La grande cerniera "balcanica" e il futuro dell'Unione Europea
[La resistenza] non poteva scalzare alle spalle l'esercito di Benito e di Hitler, standosene alle spalle degli eserciti Alleati. Nell'autunno del 1942 si diffuse la notizia che le forze di sbarco americane, dopo reciproche insidie con gli alleati russi che si svenavano senza misura sul secondo fronte, erano sulle coste del Marocco, con un chiaro itinerario: il Mediterraneo, la penisola italiana. Erano tappe di una unica invasione, passata da Versailles nel 1917-18, diretta a Berlino. Solo a Berlino? No, insensati allora plaudenti, diretta anche a Mosca.
Amadeo Bordiga, Aggressione all'Europa, 1949
Ogni partigianeria, per definizione, sta alle spalle di qualche forza che l'adopera. La "cerniera" balcanica (usiamo il termine con il significato di cardine, giuntura mobile), ponendosi in questo momento storico fra l'Europa e gli Stati Uniti, è una fabbrica di partigianerie. Le armate americane non solo nel 1945 sono arrivate a Berlino, ma, da allora in poi, dalla testa di ponte europea hanno bombardato Mosca di dollari, merci e ideologia fino a farla esplodere. E dalle basi di Berlino guidano oggi la logistica dell'invasione medio-orientale che da Baghdad arriva a Kabul. Ovviamente non ci sono i Balcani fra l'Europa e l'America, c'è l'Atlantico. Però una guerra mondiale ha portato all'occupazione militare dei paesi vinti e alla loro trasformazione in appendici dell'America. Così, come del resto sta succedendo in generale con il linguaggio geopolitico, è saltata persino la coerenza logica di alcuni appellativi. Ad esempio, la Turchia e l'Italia, entrambe protese verso il Sud Mediterraneo, sono due colonne portanti della Nato, cioè dell'organizzazione sorta intorno al Trattato del Nord Atlantico. Idem la Germania, che sbocca sul Baltico, e la Bulgaria e la Romania che sboccano sul Mar Nero.
La politica di un'era dinamica come la nostra ha evidentemente il potere, con il sistema di comunicazionei, di dilatare o comprimere gli spazi e di adottare denominazioni, concetti e dottrine strategiche non corrispondenti alla vecchia geografia. Non ha però il potere di cambiare la geografia stessa, né ciò che gli uomini hanno accumulato sul territorio per millenni, dal punto di vista urbano, economico, infrastrutturale, etnico, politico. Ogni rappresentazione strategica non può quindi prescindere dai potenti vincoli determinati dalla geografia e dalla storia.
Il ritorno della geopolitica
Noi preferiamo chiamarla geostoria, per evitare di confonderci con coloro che immaginano la storia dei fatti materiali guidata dalla politica e non viceversa, ma entrambi i termini esprimono una concezione che mette in relazione i fattori geografici, praticamente immutabili alla scala della storia umana, e i processi che caratterizzano l'evoluzione di quest'ultima. È un fatto che, dalla fine dell'egemonia dell'Europa sul resto del mondo (1918), la borghesia europea ha scoperto, facendo di necessità virtù, un nuovo ramo della sua scienza (la rivista di geopolitica Limes nega la scientificità della materia che essa stessa tratta; ma in realtà molte tra le materie considerate "scientifiche" meritano ancor meno tale definizione). Nelle prime concezioni geopolitiche era già contenuto il classico assunto marxista secondo cui, fra le diverse aree geografiche e anche all'interno di esse, vi sono diversi livelli di sviluppo e perciò diversi livelli di attrezzatura sociale e materiale, comunicazioni, industria, finanza, armamenti. La geopolitica in fondo è una disciplina che introduce un pizzico di materialismo fra le varie costruzioni puramente ideologiche sulle quali si fonda la politica (nonché la scienza) della borghesia. I vari Mackinder, Haushofer, Spykman, Michailov (per citare un inglese, un tedesco, un americano e un russo) non hanno fatto altro che prendere atto di un processo materiale:
"Le leggi dei fatti storici non si scoprono nelle tracce che hanno lasciato nel cervello dell'individuo, ma nella fisica reale degli oggetti ponderabili [perché] 'I fattori fisici, economici, politici e militari costituiscono ormai un sistema coordinato'. I borghesi imparano dal marxismo, i pretesi esponenti proletari lo gettano via!" (Bordiga, citando Mackinder, ne Il pianeta è piccolo).
I fascismi portarono alle estreme conseguenze nazionalistiche una loro particolare dottrina geopolitica specificamente legata all'espansione terrestre: quella dello "spazio vitale". Anche il Giappone, che non si direbbe certo una potenza terrestre, sviluppò una strategia continentale sbarcando masse di fanteria in Asia. L'Asse Roma-Berlino-Tokyo combatté dunque nell'ultimo conflitto mondiale all'insegna della conquista di tipo coloniale diretto, nonostante fossero già ben conosciute le tesi anglo-americane sullo sviluppo della potenza oceanica e fossero già nate nei primi anni '20 quelle anticipatrici sulla superiorità della guerra aerea totale (cfr. Douhet).
Creduta morta con la fine dei fascismi e la vittoria delle democrazie, la geopolitica è tornata in auge, ovviamente con le modifiche dovute allo sviluppo dell'economia nei vari paesi. Fino al 1940 la dottrina dominante fu quella di Mackinder, secondo il quale chi avesse controllato il nucleo centrale dell'Eurasia (Heartland, Cuore del mondo) sarebbe stato inattaccabile e quindi avrebbe controllato l'intero Pianeta. Date le condizioni dell'epoca, tale controllo poteva essere esercitato solo dalla Russia, dalla Germania o dall'Inghilterra via India. Da questo punto di vista, la strategia apparentemente folle della Germania nazista aveva dunque una sua giustificazione materiale e teorica; ma durante la Seconda Guerra Mondiale gli Alleati mostrarono una tale capacità di movimento navale e soprattutto aereo che lo stesso Mackinder dovette ritoccare la sua concezione strategica: chi avesse controllato i mari intorno al Cuore del mondo avrebbe praticamente imprigionato le potenze terrestri. Dopo la guerra, con l'emergere della potenza continentale russa e la scomparsa della potenza coloniale inglese, fu questa la dottrina militare degli Stati Uniti (teoria del contenimento). E non cambiò per tutta la durata della Guerra Fredda (che, come tutti sanno, non fu "fredda" affatto, ma guerreggiata come non mai, avendo provocato in mezzo secolo centinaia di milioni di morti).
La geopolitica nacque nella prima fase imperialistica, quando la concorrenza fra nazioni divenne globale producendo una politica altrettanto globale. E si affinò quando la tecnologia militare permise quella che fu chiamata la "proiezione remota" della potenza coloniale, che non ebbe più bisogno di grossi eserciti stanziali ma si basò su spedizioni ad hoc di truppe scelte. Tra l'altro il processo ebbe inizio non a caso negli Stati Uniti. Senza esporre particolari teorie geopolitiche, Alfred Thayer Mahan nel 1900 raccolse un'ampia documentazione sull'importanza delle flotte oceaniche nella strategia delle grandi potenze. Molto prima della sua sistemazione accademica la geopolitica fu dunque evidente nei movimenti reali delle truppe e delle navi, che sancirono la nuova rivalità imperialistica fra gli Stati Uniti e le vecchie potenze coloniali. Mentre Mahan esponeva la storia navale soprattutto dell'Inghilterra, su due oceani si svolgeva la guerra americana contro la Spagna cui seguiva l'annessione delle Hawaii, di Guam, delle Filippine, di Portorico (dopo che via terra erano stati annessi i territori messicani dal Texas alla California). Risvolto politico fu il Corollario Roosevelt alla Dottrina Monroe, con il quale gli Stati Uniti si ergevano a gendarmi non solo dell'America centro-meridionale ma anche della zona caraibica.
Quando la proiezione remota di potenza diventò monopolio di una sola nazione la geopolitica risorse, accompagnando la guerra che intanto serpeggiava ovunque, latente nei risvolti economico-diplomatici (USA-URSS), o esplosiva come una guerra tradizionale (Corea) e virulenta come un'anti-guerriglia (Vietnam). La dominazione politico-militare del territorio diventò superflua, dato che fu sostituita dalla dominazione economica; mentre l'enorme apparato bellico (per chi ce l'aveva) ebbe ragione di esistere solo in funzione poliziesca e di deterrente. Una volta conquistato il mondo intero con il sistema coloniale, la gara fra paesi imperialisti non poteva più essere basata su ulteriori occupazioni territoriali ma, come già notava Lenin, sull'erosione delle conquiste altrui. L'imperialismo moderno vide gli Stati Uniti in veste di demolitore sistematico delle posizioni acquisite dalle vecchie potenze terrestri continentali.
In termini geopolitici pratici, contro la teoria di Mackinder sembra dunque aver vinto quella dell'accerchiamento marittimo (Spykman), teoria che, nell'epoca delle portaerei, si è nel frattempo aggiornata col binomio aero-navale. Abbiamo quindi oggi una fascia oceanica nella quale domina incontrastato il potere aero-navale americano che circonda il Rimland, l'anello terrestre interno che a sua volta circonda l'Heartland imprigionandolo. Questo è lo schemino geopolitico generale da cui partono tutti, da chi crede di avere in mano le sorti del mondo a chi gioca semplicemente a Risiko (o a qualche gioco di strategia analogo un po' più complesso acquistabile per il computer di casa). La realtà non prescinde affatto dall'Abc, anche se complica dannatamente le cose: alla fine si scopre sempre che l'Heartland rimane l'Eurasia e che il cardine per il suo possesso passa sempre dal suo confine con l'Europa. A prima vista gli Stati Uniti potrebbero dormire imperialistici sonni tranquilli, ma la geopolitica è materia dinamica. L'affermarsi della Cina come grande potenza, seguita a ruota dall'India, avviene contemporaneamente al tentativo di un'unione europea, mentre la Russia è tesa nel tentativo di rimettere in piedi uno Stato fortemente accentrato sui poteri di un esecutivo presidenziale, al solito di stampo asiatico. Questi immani movimenti strategici riportano alla ribalta il vecchio Heartland come scenario decisivo per ogni schieramento futuro dei maggiori paesi imperialistici.
Europa carolingia?…
Da questo punto di vista, e data la storia plurisecolare precedente, l'espressione "area balcanica" non può più essere utilizzata solo per indicare la penisola a Sud del Danubio che sta intorno alla modesta catena montuosa jugoslavo-bulgara. La storia ha dilatato la geografia, e gli avvenimenti strettamente collegati a quell'area sono impregnati di nuovi significati, tanto che si parla di "balcanizzazione" dell'Africa, con le sue mille forze centrifughe tribali arruolate dai paesi imperialisti; del Belgio, col suo conflitto fra Valloni e Fiamminghi; o addirittura del Canada, dove francofoni e autoctoni alimentano spinte separatiste sentendosi "oppressi" dagli anglofoni. Nella geostoria della nostra epoca, la "cerniera balcanica", per rimanere in Europa, è rappresentata dai 2.000 chilometri (in linea d'aria) che vanno dal Bosforo al Mar di Finlandia ed è costituita, senza eccezione, da paesi appena entrati nell'Unione Europea o candidati ad entrarvi (fig. 1).
La presunta alleanza "forte" fra Germania e Francia, come asse portante dell'Europa Unita contro le tendenze ambigue di altri paesi (ad es. l'Inghilterra), ha praticamente fissato fra i luoghi comuni dei geopolitici europei una concezione "carolingia" del processo di unificazione. Essa consiste nell'immaginare la formazione di un nucleo franco-tedesco, coadiuvato dall'Italia, attorno al quale si svilupperà l'Europa, e sembrerebbe avere profonde motivazioni storiche: la massima espansione dell'impero carolingio, a partire dall'antico regno dei Franchi, comprendeva infatti grosso modo i confini attuali di questi tre paesi (escluse alcune zone del sud Italia) più alcune aree di influenza in Spagna ai confini del califfato di Cordoba, in Austria e in Jugoslavia.
Ma la geopolitica carolingia finiva lì. I confini a Est erano indefiniti, anche se giungevano fino all'Elba. Al di là del fiume c'erano popoli barbari e ancora pagani. Al Sud dominavano i Bizantini, all'Ovest gli Arabi. Scalzati i Longobardi, l'impero proto-feudale era chiuso e non poteva avere l'antica dinamica di quella Roma che credeva di perpetuare. Non possedeva navi, il ferro era raro e i suoi eserciti erano costosissimi (le armi di un cavaliere avevano un valore equivalente a circa 40 bovini), i cavalieri non conoscevano ancora la staffa e i "castelli" erano per lo più fatti di tronchi. Si estendeva inoltre su terre quasi disabitate (l'intero territorio corrispondente all'ex Impero Romano era passato da 60 milioni di abitanti a 15 milioni), e i suoi "possessi" esterni al nucleo centrale non erano altro che aleatorie zone d'influenza. Un'analogia tra presente e passato ha senso quando coinvolge un'invarianza che si trasmette nel tempo anche modificata, come la necessità di ogni imperialismo, antico o attuale, di prelevare valore dalle aree dominate; non ha invece senso quando questa invarianza non c'è. Affermare ad esempio che l'impero carolingio era franco-tedesco e che Carlo Magno era tedesco (o francese, come affermano altri) è una pura fesseria, è lo stesso che dire che Giulio Cesare era italiano: non si può applicare un criterio nazionale a epoche in cui le nazioni non c'erano.
Ecco perché è meglio parlare di geostoria invece che di geopolitica. Una storia complessa ha reso insensato il paragone fra l'oggi e gli albori del chiuso feudalesimo, mentre la movimentata storia del capitalismo, dalla sua nascita ad oggi, ha tutti gli invarianti che vogliamo. Dopo il Mille la dinamica della vita cittadina, della produzione, delle costruzioni e degli scambi fu rivoluzionata. Il mondo a macchia di leopardo, fatto di zone feudali agrarie chiuse, autosufficienti e non comunicanti, stava per scomparire. In circa tre secoli sorsero in tutta Europa 130.000 comunità urbane, grandi e piccole, a sostituire le città classiche ormai in rovina e i villaggi primitivi (ad esse corrispondono in gran parte le stesse città che conosciamo oggi). Le maestose abbazie e cattedrali furono edificate sulle stesse aree in cui si radicava la prima forma d'industria, con la produzione agraria e urbana, nei nodi del commercio dove si tenevano fiere grandiose.
Per almeno cinque secoli, dal XIII al XVIII, il feudalesimo rappresentò una sovrastruttura politica che in vaste aree non corrispondeva più ai veri rapporti di produzione e di traffico. I grandi conflitti sociali e militari, dalle eresie allo scontro fra Guelfi e Ghibellini, erano già uno scontro fra sistemi economico-sociali incompatibili. Il feudale Barbarossa doveva entrare in conflitto con i liberi Comuni. Fu tra il '200 e il '300, cioè all'inizio di quei cinque secoli, che le condizioni geostoriche produssero l'interessante esperimento sociale che ebbe come protagonista Federico II di Svevia. Non fu certo un processo consapevole ma, nella lotta fra il passato e il futuro, esso risentiva della transizione fra il feudalesimo normanno e la nuova società urbana e borghese, ammesso e non concesso che si possa parlare di "feudalesimo" come di una forma sociale definita. Infatti, non a caso, tale esperimento ebbe il suo laboratorio nella penisola italiana, dove il feudalesimo dello schema classico non ci fu mai.
…O non, piuttosto, Europa federiciana?
A nostro avviso "Europa carolingia" è una definizione fuorviante. Se proprio dovessimo dare un nome antico alla dinamica geostorica dell'Europa d'oggi non sceglieremmo l'alto Medioevo ma un'epoca successiva, nella quale fosse già presente qualche invarianza rispetto a quella attuale. Per esempio l'epoca che va dalle Crociate al primo Rinascimento italiano, che ebbe come straordinario protagonista Federico II. Nipote del Barbarossa, posto a capo del Sacro Romano Impero, egli dovette toccare con mano come quest'ultimo fosse sempre stato (e fosse) più un'idea che una realtà centralizzata operante. Egli fu costretto a intraprendere il colossale tentativo, naturalmente fallito, di rendere dinamico il feudalesimo infondendogli i caratteri principali dell'embrionale modo di produzione capitalistico, suo avversario. In Italia, sull'esempio delle Repubbliche Marinare e dei Comuni, fondò l'industria e la finanza di stato; fece costruire una flotta che divenne il fulcro dei movimenti militari e commerciali; bruciò o requisì i castelli dei baroni; progettò ed edificò quelli imperiali, da Prato a Siracusa, secondo un piano razionale centralizzato con fulcro sui centri urbani.
Significativamente, sul territorio italiano, l'imperatore entrò in conflitto con la stessa natura feudale del suo proprio ruolo combattendo tutto ciò che ricordava il feudalesimo, compresa la Chiesa di Roma. Lui, pluriscomunicato dal Papa, chiese di entrare nell'ordine fondamentalista dei cistercensi e fu accolto. Erano, questi, grandi costruttori, bonificatori e dissodatori di terre incolte, esperti agronomi e quindi fattori attivi della rivoluzione agraria in corso: sui terreni delle loro abbazie la vecchia istituzione benedettina della grangia si trasformò per la prima volta in vera azienda agraria con utilizzo di lavoratori salariati (mercenarii). Le conoscenze pratiche dell'Ordine diedero impulso all'immenso cantiere federiciano, da intendere non solo in senso edile ma anche sociale. Si affermò infatti l'industria di stato e crebbe la rete di comunicazione e di traffico, elementi che fecero del Sud Italia un grande polo economico-politico in grado di competere con le Fiandre e con le Repubbliche marinare. Insieme ai feudatari erano stati sgominati anche gli arabi di Sicilia, che divennero addirittura i reparti di punta dell'esercito imperiale. Gli ebrei del califfato spagnolo furono chiamati per tradurre dall'arabo gli antichi testi di filosofia e di scienza. A corte la lingua ufficiale era un ritrovato latino classico, ma si parlava anche il greco, l'arabo, l'ebraico, il tedesco, il provenzale e la nuova lingua volgare italiana. La capitale dell'impero non fu in Germania ma in Sicilia, a Palermo. Tutto questo per dire che la forma politica dovette seguire la dinamica della forma economica oltre che quella geografica.
L'asse "federiciano" ce lo stiamo inventando noi, non poteva certo essere nei piani di un imperatore medioevale. Ma, in luogo di asse "carolingio", è un modo forse migliore per dare un nome a linee di forza inesistenti all'epoca di Carlo Magno, affermatesi dopo di lui e determinanti una dinamica storica completamente diversa rispetto alla precedente. Gli urti fra Comuni, Impero e Chiesa all'interno del grande scontro epocale fra capitalismo e feudalesimo, ci mostrano anche sviluppi ben identificabili che spiegano la convivenza di movimenti politici di segno opposto, a dimostrazione che in ogni situazione geostorica valgono determinazioni tattiche precise.
Nell'Europa del Nord, significativamente, i luogotenenti imperiali svilupparono brutalmente feudalesimo dove ancora non era arrivato. Nell'arretratezza sociale della futura Prussia si radicarono i cavalieri teutonici, un ordine ultra-feudale, monastico-militare, fondato in Palestina ed espressamente impiantato da Federico in Germania con la concessione in proprietà delle terre conquistate. L'ordine, capitanato dal braccio destro dell'imperatore, Ermanno di Salza, organizzò ripetute crociate espansionistiche e aggressive, che diedero inizio allo sterminio, durato più di un secolo, dei popoli baltici ancora pagani.
Nell'Europa del Sud, la stessa forza politica coltivò una specie di illuminismo ante litteram, affidando al giurista e letterato Pier delle Vigne la conduzione degli affari di stato, mentre l'imperatore affrontò in prima persona una missione "pacifista" a Gerusalemme presso il sultano. E lo fece non solo per ottenere la Città Santa, Nazareth, Betlemme, e il libero passaggio sulle vie di traffico per i pellegrini e le carovane di mercanti, ma anche per garantirsi un effetto "a proiezione remota di potenza" – autentico saggio di geopolitica dell'epoca – cioè per evitare possibili attacchi saraceni alle posizioni cristiane in Egitto e Siria. Mentre al Nord la politica federiciana era dunque volta a organizzare crociate, al Sud era volta ad evitarle. Un asse "adriatico" verticale, coerente con gli sviluppi geostorici diversificati, che passava dal Brennero, dal Canale di Otranto e dall'Egeo verso il Medio Oriente. Un asse cui sarebbe dovuto corrispondere quello "tirrenico", che andava dal continente europeo all'Africa via Sicilia e Malta, se la Repubblica di Genova non l'avesse impedito (Pisa fu alleata di Federico).
Assi verticali e orizzontali
L'asse geostorico orizzontale, che tagliava l'Impero da Genova a Venezia attraverso la potente minaccia dei Comuni, rappresentava il capitalismo nascente, mentre l'Impero – più virtuale che sacro e romano – rappresentava il passato, nonostante subisse profondamente l'influenza della nuova epoca. O meglio, lo rappresentava ovunque non si trovasse di fronte forze più arretrate. Ma a Ovest c'erano Francia e Spagna, la prima con la sua formazione in entità statale già praticamente compiuta, la seconda con un analogo processo in atto contro ciò che rimaneva del califfato di Cordoba. A Sud, oltre il mare, c'era il mondo islamico, nei cui confronti si era già dovuto decidere assai significativamente fra le armi e i patti. All'Impero non rimaneva che l'Oriente europeo verso cui espandersi; ma l'avrebbe potuto fare solo se fosse riuscito a riunire le sue forze – tagliate a metà al Brennero e a Venezia – e soprattutto se fosse riuscito a sottomettere la Germania al "suo" sistema economico, così com'era riuscito a sottomettere il Sud Italia.
L'Europa d'oggi è stata disegnata allora da queste determinazioni, e il capitalismo non ha fatto altro che impiantarsi sulle zone agrarie e industriali che ha trovato pronte, rafforzandosi, spazzando il vecchio modo di produzione, ma senza poter sconvolgere più di tanto le condizioni materiali accumulate in un millennio sul territorio. Infatti, se noi tracciamo lo schema delle aree agrarie e industriali capitalistiche, le stesse che ci indicano la quantità di capitale radicato per chilometro quadrato (cfr. il nostro Convulsioni di nazioni e classi…), vediamo una fascia che va da Nord a Sud attraversando l'Europa. La penisola italiana, proiettata sul Mediterraneo, continua ad essere il prolungamento naturale e imprescindibile di quell'asse, come osservò Engels a proposito di Po e Reno, Nizza e Savoia, territori le cui vicende mostravano l'interesse tedesco per l'Italia e non contro di essa, mentre opposti erano gli interessi della Francia (Fig. 1).
In termini geostorici, infine, gli assi marittimi tirrenico e adriatico che si proiettano nel Mediterraneo, rispettivamente verso la costa africana e mediorientale costeggiando l'Italia, sono il prolungamento delle vie terrestri che partono dal Mare del Nord e dal Baltico. I rapporti economici e politici sono naturalmente a rete, ma i nodi vitali di un'Europa che volesse avere qualche velleità imperialistica autentica sono disposti secondo una geometria che va inesorabilmente da Nord a Sud, come del resto dimostra il dislocamento strategico delle forze terrestri, aeree e navali americane sul continente. Solo un consolidamento in tal senso permetterebbe all'Europa di inglobare l'asse "balcanico" come piattaforma di lancio da Ovest a Est, o di sfondarlo se esso si dimostrasse ostile, cioè permeabile alle suggestioni del suo avversario americano. Cosa che del resto sta succedendo, come vedremo. Il Cuore del mondo d'Eurasia potrebbe diventare una zona d'influenza europea solo se nella strategia europea fosse coinvolta la Russia; ma quest'ultima può esserlo solo se la "cerniera balcanica" viene trasformata da ostacolo insuperabile a potente fulcro su cui far leva.
Occorre chiedersi, per poter parlare del futuro, se il valore della cerniera balcanica, cioè dell'asse Nord-Sud, per ogni proiezione a Est sia una costante nel tempo o se si siano solo verificate storiche contingenze che l'hanno momentaneamente esaltato. Tolto il feudalesimo chiuso e a-statale, le uniche società aperte statali in grado di muoversi secondo direttrici geopolitiche sono state quella ellenistica, quella romana e quella capitalistica dalla rivoluzione francese in poi. Tutte e tre hanno dovuto espandersi secondo assi Nord-Sud prima di continuare l'espansione sull'asse Ovest-Est. Alessandro Magno seguì la direttrice Balcani-Egitto via Turchia-Palestina, per poi rivolgersi alla Mesopotamia, alla Persia e all'Asia. L'espansione di Roma seguì le terre da grano, dalla piana del Po alla Sicilia e all'Africa, impossessandosi del Mediterraneo dopo aver distrutto Cartagine. Solo nell'ultima fase si rivolse all'Eurasia. E anche Napoleone Bonaparte diresse le armate di Francia a Sud, nella campagna d'Italia e d'Egitto, prima che a Est e Ovest, contro le reazioni dinastiche.
Il tentativo napoleonico di impiantare una propria dinastia non fu mai preso in considerazione, come fattore di storia, neppure dagli storici più reazionari. Tutti riconoscono in un modo o nell'altro che l'imperatore fu uno strumento di assestamento della rivoluzione borghese. Quando i grandi sconvolgimenti politici in Europa, di cui fu protagonista, gli fecero preparare la campagna di Russia mettendo in campo un esercito come non s'era mai visto, era la rivoluzione borghese che stava ancora marciando, non una dinastia personale. E siccome marciava verso il Cuore del mondo attraverso la Polonia, la sottovalutazione di quest'ultima da parte di Napoleone fu un disastro geopolitico. Si trattava infatti di un paese-cardine che poteva essere scagliato, meglio di qualsiasi artiglieria, contro l'Oriente reazionario semplicemente assecondandone la rivoluzione nazionale contro la Russia.
Siamo dunque arrivati a un punto fondamentale: la direzione verso la quale si muovono gli eserciti non è per nulla indifferente, e nelle fasi cruciali determina la vera natura delle guerre. Il capitalismo è come i vasi comunicanti, il flusso va dal livello superiore a quello inferiore, mai al contrario. Quando il flusso s'inverte è perché la storia viene forzata e si verifica una reazione rispetto al processo spontaneo. La guerra che fermò i cavalieri teutonici (1242) alle soglie della Russia e fece di Alessandro Nevskij un eroe santificato non è di lettura così semplice come vorrebbero gli stalinisti. L'Ordine teutonico, fondatore di città e di reti mercantili, era portatore di progresso rispetto alla società russa, mentre questa lo era rispetto all'Orda d'oro mongola padrona delle steppe orientali. Ma Nevskij fece guerra alla civiltà e strinse patti con i Mongoli. Fu un fatto di rilevanza patriottica, ma la Russia rimase nella barbarie fino a Pietro il Grande.
Oggi a cavallo della cerniera balcanica non c'è una guerra in corso che muova grandi eserciti; vi sono però truppe d'occupazione italiane, inglesi, francesi, tedesche e americane arrivate al seguito dell'esplosione jugoslava. Che è stata causata da forze centrifughe interne, ma anche robustamente assecondata dall'esterno, sia dagli europei che dagli americani per scopi opposti. La direzione verso la quale hanno agito le spinte geostoriche in quella regione del mondo ha fatto saltare il vecchio sistema titino; ma i contrasti interimperialistici, e soprattutto l'inesistenza di una politica europea, hanno dato luogo a un ginepraio geopolitico invece che a una soluzione. Soprattutto si sono incuneati gli Stati Uniti, tagliando orizzontalmente l'asse che abbiamo chiamato federiciano, quindi con la sola motivazione strategica di interferire negli affari europei. L'ex Jugoslavia e l'Albania appaiono nella nostra mappa come uno strano vuoto alieno rispetto alle velleità dell'Unione (fig. 1). Solo la più sviluppata Slovenia ha potuto farne parte. In futuro vedremo se sarà l'Europa a esercitare una pressione verso i nuovi arrivati e candidati d'Oriente inglobandoli nella propria geopolitica, o se saranno viceversa questi ultimi a impedire una politica europea. Ecco qual è esattamente la posta in gioco, al momento, fra Europa e Stati Uniti d'America.
La rivoluzione marcia da Occidente a Oriente
Il fondamentale aspetto della direzione verso cui agisce la pressione geostorica è in genere trascurato, ma ci dà una risposta anche a proposito degli assi carolingio e federiciano: la Francia è a occidente della Germania, e otto dei dieci nuovi membri dell'Unione Europea occupano la stessa area su cui premevano i cavalieri dell'Ordine Teutonico al comando di Ermanno di Salza. Gli altri due (Malta e Cipro) sono sulle rotte delle Crociate, le stesse che Federico voleva trasformare in normali vie di traffico. Marx trattava la Russia come un bastione reazionario, un vero nemico della rivoluzione in Europa. Il nazionalismo panslavista europeo, riflesso della micidiale politica russa contro l'Europa dell'800, era trattato alla stessa stregua. Engels esclamò: "Finalmente!" quando lo zar Alessandro II minacciò di proclamarsi zar di tutti gli slavi, invece che di tutte le Russie, se mai l'Austria si fosse schierata ad Occidente. In tal caso sarebbe nato un blocco anti-russo formidabile e finalmente il conflitto strisciante sarebbe diventato vera guerra europea, relegando a puro non-senso le ambigue scaramucce (ma i grandi massacri) della "finta guerra" di Crimea.
Occorreva infatti scongiurare il pericolo che la Russia, approfittando della mancanza di determinazione occidentale, conquistasse Costantinopoli aprendosi la via verso i Balcani, dato che la rivoluzione europea ne avrebbe ricevuto un colpo mortale. La reazione orientale avrebbe marciato verso l'Occidente sviluppato, e di conseguenza ogni lotta di quest'ultimo contro l'Oriente retrogrado zarista sarebbe stata una vittoria rivoluzionaria oggettiva. E allora l'Inghilterra, che fu già reazionaria contro Napoleone, avrebbe dovuto muovere guerra in modo più deciso a fianco della Turchia contro la Russia. E l'Europa tutta non avrebbe dovuto abbandonare vigliaccamente la Polonia insorta e di nuovo stritolata da Mosca.
Ma la Russia aveva un suo Oriente, arretrato e in certi casi persino barbarico, una terra sconfinata fino alla Kamciatka. Questo era l'obiettivo strategicamente e geostoricamente "legittimo" che Marx ed Engels le concedevano, anche se con riserva, dato che conoscevano bene la reazione russa da sempre rivolta verso Ovest tanto da infiltrare i governi europei.
Il criterio generale è valido ancora oggi, nonostante sia terminato da un pezzo il ciclo storico della formazione rivoluzionaria degli stati nazionali. Per cui c'è davvero differenza se cambia la direzione verso cui si volgono le armi o comunque le pressioni dei vari paesi imperialisti. Nessun marxista può considerare con disinteresse i conflitti e, soprattutto, la dinamica che li muove, come se si trattasse sempre e comunque di regolamenti di conti interimperialistici. Anche le cosiddette proxi wars, le guerre per procura, interessano ai comunisti, nonostante nel mondo intero vi sia ormai una situazione favorevole alla sola rivoluzione proletaria non imbastardita da compiti democratico-borghesi. Mai dunque una guerra può essere analizzata secondo il principio d'indifferenza, dato che quando essa scoppia, specie nel complesso gioco di interazioni fra paesi imperialisti, rappresenta sempre lo sbocco catastrofico di tensioni e problemi accumulati lentamente.
Emblematico il caso della Jugoslavia: a prescindere dalle pressioni esterne, che potevano comunque far leva solo su condizioni materiali esistenti, il processo di disgregazione di tutta l'area colpisce le singole parti federate secondo un ordine stabilito dal loro grado di maturità economica e sociale. Inizia in Slovenia, la parte più "occidentale" e industrializzata, insofferente di fronte allo sfacelo economico attribuito al governo di Belgrado; seguono la Croazia, la Bosnia, la Macedonia, il Kossovo. Nel 1997 esplode l'Albania, che sfugge ad ogni tentativo di controllo da parte europea (specie italiana) ed entra in rapporti preferenziali con gli Stati Uniti fino ad inviare truppe in Iraq.
Oggi, il capitalismo straripante degli Stati Uniti marcia spontaneamente verso Est sulla direttrice Baghdad-Teheran-Kabul. Sarà comunque una marcia storica favorevole allo sconvolgimento di vecchi rapporti sociali, e sarebbe addirittura auspicabile se non fosse intrapresa per stabilire teste di ponte contro le velleità unionistiche d'Europa e contro l'affermarsi delle grandi potenze asiatiche di Cina e d'India. La Cina sarebbe costretta ad avere una propria politica di potenza per l'Asia centrale (cosa non più successa dall'invasione mongola), e la Russia verrebbe inchiodata al ruolo attuale di semplice fornitore di materie prime. La rivoluzione marcia con il capitalismo moderno e si rafforza in ragione diretta all'aumentato dominio del Capitale su tutta la società. Nessun rivoluzionario, quindi, terminata l'epoca delle colonie, potrebbe fare a meno di esclamare "finalmente!", come Engels, se la politica degli Stati Uniti fosse veramente quella sbandierata dal becero schieramento neoconservatore. Se fosse cioè realmente in grado di esportare un po' d'America, di impiantare robuste economie capitalistiche pienamente borghesi con un numeroso e fresco proletariato. Se così fosse; ma così non è. Tolta all'Europa ogni possibilità di autentica politica continentale, la strategia americana (aiutata abbondantemente dalla miope vigliaccheria delle borghesie nazionali europee) non è per nulla attiva come sembra sullo scacchiere internazionale, bensì passiva. L'effetto pratico di tutte le sue roboanti dottrine di guerra preventiva per imporre il paradiso americano modello export non è altro che un banale riciclaggio della vecchia dottrina del contenimento: non più contro un nemico grosso e tangibile come l'URSS, ma contro un nemico metafisico etichettato "terrorismo", più virtuale dell'economia del dollaro.
Corridoi d'Europa
Può darsi che nella testa dei governanti e negli innumerevoli dipartimenti statali sulle due rive dell'Atlantico persista l'idea di Alleanza forgiata dalla Seconda Guerra Mondiale. Ma la dinamica materiale non è prodotta dal pensiero o dagli uffici diplomatici, li produce. Le immense forze d'America mossero contro l'Europa in due guerre mondiali e vi restarono come forze di occupazione per niente simboliche, pronte a ridislocarsi dove sia più utile. Per esempio sulla cerniera balcanica. Gli europei non possono far nulla senza provocare le reazioni degli Stati Uniti, ma anche il nulla è distruttivo, come dimostra l'avanzare dei dollari e dei soldati, a partire dall'ex Jugoslavia, dove le truppe "coalizzate" sono presenti con pretesti che valgono tanto quanto quelli escogitati per l'Iraq.
La riunificazione tedesca aveva offerto agli altri paesi europei l'occasione unica di combattere la stupida politica del "cortile e del pollaio" che stava prendendo piede prima del collasso jugoslavo. S'era incominciato a dar fiato allo slogan "un popolo, una nazione" e s'era finito per assecondare il disastro della disintegrazione europea o, appunto, della sua balcanizzazione. Mentre si riunificava la Germania, in controtendenza allo sfascio d'Eurasia, il resto d'Europa seguiva la corrente coltivando ubbìe regional-colcosiane.
Paese | Area Kmq | Abitanti Milioni | PIL Miliardi $ | PIL pro capite $ | USA Invest. strat.* |
---|---|---|---|---|---|
Lussemburgo | 2.500 | 0,4 | 20 | 44.000 | – |
Irlanda | 70.200 | 3,9 | 118,5 | 30.500 | – |
Belgio | 30.500 | 10,2 | 297 | 29.000 | – |
Danimarca | 43.000 | 5,3 | 155,5 | 29.000 | – |
Austria | 83.800 | 8,1 | 226 | 27.700 | – |
Paesi Bassi | 41.500 | 16,1 | 434 | 26.900 | – |
Germania | 357.000 | 82,4 | 2.184 | 26.600 | – |
Finlandia | 337.000 | 5,2 | 136,2 | 26.200 | – |
Francia | 547.000 | 60,2 | 1.540 | 25.700 | – |
Svezia | 449,9 | 8,8 | 227,4 | 25.400 | – |
Gran Bretagna | 244.800 | 60,1 | 1.520 | 25.300 | – |
Italia | 301.200 | 58 | 1.438 | 25.000 | – |
Spagna | 504.700 | 40,2 | 828 | 20.700 | – |
Grecia | 131.900 | 10,6 | 201,1 | 19.000 | – |
Portogallo | 92.400 | 10,1 | 182 | 18.000 | – |
Slovenia | 20.200 | 1,9 | 36 | 18.000 | 6,5 |
Malta | 300 | 0,4 | 7 | 17.000 | – |
Rep. Ceca | 78.800 | 10,2 | 155,9 | 15.300 | 13,3 |
Cipro | 9.200 | 0,7 | 10,2 | 14.500 | – |
Ungheria | 93.000 | 10,5 | 134,7 | 13.300 | 13,1 |
Slovacchia | 48.800 | 5,4 | 66 | 12.200 | 10,6 |
Estonia | 45.200 | 1,4 | 15,2 | 10.900 | 7,9 |
Polonia | 312.600 | 38,6 | 368 | 9.500 | 15,6 |
Croazia | 56.500 | 4,4 | 38,9 | 8.800 | 39,0 |
Lituania | 65.200 | 3,5 | 29,2 | 8.400 | 9,5 |
Lettonia | 64.500 | 2,3 | 20 | 8.300 | 9,5 |
Romania | 237.500 | 22,2 | 166 | 7.400 | 44,0 |
Turchia | 780.500 | 68,2 | 468 | 7.000 | – |
Bulgaria | 131.900 | 7,5 | 50,6 | 6.600 | 41,6 |
Macedonia | 25.300 | 2,0 | 10 | 5.000 | 61,8 |
Albania | 28.700 | 3,6 | 14 | 4.500 | 34,0 |
Ucraina | 603.700 | 48 | 218 | 4.500 | 166,5 |
Armenia | 29.800 | 3,3 | 12,6 | 3.800 | 77,6 |
Azerbaigian | 86.600 | 7,8 | 27 | 3.500 | 52,9 |
Georgia | 69.700 | 4,9 | 15 | 3.100 | 97,4 |
Moldova | 33.800 | 4,4 | 11 | 2.500 | 37,2 |
Serbia | 102.300 | 10,6 | 25,3 | 2.370 | 136,4 |
Bosnia | 51.100 | 3,9 | 7,3 | 1.900 | 70,9 |
Tabella 1. Confronto fra i vari paesi dell'asse "balcanico". Ordine per PIL pro capite. In grigio l'Europa dei 15 prima dell'allargamento; sarà un caso, ma ne facevano parte solo i paesi con più alto reddito, una vera discriminazione tra nazioni per censo. Dati: CIA Factbook 2003 (dollari normalizzati col potere d'acquisto). * Investimenti strategici americani diretti (aiuti militari e/o aiuti al governo, educazione, antiterrorismo, peacekeeping, fondi "per la democrazia all'Est", ecc.; milioni di dollari USA correnti. Dati del dipartimento di Stato USA: www.state.gov/documents/organization/9472.pdf).
Invece di spingere, se non per l'impossibile unificazione, almeno per un'intesa fra Stati volta a impedire l'avanzata dell'influenza disgregatrice proveniente dall'Est, i governi europei avevano fatto di tutto per ridare ossigeno alle tinte nazionalistiche persino nei rapporti fra i membri della cosiddetta Unione.
Invece di intervenire con un tentativo di controllo attivo, anche con forme di dissuasione ("o l'unione statale o l'arbitrato europeo"), essi si erano lasciati sopraffare da una situazione che avevano contribuito a mandare fuori controllo. Alla faccia delle teorie sugli Stati Uniti d'Europa, essi avevano fatto a gara per migliorare grandemente le possibilità di un suicidio collettivo. E così è stato. Nessuno pretende una sensibilità geostorica ché non è pane per i borghesi, ma almeno una normale concezione geopolitica alla loro maniera avrebbe consigliato a chiunque di agire diversamente rispetto alla Jugoslavia. Stati che stavano sbandierando ai quattro venti i loro intenti unificatori entravano in esplosiva contraddizione con l'intervento attivo nella disintegrazione di un prezioso vicino che vent'anni fa era l'effettivo perno dei Balcani, un caposaldo di quella che sarebbe diventata la grande cerniera con l'Eurasia. L'incredibile è che fu la Germania a mettersi alla testa della cieca politica suicida, seguita a ruota da Austria e Vaticano. Furono, quelle, mosse gravide di conseguenze, e più niente è recuperabile.
Allo stato delle cose, pertanto, si consolida una tendenza dei piccoli Stati all'utilizzo di ogni mezzo per ottenere dei benefici dal fatto che le vie di traffico di energia, merci e capitali passano sul loro territorio. Sono piccole repubbliche, per lo più insignificanti, ma che hanno tuttavia un grande potere di ricatto. Se l'Europa vorrà continuare nella sua velleità unificatrice, se non altro per contrastare il concorrente americano, dovrà risolvere quindi un problema che essa stessa ha contribuito a far emergere. Naturalmente nessuno, e tantomeno qualche piccola repubblica, impedirà la formazione spontanea e il consolidamento della rete nervosa di comunicazioni e di traffico attorno al nucleo storico di accumulazione (la Mezzaluna industriale che gravita intorno all'asse renano-padano), ma i nuovi arrivati chiederanno molto, a partire dall'alleanza strategica con gli Stati Uniti, accorsi di buonissimo grado e ad un costo irrisorio (cfr. tab. 1).
La figura 2 ci mostra la regione di Berlino come un polo su cui gravita la maggior parte degli assi paneuropei. Tagliata fuori dai giochi del Medio Oriente con la sconfitta nell'ultima guerra, la Germania si rifornisce con il petrolio del Mare del Nord e con quello che proviene dalla Russia insieme con il gas naturale. Sul centro tedesco convergono quindi da Est tre arterie energetiche, un oleodotto, un gasdotto e un futuro nuovo gasdotto collegato ai giacimenti nordoccidentali russi, mentre al Nord-Est sono collegati 1) il secondo corridoio paneuropeo che conduce al sistema di trasporti transiberiano; 2) la via di traffico dal Mar di Finlandia e dal Baltico (attraverso l'intersezione tra il primo e il secondo corridoio), che prosegue verso l'Austria e Trieste, quindi verso i Balcani e verso l'Adriatico e il Mediterraneo; 3) il quarto corridoio verso la Serbia e la Turchia; 4) la via di traffico dal Mare del Nord sull'asse Amburgo-Innsbruck-Verona-Taranto (o Brindisi).
Agognata "libertà", ma di serie B
Nel nostro lavoro, non solo su questa rivista, abbiamo più volte ripreso un dato particolarmente significativo, tratto da un modello economico elaborato alla fine degli anni '80 e più valido che mai: nel capitalismo moderno la massa critica di produttori-consumatori necessaria a garantire l'indipendenza economica di un paese è di almeno 100 milioni di abitanti (cfr. Crisi del Golfo?). Ora, in tutto il mondo vi sono solo 11 Paesi che raggiungono tale numero (in ordine decrescente: Cina, India, Stati Uniti, Indonesia, Brasile, Pakistan, Russia, Bangladesh, Nigeria, Giappone e Messico), e non è detto affatto che abbiano tutti i requisiti del modello. Le differenze tra di essi sono enormi, e comunque solo tre sono autosufficienti per il rifornimento energetico (Russia, Nigeria e Messico).
L'Europa non esiste come unità politica ed economica. È chiaro che, se esistesse, sarebbe il primo polo capitalistico del mondo, ma non esiste. Nel tentativo di esistere, ingloba paesi con grande potenza "negoziale" come la Polonia o la Turchia, oppure piccole repubbliche con pochi abitanti che non hanno alcuna possibilità di avere un mercato interno, di influire su quello esterno o di integrarvisi. Se già grandi nazioni hanno perso completamente l'autonomia negli schieramenti interimperialistici attuali, le piccole non possono far altro che presentarsi sul mercato come merce in vendita al migliore offerente. E la qualità di questa merce non è di sicuro eccelsa, di fronte alla gran concorrenza che c'è sulla piazza europea. Ne consegue che la martellante propaganda sulle euroregioni, sul diritto di autodeterminazione dei piccoli popoli o sulle aspirazioni autonomistiche, con cui ci hanno rotto le tasche per decenni, non è altro che un'immane sciocchezza; per cui diventa assai significativa la nuova geografia dell'Unione a 25, con paesi che hanno un piede in Europa e l'altro, insieme a buona parte del cervello e del portafogli (vuoto), in America.
È vero che ogni singolo capitalista potrebbe avvantaggiarsi dalla libera circolazione della forza-lavoro a buon prezzo e dall'esistenza di vasti territori ancora a bassa composizione organica di capitale, ma anche questa possibilità è negata nei fatti: 1) i nuovi lavoratori a basso costo non si aggiungerebbero affatto a quelli esistenti, li sostituirebbero semplicemente, facendo abbassare in modo drastico la capacità d'acquisto generale, e quindi la dimensione del mercato, e quindi in ultima istanza la stessa capacità produttiva, come sta succedendo in Germania; 2) perciò la circolazione della forza-lavoro e di altre merci non sarà affatto libera.
Non a caso è già sorta la teoria apposita dell'Europa a più velocità di sviluppo (multi-speed Europe) al fine di lasciare intatti gli interessi dei paesi maggiori, con buona pace dello sbandierato spirito comunitario. Il risultato pratico sarà un rafforzamento dei paesi più forti (o un loro minor indebolimento), un incremento della concorrenza fra di essi per assicurarsi aree di influenza interne all'Europa, e infine un ulteriore allontanamento politico dei nuovi arrivati quando essi ricatteranno il vecchio nucleo dell'Unione Europea chiedendo risorse. Così quest'ultimo sarà costretto a sviluppare (è già stato proposto) un Piano Marshall balcanico; il che significherà, paradossalmente, finanziare l'avvicinamento politico agli Stati Uniti di una parte della cerniera "balcanica".
Di fronte a questa prospettiva è già operante di fatto un'Europa "a geometria variabile" (gli aerei con assetto a "geometria variabile" assumono conformazioni alari diverse a seconda della velocità), altra denominazione caratteristica della effettiva disunione che sta producendo progetti antitetici per il futuro. Per esempio, Gran Bretagna, Danimarca e Svezia non hanno aderito al progetto monetario Eurozona. Nel frattempo i nuovi arrivati, compresi quelli che sono ancora nel limbo di "candidati", come Romania, Bulgaria e Turchia, alimentano la silenziosa ma incessante "invasione barbarica", producendo voglia di nuovi muri o perlomeno di norme restrittive per i permessi di soggiorno. Il trattato di Schengen, che avrebbe dovuto eliminare le frontiere e garantire la libera circolazione di merci, denaro e uomini è praticamente nullo.
Da quando è esplosa la democrazia all'Est, lo stereotipo della balcanizzazione corrisponde sempre più alla realtà. Entro quello che dovrebbe diventare uno spazio economico e sociale unificato si producono forze disgregatrici e addirittura segregatrici. A dispetto della proclamata volontà di evitare un'Europa con cittadini di seconda classe, proprio il paese che ha un suo rappresentante ai vertici dell'Unione, i Paesi Bassi, azzera la principale libertà ai nuovi cittadini europei, quella di movimento, negando loro l'ingresso. E in tutta la "vecchia Europa" sarà negato l'ingresso ai prodotti agricoli dei nuovi membri, lasciando libertà di esportazione su quelli industriali, come se in Lettonia o in Bulgaria si producessero macchine utensili, prodotti chimici, avionica o software in grado di impensierire lo storico asse industriale anglo-renan-padano.
L'ex Jugoslavia è terreno di uno scontro ancora in corso
In Slovenia, in Croazia, e persino in Serbia, prima del collasso jugoslavo circolava da tempo il marco tedesco come moneta parallela al dinaro. Da almeno vent'anni era smantellato il vecchio apparato sedicente socialista del modello co-gestionario titino e s'era consolidato un mercato capitalistico non mistificato, abbastanza dinamico. Nello stesso tempo i rapporti economici con i paesi ad occidente si erano rafforzati, fino a far presagire una vera area di influenza europea. Tutto insomma sembrava marciare verso un effettivo superamento, non solo nell'area strettamente balcanica, di quei fattori geostorici che avevano rappresentato pretesti per ben due guerre mondiali. Sembrava. Ma in assenza di una politica unitaria degli stati europei, anzi, di una qualsiasi politica verso l'Est, la guerra scoppiò inaspettata, rivelando che decisioni coerenti non si possono improvvisare. Si combatté quindi in Jugoslavia la prima guerra europea da mezzo secolo in qua. Europea, ma con caratteri militari tipici di epoche passate non certo dell'Europa moderna. La secessione della Slovenia non aveva prodotto risvolti militari di rilievo, ma la successiva guerra fra Croazia e Serbia comportò il pronunciamento delle truppe a seconda dell'appartenenza etnica. L'occupazione di parte della Bosnia croata da parte di Belgrado allargò un conflitto che assunse ben presto risvolti "africani": tutti ammazzavano tutti. Fu dunque conseguenza logica che l'intervento euro-americano assumesse quegli aspetti che eravamo abituati a vedere quando i popoli civilizzati si apprestavano a pacificare i "selvaggi".
Ma anche il paragone "africano" risulta inadatto per descrivere il disastro balcanico, non appena si approfondisca la sua gravità: mentre le varie potenze coloniali intervenivano nei territori dominati con spietata lucidità politica e programmi precisi, oggi l'impossibilità di colonizzare direttamente il territorio provoca la guerra senza che vi sia una corrispondente politica in prospettiva, per cui l'occupazione militare "coalizzata" si riduce a un reciproco controllo fra gli occupanti e ogni missione s'impantana in un vicolo cieco, con gravi danni alle popolazioni "pacificate". Per di più l'azione militare non avviene in un contesto arcaico, ma nel continente d'origine del colonialismo, in cui la concentrazione del capitale e la densità urbana sono ai massimi livelli del pianeta. L'ibrido di guerra scaturito nel contesto balcanico, fra azione di polizia e bombardamento "a saturazione", dimostra alcuni assunti importanti:
1) nel mondo post Guerra Fredda il ricorso alle armi in area europea non è affatto tramontato;
2) esso anzi rimane l'unico strumento decisivo per risolvere le guerre geo-economiche;
3) l'universale e millenario insegnamento secondo cui la guerra non è che uno strumento della politica, e viceversa, non è venuto meno;
4) esso però, nel caso specifico dell'Europa, non è stato neppure vagamente preso in considerazione, dato che l'azione unitaria è stata sostituita da una tattica di inganni reciproci fra alleati;
5) quando i conflitti assumono così esasperati aspetti etnici in quest'epoca di avvenuta sistemazione delle vecchie questioni nazionali, c'è sempre di mezzo una guerra per procura fra grandi potenze;
6) la mistificazione dell'opzione militare diretta e chiara – per principio, opportunismo, impossibilità o incapacità, è lo stesso – porta sempre a un azzeramento della credibilità politica dello Stato che la promuove;
7) il delirio semantico sulle "guerre umanitarie" può essere utile a quelle potenze che lo usano mediaticamente contro gli avversari, ma nei fatti è sempre scatenata una guerra con tutti i mezzi di guerra;
8) la guerra di per sé può solo distruggere e uccidere, non può risolvere alcun problema senza un progetto per la drastica eliminazione dei fattori che l'hannno provocata e senza l'utilizzo di mezzi militari adeguati;
9) in un contesto geopolitico in trasformazione vince chi ha una strategia globale e una tattica locale, mentre l'indeterminatezza tattica ha sempre portato alla sconfitta (e nel caso specifico gli stati europei hanno avuto comportamenti ambigui con paurose oscillazioni tattiche);
10) quando si è prodotto un vuoto politico-militare, non è mai successo che non fosse riempito da qualcuno.
Tutti ricorderanno la precipitosa disponibilità, da parte dei maggiori paesi europei, al riconoscimento diplomatico della "sovranità nazionale" di Slovenia e Croazia, senza alcun piano di intervento finalizzato alla soluzione dei problemi che sarebbero inevitabilmente sorti. Ma il termine "nazione" sta a significare unità etnica, linguistica, culturale e, in epoca capitalistica, soprattutto mercato interno omogeneo tanto vasto da garantire indipendenza. Perciò fu ancora più disastroso il riconoscimento del fatto compiuto di fronte alla "indipendenza" di Bosnia e Macedonia, due territori non-nazione con situazioni interne inestricabili sul piano etnico. Una repubblica bosniaca islamica (proposta dal presidente Izetbegovic) avrebbe infatti prodotto una sollevazione (come successe) delle minoranze serbe e croate, mentre una repubblica macedone avrebbe comportato gli stessi problemi riguardo alle minoranze serba e albanese. Anche in questo caso vi furono combattimenti, pur se di minore portata; e comunque, a rigor di logica, una "nazione" macedone si potrebbe costituire solo togliendo territori a Grecia, Bulgaria e Serbia, cosa evidentemente assurda. Nessun programma decente e pragmatico fu avanzato dall'Europa e dagli Stati Uniti, che anzi s'impelagarono nella regione del Kossovo, dove i problemi erano altrettanto acuti e irrisolvibili, con le mistificanti missioni di peace-keeping.
Questa fu la situazione, provocata dagli stessi europei, che permise agli americani non solo di sbarcare in Bosnia, ma anche di avere un precedente per intervenire nella crisi del Kossovo, di utilizzare la resistenza fasulla anti-serba e di bombardare la Serbia, rea di non riconoscere alla popolazione albanese il diritto alla propria identità nazionale, e infine di rovesciare il governo di Belgrado installandosi saldamente in quello scacchiere strategico. Gli americani avranno dimostrato di avere una visione geostorica semplificata e brutale, ma gli scafati europei di non averne alcuna. Gli Stati Uniti, sfruttando l'impossibilità di una strategia unitaria europea, hanno fatto tramontare forse per sempre l'illusione dell'Europa di poter giungere all'unione politica continentale attraverso un lento processo economico e monetario. E allora ai paesi europei non resta che la speranza – non troppo fondata – che il vitale bisogno americano di controllare il mondo provochi una coalizione e quindi un'unione di riflesso. Una rapida occhiata alle nostre sintetiche cartine ci mostra che questa eventualità è già assai compromessa. Allora è fuor di dubbio che la guerra in Europa è stato il necessario prologo di quella in Iraq, e questa un suo importante complemento. Gli Stati Uniti si stanno indebolendo economicamente, e la loro perdita d'importanza nella formazione mondiale del valore si accompagna, del tutto conseguentemente, ad un'aumentata virulenza attivistica come maggiore potenza imperiale. In Europa ci sono troppe propaggini "balcaniche" per immaginare che non facciano parte dei piani americani, dal Belgio alla Padania, dal Baltico al Bosforo.
La Polonia, chiave di volta del sistema
Era inevitabile che la Polonia, liberatasi dal soffocante inserimento nel blocco russofilo uscito dall'ultima guerra mondiale, assumesse un'importanza geopolitica più consistente di quella socio-economica risultante dalle tabelle relative agli abitanti e al PIL. L'ottusità della politica europea in questo caso è lampante. O meglio, la vicenda polacca dimostra quanto gli stati europei perseverino ottusamente sulla strada della non-politica. Anche in questo caso è indifferente se si tratta di cecità strategica o di impossibilità dovuta ai rapporti fra Washington e Varsavia, che non sono certo il risultato di un giorno. E non ha neppure importanza se i risultati pratici sono dovuti a perspicacia polacca, ad abilità americana o a un incontro fra le due ipotesi. Il dato di fatto è che la Polonia s'è presa il posto che le spettava da due secoli nella geopolitica d'Eurasia, e gli americani hanno sfruttato benissimo questa leva storica assecondandone il movimento. In ciò hanno fatto meglio di Napoleone, il quale, nonostante i buoni uffici della signora Walewska e l'inazione della nobiltà polacca, non era riuscito a capire che i centomila soldati messi a disposizione valevano molto di più, in quanto polacchi, dei fucili che imbracciavano per conto dei francesi.
La Polonia ha ora ottenuto due importanti risultati sul piano strategico: 1) partecipa direttamente all'amministrazione militare e logistica dell'Iraq, occupato con 2.400 soldati propri e con il comando su altri 8.000 della coalizione (tra cui danesi, spagnoli, ucraini, bulgari, romeni e slovacchi); e, 2) con questa carta da visita è entrata nell'Unione europea alla grande, da media potenza, senza neppure il bisogno di un negoziato esplicito, tanto è evidente che sarà blandita affinché non passi completamente alla concorrenza diventando un cavallo di Troia americano. Da parte USA, oltre al riconoscimento militare e al pagamento di due terzi delle spese di missione, agli abbondanti dollari, alla vendita di armamenti (9,5 mld. di dollari) e all'intervento diretto della loro forte lobby polacca, vi è il ricorso ad un argomento un po' ricattatorio, cioè il fatto che essa confini per mille chilometri con la Russia e l'Ucraina, storici e odiati nemici. Per cui è meglio preferire gli USA e la NATO all'Europa, se non altro perché nell'art. 5 dello Statuto atlantico vi è l'obbligo di intervento dei sodali in caso di aggressione ad un paese membro.
Si capisce che la situazione è estremamente favorevole, più che a una solidarietà con l'Unione, a uno stimolo del nazionalismo polacco, il quale ha già mostrato di essere in grado di afferrare al volo le opportunità offerte dai suoi nuovi amici. La Germania aveva privilegiato l'ex Cecoslovacchia e l'Ungheria per i suoi investimenti diretti (rispettivamente 5,9 e 12,6 miliardi di euro per 15 e 10 milioni di abitanti), lasciando alla Polonia solo 6,8 miliardi, nonostante i suoi 38 milioni di abitanti. Ma ha dovuto rivedere completamente questo aspetto della sua politica estera verso la Polonia e ha dirottato verso quest'ultima investimenti diretti e capitali finanziari, tramite l'apertura a tamburo battente di numerose filiali delle banche tedesche. Nel frattempo ha finanziato l'interscambio di merci divenendo di gran lunga il primo partner commerciale.
Non secondarie sono alcune attenzioni prettamente diplomatiche, nel tentativo, per esempio, di mitigare il tradizionale anti-germanismo polacco, potente quanto la più antica avversione contro gli ex dominatori russi (che – ricordano assai interessatamente gli americani – controinvasero la Polonia insieme con i nazisti e sono pur sempre alle porte). Intanto le società internazionali di rating hanno elevato il punteggio dell'economia polacca, e su questa garanzia la Polonia ha emesso titoli per ingenti prestiti internazionali. Le somme raccolte sono state utilizzate in parte per neutralizzare il numeroso contadiname, tranquillizzandolo, ma soprattutto per procedere a drastici cambiamenti interni, come la riforma dell'amministrazione regionale. I nuovi voivodati hanno una struttura basata sul modello dei lander tedeschi e sono perciò dei veri e propri stati regionali.
Non dipende solo dalla Polonia riuscire a trasformare gli antichi problemi dovuti alla sua posizione di passaggio, senza frontiere naturali, in vantaggi; dipende da quale direzione prenderanno le forze che in questo momento stanno misurandosi da Capo Nord al Golfo Persico. Dal punto di vista della nostra concezione geostorica, che ha individuato nel movimento da Ovest a Est la dinamica della rivoluzione comunista e delle sue linee di forza, è chiaro che un'Europa in grado di utilizzare la Polonia come trampolino di lancio verso l'Oriente è tutt'altra cosa che non una Polonia utilizzata dagli Stati Uniti contro l'Occidente d'Europa. Ma gli americani sono già in Afghanistan e di lì volgeranno le loro artiglierie, politiche ed effettive, verso l'Occidente eurasiatico. Solo una guerra generalizzata – o un'esplosione rivoluzionaria – potrà invertire il processo che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, perciò possiamo tranquillamente accettare, nello stesso tempo, due proposizioni apparentemente antitetiche:
1) la marcia del capitalismo verso l'Oriente è stata rivoluzionaria in quanto le vecchie società sono state distrutte, sia dal colonialismo che dalle guerre di liberazione che esso ha suscitato, ed è sorto un forte proletariato urbano; ancora oggi, in pieno dominio del modernissimo capitale finanziario, è importante la sua espansione quando contribuisca di fatto ad eliminare le residue aree di arretratezza, compito che quindi non graverà più sulla società futura;
2) nella maggior parte dei casi, però, giusta la tesi marxista, l'arretratezza non è dovuta a mancato sviluppo ma a impedito sviluppo per via del trasferimento di valore verso i paesi industrializzati; il consolidamento degli Stati Uniti nel cuore dell'Asia, anche se essi dovessero riprendersi l'Iran e far nuovamente esplodere oasi di modernissimo capitalismo, sarà oggettivamente controrivoluzionario in quanto servirà come base strategica per la guerra, guerreggiata o meno, in direzione Est-Ovest, cioè contro l'Europa e il Giappone (con il criterio della minima distanza, il Giappone non può che considerarsi Occidente rispetto agli Stati Uniti).
In ogni caso sarà ancora una volta la cerniera "balcanica" a decidere quale sarà l'orientamento delle forze in gioco sullo scacchiere mondiale, di cui ancora una volta la Polonia sarà uno dei cardini.
L'Ungheria, occasione perduta
Polonia, Germania Est e Ungheria negli anni '50 furono terreno di scontro per l'uscita dal Patto di Varsavia, e di estese rivolte contro il sistema staliniano. Nel 1956 il moto proletario polacco riuscì a impedire la russificazione dell'economia abbattendo il governo. Tra il 1976 e il 1980 di nuovo in Polonia esplose l'unico movimento proletario generalizzato con oggettive caratteristiche rivoluzionarie anti-sistema (indipendentemente dalle forze reazionarie che si erano poste alla sua testa). Si tratta dunque di un nucleo di paesi sottoposti più di altri all'influenza travolgente del capitalismo che dall'Occidente lavorava sull'Oriente. Un nucleo che, non a caso, rappresenta, con la Repubblica Ceca, anche la più alta concentrazione d'industria – e perciò di proletari – di tutta la cerniera.
Come parte del composito Impero Austro-ungarico, l'Ungheria fu un'isola fra le popolazioni tedesche e slave che la circondavano. Pur non essendo in maggioranza, la popolazione magiara mantenne il dominio linguistico e culturale. Al crollo dell'impero, nel 1918, da paese fornitore di derrate agricole per l'Austria imperiale divenne poco per volta un paese urbanizzato e relativamente industrializzato. Compreso nella zona est-europea sotto l'influenza dell'URSS dopo la spartizione seguita alla Seconda Guerra Mondiale, continuò la sua trasformazione industriale, tanto che nel 1956 il suo specifico sviluppo entrò in contraddizione con l'asfittico mercato del Comecon, e il malcontento sfociò in una rivolta popolare con ampia partecipazione del proletariato, cui seguì una spietata e sanguinosissima repressione da parte dell'Armata Rossa.
Tuttavia, come in Polonia, le ragioni materiali che avevano provocato la rivolta obbligarono gli stessi fucilatori di proletari a prendere atto del diverso sviluppo del paese rispetto alla media del Comecon, e dal 1958 fu introdotta una lenta "liberalizzazione" dell'economia o, per meglio dire, vi fu un abbandono dei metodi da accumulazione primaria forzata. Venuto meno il controllo russo quando l'economia era già da tempo completamente sviluppata, e quindi alla pari con gli altri paesi d'Europa, l'Ungheria non ha avuto bisogno né di dar "prove di democrazia", né di periodi di "integrazione". Nel 1990 era pienamente in linea con il resto d'Europa; nel 1999 entrava nella NATO; nel 2003 la popolazione appoggiava con un referendum l'opzione europea (84%) e dal maggio 2004 è nell'Unione a 25 paesi.
L'Ungheria ha pochi abitanti, ma ha un'economia molto vitale, con il 65% di addetti ai servizi, il 27% all'industria e solo l'8% all'agricoltura. Il PIL cresce del 2,9% all'anno, ma è significativa la sua composizione, con il valore industriale che sale del 6,4% all'anno in controtendenza mondiale (esclusa la Cina). È (ed era) dunque un paese che una reale Unione europea avrebbe dovuto seguire fin dall'inizio, se non secondo un piano centrale da Stato unitario, almeno con un minimo di coordinamento fra nazioni. Invece la solita Germania fu la sola ad inviare capitali e tecnici… fino all'arrivo degli americani che colmarono ben volentieri il vuoto d'interesse da parte europea. Comunque sia, gli investimenti stranieri rimangono di gran lunga tedeschi e ammontano a circa 30 miliardi di dollari (1990-2003), 3.000 dollari per abitante, un'enormità. Vuol dire che, mentre altri hanno pagato profumatamente per accontentarsi del sogno europeo, gli Stati Uniti, tramite i buoni uffici dello stramiliardario Soros (americano ex ungherese), della NATO e con l'offerta di alleanza diretta hanno conquistato quasi gratis un prezioso alleato.
Per adesso. Ma non sono i cambiamenti di bandiera più o meno repentini, o le giustificazioni dei governi, o le ideologie più o meno nazionalistiche a far girare la storia. Il proletariato della cerniera "balcanica" ha già dato ottime prove e sarà nuovamente in campo per sé, secondo non quanto gli dicono, ma secondo quanto sarà dettato dalla generale dinamica storica; come sempre e ovunque, del resto:
"Nei rapporti sociali tra le classi, nel gioco delle forze di produzione, che cosa è cambiato nella Repubblica Jugoslava da quando Tito era figlio prediletto di Mosca, e dopo la sconfessione? Niente, un accidente di niente. Sono i campi di forza dei grandi potenziali imperiali che determinano tali mutamenti, non contrasti sociali e politici locali, e ciò perché quei potenziali derivano da tutto il complesso delle forze produttive e sociali nel mondo, dall'interesse della classe capitalistica e dalle violente reazioni che le contraddizioni economiche sollevano contro di lei" (Bordiga, Il proletariato e Trieste, 1950).
Romania, paese all'asta
La campagna acquisti americana è senza limiti, naturalmente, come in ogni guerra che si rispetti. Quando Romania e Bulgaria mostrarono chiaramente la loro propensione politica, il presidente francese Chirac affermò che "se la loro intenzione era quella di diminuire le chance di entrare nell'UE, non potevano trovare un modo migliore". Persino un giornalista rumeno fu comprensivo di fronte allo sfogo da grandeur ferita "dal filoamericanismo dei paesi dell'Europa Orientale, che con le tasche si sentono a Bruxelles, mentre con il cuore sono dall'altra parte dell'oceano".
Detto in modo brutale ma efficace, anche se le stesse tasche non sono insensibili alle lusinghe del dollaro. In un'epoca in cui i capitali scarseggiano e per di più non fruttano il plusvalore di una volta, portafogli, cuore e cervello non possono che subìre una drastica separazione. La privatizzazione del patrimonio statale ha proceduto di pari passo con l'eliminazione delle garanzie sociali, pidocchiose ma efficaci, vigenti in tutto l'Est. La sottomissione alle direttive degli istituti finanziari internazionali e a quelle europee per superare la sala d'attesa dell'Unione hanno fatto il resto, precipitando le popolazioni in uno stato schizofrenico di aspettativa astratta e di reale povertà percepita più di prima, se non altro per confronto. I dollari arriveranno, e anche la sognata "appartenenza" a un'Europa sempre più virtuale, ma per ora l'unica realtà è l'appartenenza alla NATO, un organismo militare a tutela americana che non porta dollari ma impegni, diretti o indiretti: per esempio nella guerra in Iraq.
Di fronte a questa realtà della conquistata democrazia, i rumeni ne stanno provando un'altra, quella del super-sfruttamento, prima sconosciuta nello sgangherato sistema staliniano a bassissima composizione organica di capitale. A partire dalla terra (di cui i soli agrari italiani hanno acquistato 400.000 ettari a prezzi irrisori), per finire alle industrie smantellate e ricostruite secondo criteri di maggior rendimento e quindi con meno operai, in Romania è come se un intero paese fosse messo all'asta. I suoli e gli edifici urbani, com'era già successo nella Germania dell'Est, sono stati oggetto di accaparramento per garantire con la rendita le speculazioni più ardite. Ma in Germania era lo Stato che se ne occupava con un'efficienza spietata, mentre qui rimane solo la spietatezza senza l'efficienza. Il risultato è che il 44% della popolazione è caduta sotto la soglia ufficiale di povertà, parametro che ovviamente non esisteva nel regime stalinista.
La dissoluzione, nella campagne, della conduzione a carattere colcosiano ha portato, com'era prevedibile, alla pura demagogia della "terra ai contadini", per cui nove milioni di piccoli proprietari si son visti riconoscere 40 milioni di appezzamenti singoli. Il risvolto pratico, e certamente voluto, è un successivo accorpamento attuato sulla loro pelle e su quella dei contadini in generale (il 40% degli occupati è in agricoltura), come da millenni succede e come il capitalismo espropriatore ha saputo perfezionare fino all'ossessione. Molti "proprietari" riconosciuti in base a vari diritti erano ormai urbanizzati; molti contadini erano ormai anziani e molti non avevano interesse ad appezzamenti così piccoli e frammentati, per cui il risultato fu la vendita a prezzi stracciati (persino 50 euro per ettaro) e la ricostituzione di una proprietà agraria privata finita anche in mano straniera (con vari espedienti, dato che è proibita la vendita diretta a cittadini di altri paesi). È facile immaginare che cosa succederà alla rendita una volta consolidata la grande proprietà, e soprattutto una volta attuata l'adesione all'Unione europea con la relativa osmosi dei prezzi: nel circondario di Timisoara, dove operano più di mille aziende italiane (in Romania sono presenti 82.000 aziende straniere, di cui le italiane sono 10.000), i terreni non sono più sul libero mercato ma passano di mano in mano fra gruppi speculativi, per cui un ettaro "vale" ormai più di 1.000 euro.
Il rapporto dell'Italia con la Romania è assai indicativo dell'indifferenza da parte di ogni singolo paese rispetto a quelle che sarebbero le priorità dell'Unione. Difatti ne ha caldeggiato l'adesione unicamente per un interesse economico immediato nella produzione di beni di consumo e prodotti agricoli, diventando il primo partner commerciale del paese danubiano, a discapito immediato, tra l'altro, dei distretti del Nordest italico. Perciò l'Italia e i suoi imprenditori si fanno i propri affari, producendo mutande, ciabatte o cavatappi, incuranti che le società americane, con l'intervento significativo di quelle turche, si accaparrino lavori infrastrutturali pesanti, comprese le basi militari, senza neppure lo straccio di un appalto, in spregio alle direttive dell'Unione. Questa sì che è geopolitica europea.
Bulgaria, briciole sparse sul cuore dei Balcani
Il mercato dei paesi in vendita è vasto e le partigianerie si consolidano. Anche la Bulgaria è in lista d'attesa per l'ingresso nell'Unione, ma questo fatto, che dovrebbe dare un'impronta fondamentale alla sua politica estera, si rivela, al contrario, un elemento del tutto ininfluente. Non si contano invero le sue prese di posizione a favore degli Stati Uniti e contrarie alla linea europea, ammesso che questa esista al di fuori delle scartoffie. Persino in risoluzioni poco impegnative per la politica interna ed estera di un paese balcanico, la Bulgaria s'è schierata con gli americani, come quando, contro l'Unione e contro il mondo arabo, ha rifiutato di appoggiare la risoluzione ONU per il ritiro delle truppe israeliane dai territori palestinesi occupati. Neppure il governo berlusconista era arrivato a tanto.
Il guaio, per la Bulgaria, è l'estrema povertà dell'economia e la mancanza di capitali per risollevarla. Il PIL bulgaro, crollato dopo il collasso del Comecon, è oggi la metà di quello del 1989; e la bilancia commerciale, che alla stessa data era in attivo per 1 miliardo di dollari, è in deficit di 2 miliardi. Negli ultimi dieci anni, circa un milione di bulgari, su 7,5 milioni di abitanti, ha abbandonato il paese. E si tratta soprattutto di giovani che, se fossero rimasti, avrebbero portato la disoccupazione dall'attuale 20% a livelli insopportabili per qualsiasi economia.
È fin troppo evidente che in un paese come la Bulgaria c'è materiale bastevole sia per una fuga scomposta dalla realtà da parte degli individui, sia per la ricerca di soluzioni pragmatiche al di là del mito europeista. Per quanto riguarda la fuga dalla realtà, gli individui si sono creati alcuni miti salvifici, come l'attribuzione della "colpa" di tutto a qualche ex "comunista", l'attesa di un miracoloso aggancio simultaneo a Europa e America, addirittura la speranza che un nuovo zar possa esorcizzare il non roseo futuro. In questo caso uno zar di terza categoria, nella figura del capo dell'esecutivo Simeon Saxe-Coburg-Gotha. Per quanto riguarda il pragmatismo da acqua alla gola, siccome in fatto di capitali finanziari è legge che piova sul bagnato (le banche e gli organismi internazionali prestano solo a clienti solvibili), ecco che diventa essenziale trovar denaro dove ce n'è e non dove se ne parla soltanto, dove si diventa solvibili in cambio di sostanziose contropartite, per esempio un'ipoteca. Il sostanzioso aiuto dei programmi speciali del Dipartimento di Stato USA, la costruzione di cinque basi americane sul suolo bulgaro e gli investimenti diretti delle ditte americane, garantiti da una fedeltà senza alternative (data l'assenza europea), sono il primo risultato.
Il mito e la realtà si sposano in questo caso benissimo, dato che proprio un governo inetto è la miglior garanzia di fedeltà per i potenti tutori, come dimostrano paesi meno fragili della Bulgaria, certamente Italia e Germania. Sarebbe ozioso discutere se il neo-zarismo sia il mito di una società capitalistica terminale o una forma politica d'avanguardia per una società che ha superato la democrazia: di certo c'è che, al di là del gioco democratico, abbiamo un tipico esempio di forza politica finalizzata ad istituzionalizzare a-partiticamente un’aspettativa di massa. Se questa dovesse incarnarsi nelle sembianze del solito battilocchio-leader, avremmo di nuovo uno dei tanti plebisciti popolari "bulgari" che sanciscono il bisogno del Capitale di elevare l'esecutivo al di sopra delle chiacchiere parlamentari, come del resto sta succedendo abbondantemente in tutto l'arco dei paesi ex URSS.
Si tratta di un esempio assai significativo. Il governo bulgaro è infatti costituito direttamente, senza intermediazioni "politiche", da rappresentanti di diverse corporazioni, settori economici e gruppi di pressione. Anche il maggior sindacato nazionale, prima oppositore, ora s'è fatto garante, quasi come un organo governativo, dell'appoggio incondizionato alle direttive del Fondo Monetario Internazionale per il riassetto dell'economia (quindi per garantire la solvibilità internazionale). Un certo generale Borisov, segretario del Ministero degli Interni e responsabile di tutti gli organi di polizia, afferma che in Bulgaria esistono troppi centri di potere, dal parlamento alla magistratura, che non corrispondono alle esigenze della società. Da questo non secondario battilocchio, le esigenze in politica estera del suo paese sono state riassunte in una frase lapidaria:
"La via della Bulgaria è in primo luogo atlantica, e solo dopo europea".
Naturalmente anche perché sullo sfondo della ripresa bulgara vi è l'onnipresente minaccia del "terrorismo islamico", e gli americani sì che sono una garanzia globale; non importa se da quelle parti, più che altrove, la "minaccia" è del tutto mediatica.
La Turchia, solo un cavallo di Troia americano?
La Turchia moderna nacque nel 1923 in seguito a una dura rivoluzione borghese sui resti dell'Impero Ottomano. Fu quindi in grado di superare l'islamismo e imporre un regime laico garantito ancora oggi dall'esercito. Il regime borghese turco, fin dall'inizio, represse nel sangue ogni tentativo di autonomia delle minoranze, anche con massacri imponenti, come contro gli Armeni, considerati una quinta colonna del nemico impero russo. Entrò nell'ONU nel 1945 e nella NATO nel 1952. Nel 1974 intervenne militarmente a Cipro per impedirne l'annessione alla Grecia e "proteggere" i turco-ciprioti. Dal 1984 represse duramente la guerriglia kurda, specie quella sotto il comando del PKK, la quale trovò rifugio nel Nord dell'Iraq, dove si stabilirono circa 5.000 guerriglieri armati. È il secondo paese d'Europa per numero di abitanti dopo la Germania e il sesto per PIL (subito dopo la Spagna). Ha industria pesante e leggera (acciaio, automobili, tessili, edilizia, cibi conservati, miniere, derivati del petrolio, legname, carta, ecc.), un vasto mercato interno e una discreta capacità di esportazione, nonostante il deficit commerciale e una recessione che dal 2000 ad oggi ha richiesto l'intervento del FMI. Ha un esercito di circa 700.000 uomini bene armati e una spesa militare che è di ben 8,2 miliardi di dollari, il 4,5% del PIL.
Con questo retroterra storico, economico e militare la Turchia è un soggetto assolutamente singolare nello scacchiere balcanico allargato. Ha un forte e antico senso nazionale, non prende ordini da nessuno, nemmeno dagli americani, e ha una robusta concezione geostorica. Sarà dunque la Turchia a scegliersi il proprio ruolo in Europa, e di conseguenza, siccome l'Europa non avrà nulla da offrire, sarà molto di più di un semplice cavallo di Troia americano, come affermano in molti. Dati gli evidenti e ormai consolidati vantaggi che le derivano dall'alleanza con gli Stati Uniti, la Turchia sarà certamente un elemento destabilizzante nella già per nulla stabile ed evanescente Europa, ma agirà per sé, non certo per altri.
Gli americani potranno garantirle un ruolo da media potenza, in Medio Oriente e addirittura in Eurasia, potranno utilizzarla contro improbabili decisioni unitarie europee in senso imperialistico, ma nello stesso tempo dovranno guardarsene. Gli Stati Uniti hanno per ora in Medio Oriente un saldo alleato perché vi è un reciproco interesse, ma quando gli americani hanno dimostrato poca chiarezza sul ruolo di Ankara all'inizio dell'attuale guerra irachena, è subito partito l'ordine di mobilitazione dell'esercito turco "per proteggere la popolazione turcomanna" nel Nord iracheno.
Con la costituzione di un Kurdistan autonomo in Iraq gli americani confidano di alleggerire la pressione nazionalista kurda in Turchia, ma, se venisse meno il controllo turco-americano sul Kurdistan iracheno, potrebbe accadere l'opposto. L'intervento dell'esercito e l'attestarsi di truppe turche nel Nord-Iraq allo scoppio della guerra in corso è servito ad avere garanzie che non vi saranno "santuari" per i ribelli ma che, al contrario, sarà costituito un polo attrattore per i 13 milioni di turbolenti turco-kurdi, ben lubrificato con il petrolio iracheno, specie se i grandi giacimenti di Kirkuk vi saranno compresi. Su questo Ankara è stata lapidaria: gli Stati Uniti dovranno impostare un rapporto a tre sulla questione kurda perché, semplicemente, per parte sua non accetterà alcuna alternativa; se l'attuale accordo sarà mantenuto, afferma, allora i kurdi avranno un potente vicino a Nord in grado di "aiutarli", altrimenti sarà la guerra. Già nella Guerra del Golfo del 1991 la Turchia aveva inviato le proprie truppe partecipando in seguito con gli USA alle due missioni per la costituzione di una zona kurda "protetta" (Provide Comfort e Northern Watch), nella quale sorsero vere e proprie città kurde autonome dal governo di Baghdad e auto-governate.
La concezione geopolitica turca finora aveva ricalcato quella ottomana, quella cioè di una potenza decisiva tra le aree che furono degli imperi austro-ungarico e russo da una parte e il mondo arabo dall'altra. Ora, questa visione è stata assai modificata dalla repentina disintegrazione dell'intera Eurasia, dalla cerniera "balcanica" al Kirghizistan, che è ai confini della Cina. Il punto fermo del nazionalismo di Ataturk, cioè quello di una nazione unitaria di stampo giacobino, potenza fra le altre, è saltato a causa del cambiamento intervenuto, che ha allargato a dismisura le possibili aree d'influenza turche. I politici di Ankara sanno benissimo che i turchi al di fuori della Turchia, lungo tutto l'arco che arriva appunto alla Cina, sono più numerosi ed etnicamente "più turchi" degli abitanti d'Anatolia. L'attrazione verso l'Asia è quindi altrettanto forte di quella verso le ex zone occupate dall'Impero Ottomano nelle direzioni di Vienna, Tripoli e Baghdad. Dipenderà molto dagli avvenimenti se il rinascente spirito panturco sarà concretamente limitato alla zona prossima ai Balcani o se potenzierà le proprie velleità asiatiche. Per ora la Turchia si sta muovendo come media potenza locale, e già il suo ruolo ufficiale di avamposto della NATO passa in secondo piano. Del resto tale ruolo, pur rimanendo fondamentale per gli Stati Uniti anche se non fu mai messo in primo piano dalla Turchia, è già surclassato nei fatti dai vari progetti di ridislocazione delle basi militari USA nei nuovi paesi della cosiddetta Unione Europea e in Eurasia.
La Turchia è dunque, con la Polonia, uno dei due cardini di tutta l'area geostrategica fra i due continenti; ed è sintomo di vera cecità politica l'attuale discussione sui tempi di ammissione e sulla "pagella" di idoneità. La sciocchezza è tanto più enorme se si pensa che ogni giudizio è basato più su questioni sovrastrutturali (diritti umani, legislazione, religione, ecc.) che non sul ruolo materiale che già oggi la Turchia riveste. Quasi tre milioni di turchi lavorano in Europa; centinaia di migliaia di cittadini balcanici sono di origine turca e migliaia di loro sono emigrati in Turchia. Sette milioni di persone, in Bosnia, Albania, Kossovo, Macedonia, Bulgaria e Grecia, sono musulmani in seguito agli storici insediamenti turchi e non fanno certo riferimento al mondo arabo. Ciò che oggi produce timore e freno sarebbe invece un'opportunità favorevolissima, se esistesse sul serio un intento europeista. Nell'area delle pulizie etniche, dove le minoranze sono considerate carne da macello, una vera geopolitica passerebbe attraverso l'unificazione, o perlomeno la federazione, degli stati, e non attraverso l'avallo di brandelli territoriali la cui costituzione in nazioni fasulle produce fosse comuni. È ben vero che all'interno di un'Europa come quella che c'è, si rischia persino la guerra fra due paesi (Turchia e Grecia) membri della stessa alleanza militare (NATO), ma è anche vero che nello stesso tempo lo sconvolgimento mondiale seguito al crollo dell'URSS impone qualche forma di coalizione europea. In quest'ottica lasciare la Turchia all'Asia o agli americani sarebbe, da parte dell'Europa, un comportamento strategico di gran lunga più stupido della prassi finora seguita con gli altri paesi.
Campagna acquisti: mercenari e partigiani cercasi
L'esempio dell'ex Jugoslavia è assai istruttivo: al momento della disintegrazione gli stati rimasti o quelli appena formati, non potendo intervenire con i propri eserciti, si sono fatti la guerra sui territori contesi tramite bande militari al loro servizio. Croati, serbi, bosniaci e kossovari hanno proceduto a una feroce guerra per procura utilizzando partigianerie giunte persino dall'estero. Ma l'ex Jugoslavia è il mondo, com'era stata la Corea, come lo fu il Vietnam, come lo sono l'Afghanistan e l'Iraq in questi tempi di affannosa ricerca di schieramenti interimperialistici. In tutti gli esempi nominati vi furono partigiani. L'intero Afghanistan, tranne Kabul, è stato consegnato ai signori della guerra locali purché si sbarazzassero dei talibani per conto degli americani. L'Iraq è stato consegnato a una partigianeria inetta, e sarà probabilmente consegnato alla partigianeria baathista contrapposta, attualmente guerrigliera e più efficiente, non appena questa mostrerà di accettare le regole del gioco dettate dagli invasori. Nel frattempo si lasciano appositamente le frontiere aperte per attirare le partigianerie islamiche (ex partigiane degli Stati Uniti e ora partigiane della guerriglia anti-Stati Uniti) al fine di concentrarle e massacrarle.
Nel mondo d'oggi il ruolo delle minoranze è essenziale. Prima le si lascia opprimere, spesso assecondando l'oppressione, poi si corre loro in "aiuto" armandole in cambio di un'azione militare a favore dei salvatori, come hanno fatto gli americani in Kossovo. Il paradigma di tale costante nella guerra moderna è quello dei kurdi, e solo dei fessi possono pensare che, nell'epoca delle guerre per procura, e chiuso per sempre il ciclo coloniale, si possa ancora combattere per una rivoluzione nazionale e non per interessati paesi imperialistici. Certamente i kurdi hanno risolto in parte il loro problema dell'autodeterminazione e saranno profumatamente pagati in dollari e giacimenti petroliferi, ma questo non c'entra con la tattica dei comunisti, bensì con quella dei borghesi nazionalisti. Invece, proprio nel momento in cui bisognerebbe gridare chiaro e forte di non farsi coinvolgere nelle guerre borghesi, c'è gente che corre ad arruolarsi per le campagne, naturalmente verbali, a favore degli "oppressi", ripetendo scioccamente i vecchi slogan coniati a sostegno della politica di potenza dell'URSS. Ciechi e sordi, sono persino riusciti a diventare partigiani degli Arafat e dei Saddam.
La cerniera "balcanica" sembra fatta apposta per produrre situazioni "nazionali" e quindi partigianerie alla scala industriale. Il folle disegno dei confini, dovuto, appunto, agli scontri fra le vecchie potenze, ha prodotto una mappa etnica a pelle di leopardo, dove il concetto di nazione non ha più alcun senso neppure borghese. Dal Baltico al Mar Nero è un continuo subbuglio di minoranze blandite o massacrate a seconda delle necessità di più potenti tutori o nemici. Nessuno che sia sano di mente potrebbe scorgere una "soluzione" se non in un processo rivoluzionario che ribalti l'intero sistema. E quell'area non è che un concentrato di ciò che succede ovunque, dal Quebec alla Cina. È quindi assurdo immaginare che sia all'ordine del giorno un qualche problema di autodeterminazione rivoluzionaria.
Ciò che matura davvero è il passaggio dalla guerra sotterranea fra potenze che non riescono a formare sul serio grandi coalizioni militari, alla guerra generalizzata senza esclusione di colpi, con larghissimo uso di carne da cannone prestata dai piccoli contendenti ai grandi. Di conseguenza matura anche la polarizzazione mondiale attorno al programma comunista e al proletariato che ne è l'esecutore, si prepara quella rottura rivoluzionaria che per noi è pronta in Occidente almeno dal 1871 e in tutto il mondo almeno dal 1975, data indicativa individuata anche dai modelli borghesi come "punto di non-ritorno", oltre il quale i rattoppi non funzionano più.
* * *
Paesi che a vario titolo hanno appoggiato la guerra in Iraq. Consistenza delle loro truppe operanti sul campo alla fine del 2004.
- USA, 150.000;
- Gran Bretagna, 8.500;
- Italia, 3.216;
- Polonia, 2.400;
- Ucraina, 1.600;
- Paesi Bassi, 1.350;
- Spagna, 1.300 (poi ritirati);
- Romania, 730;
- Danimarca, 525;
- Bulgaria, 430;
- Ungheria, 300;
- Georgia, 300;
- Azerbaigian, 150;
- Portogallo, 120;
- Lettonia, 120;
- Lituania, 105;
- Slovacchia, 105;
- Rep. Ceca, 92;
- Albania, 73;
- Estonia, 55;
- Armenia 50;
- Kazakistan, 30;
- Macedonia, 28;
- Moldova, 25;
- Norvegia 10;
- Croazia, 0;
- Germania, 0 (contraria ma impegnata materialmente nella logistica americana).
- Fuori cerniera "balcanica":
- Sud Corea, 3.600;
- Australia, 850;
- Giappone, 550;
- Salvador, 380;
- Mongolia, 180;
- Tonga, 44;
- Israele, 0 (previsto l'invio di consiglieri in Kurdistan);
- Giordania, 0 (come la Germania);
- Kuwait, 0;
- Qatar, 0;
- Emirati, 0 (come la Germania);
- Arabia Saudita, 0 (come la Germania);
- Afghanistan, 0;
- Uzbekistan, 0.
(Fonte: Limes).
* * *
Letture consigliate
- Amadeo Bordiga, Aggressione all'Europa, Prometeo n. 13 del 1949; ora nella raccolta America, Quaderni di n+1, 1993.
- Amadeo Bordiga, "Il pianeta è piccolo", in Battaglia Comunista n. 23 del 1950; ora nella raccolta O rivoluzione o guerra, Quaderni di n+1, 1992.
- Giulio Douhet, Il dominio dell'aria, Stabilimento Poligrafico per l'amministrazione della guerra, Roma 1921; La guerra integrale, Anonima libreria Italiana, Torino 1923.
- Autori vari, Francia-Germania, L'Europa a due, Limes n. 2 del 1995.
- Nostra Lettera ai compagni n. 37, Convulsioni di nazioni e classi al margine e al centro del capitalismo europeo nell'età della globalizzazione, aprile 1997.
- Pierre Léon, Storia economica e sociale del mondo, Laterza, 1977.
- Gérard Chaliand e Jean-Pierre Rageau, Atlante strategico, SEI, 1986.
- AA.VV., Grande atlante storico del mondo, Touring Club Italiano, 1997.
- "Hostilities in the Middle East have pushed Europe off the front pages, but the pace of change has not slowed", International Management, ott. 1990, citato nella nostra Lettera ai compagni n. 24, "Crisi del Golfo?", del dicembre 1990.