Un superbo lavoro, Rummy
"Signor ministro, grazie per l'ospitalità, e grazie per il suo comando. Lei sta conducendo coraggiosamente la nostra nazione nella guerra contro il terrore. Lei sta facendo un superbo lavoro. Lei è un forte ministro della difesa e la nostra nazione ha con lei un debito di riconoscenza. Tutti gli americani conoscono la bontà e il carattere delle nostre Forze Armate. Nessun soldato nella storia ha mai combattuto così duramente e così spesso per la libertà degli altri. Oggi i nostri fanti, marinai, aviatori e marines stanno mettendo in fuga i terroristi nel mondo".
(Discorso di Bush al Pentagono mentre esplodeva lo scandalo delle torture ai prigionieri iracheni e mezzo mondo chiedeva le dimissioni del ministro della difesa Rumsfeld, 10 maggio 2004).
La marcia della civiltà e della democrazia
La rivelazione delle torture e delle umiliazioni inflitte ai prigionieri in Iraq ha sollevato una prevedibile ondata di proteste contro gli Stati Uniti: da ogni parte del mondo, e persino dall'interno del governo americano, si sono chieste a gran voce le dimissioni del ministro della difesa. The Economist, l'organo di stampa inglese che da più di 150 anni fa da portavoce al capitalismo globale ha scritto:
"Gli abusi su questi prigionieri non sono il solo grave errore commesso, e fanno parte di una cultura del comportamento extra-legale che ha preso piede al più alto livello. Parimenti, la responsabilità di quanto accaduto richiede di essere assunta ai vertici del comando. Ciò significa una cosa molto semplice: il ministro della difesa, Donald Rumsfeld, deve dimettersi. E se non volesse farlo, deve licenziarlo Bush" (14 maggio).
Questo giudizio alla Talleyrand (è peggio di un crimine, è un errore) è piuttosto duro e insolito per l'autorevole periodico liberista. Ma Rumsfeld non si è dimesso. E Bush non l'ha affatto licenziato, anzi, l'ha spudoratamente elogiato. Così come ha elogiato i soldati più altruisti del mondo che lottano per la libertà dei popoli. S'è detto ovviamente "disgustato" dalle foto, ma ha subito aggiunto che si tratta di casi isolati e che la grandezza dell'America sta proprio nel non nascondere nulla. I colpevoli saranno consegnati alla giustizia. All right, boys: non c'è errore, c'è solo crimine individuale, sappiamo come procedere.
Da Guantanamo non sono mai uscite fotografie se non quelle permesse dal governo. Dalle carceri americane, dove sono rinchiuse migliaia di persone sospette ai sensi del Patriot Act, nulla trapela, altro che fotografie in produzione industriale. Interrogata sulle torture in Iraq la signora England, teneramente incinta, ha detto ai giornalisti che lei ha "posato" solo per obbedire a ordini dei superiori. Già sentito. A domanda, ha risposto che certo, è successo di peggio rispetto a quel che si vede nelle immagini. Queste infatti riguardavano soltanto la preparazione dei prigionieri, chiamata "ammorbidimento", prima degli interrogatori.
Tutto ciò viene alla luce in un crescendo di macelleria che sembra non avere fine. Davanti agli obiettivi delle telecamere saltano locali pubblici e mezzi di trasporto pieni di gente, gli israeliani espongono su Internet fotografie di frammenti umani scattate dopo gli attentati suicidi dei palestinesi; missili a guida laser disintegrano capi, militanti e civili arabi; brandelli carbonizzati di americani vengono appesi ed esposti al pubblico; mine caserecce fanno a pezzi soldati israeliani e i resti vengono esibiti come trofeo da riscatto; decapitazioni vendicative sono eseguite con armi rituali inadatte…
Chiediamo scusa per questa descrizione della civiltà attuale ed avanzante, ma vogliamo introdurre il tema mettendo a confronto, come al solito, invarianti storici (la macelleria) e differenze (la tecnologia). Per "ammorbidire" i prigionieri esistono sistemi come droghe, deprivazioni, psicologia, ma sono meno fotogenici e grandguignoleschi, non si prestano alla propaganda terroristica di una superpotenza tecnologica nei confronti del "barbaro" invaso, al quale bisogna adeguare il messaggio. La recente circolazione di immagini segue naturalmente i fatti, ed esse li documentano meglio delle parole, ma noi non crediamo affatto che stiano circolando perché qualcuno le ha fatte uscire segretamente dalle prigioni. Circolano perché così si vuole che succeda, con la stessa predeterminazione con cui sono stati compiuti atti intenzionali e sistematici sia dai militari che (principalmente) dai civili che gestiscono in "appalto" gli interrogatori e i lavori sporchi, secondo una pratica sempre più diffusa. Tutti sanno che da millenni, e oggi più che mai, la leva psicologica fa parte della guerra. Ed ha i suoi specialisti come per l'uso delle truppe, dei carri armati, degli elicotteri, dell'artiglieria. Da entrambe le parti. Perciò la dinamica di questa guerra, compresa l'informazione mediatica, va forse esaminata più a fondo di come stia avvenendo, specie fra gli antiamericani frementi di indignazione come non mai.
Hard compellence
Compellenza dura. Sui documenti che riflettono l'indignazione sinistrorsa ricorre insistentemente il riferimento alla "barbarie nazifascista". Il paragone è del tutto fuori luogo. Primo, perché il nazifascismo e la democrazia a stelle e strisce fanno parte della stessa civiltà. Secondo, perché un Goebbels era tecnicamente un dilettante in confronto agli esperti di oggi. Terzo, perché la propaganda tedesca permeava di certo la società, ma era basata principalmente su un controllo diretto da parte del governo, e la disinformazione come la provocazione erano piuttosto rudimentali.
Quella americana ormai non si può neppure chiamare "propaganda", è qualcosa di più profondo, che ha attinenza con la mercificazione del mondo, per cui l'Uguaglianza consiste nell'equivalenza fra valori di scambio, la stessa che sta alla base del moderno mito democratico. Il governo americano non ha bisogno di "controllare" i media: essi sono in libera vendita sul mercato e il loro mestiere è di comprare e vendere notizie. E lo sanno persino i sassi che oggi i governi non fabbricano le notizie ma i fatti che saranno raccolti dai media come notizia. Persino il cinema hollywoodiano ce lo insegna, con dovizia di particolari. La realtà fabbricata diventa un modo di essere della politica, e sempre più spesso gli avvenimenti sono studiati a tavolino e messi in atto sul campo per determinare uno scenario voluto. Il copione recitato all'ONU dal segretario di stato Powell sulle armi di distruzione di massa è un esempio. Se fosse servito a qualcosa, gli invasori avrebbero "trovato" in Iraq le fabbriche disegnate dalla CIA per le diapositive di Powell con tonnellate di prodotti chimici e batteriologici. La macchina elettorale americana è notoriamente una prodiga fabbrica di "notizie".
Comunque sia, per noi essere "anti-americani" non ha senso, così come non ha senso essere "anti-fascisti". Siamo semplicemente anti-capitalisti. I resistenziali nostrani avevano imparato dagli alleati anglo-russo-americani ad essere ferocemente "anti-tedeschi", salvo poi partecipare alla crociata russa contro gli ex alleati, diventando anti-americani; avevano avuto qualche simpatia per il socialismo dei kibbutz, ma gli uffici propaganda dell'URSS avevano stabilito che Israele era "imperialista" ed essi divennero presto anti-ebraici. Fra i due assi portanti dell'imperialismo si erano formate nuove partigianerie e quella filo-russa assorbì una particolare specie di "anti-imperialismo", che prendeva in considerazione solo la politica pragmatica industrial-finanziaria americana e non quella moscovita, ideologica, arretrata, e per di più basata solo su una forza rozzamente militare. Insomma, dietro questa mania di dare un nome al capitalista "cattivo" c'è sempre stato qualche pretesto per allearsi con qualche capitalista "buono" con cui far fronte partigiano. Coglionati alla grande da chi conosce benissimo i suoi polli, i resistenziali nostrani manifesterebbero a favore della presunta colomba Powell contro il dichiarato falco Rumsfeld, se solo ci fosse un po' di maretta nel governo USA.
L'abbiamo già visto in articoli precedenti che la dottrina militare americana, oltre a tutto il ben noto armamentario di hardware e di software, utilizza in modo massiccio metodi tattici e strategici per influenzare le mosse del nemico. Il terrore per le conseguenze che possono essere provocate da determinate azioni è deterrenza, applicata con dovizia durante la Guerra Fredda mediante un arsenale atomico sufficiente a far sparire le specie viventi dalla faccia della Terra. Oggi è invece ampiamente applicata la compellenza, cioè l'uso di tecniche più o meno sofisticate per costringere l'avversario a danneggiarsi da solo. In Iraq siamo all'utilizzo duro e spietato di entrambe, ma la seconda è certamente privilegiata. Gli Stati Uniti, maneggiando tecniche come questa, riproducono in continuazione lo scenario nel quale il lupo, alla ricerca di un casus belli per mangiare l'agnello, lo accusa di intorbidargli l'acqua anche se sta bevendo a valle. "Ma non è possibile", dice l'agnello. "Allora hai parlato male di me l'anno scorso", ribatte il lupo. "Non ero ancora nato", insiste l'agnello. "Allora era tuo padre", taglia corto il lupo, e sbrana l'ottuso ovino che credeva di aprire un dibattito col predatore. Duemila anni dopo Fedro, il torrente è diventato il mondo intero e lo "spazio vitale" americano vi corrisponde. Chiunque, volente o nolente, è oggetto di compellenza, e sarebbe meglio che evitasse dibattiti.
Nella preparazione della Guerra del Golfo vi fu chiara compellenza quando si fece credere all'Iraq di poter invadere il Kuwait per poi far accorrere i liberatori, i quali invasero non solo l'Iraq e il Kuwait ma anche l'Arabia e gli Emirati. Nella preparazione ed esecuzione dell'attuale completamento di quella guerra, era chiaro fin dall'inizio che nessuno credeva alle panzane sulle armi di distruzione di massa e tantomeno a quelle su di un poco verosimile integralismo islamico del laicissimo Saddam Hussein. Ma agli americani non interessava affatto che qualcuno ci credesse: il loro scopo era di fare la guerra da soli affinché nessuno mettesse il naso nella successiva politica di ricostruzione (nation building) e di occupazione permanente. Il modo migliore fu quello di far sì che tutti si scontrassero col "paradosso logico" irrisolvibile: se non c'è l'ONU noi non interveniamo, disse l'Europa che conta, ma l'ONU non poteva esserci perché aveva appena stabilito che non esistevano le famigerate armi di distruzione di massa.
Di fronte ai governanti babbei d'Europa si adoperò quindi una politica di compellenza, accompagnata da una faccia di bronzo inaudita e da sonori schiaffoni alla femminea "vecchia Europa" (come scrissero i neocons), dichiaratamente inaffidabile per operazioni di rinsaldamento della civiltà del dollaro nel mondo. Ed esuberante compellenza venne applicata in seguito, quando, a invasione compiuta, la diplomazia si mise in moto perché fosse proprio la traditrice Europa ad appellarsi all'ONU, a copertura dell'invasione americana e a pagamento delle spese (e tutti ad applaudire Brahimi, il "mediatore" a cui il Dipartimento di Stato ha proibito persino di parlare).
Ma più grave e assai meno visibile è la compellenza nei confronti degli iracheni. Prima di entrare nei particolari è necessaria una premessa. "Compellenza" non è un termine che si trova sui vocabolari d'Italiano. È un neologismo derivato dalla parola inglese che significa "costrizione", "coercizione", e gli si dà il significato ampio prima ricordato. Non è una novità, dato che sui manuali militari compaiono da millenni tattiche e strategie basate sullo stesso principio. Ma il loro interesse nell'epoca moderna va al di là delle tecniche militari, diventa il modo di essere del capitalismo. La borghesia ha studiato a fondo il fenomeno e ce ne dà un'esauriente descrizione attraverso vari modelli di applicazione, elaborati da specialisti militari o dai celebri think tank privati come la Rand Corporation. Più che riferirci ai modelli pragmatici, guarderemo ai fatti utilizzando l'analisi logica dei rapporti fra gli attori di uno scenario sociale, la stessa che troviamo in una conferenza di Gregory Bateson, Da Versailles alla cibernetica, tenuta nel 1966, e che secondo noi pone con estrema chiarezza il problema.
A Versailles fu ingannata la Germania, sconfitta nella Prima Guerra Mondiale. Gli Stati Uniti erano intervenuti con un piano di pace presso gli accaniti nemici europei che volevano umiliarla dopo la sconfitta. Entrati per ultimi nel conflitto, quasi a guerra finita, gli americani avevano fatto credere ai tedeschi che avrebbero potuto arrendersi onorevolmente e senza pesanti oneri di guerra. Le "riparazioni" furono invece pesantissime, ed è oggi riconosciuto da tutti gli storici che esse aprirono da subito la strada alla Seconda Guerra Mondiale. Quella, secondo Bateson, fu una svolta storica: è lì che nacque il paradosso logico della politica moderna, cioè non solo il ricorso sistematico al rovesciamento dell'informazione rispetto ai fatti (cioè la menzogna di guerra), ma la preparazione sistematica all'accadimento dei fatti mediante l'uso scientifico della menzogna.
Polarizzazione del sistema
Fino ad allora, per migliaia di anni, la guerra serviva agli scopi per cui era dichiarata, senza tante storie. Oggi la guerra è ufficialmente sempre condotta per qualche scopo altamente edificante e i "nostri soldati" sono sempre mandati a maciullare più civili che soldati nemici per "difendere la pace", per "aiutare la popolazione" e per "portare la democrazia". La cibernetica c'entra perché prima di Versailles – dice sempre Bateson – il sistema delle nazioni funzionava come un termostato, il più semplice dei sistemi cibernetici. Così, se la temperatura sociale saliva, intervenivano determinati fatti a farla scendere: l'azione regolatrice di un governo, lo sfogo di una rivolta o di una guerra. Lo stesso accadeva se la temperatura sociale scendeva: allora intervenivano fenomeni opposti a farla salire. Di fronte a un sistema regolato dal termostato, per uscire dall'oscillazione regolatrice dobbiamo intervenire sulla manopola della temperatura e variarne il livello di riferimento. Con questa operazione si dice che noi polarizziamo diversamente il sistema.
Dopo la Prima Guerra Mondiale il sistema delle nazioni, giunto alla supremazia assoluta degli Stati Uniti, sperimentò per la prima volta una polarizzazione di sé stesso. Fu una prova generale di compellenza, scaturita dalle forze spontanee del sistema capitalistico in cerca di un programma e di una guida. Fu proprio come se il termostato sociale fosse stato regolato su un'altra fascia di oscillazione della temperatura. Perciò a Versailles dovettero seguire Monaco, Pearl Harbor, il 38° parallelo coreano, le infamie del Vietnam, ecc. Infine la guerra Iraq-Iran con il coronamento dell'invasione del Kuwait e quindi le due Guerre del Golfo. Nell'ordine della storica compellenza queste tappe significarono: far credere alla Germania che avrebbe avuto mano libera contro il bolscevismo e farla logorare contro l'URSS per poi distruggerla agevolmente; attuare il blocco delle materie prime indispensabili al Giappone in modo da costringerlo all'alternativa del diavolo: o perire soffocato o perire in guerra; obbligare l'ONU a mettere il suo vessillo su truppe che erano solo americane e che combattevano in Corea per interessi solo americani; "liberare" il Vietnam rinchiudendone gli abitanti nei "villaggi strategici" (campi di concentramento) e nelle famigerate "gabbie da tigre" (prigioni con le celle scavate nel suolo e le sbarre al posto del soffitto); far credere all'Iraq che avrebbe potuto prendersi il Kuwait come premio per aver ammazzato centinaia di migliaia di nemici iraniani dopo il voltafaccia degli ayatollah, utilizzando l'episodio come pretesto per invadere non solo il paese da "castigare" ma tutto il Medio Oriente.
Le conseguenze della nuova polarizzazione del sistema ebbero ripercussioni estreme: i partigiani proletari credettero di fare la rivoluzione combattendo per il paese imperialista più controrivoluzionario della storia; gli ebrei si diedero un incerto Stato buttando fuori i palestinesi dalle loro terre, illudendosi di poter vivere in pace fra un miliardo di musulmani; il capitalismo liberista tendente al monopolio poté imporre la libertà di mercato solo con l'intervento totalitario dello Stato. Tutti coloro che dovettero, devono o dovranno agire in questo scenario paradossale si ritrovano a far parte di una catena di eventi che appare come una tragedia greca: Oreste deve ammazzare Egisto perché questi aveva ammazzato Agamennone figlio di Atreo il quale aveva ammazzato i figli di Tieste il quale aveva commesso adulterio…, in una sequenza che può essere infinita. Sharon e Arafat, i più biechi capi che la borghesia abbia mai partorito al servizio dell'irrazionalità, si trovano nel bel mezzo di una sequenza del genere. Gli Stati Uniti non hanno interesse a interromperla e quindi fanno in modo che la tragedia sia senza fine, che non si coalizzino mai forze sufficienti a mettere in discussione la benefica leadership americana sul mondo. Come del resto è spudoratamente messo nero su bianco in diversi documenti ufficiali (rimandiamo, a tale proposito, al numero 11 di questa rivista con una monografia sulla "politiguerra americana").
Il riferimento alla tragedia antica è di Bateson, ed egli si dice convinto, in tutta la sua opera, che per uscire dalla concatenazione tragica non basta ripolarizzare il sistema, occorre cambiarlo. Da buon americano è dichiaratamente anticomunista, ma certe volte si avvicina al metodo di Marx più di tanti sedicenti comunisti. La catena lineare della tragedia non riesce a mostrare la gravità del problema che l'umanità si trova di fronte, e l'esempio rischia di essere accademico se non specifichiamo che la serie può essere effettivamente interrotta. Per quel che riguarda il tema che stiamo trattando, la situazione è molto più complessa della mera sequenza assassina causa-effetto. Nel gioco degli scacchi le mosse sono quelle delle regole, ma una cosa è giocare, tutt'altra cosa è mettersi a parlare del gioco, per esempio allo scopo di realizzarne uno del tutto nuovo. Le nazioni, le classi e gli individui non interagiscono in modo lineare e quindi potrebbero spezzare la loro rigida partecipazione al gioco mettendosi a parlare del gioco stesso. Ma sarebbe come uscire dal gioco, cioè dal sistema, e un salto logico del genere può risultare solo da una rivoluzione. La metafora ci dà comunque l'idea di che cosa potrebbe succedere anche nella realtà attuale se solo fosse spezzata la rigidità del gioco imposta dalla compellenza.
Il gioco degli scacchi è complesso, ma non è nulla in confronto al gioco che si svolge sulla scacchiera del mondo. Se noi ampliamo la scacchiera classica da 64 a 256 caselle in modo che vi possano stare quattro giocatori, uno per lato, vediamo subito che, anche se le regole rimangono le stesse, il gioco cambia totalmente, perché introduciamo la possibilità di una specie di meta-gioco oltre le regole, cioè l'alleanza fra giocatori, che risulterà sempre vincente contro la non-alleanza. Per esempio: se gli ebrei, gli europei, i cinesi, i musulmani, ecc., preso atto di essere pedine del gioco, ne saltassero fuori e incominciassero ad usare le regole in modo coordinato, passerebbero immediatamente da oggetto a soggetto di compellenza.
Ma non corriamo. Salti del genere sono ipotizzabili come esempio ma sono impossibili: nel mondo borghese possono esservi alleanze, ma neanche la guerra aperta spegne la concorrenza. Rimaniamo fermi al fatto che si verificano scenari casuali e scenari voluti. Le fotografie uscite dal carcere di Abu Ghraib disgustano assai poco chi appare disgustato di fronte al pubblico televisivo e poi si complimenta sfacciatamente con la gerarchia di comando: You're doing a superb job, my dear Rummy, stai facendo un superbo lavoro, mio caro ministro della guerra. Dunque: se il terrore è certamente deterrenza, rimane da capire in che cosa consista la compellenza e se sarà in grado di modificare i rapporti attuali fra le forze in campo.
Rompiamo la logica perversa dei significati capovolti
Prima d'ogni cosa sarebbe ora che s'imparasse a utilizzare un linguaggio non inquinato da trappole semantiche. Altrimenti si sbaglia completamente ogni valutazione, non solo sulla guerra irachena. L'Iraq è un paese capitalistico industriale con una popolazione quasi del tutto urbanizzata e un numeroso proletariato. Era governato con un sistema centrale statalizzato. Il suo partito unico era guidato da una frazione borghese e da un leader che in proporzione avevano più poteri dei loro omologhi nazifascisti. Il capitalismo poliziesco iracheno si dedicava ad un controllo della popolazione più feroce di quello italico e meno industrializzato di quello tedesco. Aveva i suoi campi di concentramento e le sue fosse comuni. Non era all'altezza di quelli europei solo a causa dell'arretrato retaggio coloniale e dell'isolamento in cui era stato costretto dalla politica imperialistica nei confronti del Medio Oriente. Mentre la rivoluzione contro la monarchia feudale aveva spezzato il potere dei capi tribù, cioè degli sceicchi latifondisti (il 2% dei proprietari possedeva il 70% della terra), la borghesia irachena era riuscita a mantenere una parvenza di Stato unitario solo facendo leva su equilibri tribali, per di più incentrati su un solo gruppo sociale, l'asabyya (lega finalizzata a uno scopo) dei tikriti, di cui fa parte la tribù degli Abu Nasser di Saddam. Nonostante tutto, accelerò la riforma agraria, l'industrializzazione, la laicizzazione, la statizzazione e la militarizzazione della società. Perciò, relativamente al numero di abitanti dell'area, tra guerre e repressioni, la produzione di morte fu a scala altrettanto industrial-capitalistica di quella del Terzo Reich. Il "fascismo" di Saddam Hussein non fu affatto un ostacolo alla sua carriera, anzi, fece assai comodo proprio agli americani, che incoraggiarono l'immane carneficina della guerra contro l'Iran, diventato antiamericano con l'instaurazione della repubblica islamica.
Questo per dire che quando gli americani incominciarono a cucinare l'immagine fascista del regime iracheno, avevano modo di adoperare ingredienti adatti allo scopo. Non ha nessuna importanza che proprio loro abbiano sostenuto per un secolo alcuni tra i peggiori regimi dittatoriali della Terra e che siano tuttora padrini dell'ultrareazionaria banda di re e sceicchi del petrolio. Qui è solo utile sottolineare che, se essi dicono che il regime iracheno era fascista, al massimo si può precisare che si trattava di un regime fascista-satrapico-tribale, non certo far finta di niente o addirittura affermare che non è vero.
Dunque gli americani avevano di fatto rispolverato una motivazione qualsiasi – una balla "burocratica", come dice Wolfowitz – per giustificare un doloroso intervento benefico. Lo stesso cui avevano fatto ricorso nella Seconda Guerra Mondiale per intervenire contro l'Asse Roma-Berlino-Tokyo: liberare i popoli dal Male. Gore Vidal, grande-borghese liberal americano, molto critico con i governi degli Stati Uniti, lo dice chiaramente: fu preparata una trappola per attirare tedeschi e giapponesi nella guerra contro l'America, ma fu a fin di bene. Il fascismo iracheno è stato perciò sfruttato per dar lustro alla guerra di liberazione dopo essere stato coltivato. Sempre a fin di bene. Non vale la pena di soffermarsi troppo sulla natura variabile delle armi di distruzione di massa: possono essere democratiche o fasciste a seconda se sono possedute responsabilmente dall'Asse del Bene o terroristicamente dall'Asse del Male. Agli Stati Uniti ovviamente non importa nulla né delle armi di ogni tipo di cui dispongano altri, mai confrontabili con le loro, né delle reazioni della diplomazia internazionale, ché tanto è plasmabile a volontà. La loro preoccupazione per eventuali reazioni non allineate è sempre legata all'effettivo utilizzo pratico dei movimenti altrui, i quali sono conseguentemente trattati come perturbazioni o rafforzamenti parziali nell'ambito degli interessi globali americani.
Osservando le relazioni fra Stati senza farsi coinvolgere in partigianerie (come dovrebbe fare ogni comunista), logica esige che si pongano i fatti al loro posto e non come vuole la propaganda imperialista. Se le motivazioni diplomatiche e reali (fascismo altrui e interessi imperialistici) coincidono con quelle della Seconda Guerra Mondiale, allora gli americani sono davvero i liberatori dal fascismo iracheno. Allora la "resistenza" vera, antifascista, cioè anti-Saddam, è quella degli svariati e abbondanti plotoni di esuli e collaborazionisti che stanno lavorando alla nation building irachena con i liberatori americani. Inutile indignarsi perché il Partito Comunista Iracheno ha accettato di collaborare alla formazione del nuovo governo: essendo stalinista, fa esattamente ciò che fece il partito di Togliatti con i liberatori che ancora scorrazzavano armati per Italia, Germania e Giappone.
Chiameremo perciò resistenza la frazione borghese che – alimentata dagli Stati Uniti tramite i loro servizi segreti – si oppose al regime satrapico-fascista di Saddam Hussein e che comprende le componenti sciite, sunnite, curde, tribali e populiste come gli esuli dissidenti ex baatisti e il Partito Comunista Iracheno. Staremo a vedere se sarà digerita come nel '45 o se sarà presa a fucilate dalla popolazione come successe ad alcuni eserciti fantoccio del dominio americano, per esempio a quelli di Ngo Dinh Diem, Nguyen Cao Ky e Nguyen Van Thieu in Vietnam.
Chiameremo invece guerriglia l'insieme dei gruppi che stanno combattendo e, nello stesso tempo, faticosamente coordinandosi. Cosa, quest'ultima che gli americani tentano in tutti i modi di impedire. Ma non sarà facile: per quanto il contesto etnico, religioso e tribale sia sfavorevole, la guerriglia tenterà di dar vita ad un fronte di liberazione nazionale o popolare com'è successo in tutti i casi del genere. Questa volta potrebbe essere un fronte di liberazione islamico più vasto di quello composto dalle forze nazionaliste irachene, e in grado addirittura di neutralizzare, assorbendolo, il cosiddetto terrorismo. Vocabolo, quest'ultimo, che comunque andrebbe evitato perché indica tutto ciò che incute consapevolmente terrore e comprende un ventaglio troppo ampio di fenomeni: il '93 giacobino, la Comune di Parigi, la dittatura proletaria del '17, le bombe dell'anarchia, le atomiche di Hiroshima e Nagasaki, l'azione repressiva di qualunque Stato borghese, l'attività jihadista di al Qaeda ecc.. Zbigniew Brzezinski, che fu in passato consigliere del governo americano per la sicurezza nazionale (il posto oggi occupato da Condoleezza Rice) ha fatto notare che nelle discussioni internazionali si finisce per non dare una definizione univoca agli stessi fenomeni essendo il termine "terrorismo" troppo vago. Oltre tutto la squadra di Bush lo sta usando in maniera impropria, dato che non può essere indicato come "il nemico". Sarebbe come dire, ha precisato, che gli Stati Uniti combatterono la Seconda Guerra Mondiale non contro la Germania ma contro il blitzkrieg, la guerra lampo.
Orrore pianificato
La guerra attuale va dunque analizzata dal punto di vista dei modelli realistici, dei sistemi delle alleanze disegnate da interessi concreti, delle grandi astrazioni formali. Sono queste a permetterci poi di scendere al particolare e di affrontare incongruenze o "verità" che la cronaca ci propina attraverso il filtro di un approccio moralistico, opinioni e sensazioni soggettive di chi racconta. Allora sì che, mettendo insieme i fatti minuti, possiamo ricavare indicazioni attendibili. Le principali fonti d'informazione sono i media e sappiamo che giornalisti e osservatori vari lavorano ormai principalmente su materiale propagandistico fornito dai governi e dai militari, e che è quasi impossibile accedere a informazioni dirette. Ma dall'andamento generale è deducibile il significato dei singoli fatti, mentre il contrario è certamente fuorviante.
Si dice che "tutto è lecito in amore e in guerra". Ma in guerra, nell'era della cibernetica, quel "tutto" non è lasciato al caso o, peggio, alle pulsioni individuali: è invece codificato, organizzato, imposto, sfruttato. Già all'epoca del citato articolo di Bateson i governi utilizzavano programmi al computer, basati sulla teoria matematica dei giochi, per produrre degli scenari artificiali che servissero da supporto alla politica estera e alla guerra. L'autore lo sottolinea. Ebbene, egli osserva, in un computer si possono certamente immettere le regole del gioco e fare in modo di avere una risposta per vincere lo scontro, ma passando all'applicazione di ciò che suggerisce la simulazione, non si fa altro che rafforzare il sistema di regole utilizzato. Con le odierne sofisticate possibilità di simulazione, e l'estrema accessibilità di programmi e macchine, ogni governo anche poverissimo può "giocare" alla guerra, diplomatica o guerreggiata. Ma, dal momento che non possiede la forza sufficiente per imporre agli altri le proprie regole, dovrà giocare con quelle imposte dal giocatore più forte.
Gli unici che giocano con regole proprie sono gli americani. Tutti gli altri sono costretti ad adeguarsi, perciò possono fare ben poco di propria iniziativa. E non possono certo uscire dalle regole i combattenti iracheni da soli: dovrebbe formarsi una polarizzazione di fatto fra interessi contrastanti rispetto a quelli americani, in modo che "sciami di eventi" possano dare una mano alla guerriglia e neutralizzare la compellenza degli Stati Uniti. Nel caso reale ai nemici dell'America non è lasciato altro spazio che gettarsi letteralmente al suicidio pur di procurare qualche morto all'avversario, senza risultati apprezzabili in termini di conquista di posizioni di forza o sul terreno. Quella che al tempo del Vietnam poteva essere una buona tattica guerrigliera di logoramento, oggi è una pessima strategia quando le regole del gioco principale prevedono lo sterminio sistematico di militi e di capi. Teniamo presente che oggi non ci sono colossi come la Russia e la Cina a rifornire le guerriglie. Il logoramento finisce per danneggiare chi lo promuove, se non ha riserve alle spalle, pur avendo combattenti in gran numero e pronti al sacrificio. Solo la milizia del giovane imam Moqtada al Sadr, inesperto o mal consigliato, ha perso almeno 1.000 armati in due mesi sui 3.000 che gli attribuiscono. Per contro, le perdite totali inflitte all'odiato imperialista ammontano a un migliaio di caduti in tutto. Esse rappresentano un tributo assai modesto per l'invasione e l'occupazione di un grande paese, con un anno di continui combattimenti, che hanno visto avvicendarsi in Iraq circa 250.000 soldati e paramilitari.
I rastrellamenti in aree urbane popolatissime servono a poco. Il modo migliore per individuare i guerriglieri è costringerli allo scoperto, attirarli in conflitti a fuoco e tracciarne la mappa. A parte gli attacchi suicidi, la loro eliminazione fisica è del tutto agevole quando si rivelano in combattimento sotto una rete di sensori tecnologici di cui spesso non avvertono l'esistenza e l'efficacia. Siamo gli ultimi a sostenere che le tecnologie alla lunga possano battere l'uomo nel combattimento, ma è un dato di fatto che in episodi localizzati nel tempo e nello spazio esse sono estremamente efficaci. Quindi è del tutto evidente che la tattica americana contro i guerriglieri è quella di esasperarli, instillare irreprimibili sentimenti di vendetta, portarli ad azioni eroiche ma scomposte e poco "paganti" dal punto di vista del bilancio militare. È una tattica che, provocando un altissimo numero di vittime, specialmente fra la popolazione, tende a impedire che la guerriglia vi si radichi, che si formi un'organizzazione a lunga scadenza, che si sviluppi una logistica permanente. Fomentando invece l'aspetto "barbarico" e casuale, si evita soprattutto ogni possibilità che rimanga influenzato il fronte interno americano, l'unico che per ora può far qualcosa per fermare l'ondata militare che, almeno nelle intenzioni dei neoconservatori, dovrebbe spazzare il mondo per la salvezza del capitalismo.
Agli Stati Uniti occorre nella maniera più assoluta impedire che la guerriglia irachena – o di qualsiasi altra area – si consolidi e si mostri come reazione armata generalizzata contro la loro presenza nel mondo. Occorre confinarla nel ghetto del cosiddetto terrorismo. Mostrare che c'è effettivamente uno scontro di civiltà contro la barbarie. Per questo i capi designati del "terrorismo" internazionale servono vivi e operanti, così come servono le loro macellerie in mezzo ai civili. Vi sono indizi che, accumulati, diventano certezze. Se solo le "prove" dei misfatti terroristici e dei loro mandanti contassero qualcosa, sarebbe stata invasa e spazzata via l'Arabia Saudita, non l'Iraq. Saddam Hussein è stato trovato in circostanze mai spiegate, come se una pattuglia sprovveduta avesse messo le mani per caso su una banda che si stava vendendo il capo per intascare la taglia. Bin Laden e il capo dei Talebani erano circondati, eppure se la sono svignata con facilità. Ma sia l'uno che l'altro sono serviti benissimo per scatenare la guerra all'Afghanistan e all'Iraq, paesi in cui gli Stati Uniti si sono insediati stabilmente costruendo grandi basi senza che nessun altro Stato potesse fiatare, e ovviamente senza neppure provare a impiantare i nuovi rapporti economici e sociali previsti dagli sbandierati piani di nation building.
Escludiamo dunque che la grande ondata mediatica sulle torture sia dovuta a errore, crimine, follia individuale o semplicemente pasticcio di dilettanti come potrebbe apparire. Il gran vespaio mondiale sollevato va interpretato più come una consapevole politica di deterrenza e soprattutto come una pianificata politica di compellenza. Il messaggio delle foto, la violenza dell'impatto visivo che suscitano, le stesse dichiarazioni dei protagonisti e il comportamento dell'esecutivo americano, tutto ciò è parte integrante del combattimento. Rovesciare sul nemico un senso d'impotenza, prima col massacro militare, poi col dileggio sistematico, provoca come reazione un bisogno di vendetta cieca. Infatti la risposta è venuta, immediata, primitiva, sacrificale, in netto contrasto con la decadenza della civiltà tecnologica nemica. Il filmato del prigioniero americano decapitato (a parte le oscure vicende di cui la vittima è stata protagonista) è un risultato della compellenza e ha lo stesso valore strategico di quello che mette in mostra la macelleria degli attentati palestinesi. Anche se dall'altra parte vi sono torture invisibili ben più tremende di quelle passate in televisione e massacri su scala industriale perpetrati con armi sofisticate, il risultato è che per ora da una parte si agisce con metodo e dall'altra con disperazione e rabbia. Per giunta provocate, volute come elemento utile alla vittoria.
Il fronte interno delle nazioni "civili", belligeranti o no, è sottoposto al confronto continuo ed efficace – perché reale – fra un esercito disciplinato che appare in televisione con le sue divise in ordine e tutti i suoi ammennicoli tecnologici, e le bande di straccioni che sparano a casaccio con i loro scassati Kalashnikov e razzi a spalla. Il primo, ordinato, sempre intento a "mantenere l'ordine", gli altri, disordinati, mostrati come portatori di incivile disordine. La civiltà si autorappresenta, allo scopo di mantenere l'ordine interno, per confronto con l'inciviltà degli altri. Quest'ultima invece è spinta in un circolo vizioso, cioè a dare un'esagerata rappresentazione di sé stessa presso i guerriglieri, i sostenitori e i simpatizzanti, a coltivare pulsioni psicologiche irrazionali, perfettamente inutili dal punto di vista militare, politico e propagandistico. In un contesto dove i motivi per alimentare l'odio contro l'invasore sono più che bastevoli, l'overdose di sangue dimostra più agire sconnesso che efficienza militare.
Quando si parla di guerra sono fuori posto la morale e l'ipocrisia. I media si sono gettati come avvoltoi sui filmati innalzando un lamento unanime sulla differenza tra chi tortura come deviazione dalla normalità – una normalità civile, democratica che produce il giusto processo di fronte alla nostra legge – e chi invece sgozza i prigionieri per via della sua "cultura" primitiva del sangue. In queste occasioni, anche senza suggerimenti, viene loro benissimo sbattere in faccia a chiunque i rapporti sociali arcaici, le lapidazioni di donne, le mutilazioni dei ladruncoli, le decapitazioni degli empi che sono prescritte dalla legge degli altri.
Nella guerra mediatica non c'è niente di più micidiale degli argomenti apparentemente ragionevoli e basati su fatti veritieri manipolati. È vera la tortura anglo-americana com'è vera la macelleria islamica, tutto sta a vedere chi è più abile e preparato ad adoperarle. Bisogna ricordare che le fotografie documentano la situazione, ammessa dagli occupanti e dai loro partigiani, di 42.000 iracheni detenuti mentre le organizzazioni della guerriglia denunciano l'esistenza almeno di altri 20.000 prigionieri in lager sconosciuti. La politica del terrore è evidente: da quando c'è l'occupazione americana sono passate ufficialmente attraverso le prigioni e i campi 182.000 persone, quindi la stragrande maggioranza ne è uscita e i giornalisti hanno improvvisamente scoperto che quasi tutte avevano subìto o almeno visto il trattamento mostrato adesso dalle fotografie e l'avevano già raccontato. Come dire appunto: andate e raccontate. Anche Gengis Kan e Tamerlano mostravano ai prigionieri sopravvissuti i cumuli di teste tagliate e poi li liberavano affinché raccontassero.
Riprendere lucide indicazioni dai classici
"Con fredda premeditazione [i cinesi] avvelenano il pane di Hongkong... salgono armati sulle navi mercantili e massacrano i marinai e i passeggeri europei. Rapiscono e uccidono qualunque straniero capiti vivo nelle loro grinfie. Perfino i coolies a bordo delle navi-trasporto degli emigranti si ammutinano… lottano per impossessarsi degli scafi; piuttosto che arrendersi, colano a picco con essi o muoiono nelle fiamme… invece di gridare allo scandalo per le crudeltà dei cinesi meglio sarebbe riconoscere che si tratta di una guerra per la sopravvivenza della nazione cinese… Si può radere al suolo Canton, ma tutte le forze che gl'inglesi riescono a mettere insieme non riuscirebbero a tenere due province" (Engels, Persia, Cina, 5 giugno 1857).
Engels scriveva in un contesto di lotta anticoloniale, quindi era incondizionatamente a favore dei "terroristi" cinesi, così come era a favore di quelli italiani o indiani che lottavano per analoghi obiettivi rivoluzionari borghesi. Ciò non gli impediva di analizzare minuziosamente gli aspetti militari della lotta e soprattutto quelli geopolitici, dato che la Russia e le altre potenze premevano sull'Asia. Oggi il contesto è diverso. Alle colonie è subentrata la dipendenza economica delle nazioni e il dominio incontrastato del Capitale impersonale e globalizzato. Qualunque sia la portata di una guerra, oggi quella fra borghesie non ha più nulla di rivoluzionario né lo potrà mai più avere. Perciò occorre analizzarla in quanto tale.
La barbarie contro la civiltà è un tema alla moda anche oggi, ma di barbari che possano uccidere la società decadente e innestarne sulle sue spoglie una nuova e più vitale non ce ne sono più. Ci sono solo residui di società più vecchie di quella sopravvivente capitalistica, degradati da un connubio con il Capitale mercificato come tutto il resto. Dicemmo che le scintillanti scenografie pseudo-urbane dell'Arabia Saudita e degli Emirati assomigliano più a uno dei mondi alieni dei fumetti alla Flash Gordon o a Las Vegas che alla società impostata al suo nascere sulle organiche e severe leggi del Profeta. Nessun comunista potrà mai negare rispetto e ammirazione per le forze rivoluzionarie che fecero emergere una civiltà finissima dalle tradizioni dei nomadi del deserto, ma non potrà averne per le sopravvivenze caricaturali della vecchia gloria, specie nelle versioni capitalistico-oscurantiste del cosiddetto jihadismo. Non c'è civiltà alternativa, tutto è omologato a un capitalismo più marcio che mai; e non c'è fresca barbarie che prema alle porte. Scrisse la nostra corrente nel 1951:
"Vorremmo che alle porte di questo mondo borghese di profittatori oppressori e sterminatori ci fosse, poderosa, un'onda barbarica capace di travolgerla. Ma in esso, se vi sono frontiere muraglie e cortine, tutte le forze che pure si convellono e contrappongono si schierano sotto la tradizione della stessa civiltà. Quando possa il movimento rivoluzionario della classe operaia ridarsi forza e inquadramento e armi, e quando possano sorgere formazioni che non stiano ai cenni della civiltà, allora queste saranno le forze barbare, che non disdegneranno il frutto maturo della potenza industriale moderna, ma lo strapperanno dalle fauci degli sfruttatori, spezzando i loro denti feroci, che mordono ancora" (Avanti barbari!, 1951, sottolineature nostre).
Questa visione storica del problema pone il proletariato industriale, col suo programma rivoluzionario e col suo partito, come sola forza in grado di rompere una volta per sempre l'attuale stato di cose. È quindi escluso che i comunisti si possano schierare con qualcuna delle forze odierne in campo, perché il criterio rimane quello del Manifesto: i comunisti "sostengono ovunque tutti i movimenti rivoluzionari contro le condizioni sociali e politiche esistenti". Tale criterio non può essere falsificato mettendo quel che si vuole sotto la dicitura "movimenti rivoluzionari". È rivoluzionario il movimento borghese contro il feudalesimo; lo è quello per trasformare le colonie in Stati nazionali; lo è naturalmente il movimento proletario contro lo Stato borghese; non lo è affatto quello prodotto dai tentativi di sopravvivenza di una vecchia società contro il capitalismo moderno (a meno che esso non si produca nell'ambito della rivoluzione proletaria). Lo è oggettivamente lo scontro storico fra il capitalismo più moderno e i modi di produzione arretrati: "La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque la totalità dei rapporti sociali", dice sempre il Manifesto. Questo vale ancora oggi, anche se non esistono più modi di produzione antichi ma solo residui sovrastrutturali, per quanto potenti (tradizioni, religioni, configurazioni parentali, ecc.). Perciò la borghesia è rivoluzionaria suo malgrado e, anche in assenza di un movimento proletario sovvertitore, essa è costretta a lavorare per la società futura. Solo quando il proletariato attacca il Capitale, ogni movimento che gli si affianchi, anche soggettivamente arretrato, diventa oggettivamente rivoluzionario, in quanto rappresenta una delle forze utili ad abbattere il sistema capitalistico.
Spingere l'avversario al suicidio
Oggi forze sociali arretrate, schiacciate dalla propria borghesia e dall'avanzare del capitalismo imperialistico superarmato, combattono un po' dovunque una battaglia persa in anticipo. Non ci sono più né barbari né borghesi rivoluzionari che possano essere portati a vincere da una ragione storica. E non c'è oggi un attacco proletario che possa dare la propria impronta a quello, generoso ma inutile, delle masse oppresse che si muovono confusamente su tutto il pianeta. Senza l'alternativa proletaria non rimarrebbero che due percorsi entro la soluzione borghese: 1) la vittoria piena e completa degli Stati Uniti sul resto del mondo; 2) la loro sconfitta da parte di un'alleanza tra le forze arretrate e quelle del capitalismo concorrente. Difficile immaginare qualcosa di peggio rispetto a entrambi i percorsi, perciò è inutile sparare scemenze sulle Stalingrado irachene, su resistenze che in realtà sono solo anticamere di future oppressioni borghesi sul proletariato locale, sull'unità di popoli che sotto il capitalismo possono solo scannarsi a favore del Capitale. La soluzione (non la terza via, ma l'unica via che possa definirsi soluzione) sarebbe la sconfitta sia degli Stati Uniti che dell'ipotetica alleanza fra residui del passato e paesi sub-imperialisti concorrenti. Ma per ora essa non è visibile all'orizzonte.
Il rullo compressore organizzativo, tecnologico e informativo (nel senso di intelligence e comunicazioni) dell'invasione e dell'occupazione, unito alla strapotenza militare, si scontra con la pulsione emotiva all'odio e alla disperazione che da tutto ciò è indotto. Chiunque vorrebbe un nemico reso irrazionale dall'odio al posto di uno freddo e calcolatore. La situazione attuale genera nella popolazione e quindi nei guerriglieri un cocktail micidiale che trascina a un sicuro suicidio. Le anziane matriarche delle tribù, non meno rispettate dei guerrieri, incitano i giovani alla guerra di vendetta e i giovani combattono, nell'ignoranza totale delle possibilità tecniche dell'occupante, cercando di sopperire col coraggio alla scarsa lucidità militare. Dopo l'attacco a Nassirya in comando italiano ha osservato che certamente qualcuno sta cercando di addestrare i guerriglieri alla disciplina e all'uso collettivo delle armi, ma che persistono l'individualismo e l'azione scoordinata, come dimostra del resto la buona tenuta dei giovani soldati italiani sotto il fuoco intensissimo ma inefficace della guerriglia.
Siccome ogni guerra trova sempre la propria simmetria, se la guerriglia avrà la forza di continuare lo scontro, tenderà anche a cambiare tattica. Qualcosa sta già accadendo: sui siti Internet americani e inglesi specializzati in argomenti militari si registra la preoccupazione per il riorganizzarsi dei gruppi guerriglieri, non tanto contro il (quasi) inavvicinabile esercito occupante quanto contro la più vulnerabile rete organizzativa del futuro governo fantoccio. Si aggiunge a ciò la preoccupazione per il fatto che in Europa si stia facendo strada un'opposizione quasi totale verso la guerra "americana" (al di là dei sorrisi fra statisti) e non sia tutto sommato sentito il problema della risposta all'attacco dell'11 settembre. Nonostante le argomentazioni di facciata, sta franando la compattezza dei media europei nel dare un colpo al cerchio e l'altro alla botte quando si parla dei rapporti fra le due sponde atlantiche. Essi avvertono che la popolazione europea, a differenza di quella americana, considera come due cose separate la chiara guerriglia in Iraq e l'oscuro terrorismo, le cui radici affondano assai manifestamente nelle attività passate dei servizi segreti statunitensi.
Come al solito ci si ferma ai sintomi senza indagare sulle origini dei fenomeni, ma è evidente che non siamo solo di fronte a un problema di sondaggi, risibile strumento di manipolazione propagandistica. Sta maturando la percezione generalizzata che la guerra in corso aggravi i problemi della vita reale e che se ne possa fare a meno con beneficio di tutti. La somma delle opinioni non pesa un grammo, ma la spinta materiale che genera le sensazioni diventa un macigno da mille tonnellate quando sono minacciati gli interessi materiali delle classi.
Se una tale spinta diventasse anche univoca, cioè polarizzata in varie aree del mondo, risulterebbe pericolosissima per la stabilità dell'intero sistema capitalistico, cresciuto da un secolo sotto l'influenza degli interessi americani. Quando la polarizzazione di interessi prendesse corpo, non ci sarebbe più differenza sostanziale fra la guerriglia in Iraq e le eventuali misure segrete (politiche, commerciali, finanziarie) prese da uno o più Stati nel tentativo di recuperare la propria sovranità borghese. Quindi gli Stati Uniti non possono assolutamente permettere che la guerra contro di loro metta radici al di fuori del paese occupato in forme che non si possono bollare come "terrorismo". È fin troppo evidente che, in un mondo globalizzato, gli interessi di borghesie che sono alla ricerca della propria sovranità perduta (da quelle europee a quelle di Cina e Giappone) finiscono per coincidere con gli interessi della guerriglia in Iraq, qualunque origine essa abbia avuto. Perciò gli Stati Uniti, dal loro punto di vista, hanno ragione a temere che la "guerra infinita" prenda la piega di una guerra sotterranea fra potenze; ecco perché lanciano allo stesso tempo le parole d'ordine "guerra al terrorismo" e "guerra preventiva" contro gli Stati Canaglia. Ma sono già praticamente soli. Saranno costretti a cambiare la politica iniziata in Afghanistan col "calcio nel vespaio" talebano che spande nemici occulti più pericolosi dei terroristi; i quali del resto saranno oggetto di compellenza, ma non sono utilizzabili a piacimento e all'infinito. Sono tutti motivi che concorrono all'esigenza di concentrare gli sforzi in un'area circoscritta del pianeta, in modo da passare alla politica della "carta moschicida", cioè a una trappola circoscritta in cui attrarre jihadisti irriducibili e guerriglieri nazionalisti e assassinarli uno per uno, come fa Israele. Guai se si generalizzasse una guerriglia internazionale, armata, economica, politica.
Per realizzare tutto ciò agli Stati Uniti occorre un piano di compellenza meno grossolano dell'attuale, in modo da obbligare ogni avversario ad agire o combattere sempre nell'ambito di uno scenario controllabile con i loro mezzi organizzativi, tecnologici, militari. Perché essi non sono infiniti, soprattutto per quanto riguarda le truppe, oggi costosissime e meno "spendibili" per ragioni interne di quanto non lo fossero in Corea o Vietnam. Quale che sia il nemico, esso va isolato in modo da impedirgli eventuali contatti, aggregazioni, vie logistiche e finanziarie. In tal modo lo si può annientare o utilizzare a seconda della convenienza, con pragmatico cinismo.
L'Iraq è desertico e piatto, quindi per la guerriglia non ci sono alternative agli scontri urbani e agli attacchi sporadici contro convogli lungo le vie di comunicazione e contro infrastrutture, specie quelle legate al petrolio: l'invasore muove da basi fortificate inavvicinabili e quindi occorre uscire allo scoperto per attaccarlo. Un esempio di minicompellenza è fornito dagli episodi in cui la guerriglia a Bassora, a Najaf, Falluja, Nassirya, Karbala e nel quartiere sciita di Baghdad è stata provocata alla guerra notturna, nella quale i miliziani erano ciechi per il buio mentre gli attaccanti li vedevano benissimo con i loro sensori. Nella guerra moderna, entro limiti che vedremo subito, vale infatti moltiplicato per mille il paradosso napoleonico, citato da Engels nell'Antidühring, sulla dialettica della quantità-qualità nello scontro fra cavallerie, l'arma mobile dell'epoca:
"Due mamelucchi erano incondizionatamente superiori a tre francesi; 100 mamelucchi erano pari a 100 francesi; 300 francesi erano di solito superiori a 300 mamelucchi, 1.000 francesi mettevano costantemente in rotta 1.500 mamelucchi".
Ovviamente, proprio perché questa è un'osservazione dialettica non va adoperata in modo a-dialettico, cioè assolutizzandola. Cavalieri francesi e mamelucchi esprimevano sul campo di battaglia le rispettive società, l'una che privilegiava la divisione tecnica e sociale del lavoro, l'altra che privilegiava l'individuo e il legame tribale. Napoleone non se ne fece nulla della propria superiorità nei confronti delle forze armate locali in Egitto quando fu bloccato a terra dalla flotta inglese, cioè quando intervenne un elemento perturbatore esterno rispetto al modello delle rispettive cavallerie. E d'altra parte la superiorità militare francese fu fatta propria, non appena partito Napoleone, da Mehmet Alì, un oscuro ufficiale albanese dell'esercito turco incaricato dall'Impero Ottomano di schiacciare la rivolta dei mamelucchi (cosa che però fece conquistando l'Egitto per sé, non solo contro la Turchia, ma anche contro la Francia e l'Inghilterra).
La schiacciante superiorità americana è dunque tale in ogni caso, ma la sua applicazione integrale è possibile solo fino a che non intervengano fattori esterni a modificare il contesto. Un'azione militare può raggiungere il massimo di efficacia, ma quello che conta, in ultima analisi, è la sua efficienza, cioè il suo rendimento rispetto al fine che si vuole ottenere Questo vale per gli americani e vale soprattutto per i guerriglieri iracheni: radere al suolo un quartiere, moschee comprese, può sembrare un metodo efficace per eliminare un gruppo di guerriglieri, ma può risultare del tutto inefficiente se dall'episodio scaturisce un altro gruppo più numeroso e soprattutto più attento e organizzato. Sull'altro fronte, sgozzare un prigioniero spaventa certamente i soldati, ma può anche convincerli di avere a che fare con gente che vale la pena di sterminare come gli insetti.
D'altra parte efficacia ed efficienza possono esaltarsi a vicenda: nel maggio scorso, una squadra di marines scese dagli elicotteri con casse di esplosivo e, sotto gli occhi attoniti della popolazione, rase al suolo una moschea dov'erano state trovate armi e munizioni. Alle rimostranze dei religiosi e della popolazione, il comando americano affermò che mai i marines avevano demolito una moschea, e che il bombardamento era opera dei guerriglieri stessi. I militari sanno benissimo che le guerriglie forgiano combattenti in grado di imparare dal nemico, è logico che facciano di tutto per evitare il formarsi della guerriglia organizzata e mirino a mantenere la battaglia contro l'invasore sul piano dell'odio cieco e del "terrorismo" suicida.
Percezione e realtà della minaccia
Gli Stati Uniti hanno ragione quando sentono minacciata la loro esistenza. Non ha senso sbraitare per le conseguenze: l'indignazione non cambia il dato di fatto. E la minaccia è di portata così gigantesca, al di là dell'11 settembre, che sarebbe strano vedere Casa Bianca e Pentagono non reagire a scala planetaria. È in gioco l'esistenza stessa del capitalismo, che fa perno sull'economia, sulla politica estera e sulla potenza militare degli Stati Uniti. Ma il capitalismo è fatto anche di concorrenza, e questa è una delle sue contraddizioni insanabili, perché né i paesi sub-imperialisti europei, né i paesi imperialisti emergenti come Cina e India, né i paesi che posseggono materie prime, possono permettere che il capitale americano controlli totalmente l'economia di questo mondo globalizzato.
Quando si deve intraprendere una guerra di coalizione, come vorrebbe essere quella scatenata dagli Stati Uniti, l'accordo sulla natura e sulla gravità della minaccia rappresentata dal nemico è essenziale, perché da essa deriva la strategia per farvi fronte, che è come dire che i fini determinano i mezzi. Ma la percezione della minaccia, come si dice in gergo militare, è assai differente fra Stati Uniti e resto del mondo, il quale non può semplicemente dire a Washington, com'è stato detto nei fatti, anche dai più fedeli alleati: "Hai voluto la bicicletta, adesso pedala". Nella nostra rivista abbiamo dedicato molte pagine a questa strana guerra, ricavandone il significato dal contesto di capitalismo ultramaturo (di transizione) nel quale l'umanità procede sul filo del rasoio fra una crisi degenerativa del sistema e la catastrofe rivoluzionaria. La conclusione cui siamo giunti non è ovviamente una novità: la maggior minaccia per il capitalismo è il capitalismo stesso, e l'individuazione di "nemici" ben identificati con nome e cognome non è altro che un fenomeno del tutto marginale senza troppi effetti materiali sulle scelte e sulla conduzione della guerra. Il fatto che si sia arrivati all'invasione dell'Iraq contro ogni spiegazione razionale lo prova.
Dunque gli Stati Uniti, non importa se per scelta o per via spontanea, sono giunti a delineare più o meno realisticamente un nemico in modo che sia possibile una mobilitazione contro di esso. Abbiamo visto che il "terrorismo" non può essere il nemico (semmai lo è il terrorista), ma non si poteva certo dire: "Adesso dobbiamo riorganizzare il mondo", si sarebbero solo alimentate chiacchiere all'ONU e ovunque. Né si poteva dire: "Adesso riorganizziamo il mondo e facciamo la guerra a chiunque si opponga", dato che la percezione della catastrofe capitalistica è così variabile che sarebbe successo un bel putiferio internazionale senza costrutto.
Non serve insistere sulle dietrologie e fare congetture sul perché e sul percome successe l'11 settembre, su chi fu l'aggressore ricevendone "contraccolpi", sul fatto che cadde come il cacio sui maccheroni, ecc. L'attacco alle Twin Towers e al Pentagono, i due simboli dell'imperialismo, ha portato alle invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq. È stata imboccata quella strada e per ora la guerra continua, obbligando il "nemico" a rivelarsi, ovunque sia e qualunque posizione occupi nel mondo capitalistico. A questo punto sfruttiamo le domande che ricorrono spesso nelle analisi degli specialisti e che sintetizziamo nei seguenti punti essenziali:
1) Se il nemico è individuato nel fondamentalismo islamico, è esso in grado di radicarsi in quanto tale fra il miliardo e mezzo di musulmani?
2) Se lo è, riuscirà di per sé a rappresentare una minaccia per l'esistenza della civiltà occidentale con i suoi valori, la sua democrazia, ecc.?
3) Oppure può acquisire mezzi tali da impensierire la potenza degli Stati Uniti e dei suoi alleati? Di conseguenza, è adeguato contro di esso l'uso dell'intelligence e delle tecniche antiguerriglia?
4) L'opzione militare, con l'uso di grandi eserciti, è un mezzo adeguato per combattere un simile nemico che ovviamente non combatterà in campo aperto e tenderà ad allargare il suo fronte d'intervento?
5) Che cosa c'entra in tutto questo l'Iraq, paese non fondamentalista? Perché non sono stati attaccati ad esempio l'Iran o l'Arabia Saudita, entrambe nazioni petrolifere guidate da governi fondamentalisti?
Le risposte degli addetti ai lavori non si discostano, per la sostanza, dalle solite analisi geopolitiche rintracciabili su tutti i giornali. Quel che è interessante per noi è che aggiungono particolari tecnici dai quali proviamo a ricavare uno scenario che sia utile alla comprensione dei troppi paradossi sollevati da questa guerra. Anticipiamo che il detto "la guerra è una faccenda troppo importante per lasciarla in mano ai militari" dovrebbe oggi essere rovesciato: "è troppo importante per lasciarla in mano ai politici". Il militarismo odierno non è più quello della pazzia pura come nella battaglia di Verdun-Somme (un milione e mezzo di morti) e nemmeno quello affaristico e visceralmente anticomunista del Vietnam (crescita esponenziale della guerra e giustificazione politica): esso serpeggia piuttosto nei corridoi che collegano il Pentagono con il Campidoglio, con la rete della ventina di servizi segreti, con i consigli di amministrazione delle industrie belliche e con Wall Street. La strategia si perde, nel mare dell'affarismo e degli intrighi. I militari sono dunque scientificamente più attrezzati dei civili per capire che cosa sia una guerra moderna e per combatterla. Pur se manifestano patologie che portano a massacri o torture in proprio, pur se si prestano alle riuscite caricature del cinema pacifista hollywoodiano, sono meno ideologicamente bacati. Hanno una visione più lucida delle conseguenze dell'opzione militare, ci offrono quindi più materiale utilizzabile, anche se occorre ricavarlo fra le righe di testi che devono sintonizzarsi politicamente con i governi o con i committenti dai quali sono pagati.
Primo scenario: il problema è l'integralismo?
Gli interrogativi del capitoletto precedente portano a diversi scenari più che a risposte precise, oggi impossibili. È da supporre, come detto, che la guerra sia stata condotta secondo un piano strategico, e questo lo si è rilevato sul campo; ma il dopoguerra è molto più difficile da pianificare e non sembra che i modelli di wargame diano risultati eclatanti, pare anzi che si navighi a vista (cfr. Zinni). I militari scherzano sul fatto che il piano originario di invasione, proposto da Wolfowitz nel Defense Planning Guidance 1992 (secretato e mai reso pubblico), abbia avuto bisogno di dieci anni di approfondimento da parte dei militari, mentre quello per il dopoguerra sia stato preparato in 28 giorni negli uffici delle future ditte appaltatrici. È una bella battuta sulla profondità scientifica con cui si forma la politiguerra americana e sulla vuotaggine dei politici di Washington. Non stiamo affatto affermando che manchino eccellenti conoscitori americani di scenari militari formalizzati, della società islamica, ecc.: affermiamo che gli scienziati redigono consigli e il Capitale guida la prassi.
Un buon esempio di "logica sfumata", che in Iraq manda all'aria i piani di politici presuntuosi con tutti i loro computer, è l'approccio alla società irachena e alle sue reazioni alla guerra: dopo un anno di pragmatici scontri essa viene ancora vista come suddivisa fra sciiti, sunniti e movimenti politici vari, come se si censisse la popolazione multietnica di New York, mentre essa si difende ricorrendo più che mai all'ancestrale ascendente delle tribù. I gruppi umani, anche molto vasti, combattono o partecipano attivamente al magmatico scontro con gli invasori secondo i dettami di una gerarchia che va dal gruppo famigliare all'asabyya passando dal clan e dalla tribù. Strutture al cui interno una storia millenaria ha portato sciiti, sunniti e cristiani, che a loro volta sono diventati monarchici, baatisti, "comunisti", nasseriani, ecc. Gli occidentali si sono stupiti di veder combattere insieme sunniti e sciiti e l'hanno interpretato come una sorta di alleanza politica: in realtà l'unione è fra tribù composite. L'Islam è certo una religione diffusa e seguita, ma molti giovani iracheni, donne specialmente, l'avevano già relegata a fatto secondario nella vita quotidiana, per cui oggi rappresenta soprattutto una bandiera che sancisce la differenza rispetto agli invasori. La guerra sta gettando gli iracheni in un paradosso storico che potrà avere importanti sviluppi futuri. Le truppe d'invasione più moderne del mondo stanno producendo una generalizzata asabyya, la federazione solidale e finalizzata a uno scopo fra le tribù, la stessa antica forma che portò l'Islam alla fulminea espansione dopo l'Egira e alla sopravvivenza dell'Islam in Oriente dopo la distruzione del califfato di Baghdad da parte dei Mongoli (XIII secolo). Anche la guerra guidata da Lawrence d'Arabia contro l'Impero Ottomano utilizzò questo aspetto della società araba "innalzando la campagna a un nuovo livello e collocandola su di una vetta a sé stante" (Liddell Hart). Uno scontro che vede certamente in situazione di immensa superiorità le forze del Capitale, sta assumendo caratteri in grado di far esplodere opzioni che, se sono sottovalutate dai politici, non sono niente affatto tranquillizzanti per i responsabili del Pentagono.
Il problema del fondamentalismo è perciò del tutto secondario. Ciò che è radicato veramente nelle masse islamiche, povere o meno, è questo misto di identità universale, di separatismo storico fra gli Stati e di capacità di risposta unitaria tribale di fronte al pericolo di dissolvimento in una "occidentalità" imposta. Di qui un diffuso odio contro gli Stati Uniti e di conseguenza contro tutto l'Occidente. Ciò non ha conseguenze "militari" immediate, ma crea condizioni più che sufficienti, nel tempo, a far aumentare il reclutamento di guerriglieri da parte di chiunque.
La soluzione di questo aspetto del problema generale, secondo gli esperti contrari all'opzione militare, consisterebbe nell'azione a monte, cioè un massiccio piano economico supportato dalle forze USA, NATO, Europa, ecc. in Medio Oriente, a partire dalla Palestina, per aprire quei mercati affinché il benessere, la democrazia, ecc. possano attecchire. Siamo ancora al più trito luogo comune, che non varrebbe la pena di pagare con lauti stipendi o parcelle. Cifre e scenari reali dimostrano che con il capitalismo non è possibile programmare le soluzioni non belliche. Si può pianificare uno scenario locale per suscitare reazioni immediate e combattere in un certo modo, come abbiamo visto, ma dal punto di vista dei piani che vadano un po' più in là, il capitalismo è un sistema assolutamente stupido.
Secondo scenario: l'integralismo minaccia l'Occidente?
Le teorie sullo "scontro fra civiltà" hanno un senso unicamente quando si specifichi con nettezza che il capitalismo non sopporta altri modi di produzione. Nel suo procedere al dominio si può servire di sovrastrutture antiche, ma per sua natura spazza via ogni residuo di strutture che lo hanno preceduto. Dunque, per rispondere al quesito dobbiamo partire dalla considerazione che l'integralismo non conterebbe nulla se l'Occidente non avesse ampie possibilità di fregarsi da solo. L'unica minaccia "esterna" (non tanto all'Occidente quanto al capitalismo) è rappresentata dal comunismo.
Il Capitale globale non fa piani, agisce ciecamente per la propria valorizzazione. I capitalisti fanno piani solo per sé stessi. Gli Stati cercano di assecondare entrambi e provano a concertare una politica, ma sono concorrenti. Gli Stati più forti avrebbero capacità di coercizione e coordinamento, ma essa passa in subordine agli interessi a breve. Ne risulta una "politica estera" mondiale alquanto caotica. Prendiamo ad esempio un'osservazione di Luttwak sul bilancio costi/ricavi della politica petrolifera americana in Medio Oriente e utilizziamola a fini nostri: la presenza militare nell'area costa più di quanto valga tutto il petrolio che ne viene importato. Estendiamo il concetto: nei primi vent'anni della sua esistenza Israele assorbì 11 miliardi di dollari (di allora) in aiuti americani e 25 miliardi in investimenti diretti. Ciò significa che un paese di un milione di abitanti (allora), con una superficie inferiore a quella della Toscana, ricevette il triplo di quanto ricevette l'Europa con i suoi 200 milioni di abitanti attraverso il Piano Marshall per la ricostruzione. L'Europa intera fu ricostruita, mentre non solo Israele non ha risolto i suoi problemi ma continua a produrne in quantità.
Calcoliamo che il mantenimento dello Stato di Israele, comprese le guerre contro gli arabi, sia costato fin qui 8 o 900 miliardi di dollari attuali. Circa 200 miliardi di dollari costò la prima guerra in Iraq, 150 miliardi è costata finora quella attuale. Un centinaio di miliardi sono costate le basi seminate attorno al Golfo e decine di miliardi sono spesi ogni anno per mantenerle e avvicendare i soldati. Tra viaggi della Sesta Flotta, ricognizione aerea permanente e azioni belliche locali per dieci anni, non saremo troppo distanti dal vero se poniamo a 2.000 miliardi di dollari attuali il costo della politica americana in Medio Oriente dal '48 a oggi. Il PIL dell'Iraq prima della guerra era di 58 miliardi di dollari, compresi i proventi del petrolio incassati col programma Oil for food.
Un sistema che avesse il controllo dei suoi meccanismi di sviluppo non farebbe una guerra che costa 150 miliardi di dollari all'anno per conquistare un paese che ne "vale" 58, sapendo che ne ha già spesi 2.000 con risultati a dir poco disastrosi. Si dirà che non conta la spesa ma il risultato politico. D'accordo, ma non sembra affatto che ce ne sia uno a compensare il dispendio economico-militare. Anzi, ci sembra che gli Stati Uniti si stiano cacciando in un vicolo cieco. Le cifre che abbiamo usato e ricavato da fatti reali, ci dimostrano che i politici sono una dannazione e che, paradossalmente, i militari avrebbero risolto più sbrigativamente i problemi sul tappeto con meno morti e meno sofferenza per le popolazioni. È confermato l'assunto marxista secondo cui la pace capitalistica è peggio della guerra.
Prima del "Settembre nero" (il massacro di palestinesi perpetrato dalle truppe beduine di Hussein di Giordania), Sharon, allora generale dell'esercito israeliano, accettò il piano segreto anglo-francese che prevedeva di aiutare i palestinesi a prendersi Amman e la Transgiordania. Il piano non passò, ma il militare di allora si dimostrò più lucido di quanto mostri di essere il politico di oggi, con i suoi muri segregazionisti, la terra bruciata e gli assassinii indiscriminati in circolo vizioso. Uno sfogo palestinese in Transgiordania avrebbe significato alleggerire la pressione nella Cisgiordania circondata da Israele, avrebbe la costruzione degli immensi campi profughi nella desertica striscia di Gaza, la quale poteva essere annessa in cambio di terra fertile, unificando i rispettivi territori; senza gli insediamenti ebraici voluti dai politici e sconsigliati dai militari, sarebbe stata più plausibile un'opzione federativa o comunque uno Stato palestinese meno somigliante a un campo di concentramento di quello che si prospetta. A spese della sovranità giordana? Ma non esisteva una "Giordania", come non esistevano né una "Palestina" né un "Israele", e nemmeno un "Iraq", tutte creazioni arbitrarie dell'imperialismo, che fra le due guerre fu di segno inglese. Tanto valeva dedicarsi a un'ulteriore creazione per risolvere problemi invece che produrne. È vero che il piano non passò, forse perché avrebbe intaccato gli equilibri fra i vari paesi arabi e tra questi e Israele, ma i guai attuali derivano proprio dalla sclerotizzazione di quegli equilibri.
Scenari diversi ma con opzioni dello stesso tipo si possono disegnare per l'Iraq. In seguito alla prima guerra del Golfo era già in atto la costituzione di fatto di un Kurdistan autonomo nel Nord da parte degli eserciti invasori, mentre gli stessi avevano di fatto impedito la sollevazione degli sciiti nel Sud permettendo alla Guardia Repubblicana di reprimere la rivolta. L'ostinato proposito di balcanizzare i potenziali avversari non aveva fatto scorgere un'altra possibilità: quella tratteggiata ancora da Luttwak, anni addietro, di attaccare in Arabia Saudita (a rischio zero, disse), cosa che, aggiungiamo noi, avrebbe automaticamente posto la prospettiva di un'alleanza con l'Iraq e reso addirittura auspicabile l'annessione dell'inutile Kuwait. Anche se agli americani non importa proprio nulla della patente dittatoriale o democratica dei loro alleati, con un decimo della spesa di una guerra come l'attuale avrebbero potuto agire sull'esercito e far cadere il regime (o realizzare altre soluzioni, ampiamente sperimentate in giro per il mondo). L'idea che l'accesso al petrolio e la "sicurezza" dell'area siano meglio garantiti da monarchie arcaiche e dissipatrici non è certo il massimo per rappresentare il "capitalismo avanzato". E del resto sembra si faccia di tutto per assicurare l'avvento di repubbliche islamiche oscurantiste.
Per anni Marx denunciò in tutti i modi l'oggettiva tresca antistorica esistente fin dal secolo XVIII fra i rappresentanti della moderna Inghilterra imperialista e quelli dell'arcaica e reazionaria Russia zarista dalle mire imperiali. Noi oggi ci troviamo a constatare che gli Stati Uniti, faro di un Occidente americanizzato, mercificato e robotizzato, rappresentano un'altrettanto antistorica fabbrica di sovrastrutture antiche, di miseria, di degradazione, per cui tre quarti del mondo invece di produrre e assorbire merci in un "libero scambio", come detterebbe proprio il capitalismo moderno vittorioso che si vorrebbe esportare, crepano semplicemente di fame, come aveva previsto Marx, accusato di aver sbagliato tutto.
Terzo scenario: il nemico può acquisire mezzi letali?
La possibilità da parte del nemico di procurarsi mezzi in grado di nuocere mortalmente all'Occidente dipende… dall'Occidente. I mezzi corrisponderanno alle determinazioni del blowback (ritorno di fiamma, azione e reazione), perché, come ormai afferma persino buona parte degli israeliani, che da mezzo secolo vanno tentando, la "guerra al terrorismo" non si può vincere col terrorismo. Dopo l'11 settembre gli analisti militari si spaventarono per la capacità logistica e d'attacco dimostrata dagli attentatori, e misero subito in guardia contro l'eventualità che organizzazioni terroristiche riuscissero a procurarsi armi atomiche rudimentali o, più semplicemente, armi chimiche o batteriologiche. Recentemente alcuni giornalisti e scienziati hanno mostrato al senato americano una bomba nucleare costruita in modo del tutto legale acquistando i materiali sul libero mercato.
A parte il fatto che simili ipotesi furono il minaccioso pretesto per le successive campagne militari, noi rispondemmo in diverse conferenze e articoli che l'opzione atomica, chimica o batteriologica non è strettamente necessaria affinché la guerra che si cominciò a chiamare asimmetrica trovasse una sua simmetria, ricordando la permeabilità delle frontiere nel mondo globalizzato e l'impossibilità di controllare la rete planetaria di produzione e circolazione di merci e capitali.
Gli israeliani, mentre scriviamo, stanno completando una vasta campagna militare per isolare Gaza dalla frontiera con l'Egitto e hanno trovato lunghe gallerie che servivano ad ogni genere di traffico, specie di armi attraverso il confine. Da dove venivano queste armi se non dal paese "amico", che non era certo in grado di controllare i mercanti internazionali? Questo particolare si aggiunge a quello, non troppo pubblicizzato, che fra le case dei guerriglieri demolite ve n'erano alcune trasformate in minifabbriche domestiche di mine anticarro, lanciarazzi, esplosivi. Nell'arretratissimo Afghanistan si realizzano mirabili riproduzioni artigianali di qualsiasi arma portatile. Il traffico di armi dev'essere fiorente in Iraq, se i sequestri continui ne raccolgono tonnellate e alcuni cecchini sono stati visti con fucili di precisione russi Dragunov nuovi di zecca, in dotazione ai reparti di élite del vecchio regime e non reperibili tanto facilmente.
La paventata "possibilità" che la guerriglia si procuri mezzi per nuocere mortalmente ai suoi nemici è una realtà praticamente illimitata che rende la "guerra al terrorismo" quel mero errore lessicale ricordato da Brzezinski. Di fronte a un "normale" saggio medio di profitto, ormai ridotto all'osso, nessun capitalista resisterà alla tentazione di gettarsi sugli astronomici profitti garantiti da un traffico di armi non più gestito da grandi potenze come un tempo ma lasciato al libero mercato. Questo vale, oltre che per la produzione artigianale, soprattutto per quella più sofisticata. Non è impossibile, in via teorica, contrabbandare o addirittura riprodurre in modo non troppo rudimentale un missile antiaereo spallabile tipo Stinger, quello che decise le sorti dell'occupazione russa in Afghanistan. D'altra parte non si tarderà a capire che la stessa quantità di esplosivo usata da un attentatore per uccidere inutilmente sé stesso e qualche civile ignaro è sufficiente a far saltare obiettivi statici di grandi dimensioni, oleodotti, fabbriche, elettrodotti, ecc.. Un'autobomba richiede quintali di esplosivo, ma in genere disperde la sua onda d'urto all'aperto, con conseguenze meccaniche insignificanti rispetto al potenziale effettivo. I due recenti attentati al terminal di Bassora dimostrano che sarà difficile controllare un'attività militare che aggiunga al combattimento la distruzione sistematica delle infrastrutture.
Se l'Occidente, dopo aver suscitato l'attività dei guerriglieri, insisterà nell'affrontarli come insieme astratto definito "terrorismo", finirà per costringerli a muoversi organizzati in strutture sempre più efficienti, ad adottare una strategia meno dimostrativa e più militare, e perciò di evitare il puro e semplice massacro nelle "trappole moschicide". Il pericolo sarebbe assai più grave se la guerriglia rifiutasse sistematicamente la compellenza, cioè se combattesse per obiettivi a lungo termine senza farsi massacrare. Secondo gli osservatori militari nessuno sta prendendo misure serie contro l'eventualità di una vera militarizzazione internazionale della guerriglia antiamericana. Il perché è presto detto: non ce ne sono. Dal punto di vista militare non spaventano le alte concentrazioni di morti civili, come a Madrid, dove il numero delle vittime e l'entità dei danni furono all'incirca quelli che si hanno in due o tre week end sulle strade di un paese industrializzato (nel mondo solo gli incidenti stradali uccidono 1,2 milioni di persone all'anno e ne feriscono 50 milioni). L'ipotesi che dalla guerra di tipo simbolico e primitivo a sfondo religioso si passi a forme più efficienti è assolutamente plausibile. La rete capitalistica mondiale è irrimediabilmente vulnerabile e i musulmani del mondo hanno la possibilità di mettere in piedi una specie di asabyya universale, come del resto sta già succedendo con buona parte della finanza islamica, che funziona con passaggi fiduciari basati sui legami entro e fra tribù. E, a parte i costi, non è materialmente possibile controllare tutta l'immensa infrastruttura del Capitale nel mondo.
Anche la procedura dei sequestri non è semplice routine di guerra locale come risposta all'attività di sterminio mirato. Il pericolo che si diffonda in molti paesi, rappresenta una ragione in più per compellere e circoscrivere la guerriglia. Sui sei miliardi di umani che abitano la Terra la percentuale di sequestrabili può essere bassa fin che si vuole, ma il numero assoluto di funzionari che il Capitale deve spargere per il mondo sarà sempre straordinariamente alto. Il sequestro dei mercenari dei servizi di sicurezza è emblematico: non ci vuole uno stratega per capire che non si possono mettere guardie del corpo alle guardie del corpo delle guardie del corpo…
D'altra parte sono dimostrati i limiti dell'intelligence e delle leggi cosiddette "antiterrorismo". Dato che non sarà possibile un controllo totale della popolazione, nei vari paesi sarà necessario effettuare controlli selettivi, cioè un terrorismo di Stato che si basi su elementi tangibili, come l'appartenenza a una religione, la provenienza geografica, il colore della pelle. Ma è facile applicare lo stesso sistema nel reclutamento della guerriglia: arabi con arabi, neri con neri, iracheni con iracheni, ecc. Il Capitale, che ha un bisogno assoluto di mercati aperti e frontiere permeabili, si troverà soffocato in un lager esteso a scala planetaria. Le popolazioni dei paesi capitalisticamente più avanzati si ribelleranno prima o poi a questo stato di cose, e i governi saranno sempre più costretti a far ricorso a leggi eccezionali che ne limitino le libertà in una spirale senza fine.
Quarto scenario: "guerra infinita" per mezzo di eserciti?
Secondo il piano del ministro della difesa Rumsfeld, accettato dal presidente Bush, l'Iraq si poteva conquistare con poche truppe altamente meccanizzate e supportate con un uso massiccio dell'aviazione e della tecnologia. Compiuta l'operazione, si sarebbe dovuto risolvere il problema del potere, cioè instaurare una parvenza di democrazia, controllare gli impianti petroliferi, e lasciare il paese in mano agli iracheni e alle ditte appaltatrici americane. L'esercito si sarebbe ritirato e blindato nelle numerose basi che nel frattempo sarebbero sorte nel deserto, inavvicinabili. Da queste basi sicure i soldati sarebbero piombati con la loro potenza di fuoco ovunque fosse necessario, con il minimo di perdite.
I generali che si trovarono fra le mani questo piano fantamilitare dovettero scuotere la testa increduli e quindi modificarlo più volte, persino nel corso delle operazioni. La tecnologia permette di far arrivare un missile su un corpo caldo che si muove nella notte; di analizzare il campo di battaglia e fornire in tempo reale indicazioni tattiche; di ridurre un soldato da uomo a terminale-robot di un sistema telecomandato; di fornire un supporto notevole a un'intera invasione; ma non può sostituire l'uomo per tenere il territorio invaso se il nemico reagisce. O perlomeno se reagisce coerentemente, senza farsi né usare né provocare.
Molta della tecnologia attuale deriva da quella sperimentata nel Vietnam, messa a punto proprio per ovviare al fatto che i tenaci Vietcong obbligavano i superbi marines a morire impantanati nelle risaie senza cavare un ragno dal buco. Tutta quella tecnologia servì solo a fare in modo che i marines potessero continuare a restare impantanati, e a mantenere qualche posizione nelle risaie o nella giungla. Il generale Westmoreland fu l'artefice di questa bella trovata. Le basi furono mantenute, ma il territorio circostante fu pienamente in mano al nemico che assediò i marines a "macchia di leopardo", come si disse.
Quando nell'82 l'Argentina si riprese le Falkland (o Malvinas, per gli argentini) il mondo anglosassone si mobilitò mettendo in campo l'intera panoplia delle armi supermoderne, dai satelliti alle flotte, dai caccia a decollo verticale ai missili di ogni tipo. Fu mobilitato mezzo pianeta per riconquistare una colonia inglese ritenuta strategica – in realtà alcune isolette insignificanti, dall'altra parte del mondo com'erano rispetto a Londra – presidiata da poche centinaia di fantaccini congelati nell'inverno antartico. Ma quando si arrivò al dunque, solo altre poche centinaia di fantaccini altrettanto congelati poterono risolvere la questione, e sono ancora lì, dopo vent'anni, a difendere qualche centinaio di compatrioti con le loro case, le loro pecore (a quella latitudine non cresce altro che erba) e qualche barca.
In Iraq non c'è stata una guerra fra eserciti. Quello iracheno si è dissolto seminando armi, soldati e munizioni in quantità nel tessuto sociale. C'è praticamente una popolazione armata fino ai denti, ma non sarà possibile una guerriglia di tipo vietnamita per via del territorio piatto e spoglio. Non potrà nemmeno durare a lungo una guerriglia urbana del tipo di quella che oggi permette all'invasore di falcidiare combattenti a centinaia. La guerriglia sta dimostrando di poter organizzare operazioni piuttosto vaste e numerose (150 in media alla settimana negli ultimi mesi), ma dovrà passare presto a metodi meno eclatanti, più rispettosi del principio di salvaguardare le proprie forze, ben sapendo che non potrà ottenere vittorie negli scontri frontali. Il tempo è fondamentale e dovrà logorare l'invasore piuttosto che i propri combattenti.
L'euforia per l'abbattimento di qualche elicottero da combattimento e la distruzione di alcuni potenti carri armati e altri mezzi corazzati è comprensibile ma non ha fondamento in risultati pratici. Ci sono stati attacchi di gruppi coordinati della guerriglia, formati da 50, 100 e anche 300 combattenti. Le battaglia di Falluja e Nassirya sono da considerare nello stesso tempo buone prove di capacità combattiva e cattivi esempi di efficienza tattica. Lungi da noi l'intenzione di sentenziare, ma sulle città gli invasori hanno potuto concentrare una potenza di fuoco – sia selettivo che indiscriminato, di "saturazione" – usando tutte le risorse disponibili senza che i guerriglieri potessero far altro che essere presi di mira con cannoniere volanti, elicotteri d'attacco, diversi tipi di caccia, bombe a guida precisa, artiglieria pesante, carri armati e missili. Non si sa quanti siano i morti, combattenti e no, dall'invasione in poi: Iraq Body Count ne segnala 11.000, ma secondo alcune agenzie sarebbero tra i 15 e i 20.000. Nel solo attacco degli italiani al ponte di Nassirya sono stati sparati 30.000 colpi, anche di armi pesanti, e sono morte 150 persone, non considerando che i civili. Durante la battaglia di Falluja l'ospedale cittadino ha registrato 731 morti e 2.800 feriti.
Il comando americano probabilmente non si aspettava un'attività militare così intensa per un anno di seguito. Il proconsole americano Bremer si dice soddisfatto dei risultati sia in campo civile che militare, ma non essendo affatto un amministratore, bensì un esperto di antiguerriglia, incomincerà a preoccuparsi quando vedrà diminuire il numero degli attacchi, preludio a una riorganizzazione delle forze nazionaliste. I militari l'avevano detto: o si aumentano gli uomini, gli impegni e gli investimenti, prendendo in mano direttamente il paese e accettando le conseguenti perdite, o si va via. Ma non basta aumentare gli uomini di un esercito se l'intera società rifiuta di funzionare per l'occupante. I soldati americani potranno anche stare richiusi nelle loro basi aliene e muovere guerra di tanto in tanto in episodi specifici, ma così facendo rischieranno di lasciare campo libero ad una forza in grado di riorganizzarsi al fine di far fallire il piano del dopo-invasione. Per far funzionare la rete produttiva e distributiva di un paese moderno occorrono centinaia di migliaia di persone e non sono tutte controllabili. Mentre circa 3.000 elementi della nuova polizia e del costituendo esercito fantoccio sono già passati alla guerriglia con armi e materiali, si intravede l'allargamento del fronte alle opzioni non esclusivamente militari, come l'elezione di comitati che prendono il posto delle amministrazioni locali dell'ex regime, che gli invasori hanno smantellato senza avere la forza di sostituire.
Quinto scenario: la guerra all'Iraq è "guerra al terrorismo"?
Quando si sente la formula "guerra al terrorismo" bisogna tradurre con: "guerra degli Stati Uniti a frange borghesi che reagiscono all'azione americana nel mondo". Per dirla con l'americano Chalmers Johnson: "blowback, ritorno di fiamma, vuol semplicemente dire che una nazione raccoglie ciò che semina. Sebbene si sappia in genere che cosa si è seminato, ben di rado i ritorni di fiamma subìti dall'America vengono interpretati come tali".
La propaganda americana ha insistito nel parallelo assurdo fra regime iracheno e fondamentalismo. Afferma che alcuni attacchi di quest'ultimo, compreso quello di Madrid, hanno trovato appoggio a Baghdad, prima e dopo l'invasione. Compaiono sulla stampa mappe dettagliate sui flussi – verso e dall'Iraq – di jihadisti sauditi, di hizbullah libanesi, di sciiti iraniani e, naturalmente, di elementi di al Qaeda, che non possono mai mancare come simbolo del Male. Il terrorismo serve agli Stati Uniti tanto quanto serve la base operativa d'Iraq.
Poniamo che sia vero il collegamento fra il regime saddamita e le organizzazioni tipo al Qaeda. Poniamo che dall'Afghanistan, dal Pakistan, dal Marocco e persino dall'Europa forze estranee alla guerriglia nazionalista, arrivino in Iraq accettando di buon grado la provocazione insita nelle teorie della "carta moschicida" per sfruttarla ai fini del Jihad. Oppure cadendo nella trappola tesa dalla politica di compellenza. Queste forze si troverebbero ad agire in un ambiente ostile e sconosciuto, "ospiti" delle organizzazioni locali e quindi sotto la loro guida. Le organizzazioni irachene che stanno lavorando per un fronte politico nazionalista stimano che la guerriglia contro gli invasori e contro la resistenza antisaddamita filoamericana schieri da 70 a 100.000 combattenti. Per ora la guerriglia non ha un comando centrale e sembra non aver espresso un vertice. Tutto ciò è in sintonia con la tradizione beduina (tutti gli arabi iracheni sono di origine beduina) delle tribù autonome e al massimo federate nel momento della necessità. Ma prima o poi avrà bisogno almeno di un coordinamento e quindi non potrà sopportare l'intervento "indipendente" di elementi esterni non controllabili, i quali, oltre tutto, sarebbero poche centinaia.
Tutte le guerriglie passano prima o poi attraverso una fase di riorganizzazione, di ricerca della disciplina, di centralizzazione. Per quanto sia difficile fare i conti con la tradizione beduina, anche in Iraq succederà la stessa cosa e, senza ombra di dubbio, sarà la guerriglia nazionalista ad assorbire le forze esterne, a costo di combattere contro di esse nel caso si opponessero a un comando locale. Nessuno può essere sicuro che la guerriglia potrà sopravvivere, ma se riuscirà a farlo, non ci sarà governo fantoccio in grado di contrapporsi. Ci troveremmo di fronte a un ennesimo caso in cui emerge una nuova borghesia nazionale che si è fatta le ossa attraverso la guerra, quindi più organizzata, determinata e preparata della vecchia. La storia non marcia mai all'indietro. Analizzando freddamente la situazione irachena sembra addirittura che la compellenza americana, oggettivamente più utile a suscitare la guerriglia che a combatterla, finirà per obbligare le varie frazioni della guerriglia e quindi della borghesia ad organizzarsi. E non c'è niente di meglio della guerra per spingere all'unità nazionale una borghesia storicamente frazionata.
Agli Stati Uniti non importa nulla della resistenza antisaddamita, venduta e corrotta, oggi chiamata a far da paravento ai veri piani di stabilizzazione armata. Anzi, la disprezza. Alcuni elementi sono già stati uccisi dalla guerriglia. Un candidato al governo è stato beccato con le mani in pasta per illeciti o spionaggio o entrambi nel corso dei contrasti fra la CIA e il Pentagono. Un altro, chiamato a 81 anni come candidato, era chiaramente un personaggio di comodo ed è già stato sostituito. Gli equilibri fra le tribù sono stati pesati col bilancino. L'inviato dell'ONU, Brahimi ha dovuto solo eseguire gli ordini degli americani. Il governo provvisorio ha più l'aspetto di un animale da sacrificio che di un esecutivo in grado di far funzionare fabbriche, centrali, acquedotti, pozzi di petrolio, rete stradale e ferroviaria. La transizione potrebbe effettivamente basarsi su una vittoria della guerriglia contro la resistenza, non appena si manifesti fra i combattenti un gruppo dirigente in grado di imporsi ai religiosi e alle tribù e ne ottenga l'appoggio. Gli Stati Uniti, indifferenti al colore di una delle pedine del loro gioco globale, potrebbero a questo punto rientrare in anticipo nelle loro basi nel deserto e controllare la transizione da lontano, utilizzando al meglio la loro specifica qualità militare che non è certo il rastrellamento urbano ma la proiezione remota di potenza. I "terroristi", temprati dalla lotta e dall'organizzazione clandestina, diventerebbero legittimi governanti.
Dalle basi gli americani non si muoveranno più per un pezzo. Il grosso dell'esercito potrà andarsene, gli emissari di Washington potranno stipulare nuovi accordi, comprare petrolio da quello che fu il loro nemico, farsi pagare le spese da altri paesi, infine volgersi a qualche altro indispensabile Stato Canaglia. L'Iraq sta diventando velocemente il trampolino fisso per quella che, con notevole propensione al suicidio, tutti i governi e i partiti borghesi si ostinano ancora a chiamare "guerra al terrorismo" mentre è, dichiaratamente, una guerra per il nuovo assetto del mondo. Almeno su questo punto non si può dire che a Washington abbiano mentito: i documenti ufficiali abbondano e sono chiarissimi.
Letture consigliate
- Engels, Persia, Cina, "New York Herald Tribune", 5 giugno 1857, in India, Russia, Cina, Il Saggiatore (Alberto Mondadori) 1970.
- President Bush Reaffirms Commitments in Iraq, Discorso al Pentagono in difesa dell'operato del ministro della difesa Rumsfeld dopo le torture, www.defenselink.mil.
- Anthony Zinni (Gen.), Eye on Iraq - Ten Mistakes that will be recorded in history, Remarks at Centre of Defense Information Board of Directors, May 12, 2004, www.cdi.org.
- Gregory Bateson, Da Versailles alla cibernetica, in L'ecologia della mente, Adelphi 1976.
- Alyson J.K. Bailes, Lessons of Iraq, conferenza a Mosca, 20 Aprile 2004, Stockholm International Peace Research Institute; The Iraq War: Impact on International Security, Geneva Centre for the Democratic Control of Armed Forces, Policy Paper. A. J.K. B. è direttore del SIPRI, www.sipri.se.
- Debka Files, Sharp Policy Changes Will Follow Firestorm over Iraqi Prisoners of War Abuses, 2004; Al Qaeda Builds a Euro Army, 2004; Who's Next after Madrid?, 2004. Debka Files è un'agenzia israeliana ritenuta vicina al Mossad, www.debka.com.
- Rand Corporation, Framing compellent strategies, RAND’s National Defense Research Institute (NDRI), 2002; Conventinal Coercion Across The Spectrum of Operationas, Arroyo Center fo the United State Army, 2002, www.rand.org.
- Aqil Jabbar - Muhammed Fawzi - Dhiya Rasan, Fallujah’s Front Line, Institute for War & Peace Reporting (IWPR), www.iwpr.net.
- Wisam al-Jaff, Fallujans Break the Siege, IWPR, www.iwpr.net.
- Harlan K. Ullman - James P. Wade, Shock and Awe, Achieving rapid dominance, National Defense University - Institute for National Strategic Studies, NDU Press Book, 1996, www.ndu.edu/inss/books/. Testo indispensabile per capire la dottrina Rumsfeld.
- Federation of American Scientist, Washington, Secrecy of Torture Report to be Investigated; Henry Kelly, Terrorism and Nuclear Threat, Testimony before the Senate Committee on Foreign Relations, 6 marzo 2002; www.fas.org.
- Tomas Valasek, Terrorism Revisited, aprile 2004, www.realinstitutoelcano.org.
- Basil Liddel Hart, Lawrence d'Arabia, Bombiani, 1984.
- Chalmers Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, 2001.