d'interesse unico per tutta l'area dell'Euro. Ma il livello di sviluppo dei singoli paesi è differente. La Spagna, la Grecia, l'Irlanda in special modo, non sono certo assimilabili alla Germania, e il tasso unico vi ha già prodotto scompensi. Per alcuni paesi può essere dannoso ciò che per altri è vantaggioso in campo di politiche monetarie: l'Irlanda si è trovata, ad esempio, con i tassi abbassati mentre era in espansione, la sua economia è stata stimolata e l'inflazione si è impennata; laddove la Germania in crisi avrebbe bisogno di tassi ancora più bassi per sostenere l'economia. Il presidente della BCE stato criticato per le sue incertezze, ma "nessuno può fare qualcosa di sensato quando si mettono dodici economie differenziate in un'unica area valutaria", commenta l'Economist.
Alle banche centrali di ogni paese appartiene dunque la massa circolante entro i suoi confini. Questa massa in moneta locale è stata ora cambiata con un equivalente chiamato Euro. Ma – questa è la cosa più importante – rimane sovrano e nazionale il modo in cui ogni banca centrale anticipa il capitale che determina il riflusso finale. Non ci sono solo i tassi, ma tutto un sistema di leggi che ormai regola ovunque, e pesantemente, l'economia.
Scendendo nei particolari, la capacità produttiva e i rapporti interni di scambio (in pratica quanto e cosa si può acquistare con una stessa somma di denaro) variano da paese e paese. Tant'è vero che un euro non acquista gli stessi beni e nella stessa quantità nei vari paesi, né le singole merci vengono prodotte allo stesso prezzo, vale a dire nel loro complesso allo stesso valore.
Allora l'operazione Euro si riduce a questo: che le monete nazionali riflesse nella carta e nei tondini metallici sono state semplicemente ridisegnate. Una facciata uguale per tutti e l'altra "nazionalizzata". Le operazioni di compravendita interne avvengono come prima; i prezzi sono quelli di prima; le transazioni internazionali registrano una compensazione fra import ed export come prima. Può il disegno sul pezzo di carta o sul metallo – unica differenza – stabilire che una moneta nazionale diventa internazionale? Ovviamente no, e non solo per noi, ma anche per i borghesi. Prendiamo il Dollaro. E' una moneta squisitamente nazionale che ha un massiccio utilizzo internazionale. Senza teorie e disegnini ad hoc.
Se è così, ed è così, la moneta chiamata Euro non esiste in quanto denaro unico per un'entità sovranazionale unica. Continuano ad esistere le monete nazionali, come prima. Naturalmente si dice che quel che importa è il processo di unificazione, non i singoli particolari; che questo processo porterà alla circolazione assolutamente libera degli uomini e dei capitali; che poco per volta l'unità monetaria trascinerà quella politica. Se fossimo di fronte a una rivoluzione nazionale unificatrice, come quella che formò l'Italia o la Germania, saremmo d'accordo. Allora le monete furono ricondotte ad una vera unità, ma si era unificato anche il territorio sotto un unico capitale, un unico mercato e un unico centro di potere. Era successo esattamente il contrario di quel che si vorrebbe far succedere adesso: il potere politico unificato, nazionale, della borghesia italiana e di quella tedesca aveva trascinato con sé l'ovvia necessità di una moneta unica. L'Europa non è nemmeno vicina a una rivoluzione del genere, che non può certo venire dalla buona volontà dei borghesi che la governano. D'altra parte questa volontà non l'hanno nemmeno, essi hanno una patria. E, fatto non secondario, un tutore internazionale che si chiama Stati Uniti d'America.
Esattamente due anni fa, il 24 marzo del 2000, ci fu una riunione dei capi di governo europei a Lisbona. L'economia americana era al massimo, Wall Street e il Nasdaq esplodevano sotto la spinta della new economy. L'Europa sentiva sul collo il fiato della concorrenza. Tornò in auge la "sfida americana". Il vecchio continente decise di raccoglierla: "L’Europa deve diventare un’economia basata sulla conoscenza, che sia la più dinamica e competitiva del mondo", si leggeva nelle considerazioni conclusive del vertice. L'economia sarebbe dovuta crescere di un 3% medio l'anno per dieci anni. Ci sarebbero stati 20 milioni di posti di lavoro in più. Sarebbe stata eliminata la burocrazia, ci sarebbe stata più ricerca, Internet sarebbe entrata in tutte le case e in tutti gli uffici. La moneta unica era alle porte. Il sistema Europa sarebbe stato finalmente competitivo nei confronti degli Stati Uniti.
Nel frattempo c'è stato l'11 settembre. L'attacco ha rivelato che gli Stati Uniti erano già in recessione, e le belle speranze europee si sono infrante contro una realtà risaputa se pur rimossa: tutte le economie del mondo sono interdipendenti, ma quella degli Stati Uniti può contare su un fattore speciale, la sua potenza unitaria e dominatrice sulla finanza mondiale. Il capitale monetario appartiene in buona misura all'America. Di là parte, s'investe, ritorna maggiorato. L'America controlla il riflusso del capitale nel mondo: D-D', dove D' è tutto americano. Per questo ha potuto permettersi, dopo l'11 settembre, di indirizzarne una quota enorme a sostegno dell'economia. Un vero e proprio intervento "sovietico" più che keynesiano.
Le ex valute dei 12 rappresentavano circa il 20% dei movimenti monetari mondiali rispetto a quelli effettuati in dollari. L'Euro non ha modificato questa percentuale. Anzi, il Dollaro ha eroso territori che erano dello Yen e del Marco. L'efficienza relativa del sistema complessivo americano si è dimostrata più alta di quella europea: nonostante la recessione, dal 2000 non c'è stata una diminuzione dei consumi, la disoccupazione non è salita di molto tenendo conto dell'enorme flessibilità americana, e c'è stato addirittura un aumento della produttività (2,5% su base annua) contro la produttività stazionaria dell'Europa. Ma la produttività è calcolata in questo caso non come capitale ricavato da ogni proprio lavoratore, da quante merci egli produce fisicamente, bensì dal rapporto fra il profitto globale prodotto all'interno e il numero di lavoratori presenti negli Stati Uniti. Il settore finanziario americano, cui appartiene una parte cospicua del capitale monetario mondiale, non produce merci, ma produce profitto. Non importa da dove il capitale-profitto arrivi, il fatto è che arriva. In questo senso si deve parlare di efficienza relativa.
Il tasso d'interesse, per Marx, è una sottocategoria del tasso di profitto: nei lunghi periodi e nella media essi si equivalgono. Se gli Stati Uniti abbassano per 11 volte in un anno i tassi d'interesse ufficiali e nello stesso tempo mantengono alto il tasso di profitto e la produttività relativa, vuol dire che qualcun altro fornisce la differenza. Questo "altro" non può che essere il proletariato non americano: esso produce profitto per i propri capitalisti i quali ne dirottano una parte verso l'America. Per esempio: l'Argentina ha un debito estero di 155 miliardi di dollari, contratto per la maggior parte verso il sistema bancario americano; ebbene, il pagamento degli interessi su tale debito è in buona percentuale profitto prodotto dal proletariato argentino per il sistema creditizio statunitense.
L'Europa non può competere con gli Stati Uniti su questo terreno, nessuno lo può. Il sistema mondiale del credito si è ormai consolidato storicamente intorno a strutture come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, che per forza di cose sono estremamente "sensibili" alla politica americana, poiché gli Stati Uniti vi partecipano con un peso specifico particolare. Per forza di cose il Dollaro è la lingua parlata da questo sistema quando comunica con i singoli paesi che vi fanno ricorso. Non è e non sarà l'Euro. Sintomatica è la situazione della Germania: come potenza economica in assoluto è al terzo posto nel mondo, dopo Stati Uniti e Giappone (relativamente al potere d'acquisto interno va però al quarto posto e la Cina al secondo). Non c'è lingua tedesca che abbia voce in capitolo nel sistema suddetto. Non c'è capitale monetario tedesco che rientri maggiorato dopo aver girato il mondo attraverso tale sistema. Vi sono invece merci tedesche in esportazione netta verso altri paesi, soprattutto verso gli Stati Uniti, destinatari di buona parte della sua produzione, merci che verranno pagate in dollari e non in euro. Per le compensazioni internazionali, i dollari potranno andare dove vogliono, ma gli euro torneranno in Germania. Essi saranno contabilizzati come moneta interna tedesca. I principali paesi europei sono nella stessa condizione, anche se in modo meno drammatico della Germania.
L'Europa non ha petrolio, gli Stati Uniti sì, e soprattutto ne commercializzano. Tutto il petrolio che acquistano gli europei rappresenta un flusso di plusvalore che se ne va verso il sistema finanziario internazionale e non torna più in Europa. Esattamente il contrario di quanto succede a chi produce e a chi commercializza petrolio (ed ha le tecnologie per estrarlo), cioè gli arabi e gli americani. Nel movimento del petro-capitale monetario, l'Europa è tagliata fuori, nulla le appartiene. Ogni paese compra per sé, non è la banca centrale che compra petrolio. E ogni euro che esce tornerà non come capitale maggiorato ma come denaro altrui che pretende di essere onorato con merci o con valuta pregiata, cioè dollari. Se addirittura non si compra petrolio già in partenza con dollari, cambiando euro nazionali.
Gli Stati Uniti possono contare su un sistema unitario, un vasto territorio, una popolazione numerosa, un continente intero a disposizione con tutte le sue ricchezze e la sua manodopera a basso prezzo fuori dalle leggi dell'Unione. Più una potenza militare ineguagliabile. Una base assai robusta per gestire il capitale monetario accumulato e fare in modo che renda sotto il segno della sua moneta.
L'Europa Unita ha un territorio molto meno vasto, una popolazione più numerosa e più concentrata. Ha un ben scarso controllo sui paesi vicini dell'Est, non ne ha affatto su quelli del Mediterraneo, diventato mare interno americano dopo la II Guerra Mondiale, come ci ricordano le truppe dislocate nei paesi rivieraschi e la presenza ammonitrice della VI Flotta. Non ha un sistema unitario, tanto che i gruppi industriali riescono a far muovere i governi sui propri interessi particolari, cioè in concorrenza con quelli delle industrie di altri paesi. Così in Francia c'è una particolare politica statale per l'energia elettrica, mentre in Germania è particolare l'aiuto statale all'industria automobilistica; entrambe le politiche sono fustigate dalla commissione europea contro i monopoli, ma questa suscita soltanto le ire degli interessati e non è ascoltata da nessuno. Non c'è un centro statale unico a cui l'Euro appartenga come capitale monetario D che possa diventare D' maggiorato. Del resto, come potrebbe? Attraverso quale meccanismo? Forse attivando un drenaggio di plusvalore dagli Stati Uniti verso l'Europa? Sarebbe come invertire i rapporti interimperialistici, come se l'Europa cioè assumesse il ruolo che hanno oggi gli Stati Uniti e questi diventassero una potenza di second'ordine.
L'Euro, così come ce lo descrivono, per adesso non esiste e forse non esisterà mai. L'Europa, anche se dovesse raggiungere l'unità politica, non potrebbe comunque permettere al suo interno la libertà d'azione che si permette il capitale americano. Il mercato è congestionato da troppi doppioni d'industria, di banche, di assicurazioni, di società di servizi ecc. Un'unione effettiva avrebbe come primo risultato qualcosa di simile a ciò che succede nelle grandi fusioni industriali: cioè lo snellimento delle strutture ridondanti. Invece dei venti milioni di occupati in più ve ne sarebbero venti milioni in meno. La popolazione è troppo concentrata, l'agricoltura è ad alta resa ma a bassa produttività perché mancano gli spazi sufficienti per un utilizzo razionale della meccanizzazione. Per ragioni storiche la struttura del mercato della forza-lavoro è più rigida. Una vera unità politica farebbe saltare il capitalismo europeo, che si troverebbe a dover affrontare una rivolta sociale interna e una guerra finanziaria esterna scatenata dagli Stati Uniti.
E con ogni probabilità una guerra non solo finanziaria.