Sindrome cinese
Il "caso cinese", latente da qualche anno, è scoppiato in tutta la sua virulenza. Merci d'Oriente che fino a un paio d'anni fa non impensierivano i capitalisti nostrani, ora li terrorizzano. Ci si accorge che non avanza soltanto la concorrenza orientale, fenomeno già sperimentato prima con i prodotti giapponesi, coreani, taiwanesi, ecc., bensì un processo di saturazione capitalistica del pianeta.
Il Capitale, moltiplicando le sue naturali tendenze all'autodistruzione, esaspera proprio per questo le sue tendenze conservatrici e reazionarie. Dalla metà degli anni '90 ad oggi abbiamo assistito a una impressionante catena di eventi: alla crescita degli emergenti capitalismi asiatici s'era accompagnata una gran sete di capitale creditizio e quindi una sovraesposizione delle banche per troppi prestiti. Nel frattempo s'era surriscaldata tutta l'economia orientale attirando capitali dall'estero. La crisi di sovrapproduzione aveva provocato l'insolvenza dei debitori, una fuga scomposta di capitali dall'Asia e quindi un crack bancario. Tutti i paesi asiatici erano andati in crisi, tranne la Cina, svalutando la propria valuta. Erano seguiti scioperi proletari e rivolte delle popolazioni. La corsa all'investimento alternativo nelle borse e negli immobili occidentali aveva scatenato l'inflazione dei valori nominali di titoli e case, innescando una gigantesca bolla speculativa. Capitali gonfiati dalla bolla, specie americani, erano tornati in Asia per l'acquisto a basso prezzo delle aziende rovinate. La sottrazione di capitale fittizio aveva provocato l'esplosione della bolla con l'inevitabile azzeramento di ulteriore capitale fittizio. Ne era seguita una stasi economica mondiale (tranne che in Cina), con il riflusso di capitali verso ogni tipo di rendita (case, petrolio, buoni del tesoro americani), con il gigantesco indebitamento degli Stati Uniti e il trasferimento del debito estero americano verso i paesi che potevano ancora disporre di un surplus. Un cocktail così micidiale da produrre in America l'esecutivo più ciecamente conservatore che la storia abbia mai conosciuto. Ma si era chiaramente trattato di un ferreo determinismo dei fatti più che di idee dovute a menti malate di potenza. Infatti lo schieramento dei difensori dell'esistente non fu solo americano, perché nessuno poteva permettere il collasso del massimo consumatore finale del mondo. Si doveva far di tutto affinché il flusso di valore verso gli USA continuasse, a costo di qualche sacrificio.
Tuttavia è uno sforzo che, a dispetto dei propositi ufficiali, non può essere sorretto in eterno dalle borghesie nazionali. Nonostante la blindatura del sistema monetario mondiale, una relativa fuga dal Dollaro ha rivalutato l'Euro fino al 50% sulla moneta americana. Ciò ha favorito l'aumento del prezzo del petrolio espresso in dollari. Gli Stati Uniti sono il Paese più indebitato della storia e comprano tutto in dollari, compreso il petrolio. Se la svalutazione è una manna per i paesi esportatori, è però una fregatura per quelli compratori, a meno che questi non riescano ad indebitarsi senza soffrire troppo. Per esempio emettendo impunemente moneta. Ma si sa che, in periodo di interessi bassi, chi s'indebita offrendo titoli a un rendimento più alto della media ha l'acqua alla gola (vedi crack dell'Argentina).
In pratica gli Stati Uniti sono un paese insolvente, già fallito. Dunque la loro politica d'indebitamento ne fa il maggior produttore mondiale di junk bond, titoli spazzatura. Beh, si dirà: E allora? Nel commercio mondiale il Dollaro è sempre accettato di comune accordo come veicolo principale ed è imbattuta moneta di riserva. È vero, ma stava per non essere più così. L'Iraq aveva già annunciato che avrebbe valutato il proprio petrolio in euro. La Russia e il Venezuela erano venuti a ruota dicendo che avrebbero fatto la stessa cosa. Nel frattempo il circuito finanziario legato all'Islamic banking aveva già sottratto alcune centinaia di miliardi di dollari a quello anglosassone, l'unico in grado di controllare finora i flussi internazionali di valore. L'Euro, nato come una semplice operazione di maquillage alle monete delle nazioni europee senza effetti economici al loro interno, era assunto come moneta di scambio internazionale all'esterno del suo naturale circuito, e i concorrenti degli Stati Uniti avrebbero finito per adottarlo come moneta di riserva. Dopo sessant'anni di dominio, il Dollaro subiva la massima minaccia della sua storia.
La facoltà politico-militare americana di sostenere il proprio potere d'acquisto, indispensabile per mantenere il disavanzo, sarebbe venuta meno, con ovvie conseguenze sui suoi junk bond posseduti dal mondo industrializzato. Ora, finché tali titoli hanno un mercato e il debitore riscuote fiducia, non c'è problema: dal punto di vista meramente economico non c'è differenza tra pagare in contanti, contrarre un debito da estinguere o pagare all'infinito un leasing per un bene o un servizio. La cosa può funzionare, perché l'economia mondiale è trainata dai paesi a recente sviluppo e questi, classicamente, sono gran consumatori intermedi che richiedono materie prime, semilavorati, macchine, impianti, tecnologie, ecc., offrendo in cambio a noi occidentali tipiche merci per il consumo finale. Essendo in fase crescente, producono una gran quantità di plusvalore che possono devolvere in parte al servizio di mantenimento dell'ordine entro il sistema, come sta facendo la Cina.
Ma la faccenda, com'è dimostrato dal cancan sollevato da qualche mese a questa parte a proposito delle merci cinesi, non è così semplice, e ancor meno è lineare. Occorre osservare, come facciamo da sempre, l'economia mondiale attraverso la legge dei rendimenti decrescenti del capitalismo, la quale impone il totalitario sopravvento della ripartizione del plusvalore sulla sua produzione. Il deficit commerciale americano si accresce a velocità mai osservata prima. Nei confronti della sola Cina il disavanzo è di proporzioni colossali, 6 a 1, tanto che gli economisti parlano di "squilibrio economico più insensato di tutta la storia del commercio".
La questione non si risolve più, quindi, con una specie di patto non scritto fra potenze: io ti passo una quota di plusvalore e tu in cambio fai il consumatore spinto, il regolatore del traffico di capitali, il soldato, lo sbirro. Insomma, la locomotiva del Capitale. Quando il plusvalore da spartire è al lumicino, nessun capitalista è disposto a farselo portare via tutto. E prima o poi fa pressione sul proprio governo, che sia o meno sul libro paga degli Stati Uniti.
Siamo catastrofisti, è vero. Ma non c’è nulla da inventare, del capitalismo basta descrivere il processo di disintegrazione in atto. Da quando con Marx nacque la scienza sociale non è passato giorno senza che il Capitale mostrasse una grande capacità di aumentare la propria forza produttiva, di attuare un'autodifesa feroce e, contemporaneamente, una continua tendenza ad auto-negarsi. Oggi esso insiste nel rivelarsi uguale a sé stesso. Non è passato molto tempo da che, nei paesi sviluppati, ha completamente cambiato il proprio assetto produttivo, fino a sconvolgere profondamente il modo di estrarre plusvalore. Nessun paese di vecchia industrializzazione produce più del 20% del valore totale (PIL) con l'industria propriamente detta. Il Capitale ha, come si dice, riallocato le risorse: i più importanti prodotti di importazione dalla Cina, che tanto spaventano, sono per la maggior parte fabbricati da filiali cinesi di multinazionali occidentali. E rappresentano – udite, maledetti ipocriti! – il 60% delle esportazioni di quel paese.