Una storia infinita di "articoli 18"
Ogni comunista deve partecipare all'azione sindacale. E' chiaro però che non può agire sui luoghi di lavoro senza tener presente la storica funzione del sindacato nel tempo.
L'attuale gioco delle parti fra il berlusconismo e il sinistrismo democratoide e piccolo-borghese non è lotta, è concorrenza. I sindacati, con le loro manifestazioni sull'articolo 18 e il resto, fanno parte del gioco. Le alte lamentazioni per le prevaricazioni della "destra" contro la democrazia, per la "offensiva padronale" contro le conquiste dei lavoratori, è commedia già vista. Ma com'è facile dimenticare. Tuttavia i giovani devono conoscere. Devono cercare di capire, uscire dai luoghi comuni su democrazia e antifascismo, riandando indietro nel tempo fino all'origine di questo micidiale meccanismo del "dàgli al destro, Berlusconi fascista, governo di ladri". Implicitamente: noi sinistri sì che ci sapremmo fare. Menzogna, poiché sono forze economiche impersonali che muovono i governi – di destra o di sinistra – a far le stesse cose, come hanno dimostrato proprio i riformisti nostrani.
Il sindacato fascista era all'inizio uno tra quelli esistenti. Si contrapponeva alle centrali rosse, bianche o gialle, e si distingueva per essere tricolore, cioè favorevole ad una politica patriottica. Si trasformò in un'appendice dello Stato al culmine di un processo storico già in corso da tempo: l'economia diventava monopolistica e lo Stato monopolizzava tutta la vita pubblica, compreso il sindacato. Le organizzazioni avversarie avevano due milioni e mezzo di iscritti, il quadruplo di oggi in proporzione alla massa dei salariati. Facevano paura. Nel 1925 il sindacato fascista strinse un patto con gli industriali e fu riconosciuto come unico rappresentante dei lavoratori. Le Commissioni Interne furono abolite. I conflitti di lavoro furono ricondotti a contratto fra le parti e la sua validità e il suo rispetto furono tutelati dal potere politico che si pretendeva imparziale. La lotta di classe, si disse, era finita.
Questo del Grande Contratto Sociale fu un processo irreversibile a livello mondiale. Al di là delle forme, apparentemente libere o dichiaratamente sottoposte allo Stato totalitario, fu la chiave di tutto il successivo svolgersi della vita sindacale nei maggiori paesi capitalistici. Il sindacato divenne uno dei pilastri del contratto, cioè della conservazione, un complemento dei governi. Il modello fu portato alle estreme conseguenze fra le due guerre, nei paesi fascisti e in Unione Sovietica.
In seguito, l'irreversibilità del processo fu chiara soprattutto in Italia. Prima ancora che finisse la II Guerra, nel giugno 1944, fu costituita (Patto di Roma) una confederazione unica basata sui partiti presenti nelle formazioni partigiane che affiancavano gli Alleati. Fu perciò benedetta sia da Washington che da Mosca. Il contratto rimase il fulcro istituzionale e prese forma col Piano del Lavoro per la Ricostruzione postbellica presentato dalla CGIL nell'ottobre del 1949: se la borghesia avesse varato un piano di sviluppo, il maggior sindacato avrebbe moderato le lotte. Persino i laburisti inglesi arrivarono dopo, nel 1974, proponendo al governo conservatore il Patto Sociale, un'autolimitazione sindacale in cambio di riforme che da allora diede il nome a tutti i fenomeni analoghi.
Gli effetti della guerra fredda avevano portato alle scissioni del '48. Tuttavia esse non mutarono il carattere del sindacalismo italico che rimase indifferenziato, pur nelle sue nuove componenti separate, "comunista", cattolica e socialdemocratica. Vi fu invece l'illusione che la separazione dai bianchi e dai gialli rendesse "recuperabile" il sindacato "rosso". La nostra corrente scrisse:
"In un paese vinto e privo di autonomia statale, anche la Confederazione che rimane, coi socialcomunisti di Nenni e Togliatti, non si basa su di una autonomia di classe. Non è una organizzazione rossa, è anche essa una organizzazione tricolore cucita sul modello Mussolini. La storia del 'risorgimento' sindacale 1944 sta a dimostrarlo, coi suoi nastri tricolori sulle bandiere operaie, con le basse consegne di Unione Nazionale, di guerra antitedesca, di nuovo Risorgimento Liberale, con la rivendicazione, tuttora in atto, di un ministero di concordia nazionale, direttive che avrebbero fatto vomitare un buon organizzatore rosso, anche di tendenza riformista spaccata" (da Le scissioni sindacali in Italia, 1949).
Questo sindacalismo integrato e corporativo, fondato sulla trinità sindacato-industria-Stato, è quello che sopravvive tutt'oggi, nonostante l'attuale frammentazione delle sigle, più dannosa ancora della vecchia confederazione unitaria con le sue correnti interne. E' un sindacalismo interclassista (uno slogan recente della CGIL: "Siamo sindacato di tutti i cittadini"), che ha l'oggettivo compito di inquadrare il movimento di classe, portandolo su un terreno rivendicativo (ma anche politico) che sia compatibile con l'accumulazione di plusvalore e con la sua parziale distribuzione sociale (welfare). Dunque in primo luogo il sindacato moderno si fa garante della competitività della nazione sul mercato mondiale. E' allora naturale che finisca per partecipare attivamente alle lotte intestine della borghesia, appoggiando la parte ritenuta "progressista" contro quella retrograda. Questo perché i progressisti sarebbero in grado di giovare meglio alla nazione. E siccome il tutto avviene in ambiente di concorrenza capitalistica sfrenata, si giunge all'assurdo di mettere in concorrenza anche i proletari locali con quelli di altri paesi.
L'origine di questa tendenza, che riguarda i sindacati e ovviamente anche i partiti cui sono collegati fanno, va ricercata nella propaganda opportunista dell'immediato dopoguerra, secondo la quale occorreva organizzare la difesa contro gli "attacchi padronali" tesi a togliere agli operai quello che avevano. A parte il fatto che ci si riferiva a "conquiste" del fascismo, cioè alle vecchie istanze riformiste che il regime aveva realizzato in modo totalitario, si trattava di chiamare lo Stato a giudice dello scontro, come se esso fosse un elemento neutrale fra le classi. Perciò l'opportunismo proseguiva in un certo senso la sua lotta partigiana, sostituendo al vecchio nemico fascista la Confindustria e la Democrazia Cristiana. Non a caso Togliatti aveva gridato che si doveva raccogliere il tricolore che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango e combattere un nuovo risorgimento.
Grazie a questa assunzione di responsabilità patriottica i capitalisti ringalluzziti osarono così introdurre ritmi di sfruttamento inauditi. Le conseguenti rivolte proletarie, sempre controllate da organizzazioni che abbinavano ipocritamente pace sociale e minaccia di insurrezioni se… non si fosse accettata la loro funzione moderatrice, venivano brutalmente represse dalla polizia politica, che aveva l'ordine di sparare per uccidere.
In tutta Europa la guerra aveva gettato milioni di persone nella miseria. Questo enorme serbatoio sociale di futuri proletari era l'espressione visibile dei "senza riserve", che non avevano "nulla da perdere fuorché le loro catene", e a cui ci si sarebbe potuti rivolgere con sicurezza per la lotta contro il capitalismo. Invece si seminava l'illusione che fosse possibile conquistare posizioni di potere all'interno di questa società, attraverso l'azione politica democratica e la lotta sindacale congiunte, che a loro volta i partiti avrebbero coordinato con lo Stato, chiedendo "investimenti produttivi" e "consumi sociali". Era l'epoca in cui nei centri studi dei partiti socialcomunisti si vagheggiava una "programmazione economica" che avrebbe permesso, secondo la propaganda, di innalzare il livello di vita delle masse attraverso la partecipazione democratica alle scelte per lo sviluppo.
Non ci fu in realtà nessuna programmazione. L'unico "piano" fu la massiccia iniezione di capitali del Piano Marshall, premessa di sfruttamento intensivo e di reinvestimento dei capitali ricavati in un ciclo prettamente keynesiano. Nonostante per la prima volta in Italia si verificasse il consumo di massa, il boom economico fu accompagnato da violente manifestazioni proletarie, represse sanguinosamente. La cappa soffocante del controllo opportunista resistette. La borghesia consolidò le proprie posizioni, agevolata nel compito dalla facile critica allo squallido modello russofilo dell'avversario stalinista.
Da parte dei partiti socialcomunisti, la difesa della crociata politica sotto la bandiera moscovita si tradusse in un atteggiamento retrogrado di difesa anche sindacale, per cui diventava routine la campagna contro i famosi "attacchi padronali", rispolverati ogni volta che la borghesia approfittava, ovviamente, delle debolezze di quella politica suicida.
La guerra aveva lasciato terreno fertile per un'offensiva politica organizzata da parte del proletariato e di tutti i senza-riserve. In effetti il potenziale di scontro era altissimo. Invece i partiti opportunisti e i sindacati, loro cinghia di trasmissione, condussero una lotta all'interno delle istituzioni per richiedere una "partecipazione" proletaria, sostenendo che come forza di governo avrebbero potuto bloccare la temuta offensiva borghese. Ma non c'era nessuna particolare offensiva borghese, c'era solo il capitalismo normale, e lo si voleva aiutare a crescere.
"Tutto fu compromesso dalla teoria infame della 'offensiva borghese'. La prassi del partito rivoluzionario fu barattata con una prassi di difesa, di tutela e di richiesta di 'garanzie' economiche e politiche che si pretese fossero acquisite alla classe proletaria, laddove erano proprio le garanzie e le conquiste borghesi" (da Lotte di classe e 'offensive padronali', 1949).
Produzione, ricostruzione e accumulazione procedevano, con innegabile ricaduta di vantaggi materiali anche sul proletariato. Quando questi giunsero, sindacati e partiti si arrogarono il merito delle "conquiste". In parte a ragione, in quanto risultato della loro passività di fronte al super-sfruttamento e della conseguente ripartizione delle briciole della gran torta. In questo modo non fecero altro che preparare il terreno per future battaglie contro ulteriori "offensive borghesi" tese a vanificare le conquiste. Non fu solo tradita la celebre frase finale del Manifesto, l'appello ai proletari che hanno da perdere soltanto catene e tutto un mondo da conquistare, ma fu anche calpestato un altro principio ormai dimenticato da tutti, anche dai sinistri che più si autoproclamano seguaci di Marx:
"I proletari possono impossessarsi delle forze produttive sociali soltanto abolendo il loro stesso modo di appropriazione e, con esso, l'intero modo di appropriazione finora esistente. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno soltanto da distruggere le sicurezze e le guarentigie private finora esistenti" (dal Manifesto, cap. "Borghesi e proletari").
Vecchie tragedie che si ripetevano, da quando l'Internazionale, per bocca di Zinoviev e Trotsky (che pagarono con la vita il fatto di non aver capito), ordinò che contro il fascismo ci si gettasse alla difesa delle "guarentigie" costituzionali, democratiche, liberali; ordinò cioè di difendere una parte della borghesia contro l'altra.
All'epoca dello scontro col fascismo la sconfitta sul piano militare era probabile, ma la sconfitta politica dovuta alla tattica errata del compromesso con la borghesia era del tutto certa, ed ha ripercussioni ancora oggi. Perché la borghesia ha vinto sia col fascismo che con la democrazia, ed è perciò riuscita ad inculcare alla classe avversaria il rispetto per le sue istituzioni, per la sua ideologia, attraverso i suoi emissari che si appoggiano alla classe.
La tradizione sindacale comunista è sempre stata estranea ai contratti a scadenza fissa, alle troppe leggi per i "diritti" dei lavoratori, ai meccanismi automatici di contrattazione, ai protocolli d'intesa per il rilancio dell'economia ecc. ecc. I comunisti sono per una legislazione specifica solo in alcuni casi, come per la libertà sindacale, la durata della giornata lavorativa o il salario minimo a occupati e disoccupati. I vincoli legali obbligano ad un rigido rispetto del contratto, e alla fine sono i capitalisti con il loro Stato ad avere sempre il coltello dalla parte del manico. La lotta proletaria non deve mai essere né regolamentata né preannunciata.
La caratteristica principale dell'azione di classe è l'iniziativa, non la replica imbelle alle cosiddette provocazioni dell'avversario. Oggi egli le semina come esche alle quali è ormai routine abboccare. Non è abile Berlusconi: sono stupidi i suoi avversari. L'offensiva, non la difensiva, è l'atteggiamento che la classe deve recuperare; la distruzione delle garanzie, non la loro santificazione. Certo, non si può chiedere che dei politici – che ormai sarebbe persino improprio definire opportunisti – siano quello che non possono essere. Ma ciò che rappresenta la vera tragedia è che non esiste una forza politica e sindacale indipendente dalla borghesia.
Oggi le forze politiche presenti sulla scena sono per la maggior parte "sindacaliste" anche quando fanno professione di estremismo, mentre un tempo chiunque scendesse sul terreno della lotta economica fra salariati e capitalisti tendeva spontaneamente a saldarla con la necessità del cambiamento sociale. Mai veniva dimenticato, in modo più o meno consapevole, che "ogni lotta di classe è lotta politica" e che l'organizzazione del proletariato in classe significa "organizzazione in partito politico" (Marx, Manifesto). In Italia la separazione fra lotta sindacale e lotta politica venne molto tardi, a cavallo tra '800 e '900, a differenza per esempio dell'Inghilterra, che aveva una storica esperienza tradeunionistica. Prima la lotta non conosceva questa scissione, scaturiva dalla condizione nei campi e nelle fabbriche, ma era innanzi tutto contro i capitalisti e il loro sistema. Anche il vecchio Partito Socialista nacque su queste premesse.
Da un punto di vista storico generale è dunque la classe rivoluzionaria che dovrebbe minacciare, provocare, essere all'offensiva anche solo con la forza del suo potenziale di lotta. Anche quando non fosse scatenata nello sciopero o nello scontro aperto, essa dovrebbe far sentire il suo peso come deterrente nei confronti dell'avversario. A questo i comunisti devono lavorare, non certo al rattoppo, alla manutenzione, all'affinamento della macchina produttiva e politica borghese. Noi la vogliamo vedere sfasciata questa macchina, non rimessa in grado di sfruttare di più e meglio. Non ci sarà via d'uscita dalla situazione attuale se non si salda la critica scientifica e non morale al capitalismo con i metodi che le rivoluzioni hanno già insegnato, soprattutto attraverso l'accumulo di errori e di sconfitte rivelatrici.
La borghesia ha accumulato esperienza da questi errori, il proletariato no, almeno in quanto aggregazione di singoli proletari non saldati da un programma e da una organizzazione politica. Di conseguenza tutta la società è permeata nello stesso tempo di equilibri contro natura fra le classi e di paura dell'instabilità. Per questo il sindacalismo moderno si fa promotore soprattutto di stabilità, minacciando la lotta soltanto quando l'ingordigia di plusvalore provoca sintomi di rottura sociale; oppure quando, nella migliore tradizione partigianesca, si presta ad appoggiare una fazione pretesa "progressista" della borghesia contro un'altra pretesa "diversa", come sta succedendo adesso contro quell'insignificante battilocchio che è il capo del governo. Per questo motivo le condizioni del proletariato sono state via via ingabbiate in una serie di vincoli contrattuali e legali, il cui rispetto da parte dei "contraenti" dovrebbe in teoria evitare la lotta di classe e sostituirla con una contrattazione perenne in margine agli automatismi e alle regole sottoscritti dalle parti e sanciti dalla legge. Salvo denunciarli quando non fanno più comodo.
E' ovvio che la borghesia tenti più che mai di evitare uno scontro reale. Il potenziale distruttivo del proletariato nei confronti del complesso sistema capitalistico è troppo grande perché essa lo lasci senza controllo. Quindi vorrebbe incanalare nella "legalità" tutto il movimento sindacale e farne un semplice dipartimento del ministero del lavoro. D'altronde per il movimento, una volta accettata la strada del contratto sociale, è impossibile ritornare allo scontro quand'anche lo ritenesse necessario. Ecco perché le manifestazioni di massa sono trasformate in un processo per la legalità borghese calpestata dai borghesi: la piazza invece dell'aula di tribunale, i cartelli invece delle toghe, gli slogan invece delle arringhe.
Con questo sindacalismo da avvocaticchi, presto copiato da frange sedicenti rivoluzionarie (in realtà anch'esse difesiste a oltranza e impelagate fino al collo nello spulcio di regole e leggi), è stata tolta al proletariato ogni iniziativa e lo si è ridotto a un mortificante codismo nei confronti i capitalisti che non rispettano i patti (e quando mai!). Oggi l'obiettivo è la difesa dello "Stato sociale". Nessuno ricorda che il sindacalismo corporativo fascista e le politiche del welfare sono nati contemporaneamente, che sono figli del capitalismo maturo, e che i loro fautori hanno dichiarato apertamente di lavorare a uno strumento che servisse a prevenire efficacemente lo sbocco rivoluzionario della lotta di classe.
Certo, il sindacalismo welfarista e contrattualista è solo l'aspetto soggettivo della lotta del Capitale per togliere in anticipo ad eventuali movimenti rivoluzionari l'unica solida base organizzativa presso il proletariato. Il fattore oggettivo sta invece nella disfatta politica degli anni '20 e nelle condizioni materiali del periodo del boom economico del dopoguerra. Un tempo, con le Camere del Lavoro, la rete organizzativa sindacale era territoriale e saldava i proletari tra loro in modo naturale, indipendentemente dal mestiere e dalla fede politica. Oggi si è tornati ad un legame fittizio con il mestiere, e quel che domina è la passività. Ma l'inquadramento organizzativo proletario nella lotta quotidiana è estremamente importante per ogni sviluppo ulteriore della lotta di classe. E' dunque più che mai necessaria l'indipendenza degli organismi immediati di tipo sindacale rispetto a industria e Stato. La contraddizione è grave, perché se diciamo che il sindacalismo odierno è per sua natura irreversibilmente integrato nello Stato, quali potranno mai essere le condizioni che permettono di rovesciare questa pesante situazione?
La rivoluzione non è solo il momento del trapasso dei poteri. E' un processo che può prendere secoli. Le forme organizzative cui può dar luogo sono mutevoli. Il proletariato era già attivo come classe durante la rivoluzione borghese e non si è mai fermato nella sua lotta quotidiana contro il Capitale. Si è organizzato in sette, società di mutuo soccorso, leghe, partiti e sindacati. Come processo storico, la rivoluzione non è dunque una questione di forme di organizzazione. Organismi immediati che il proletariato conquisterà o costituirà ex novo saranno funzionali al compito, non importa la forma che assumerà il loro funzionamento interno. Ciò che imprime caratteristiche rivoluzionarie a un movimento proletario è ciò che fa il movimento stesso, come agisce, soprattutto in prospettiva, quindi in base a un programma e ad una direzione politica, cioè in base alla direzione del suo partito; è come adopera questi organismi, non come essi formalmente appaiono.
Abbiamo visto che, dopo il Welfare State, il fascismo, il keynesismo e il capitalismo statale russo, il sindacato è giunto al suo stadio finale. Si tratta di un'evoluzione che conclude un arco storico iniziato con la proibizione assoluta dei sindacati, continuato con la concessione condizionata, terminato con la simbiosi attuale. Ciò non significa che i proletari devono disertare la vita sindacale; devono soltanto non farsi ingabbiare nelle logiche corporative e contrattuali. L'esperienza ci insegna che nessun sindacato resiste alla pressione di masse proletarie decise a raggiungere un risultato. C'insegna anche, attraverso una lunga storia di scontri, che di fronte alla determinazione proletaria il sindacato può imboccare due strade: o viene travolto e distrutto o è costretto a far sue le istanze della base. In quest'ultimo caso è ovvio che diventa qualcos'altro.
C'è anche un'altra prospettiva che non è propriamente sindacale e che diventa possibile solo nei momenti di massimo scontro generalizzato. E' quella in cui i sindacati sono messi da parte come strumenti non adeguati a un movimento che vada oltre le richieste economiche e contingenti. In questo caso il legame fra proletari diventa politico, e prende altre forme, che possono variare a seconda della situazione storica. Così successe in Russia con la nascita dei soviet. Così successe in Polonia nell'80, quando il sindacato ufficiale fu spazzato via da un possente moto dal basso e nacque Solidarnosc, un ibrido sindacale che divenne subito organismo politico intermedio, anche se poi degenerò in partito borghese a causa della situazione interna e mondiale. Un processo simile non è da escludere, anzi.
Ma non saranno mai possibili tali prospettive se permane la convinzione che la lotta di carattere economico immediato debba avere le caratteristiche attuali. Se oltre tutto permane il fronte unico fra sindacalismo istituzionale e sindacalismo "di base" per l'utilizzo della grande forza proletaria nella difesa di garanzie entro questa società e nella tragica lotta partigiana contro il Berlusconi di turno.
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Da tali premesse e da una lunga storia, sorge "la necessità dello studio economico teorico della modernissima accumulazione e di una conclusione sulla strategia della lotta di classe. Al centro del falso marxismo sta la teoria della 'offensiva padronale borghese capitalistica' – sia essa dipinta nel campo dello Stato o della azienda – e la sua sporca figlia, la pratica del 'blocco' e del 'fronte unico' " (da Lotte di classe e 'offensive padronali', 1949).
Allora, una volta che ciò fosse compreso, che senso avrebbe la difesa di "articoli 18", di contratti pluriennali, di scartoffie su diritti virtuali, di protocolli che legano mani e piedi ai proletari, quando questi ultimi fossero ben organizzati in un grande movimento e la smettessero di seguire i piagnucolii insopportabili di capi corrotti dall'ideologia del Capitale? Quando si ponessero con forza in posizione d'attacco per loro obiettivi indipendenti sotto la direzione di un programma di classe?