Genesi dell'uomo-industria
Ciò che, fin dapprincipio, distingue il peggiore architetto dalla migliore ape è il fatto di aver costruito la cella nella propria testa prima di costruirla in cera. Al termine del processo lavorativo, si ha un risultato che era già presente all'inizio nella mente del lavoratore; che, quindi, esisteva già come idea. Non è che egli si limiti a produrre un cambiamento di forma nel dato naturale; realizza in esso, nel medesimo tempo, il proprio scopo, uno scopo ch'egli conosce, che determina a guisa di legge il modo del suo operare, e al quale egli deve subordinare la propria volontà (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. V).
Nei dizionari attuali il termine "industria" viene generalmente riferito alla produzione moderna di merci. Come voce secondaria viene riportata l'attività tesa a trasformare condizioni date in vista di un fine. In ultimo viene ricordato il significato etnologico riferito a culture "primitive": industria litica, ossea, lignea, ceramica, e così via. Il Novissimo Palazzi degli anni '40 riporta come prima voce una definizione ancora ibrida: "Cura ingegnosa e diligente, specie in cose che diano guadagno". Prima che si entrasse in pieno nell'epoca borghese, per "industria" s'intendeva "produzione" di qualsiasi tipo. Ad esempio, nella rivoluzionaria Encyclopédie, alla voce "Industrie", troviamo una definizione senza riferimento al valore: "Essa si riferisce alla coltura delle terre, alle manifatture e alle arti; essa fertilizza tutto e spande ovunque abbondanza e vita" (e, a conferma della trasformazione del linguaggio, nel '700 per "arti" s'intendeva ancora tutto ciò che non era direttamente prodotto dalla natura ma era opera umana).
Nei Manoscritti del 1844 Marx riprende il termine con il significato antico e, nello stesso tempo, con quello moderno influenzato dalla scienza e dal macchinismo. Il proposito di affrontare le questioni sociali con il metodo delle scienze della natura faceva parte di un programma di lavoro esposto alcuni anni prima in una lettera al padre, quando, da studente diciannovenne, si accingeva ad affrontare il problema della conoscenza. In quel primo abbozzo egli nega già, seppure di sfuggita, che vi possa essere dualismo fra le questioni sociali e le scienze della natura, ma negli appunti del '44 precisa: dire che la vita dell'uomo si fonda su basi diverse rispetto a quelle della scienza fisica "è una completa menzogna", perché l'industria, con l'uomo, "è il reale rapporto storico della natura e quindi della scienza naturale". Per quanto al momento in forma alienata, la natura trasforma sé stessa giungendo all'industria tramite l'uomo, perciò "la vera natura antropologica" è il complesso natura-uomo-industria. Scienza dell'uomo e della natura un giorno si integreranno e allora "non ci sarà che una sola scienza".
Il lavoro e l'umanizzazione del primate
In quanto comunisti, secondo il Manifesto, dovremmo essere coloro che anticipano il futuro, quindi, in previsione di una scienza unitaria, sarà meglio abbandonare fin dall'inizio i filosofemi idealistici sul dualismo uomo-natura e scienze correlate. "Fin dall'inizio" significa da quando alcuni primati incominciarono a procedere a grandi passi, grazie a una natura in evoluzione, verso l'industria. O, se si vuole, da quando la natura "produsse" l'industria incominciando dall'ordine primati, continuando con il genere homo per giungere infine alla specie sapiens.
Qui si rende necessaria una precisazione importante: abbiamo scritto che la natura ha "prodotto" l'industria attraverso i primati e la successiva evoluzione, e questo vale per tutto ciò che fa parte della natura stessa che si autoproduce. Ma un'affermazione del genere implica l'azione cosciente da parte della natura, cosa che ovviamente non è, almeno nel senso che diamo comunemente al termine "coscienza". Quando si parla di evoluzione diventa inevitabile utilizzare quella che l'evoluzionista Stephen Gould chiama "metafora stenografica", e quindi attribuire personalità alla natura, agli elementi di una specie, all'ambiente o alle strutture genetiche. Dicendo che l'ambiente plasma una specie, o che un gene cerca di generare il maggior numero di copie di sé stesso per sopravvivere, si dice in fondo un qualcosa di contraddittorio rispetto al materialistico concetto di selezione darwiniana. In realtà la selezione opera a favore di quegli elementi della specie che mutano a causa di piccole determinazioni e che quindi sono i più adatti a sopravvivere in maggior numero, riproducendosi con grandi effetti sulla struttura della specie stessa. Quindi, citando ancora Gould, anche se per comodità lessicale utilizziamo un po' tutti la stenografia metaforica che trasforma l'oggetto in soggetto, non dobbiamo mai dimenticare che in natura agiscono esclusivamente le determinazioni reciproche dei fattori di evoluzione.
Puntualizzato questo, l'avvio alla riflessione su che cosa siamo e che cosa stiamo diventando come specie non può che partire dal fatto che siamo industria fin dalle nostre origini. E non abbiamo neppure bisogno di partire da zero, perché lo spunto ce lo offrono già Marx ed Engels. Cenni sul rapporto evolutivo stabilitosi per la specie homo sapiens, determinato dall’intreccio morfo-biologico fra manualità sociale (ovvero manipolazione e trasformazione della realtà-ambiente) e linguaggio verbale, li troviamo ad esempio in pagine che non sono per nulla invecchiate di fronte alle nuove scoperte. Rimandiamo in special modo a quelle sul processo di ominazione in Dialettica della natura, ma anche a quelle dell'Ideologia tedesca e Libro I del Capitale dove, specificamente, si spiega come tale processo coincida con il divenire dell'uomo fino all'industria moderna.
Nel capitolo di Dialettica della natura giuntoci incompiuto con il titolo "Il ruolo svolto dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia", Engels mostra di conoscere bene le discussioni dell'epoca intorno ai molti problemi dell'evoluzione. Egli riprende la teoria di Haeckel, una delle poche materialistiche sulla specifica evoluzione umana e dal lavoro di entrambi scaturisce il principio di co-evoluzione fra il lavoro e l'organismo. Da notare che all'epoca, a causa delle scarse evidenze fossili, non era neppure possibile precisare i periodi della preistoria umana, per cui la collocazione nel tempo dei pochi reperti era praticamente impossibile. L'indagine paleontologica di oggi fa risalire l'origine dei primati a 65 milioni di anni fa, degli antropoidi ancestrali a 15 milioni, degli ominidi eretti a forse 5 milioni. Si tratta di una scaletta semplificata, dato che all'interno dell'ordine, i generi si sovrappongono, ma una cosa è certa: del periodo cruciale fra gli 8 e i 5 milioni di anni fa, non sono stati trovati fossili di ominidi (e non c'è accordo sul motivo di questo vuoto). La questione mette in difficoltà i paleoantropologi perché proprio in quel vuoto di conoscenza di 3 milioni di anni avvenne il passaggio dagli antropoidi ancestrali agli ominidi. Insomma, per dirla con linguaggio improprio, il salto dalla scimmia all'uomo.
Animali arboricoli, gli antropoidi ancestrali ereditarono dalle piccole proscimmie loro antenate tratti anatomici e abilità conseguenti proprio al modo di vita fra gli alberi: zampe prensili, unghie piatte, pollici opponibili che consentivano una migliore locomozione fra i rami, occhi in posizione frontale che consentivano una più acuta visione tridimensionale e grandi, per quella notturna. A differenza della proscimmia, ad esempio, la scimmia antropoide riusciva ad afferrare fra il pollice e l'indice non solo quantità indefinite (rami cui appendersi, manciate di foglie, ecc.), ma singoli oggetti minuti, come insetti e semi di cui nutrirsi. Di conseguenza, presso le scimmie antropomorfe avvenne una co-evoluzione tra comportamento e fisiologia, si selezionò una mappa corticale sempre più differenziata, fino alla comparsa di ben cinque aree cerebrali, ognuna preposta al movimento di un dito destro o sinistro (uno scimpanzé non potrebbe fare il pianista).
Inoltre si svilupparono numerose altre strutture neocorticali volte al controllo differenziato degli arti superiori, del tronco, degli arti inferiori ecc. Il cervelletto, sede dell'equilibrio del tono muscolare e dei riflessi posturali, raggiunse una sorprendente efficienza, fino ad essere in grado di controllare, coordinare ed integrare l'attività di circa 150 muscoli agonisti e antagonisti. Mentre si riducevano alcune delle sensibilità, come l'olfattiva e l'auditiva, s'accrebbe e si acuì enormemente la sensibilità tattile, estesa, oltre che alle mani, a tutto il corpo dell'animale percorso da una miriade di fibre nervose sensitive e motorie.
Iniziò così il grande percorso rivoluzionario durante il quale l'uomo perdette alcune sensibilità naturali per acquisirne altre, in parte "artificiali", in sintonia con lo sviluppo della capacità di lavoro e di linguaggio. Nel trapasso storico dagli ominidi all'uomo alcuni sensi diventarono preminenti. Tutti i primati erano già animali "visivi" e l'uomo lo divenne ancora di più: la visione stereoscopica, dovuta al cervello che elabora due differenti prospettive inviategli da ogni occhio, potè conferirgli un maggior senso della profondità. Mentre una visione piatta ha bisogno del movimento per scatenare una reazione d'istinto, la visione tridimensionale abitua il cervello (e lo modifica con la co-evoluzione dei dati fisiologici e del comportamento) a un calcolo di posizione secondo coordinate spaziali, indispensabili, ad esempio, nell'uso di armi da lancio. Per cui non fu più essenziale il movimento perché egli potesse definire la collocazione degli oggetti nello spazio. A tutto ciò si aggiunse una crescente percezione del colore, che gli consentì di estrapolare un oggetto dal suo sfondo, di acuire sensazioni rispetto alla materia di cui esso è fatto, e infine di confrontarlo con forme e archetipi memorizzati.
Dialettica delle relazioni fra mano, lavoro e cervello
L'intuizione di Haeckel e di Engels, quest'ultimo rivoluzionario per un momento in veste di paleontologo in un'epoca di difficile travaglio ideologico intorno al tema dell'evoluzione, trovò infine conferme strepitose nei fossili. Nella linea evolutiva si sviluppano prima i muscoli e le funzioni sensoriali e motorie, derivanti dall'agire in un habitat determinato. Soltanto dopo si sviluppano i necessari correlati neuro-intellettivi. Tale processo è continuo e nello stesso tempo soggetto ad accelerazioni dovute allo sviluppo di rami genetici differenziati. L'accumularsi di reperti fossili per la maggior parte di difficile collocazione in rami evolutivi lineari, rendono il nostro albero genealogico piuttosto complicato, tanto che alcuni ricercatori temono che alla lunga esso non stia più in piedi e prima o poi debba crollare per lasciare il posto a una conoscenza meno confusa. Comunque sappiamo che prima di 8 milioni di anni fa da un gruppo di antropoidi africani si dipartirono varie linee evolutive, alcune delle quali, in particolare, condurranno, dopo ulteriore selezione, all'uomo. Il quale giungerà alla posizione eretta del bipede almeno 4 milioni di anni fa; e con questo, come ricorda Engels,
"era fatto il passo decisivo per il trapasso dalla scimmia all'uomo. […] Se il camminare eretti divenne per i nostri villosi antenati dapprima regola e col tempo una assoluta necessità, ciò vuol dire che alle mani spettarono frattanto attività di natura via via sempre più diversa dall'originaria" (Dialettica della natura).
Dunque è l'attività motoria di una mano sempre più perfezionata che agisce sul cervello il quale permette un'azione ancora più perfezionata… e così via. Da allora (siamo nel 1876), più accurate conoscenze e comparazioni ci hanno permesso, al di là dell'apparenza, di constatare una diversità netta, anche anatomica, tra la mano e il cervello dell'uomo e quelli della scimmia che gli somiglia di più (lo scimpanzè bonobo). Un elemento primitivo nella correlazione mano-cervello è evidente, ad esempio, nell'uso di utensili da parte delle scimmie. Lo scimpanzè si procura un qualsiasi strumento egli trovi in natura (un sasso per rompere il guscio di un frutto o un bastone per accedere a tuberi e larve di insetti) senza intervenire sulla sua forma, e lo abbandona non appena ha soddisfatto il proprio bisogno immediato. Ciò perché a determinare la sua azione è innanzi tutto la ricerca di nutrimento, soddisfatta la quale sasso e bastone divengono inutili; inoltre l'impossibilità di opporre il pollice alle altre dita gli impedisce il trasporto, se non con un dispendio di energia incompatibile con il risultato. Ma, anche se non si sa come si sia esattamente evoluta la capacità di fabbricare strumenti, è evidente che sassi e bastoni esistono in natura e non c'è alcuna necessità di conservarli, mentre sassi e bastoni lavorati diventano "dotazione" strumentale anche solo per una legge fisica di conservazione dell'energia dissipata per costruirli.
È chiaro che una dotazione strumentale è, oltre che funzionale alla produzione, anche un potente mezzo di comunicazione, cioè linguaggio. Nel rapporto tra uomini nelle prime comunità non più semplicemente "naturali" (ma per noi è naturale anche e soprattutto l'uomo-industria, il quale non è altro che una parte della natura in divenire) la differenza fra "dotazione sì" e "dotazione no" rappresenta già una semantica sociale, tanto che gli strumenti si evolvono non solo in direzione di una maggiore funzionalità ed ergonomia, ma anche in direzione di linguaggio puro, come per gli ornamenti e i segni distintivi della funzione sociale. Alla base di tutto ciò vi è l'evoluzione del complesso inscindible mano-lavoro-cervello (e cervello sociale).
In un suo studio del 1996, "Evolution of the hand and bipedality", l'antropologa americana Mary Marzke individua nel confronto tra la nostra mano e quella degli altri primati più prossimi a noi (orango, gorilla e scimpanzè) solo due tratti morfologici comuni, mentre gli altri 17 tratti anatomico-funzionali caratteristici dell'uomo sono assenti nei primati. Analizzando poi le posture di presa e i movimenti manuali necessari per l'uso e l'impiego di strumenti paleolitici, l'antropologa conclude che la gran parte dei caratteri morfologici che distinguono le mani degli ominidi da quelle dei pongidi sono le medesime richieste dall'uso e dalla fabbricazione abituale di strumenti di pietra. In particolare elenca la presenza di ossa robuste e resistenti al centro del palmo, una configurazione scheletrica che permette una presa sicura tra palmo, pollice e altre dita, e le dita piccole rispetto al pollice con larghi polpastrelli che favoriscono la presa.
Determinazioni per la prima industria
Dalle osservazioni dell'anatomista olandese Louis Bolk, oggi relegate alla storia, furono tratte ipotesi utili per capire il determinismo del lavoro umano. In un suo saggio del 1926 sull'antropogenesi, Bolk negava la linearità dell'evoluzione da organismi semplici e primitivi ad organismi più complessi e specializzati, ipotizzando che a distinguere l'uomo dall' antropoide sia una serie di elementi morfo-anatomici che egli definisce "fetali" cioè primitivi. Secondo tale ipotesi, che ha evidenza induttiva ma non è scientificamente dimostrabile, l'uomo sarebbe l'unico essere vivente ad avere caratteri "neotenici", cioè di sviluppo ritardato, per cui, anche dopo lunga gestazione come feto, se ne viene al mondo come non finito, bisognoso di una dozzina di anni per raggiungere il pieno sviluppo (oggi di più, ma il fatto sociale è preponderante rispetto a quello biologico); quindi anche bisognoso di una dotazione strumentale artificiale. Pur se superata dal punto di vista delle ricerche successive, l'ipotesi che l'uomo fosse una scimmia immatura fu un bel colpo per la posizione del re del Creato, come osservò l'evoluzionista materialista Stephen Jay Gould. Il quale si propose di salvare le osservazioni materialistiche di Bolk dalla teoria che egli ne aveva tratto, ritenendo opportuno "non buttar via il bambino con l'acqua sporca".
Per Bolk, questo nascere come organismo incompleto, l'uomo se lo sarebbe trascinato per tutta la vita, rimanendo senza pelliccia, con un gran cranio fetale, una piccola dentatura e arti superiori poco adatti alla locomozione. Sarebbe stato ciò a provocare il passaggio alla statura eretta, che non sarebbe avvenuta dunque in un processo di "liberazione" delle zampe in mani (i fossili di Laetoli e Hadar dimostrano che gli ominidi camminavano eretti un milione di anni prima di aver bisogno delle mani per costruire utensili).
L'ipotesi neotenica ha portato a considerazioni discutibili, come quella ad esempio sulla differenza fra bianchi e neri nella scala dell'ominazione, dato che i neri sarebbero meno neotenici, avrebbero cioè un più veloce sviluppo sia fetale che dopo la nascita. Ma, al di là delle individuali elucubrazioni ― tipiche della scienza di quest'epoca, costellata di idee invece che di fatti più delle epoche passate ― l'ipotesi di una artificializzazione del comportamento, dovuta alle carenze biologiche e genetiche dell'uomo, alla sua mancanza di specializzazione, si rivelerebbe accidentalmente molto efficace e promettente. A riprova e riassunto leggiamo ad esempio dal testo Homo sapiens di Edward Clegg:
"Nell'uomo la mano raggiunge il massimo livello di sviluppo funzionale. In parte ciò si deve al fatto che essa conserva la condizione anatomica embrionale, il che vuol dire che è priva della specializzazione che posseggono le mani degli altri primati, e manifesta invece, grande elasticità e duttilità. In parte si deve al fatto che le connessioni della mano umana con il sistema nervoso centrale sono incomparabilmente più ricche e più complesse che in qualsiasi altro animale".
L'opponibilità fra il pollice e le altre dita fu ritenuta dai primi paleoantropologi successiva all'uomo di Neandertal (che era già un homo sapiens), quindi non neotenica. Essa è invece, come la statura eretta, un prodotto della speciazione biologica, una caratteristica propria dei primati evoluti già prima dei fatidici 8 milioni di anni fa. Non sarebbe (lamarkianamente) un risultato diretto del lavoro, ma una mutazione morfologica cui si è aggiunta la crescente versatilità della mano dovuta al lavoro (homo habilis, da 2 a 3 milioni di anni fa). Opponibilità del pollice e stazione eretta, cioè caratteristiche del corpo di homo, precedono di milioni di anni lo sviluppo del cervello e la perdita del prognatismo scimmiesco, altro segno evidente che il lavoro ha fatto il cervello e non viceversa. Solo così si può spiegare anche la nascita e lo sviluppo del linguaggio.
"Lo sviluppo del lavoro ebbe come necessaria conseguenza quella di avvicinare di più tra loro i membri della società, aumentando le occasioni in cui era necessario l'aiuto reciproco, la collaborazione, rendendo chiara a ogni singolo membro l'utilità di una tale collaborazione. Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi. Il bisogno sviluppò l'organo ad esso necessario: le corde vocali, non sviluppate, della scimmia, si andarono affinando, lentamente ma sicuramente, abituandosi a una modulazione sempre più accentuata; la bocca e gli organi vocali impararono a poco a poco a emettere una sillaba articolata dopo l'altra" (Engels, Dialettica della natura).
Questa era la risposta alla credenza, all'epoca ormai diventata paradigma "scientifico", che il cervello avesse sovrinteso al processo di ominazione e di evoluzione verso la forma attuale. Da notare che non esisteva nemmeno una evidenza archeologica su cui poggiare questa falsa ipotesi idealistica che sopravvive anche ai giorni nostri. Solo due scienziati, a mezzo secolo di distanza, Oken e Haeckel avevano osato confutarla e il secondo aveva ricostruito, con un esperimento materialistico mentale, un ominide "teorico", con cervello piccolo, privo di linguaggio ma già eretto su di uno scheletro simile al nostro, che chiamò Pithecantropus. Quando alla fine del secolo furono scoperti i resti dell'Uomo di Giava, non si fece che prendere atto della previsione esatta e ad esso fu dato lo stesso nome, aggiungendovi, a maggiore evidenza dell'assunto teoretico, erectus (oggi quel fossile viene inglobato nel nostro stesso genere, homo erectus).
Potenziali di sviluppo
L'evoluzione è un processo discontinuo, caratterizzato da periodi di conservazione delle specie e da periodi, spesso catastrofici (improvvisi) di mutamenti fondamentali che, secondo la "legge di Dollo" sull'irreversibilità dell'evoluzione, portano le specie da un livello evolutivo all'altro. Il genere homo ha percorso la sua strada fino al livello attuale, fatto di forma fisica e capacità di adattarsi all'ambiente e di adattarlo a sé; livello che è determinato, perché la linea evolutiva non innesta retromarce. Nel processo di speciazione vi fu un passaggio dalle prime forme di vita, simili a virus e batteri, ad altri organismi più complessi e più grandi, con delle conseguenze sui tempi di sviluppo. In organismi piccoli, diciamo dai batteri agli insetti, la varietà delle caratteristiche biologiche e meccaniche costituenti il potenziale evolutivo è assai ridotta, a causa del limitato numero di molecole o al massimo di organi. Le attuali alghe azzurre sono paragonabili alle più antiche forme di vita, risalenti a tre miliardi di anni fa, sono quindi rimaste molto stabili nel tempo. All'estremo opposto vi sono gli esseri viventi di grandi e grandissime dimensioni, come i dinosauri, con una struttura complessa e soprattutto un alto metabolismo, quindi con aumentate possibilità evolutive e conseguenti probabilità di estinzione.
I grandi rettili furono non solo gli organismi viventi di maggior dimensione mai vissuti sulla Terra, ma anche i più specializzati. Circa 65 milioni di anni fa la loro scomparsa lasciò libera una grande quantità di nicchie ecologiche a beneficio di organismi più piccoli e meno specializzati, ad esempio la classe dei mammiferi, la cui evoluzione comportò la comparsa di un'ampia varietà di sottoclassi. Tra esse l'ordine dei primati, un gruppo dei quali, col tempo, assunse caratteri evolutivi che permisero un graduale accrescimento corporeo, tale da moltiplicare le possibilità di variazione ontogenica e perciò di comparsa di una nuova specie.
Arriviamo così all'homo sapiens, una specie all'apice dimensionale rispetto alla quasi totalità delle altre (solo alcune decine lo superano, gli altri milioni sono più piccole). La nostra specie dunque, come ricorda Gould, ha riassunto la totalità del suo potenziale evolutivo nella propria forma e dimensione: un mammifero grande ma non troppo, ad andatura eretta, non specializzato e con arti versatilissimi. Non potrebbe esistere un homo sapiens piccolo come un topo, né grande come un elefante o una balena, perché i neuroni necessari allo sviluppo di qualità intellettive sono sempre gli stessi, ma entro corpi diversi producono effetti diversi. Il topo ad esempio ha un cervello mille volte più piccolo di quello di una scimmia antropomorfa, ma la sua intelligenza non è mille volte inferiore; un tirannosauro aveva un cervello forse venti volte più grande ma certo non aveva un'intelligenza venti volte superiore, dato che la massa cerebrale era sacrificata a quella corporea, in azione soprattutto per sostenere sé stessa, come una piramide di ossa e carne. In ogni caso, se nello sviluppo dell'uomo fossero intervenute mutazioni condizionanti forma e dimensione, oggi saremmo poco sapiens e probabilmente niente loquens.
Sarà lapalissiano, ma l'uomo non potrebbe essere fatto così com'è se non si fossero modificati in parallelo tutti i parametri che lo hanno portato ad essere una specie di piramide rovesciata, una testa relativamente grande e un tronco poggianti su di un piccolissimo appoggio bipede, preparato con milioni di anni di anticipo, sul quale il cervello si è evoluto con comodo (le orme fossili degli ominidi di Laetoli, in Tanzania, mostrano una passeggiata che ha 3,6 milioni di anni). Chissà, forse un giorno si potrà dimostrare che l'uomo è l'unico essere vivente che riesce a rovesciare la prassi (progettare) proprio perché è egli stesso rovesciato!
L'ominide si ritrova dunque alcuni milioni di anni fa con arti anteriori inadatti ad essere zampe, nudo, disarmato, più grande di un topo cui qualsiasi buco va bene per tana e più piccolo di un cavallo cui la tana non serve, dato che ha un metabolismo capace di difenderlo dal freddo. Per di più, si trova della dimensione e forma giusta per essere cacciato, soprattutto dai grandi felini, come attestano alcuni reperti fossili vistosamente rosicchiati. Ma la non-zampa, priva delle caratteristiche morfoanatomiche rispetto alla zampa di molte altre specie, diventa un organo versatile, la cui sensibilità particolare, il tatto, dovuto a terminazioni nervose finissime, permette il lavoro e da esso è affinata ulteriormente: l'uomo cambia la realtà fuori di sé e, cambiandola, modifica la sua propria natura, come non era difficile materialisticamente immaginare:
"E il tatto, che nella scimmia esiste solo al suo più grezzo stato iniziale, si è andato formando solo con la formazione della mano umana, attraverso il lavoro" (Marx-Engels, Ideologia tedesca).
Genesi dell'uomo-industria
Prima la mano o il lavoro? Oggi nello studio dei processi evolutivi si evita accuratamente il concetto di causalità lineare: la mano non è causa del lavoro né il lavoro è causa dello sviluppo della mano, c'è correlazione (feedback reciproco); non esistono "cause" in un anello complesso di retroazione, ma solo "rinforzamenti reciproci". Dire che l'australopiteco camminava eretto per il motivo tal dei tali è una stupidaggine: per determinare la sua postura hanno agito concause, ci sono state correlazioni, anelli multipli di retroazione lungo un paio di milioni di anni. In evoluzione tutto succede e si ripercuote su tutto il resto attraverso micro-eventi contemporanei, e quando andiamo a indagare sulle mutazioni collocandole nella loro successione temporale, siamo influenzati più dalle stesse che non dai milioni di anni occorsi per far scattare i macro-eventi genetici che le hanno prodotte.
Data la sua tragica mancanza di specializzazioni naturali, non fu consentito all’uomo di occupare una nicchia ecologica specifica, com’è nella tendenza dell’evoluzione naturale che vede ogni specializzazione in relazione stretta ad un ambiente adatto. L'ambiente l'ha plasmato ed egli ha plasmato l'ambiente allo stesso modo degli animali della sua taglia, ma, in quanto animale difettevole, avrebbe visto la sua sopravvivenza minacciata e l'estinzione certa se non fosse intervenuta l’azione, l’operare tecnico. Siccome il mondo non è preordinato come credono i creazionisti di ogni tipo, l'uomo ha potuto rovesciare la prassi modificando la natura e sé stesso con ciò che ne consegue: il linguaggio, l'abito, la casa, il fuoco, la ceramica, gli strumenti da caccia e da lavoro, l'intera società.
Tutto ciò è giustamente chiamato industria. Non per niente i manufatti che si sono conservati per le loro caratteristiche specifiche, e perciò perfettamente riconoscibili, servono a definire senza esitazioni periodi evolutivi e aree geografiche, culture materiali e forme sociali. C'è una differenza enorme fra questa attività, anche la più rozza, e quella di animali che hanno un'attività collettiva come scimpanzè, castori, termiti, api, formiche. L'attività istintiva, di ordine genetico, secondo impulsi automatici (il gattino che in occasione di un bisogno fisiologico raspa il pavimento lucido simulando lo spostamento di terra inesistente) non è neppure lontanamente paragonabile a quella dell'uomo che ha in mente un oggetto, un riparo, un'arma, prima di costruirli. Meno che mai è paragonabile un'attività casuale come quella delle api, che costruiscono cellette esagonali solo in quanto movimenti caotici portano automaticamente all'esagono e non ad altri poligoni. O come quella delle formiche le quali, lasciando sul terreno tracce ormonali, si muovono caoticamente intorno a una specie di "faro" biochimico e quindi sono in grado di fornire, tramite movimenti coordinati da quel solo fattore, un risultato medio statistico finalizzato. L'innatismo attribuisce la facoltà di progetto all'individuo: in realtà è "innata" solo una sua predisposizione ad apprendere ciò che la memoria di specie ha accumulato, e che non è più istinto essendo ormai depositato per sempre nei mezzi materiali del cervello sociale (dalle tavolette d'argilla alle biblioteche, ai computer in rete).
L'istinto animale presuppone l’esistenza di organi altamente specializzati che reagiscono a specifici stimoli ambientali, come lo stimolo-risposta di Pavlov. In questo caso la relazione organismo-ambiente è un sistema chiuso, non vi è traccia di azione volontaria ma solo di reazione reciproca. Il venir meno dei caratteri istintuali nell’uomo, cioè l'affievolirsi nella nostra specie di una risposta organizzata geneticamente verso un determinato stimolo ambientale, è compensata da una maggiore plasticità dell'organismo intero per cui la nostra maturazione biologica è avvenuta sotto l’incessante influsso dell’ambiente in una relazione biunivoca, organica.
L'uomo, anche nelle sue più banali manifestazioni produttive, come il bricolage, ha alle spalle centinaia di migliaia di anni durante i quali ha registrato l'abitudine al progetto, l'unico elemento della sua vita che determina in anticipo il risultato futuro. Egli non si limita a cambiare forma alla materia sulla quale opera, bensì realizza al contempo il proprio fine di cui ha piena coscienza. Per il compimento del lavoro occorre non soltanto l'azione degli organi a esso preposti ma anche una volontà conforme allo scopo. E questa volontà non tarda a diventare volontà sociale, come dimostrano le immani opere dell'antichità, quasi impensabili per noi, abituati a ben altri mezzi tecnici e a una concezione del lavoro e del tempo completamente viziata dal Capitale. Opere che tra l'altro ci mostrano anche come nella società capitalistica matura siamo in regressione: persa la dotazione istintuale a favore del progetto e dell'industria, l'uomo ha perso infine anche il controllo su di essa (assunto dal Capitale impersonale); è ridotto a macchina, anzi, a guardiano di macchina, ad appendice inerte di un sistema che si fa da sé. La somma di tanti piccoli apporti individuali contribuisce a rovesciare la prassi, ma solo al fine di un risultato locale; nell'insieme non rende affatto la società consapevole di quello globale.
L'uomo-industria diventa società
Perché il lavoro, in quanto attività esclusiva dell'uomo-industria, non può che essere attività sociale? La risposta consegue in parte dal carattere neotenico della nostra specie. La dipendenza dell'individuo dal gruppo (o il bisogno degli individui di organizzarsi in gruppo, che è lo stesso) è precisamente il converso filogenetico della scarsa specializzazione corporea e manuale. Una femmina di scimpanzè figlia una volta ogni cinque anni perché deve portarsi al collo o sulla schiena il cucciolo mentre cerca il cibo, deve accudirlo e proteggerlo mentre si sposta, ecc. Un figlio ogni cinque anni, in un ambiente dove vivono predatori come i grandi felini, non è il massimo di razionalità per la sopravvivenza della specie, perciò lo scimpanzé impara a difendersi collettivamente. Il gorilla ha una riproduzione ancora più difficile, ma è meglio armato individualmente per difendersi dai pericolosi nemici. L'ominide primigenio era certamente nelle stesse condizioni degli altri primati ma era meno dotato di difese individuali. Era inevitabile che prima o poi incominciasse a coordinarsi socialmente per la difesa meglio dei consimili scimmieschi e, soprattutto, a condividere i prodotti della raccolta (nessun altro primate lo fa), rafforzando la vita sociale in modo da alimentare e proteggere collettivamente i cuccioli, affinché la femmina fosse libera di figliare di più, tra l'altro perdendo completamente, in questo processo, il periodo di estro sessuale.
Il suo cucciolo si avviò ad imparare le tecniche sviluppate dalla specie e fu perciò indispensabile la maturazione di un rapporto sempre più complesso di apprendimento-insegnamento. Infatti, ad eccezione dei primi movimenti neonatali, sottocorticali, quali l'istinto di suzione, l’afferrare, il roteare gli occhi, ecc., l’organizzazione del sistema motorio umano attuale è in gran parte acquisita e determinata dall’apprendimento, a differenza di quella animale quasi totalmente preordinata dall'istinto. Ovviamente non cambia nulla rispetto al rapporto fra uomo e natura: se le prestazioni motorie, sensitive e quindi cognitive del primo possono maturare solo in stretta simbiosi con l’ambiente che lo circonda, qualunque esso sia, allora vuol dire che di nuovo non c’è soluzione di continuità tra l’uomo-essere-sociale e la materia-natura. Infatti il bambino unisce indissolubilmente l'istinto (analogico) e l'apprendimento (discreto). La separazione fra i due aspetti e, soprattutto, la discretizzazione esasperata (riduzionismo e specializzazione) sono artifici di metodo. L'irreversibilità del processo evolutivo in tutti i sensi, anche tecnico-scientifico, rimane un caposaldo teoretico, mentre diventa un'idiozia palese ogni teoria di un mitico ritorno ad origini pre-industriali.
Diventato adulto, una volta imparati i movimenti, i gesti finalizzati, le tecniche principali di caccia, l’individuo sapiens, che già viveva come gli scimpanzè in un clima sociale, non potrà più fare a meno della comunità anche nelle azioni che un tempo espletava senza condividerne con altri il risultato. Mentre prima, al pari dello scimpanzè, poteva coordinare un minimo di azione collettiva solo in caso di estremo pericolo, come l'attacco del leopardo, ora non potrà più neppure raccogliere bacche e larve senza condividere il raccolto, fabbricare strumenti senza usarli in comune, costruire un riparo senza un rapporto logico con altri ripari.
In un primo tempo gli strumenti che produce l'uomo non sono molto diversi da quelli naturali che l'animale trova già fatti e getta dopo l'uso. Alcuni sassi taglienti o appuntiti (chopper), trovati in strati antichissimi insieme a schegge dello stesso materiale e ossa di animali, differiscono di pochissimo rispetto a sassi scheggiati da eventi naturali, tanto che, quando manca un contesto, non si riesce a stabilire quali siano stati prodotti volontariamente. Comunque lo strumento prodotto dall'uomo si differenzia, rispetto agli utensili trovati in natura e usati dall'animale, non solo per la foggia ma anche per come vengono usati. La scimmia si serve di qualche strumento per raccogliere frutti del mondo vegetale e procurarsi proteine sotto forma di insetti e larve in azione solitaria, mentre l'uomo, coordinando le proprie forze, riesce infine ad utilizzare gli stessi strumenti per procacciarsi proteine di animali più grossi di lui e assai meglio dotati di difese naturali.
Se tra le scimmie il gruppo non è già più la semplice sommatoria delle abilità individuali, fra gli uomini l'effetto moltiplicatore di efficienza dovuto all'azione collettiva diventa essenziale. Il lavoro dell'individuo non prescinde più dal lavoro di ogni altro membro della comunità perché ognuno offre un contributo differenziato all'attività collettiva finalizzata, e solo la somma dei contributi porta all'obiettivo comune. Per essere utile ai fini di produzione collettiva la cooperazione esige peraltro un sistema di segnali visivi e vocali tra gli appartenenti al gruppo, l'unico modo di coordinare le azioni individuali verso un scopo comune. Siamo con tutta evidenza alla nascita del linguaggio, il cui processo di sviluppo è inscindibile dalla produzione materiale e dal lavoro associato, quindi è uno dei mezzi di produzione prodotti tramite mezzi di produzione… senza l'intervento del valore. Dapprima il bagaglio semantico dell'ominide è costituito da suoni non articolati e hanno molta importanza i gesti, cui si accompagnano comunicazioni che possiamo chiamare "analogiche", come situazioni e comportamenti. Presumibilmente questa è una fase lunghissima, che accompagna l'intero periodo dell'ominazione: dalla cosiddetta cultura del ciottolo (inizata 2,5 milioni di anni fa) alle manifestazioni sociali più evolute del paleolitico (ad es. i dipinti di Lascaux e Altamira). In seguito la parola diventerà parte integrante del lavoro e della memoria tramandata. Quando, molto più tardi, alcuni prodotti della comunicazione – come poesia, musica, letteratura, ecc. – diventeranno settori specializzati della conoscenza, staccandosi dalla produzione materiale e assumendo un'autonomia entro la sfera sociale, allora essi cesseranno di essere mezzi di produzione e andranno a far parte della sovrastruttura ideologica e politica.
Il linguaggio come mezzo di produzione
Se nell’animale la regolarità degli atti e dei comportamenti è dovuta all'istinto, nell’uomo tale regolarità è determinata dall'apprendimento. Egli memorizza le invarianze rilevate nelle azioni ripetute e le comunica facendole diventare esperienza collettiva attraverso lo sviluppo del linguaggio. Da questo punto di vista il rito assume una funzione di conservazione della memoria della specie dove determinati movimenti propiziatori costituiscono una base comune a partire dal successo delle azioni precedenti.
Ma ben prima di questa fase è necessario un processo di formazione − sempre in parallelo allo sviluppo del lavoro e della società − delle capacità biologiche per il linguaggio parlato. La natura di tale processo è identica a quella della formazione della mano e degli effetti che essa ha avuto sul cervello. Engels disse che l'uomo incominciò a parlare quando ebbe qualcosa da dire al suo simile, ed è vero, ma accennò appena all'evoluzione delle corde vocali e degli organi che permettono la parola articolata. In effetti la complessa co-evoluzione della mano, del lavoro e del linguaggio comportarono un profondo cambiamento anche nella conformazione della gola. Tutti i mammiferi, tranne l'uomo, hanno il laringe (l'organo sede delle corde vocali) molto in alto nel collo, sia nel periodo fetale che nell'età adulta. È questa posizione del laringe che permette all'animale di mangiare, addentare e soprattutto bere nello stesso tempo in cui respira; ma che impedisce al faringe (lo spazio anatomico in cui la voce viene regolata di volume e di tono) di modulare i suoni prodotti dalle corde vocali. Quindi gli animali non parlano perché fisicamente, anatomicamente, non possono. Nell'uomo, invece, questa caratteristica è presente solo nei neonati, che altrimenti soffocherebbero durante l'allattamento. Passato lo svezzamento, il laringe e le corde vocali scendono moltissimo, fino all'altezza della settima vertebra cervicale, permettendo al faringe una grande capacità di modulare i suoni. Una piccola differenza di questa capacità si nota ancora fra gli uomini d'oggi, ed è in relazione sia alla posizione del laringe che alla verticalità più o meno accentuata dell'articolazione fra cranio (occipite) e colonna vertebrale.
La dimostrazione che lungo la filogenesi umana la capacità di parlare è causa e risultato anche di variazioni nella capacità di pensare è acquisita. Nei fossili di ominidi, alla verticalizzazione tra spina dorsale e cranio si accompagna sempre la presenza di impronte dei lobi frontali del cervello sulle ossa craniche. L'area cerebrale deputata alla parola compare dunque nella misura in cui scompare l'inclinazione dell'articolazione suddetta e si sviluppa la mano, cioè quando, appunto, gli uomini hanno finalmente "qualcosa da dire" a causa del lavoro e dei nuovi e più complessi rapporti sociali.
La parola non sarebbe "superiore" al gesto se non vi fosse la produzione. Per cacciare collettivamente bastano gesti e richiami, anche per non spaventare le prede. Ma per cacciare collettivamente con archi, lance e asce occorre la prima industria che foggi la pietra, l'osso, il legno, le fibre vegetali, le pelli, i tendini. Prima ancora della parola articolata deve nascere un linguaggio gestuale e sonoro completamente nuovo. Società sopravvissute allo sterminio capitalistico ci mostrano che già con il linguaggio gestuale, fino ad un certo punto condiviso con gli animali ma poi evolutosi come tutto il resto, l'uomo si distacca dagli altri primati diventando un essere sociale assai diverso. Anche solo con la comunicazione a gesti il bipede fabbricatore di strumenti acquisisce più padronanza del proprio destino che non altri animali, si forma una coscienza del gruppo cui appartiene, di quanto sta attorno a sé e al gruppo stesso. Affinché il gesto di un individuo sia recepito dal consimile occorre che il suo significato sia codificato, cioè condiviso, in quanto sempre e comunque adoperato per uno scopo non casuale né passeggero, ma costantemente legato, all'interno del gruppo, ad un determinato oggetto o ad un determinato evento.
Nell'Ideologia tedesca Marx ed Engels affermano che il linguaggio, anche nella sua forma più primitiva, è comunque una forma di coscienza, intesa come contrario di spontaneità animale. Esso sorge dalla necessità (determinazione) dei rapporti fra individui dal comportamento sociale e produttivo, che coordinano e prevedono le loro azioni:
"La coscienza è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo. Solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi, l'uomo solitario non ne avrebbe avuto necessità. […] Soltanto il pensiero consapevole si determina in parole cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si rivela all'origine della coscienza medesima. Per dirla in breve lo sviluppo della lingua e quello della coscienza procedono di pari passo".
Per il bisogno di capire, di spiegare, di definire precisamente oggetti, eventi e fenomeni, ai fini dell'attività comune e produttiva, l'uomo trasformerà gradualmente i primi complessi fonici anche in rituali cosiddetti magici, parole, gesti e situazioni significanti rispetto a una relazione ancora viva, indispensabile, con la natura circostante. Da sempre, e anche oggi che il lato "analogico" della conoscenza è soffocato da quello "digitale" (il lato qualitativo da quello quantitativo), inculcato attraverso schemi sociali codificati, le parole e il linguaggio, così come i concetti che sottendono, non esprimono tanto una mera enciclopedia di nozioni quanto la relazione tra gli uomini, tra essi e le cose che riempiono la loro esistenza e le nozioni che ne sono state tratte nel tempo. Nella fase che siamo soliti definire "comunismo primitivo" non c'era alcuna separazione tra uomo e natura. Non c'è nessuna ragione per inventarsela oggi, immaginando che l'industria (macchine, scienza, cervello sociale extra-biologico) sia un mostro partorito dal capitalismo, che assoggetta gli uomini e li rincretinisce inculcando loro la febbre del valore. Mostruose non sono le realizzazioni del capitalismo, ma il capitalismo stesso e i fini per cui le utilizza.
Il linguaggio naturale diventa dunque comunicazione cosciente, finalizzata a rovesciare la prassi, memoria per tramandarla (con la scrittura si è superata la memoria biologica che aveva bisogno di un tramite umano). La voce diventa fonte di parole, che diventano frasi articolate e dotate di senso preciso fino a connotare una sintassi codificata.
Come abbiamo già visto in un altro articolo (Homo habilis e linguaggio), alcuni paleontologi, esperti di industria litica, si sono accorti, con metodi di archeologia sperimentale e tecniche microscopiche, che il più perfetto "strumento" della preistoria, il bifacciale o amigdala, probabilmente non aveva una funzione di utensile. Non ne sono mai state trovate prove di utilizzo e all'esperienza pratica si rivela difficilissimo da realizzare. È spesso bellissimo, ma è molto meno efficace di altri strumenti più semplici, come coltelli, raschiatoi, punteruoli o macine; non è un oggetto da lancio; se lo si usa per tagliare ci si taglia anche le mani; come ascia non regge alcun tipo di manico, è fragile, è spesso troppo accuratamente rifinito per essere un semplice utensile. Si è giunti così a ipotizzare, per esclusione, che si tratti di uno strumento-linguaggio: prodotto da tutti gli uomini di tutto il mondo per quasi un milione di anni, sarebbe stato uno strumento rituale di sintesi, un mezzo simbolico (simbolo = syn bàllein, mettere insieme) efficacissimo per sviluppare insieme la mano, il cervello e la capacità di affinare il lavoro. Se fosse mai dimostrato questo assunto, avremmo il più bell'esempio di unità materiale fra i fattori dell'ominazione fin qui considerati, cioè la prova formidabile che il moderno uomo-industria ha avuto il suo archetipo, che esso scaturisce da un processo del tutto naturale e che chi fantastica su mitici ritorni alla natura dice solo fesserie in quanto questo uomo è natura che realizza sé stessa.
Il cervello-società …
Vi è una corrente delle neuroscienze che tenta un approccio dialettico e non meccanicistico alla conoscenza sulla genesi del cervello e quindi dell'uomo. Diciamo "tenta", perché l'idealismo che essa cerca di far uscire dalla porta rientra dalla finestra, lasciando irrisolte questioni importanti relative alla teoria materialistica della conoscenza. Ma tale approccio è comunque utile, tenendo presente che, giusta il principio di invarianza, se di un edificio teoretico traballa una parte, tutta la costruzione dev'essere rifatta.
Secondo questa corrente (cfr. Edelman), le reti neuronali del cervello si sviluppano come gli elementi di una popolazione zoologica, cioè secondo criteri darwinani: gli individui sono di per sé biologicamente diversi, e l'ambiente agisce sulla loro diversità selezionandoli e favorendone la riproduzione. Il singolo gruppo neuronico sarebbe l'equivalente dell'individuo zoologico e quindi, allo stesso modo di quest'ultimo, subirà una selezione riproducendosi con più o meno facilità, competendo o collaborando, mutando ulteriormente, estinguendosi, ecc., ma sempre sulla base della dinamica delle differenze, dinamica che sola può permettere lo sviluppo di novità a partire da una situazione stabile, di equilibrio.
Si formano dunque mappe neuronali differenti che, attraverso i recettori dei sensi, producono differenti cervelli, ma anche differenti corpi e insiemi di corpi, ognuno con un approccio "individuale" all'ambiente circostante. Essendo il cervello determinato a funzionare per differenze e non per uguaglianze, discrimina fra le prime, riconosce le seconde e soprattutto "impara" a maneggiare quantità e qualità (ad esempio discrimina fra sassi grandi e piccoli, fra quelli rossi, grigi e neri con infinite sfumature e riconosce i gruppi uguali). L'immagine del mondo che si forma nei singoli cervelli non può che essere determinata per ogni individuo, ma l'insieme va visto come una serie di relazioni, per cui l'individualità è connessa a una rete di scambi, è globale pur conservando caratteristiche uniche. All'interno del cervello le singole mappe sono collegate tra loro e quindi ciò che succede all'una viene immediatamente trasmesso all'altra, se l'una subisce una selezione, anche l'altra registra il fenomeno e si adatta. A livello cellulare si integrano i fenomeni fisiologici e quelli che ancora si chiamano psicologici. Ogni esperienza (tattile, olfattiva, visiva e… psicologica) si ripercuote sulle varie aree del cervello (livelli mentali) variando di continuo l'immagine cerebrale del mondo, cioè delle relazioni con l'ambiente e con gli altri individui. L'esperienza immediata è quindi anche retroattiva, nel senso che influisce sulla memoria del passato, la quale subisce così una trasformazione, risultando razionalizzata, mitizzata, discretizzata, mistificata, personificata, come la mutevole storia scritta insegna.
Gli attuali risultati delle neuroscienze demoliscono i consolidati concetti di psicologia e mente (non quelli antichi: per Platone psyché significava "ciò che sostiene e muove la natura"), eliminano il dualismo fra materia e spirito e riconducono il pensiero a un prodotto non mistico della natura. Ma ci dicono anche molto sulle relazioni fra umani, ossia sulla società, che riproduce a livello macroscopico ciò che è sviluppato a livello microscopico. Ci dicono molto sul meccanismo che lega indissolubilmente la mano, il cervello, il linguaggio e l'ambiente in cui tutto ciò si è prodotto rendendo possibile la nascita dell'uomo-industria, il suo sviluppo e il balzo gigantesco che si prepara. L'individuazione da parte di Darwin di una dinamica "storica" nel modo di essere degli individui e delle società, che essi compongono, demolì l'antico concetto di specie basato sull'archetipo divino immutabile. Gli individui sono diversi tra loro e subiscono determinazioni diverse, quindi non solo si riproducono, ma si diversificano fisicamente nel tempo, subiscono mutazioni. È del tutto idealistico sostenere che siamo tutti uguali anche se individualmente portatori di piccole differenze, come rispetto a un modello platonico perfetto. In realtà siamo proprio differenti ognuno dall'altro, siamo il prodotto non di un disegno proveniente dall'altrove ma del nostro materiale divenire.
Per Darwin la "specie" è definita da un maschio e una femmina che accoppiandosi producono discendenza, perciò un cro-magnon e un neandertaliano che appartengono alla specie sapiens avrebbero potuto teoricamente figliare, mentre ognuno dei due non avrebbe potuto (a parte la differenza di epoche) figliare con un pitecantropo, che è della specie erectus. Proprio la differenza di epoche e di specie ci dimostra la grandezza della scoperta di Darwin: l'evoluzione va intesa sotto l'aspetto dialettico di un doppio modo di essere delle specie: da un parte come identità, in un dato periodo, di tutti gli individui intesi statisticamente; dall'altra come insieme vitale e variante, caotico e soprattutto provvisorio, che possiede potenziali evolutivi costantemente sottoposti all'azione dell'ambiente e dei geni.
Se la materia che compone il cervello, riunita in aggregati neuronali, a loro volta connessi in una rete intricatissima, può essere analizzata secondo gli stessi principii darwinani delle specie, allora abbiamo anche una demolizione dell'idea di psicologia. Pur liberandosi dall'idealismo, la conoscenza umana è passata attraverso un oggettivismo limitato, che ha presupposto il mondo come strutturato in categorie predefinite, immaginando che la natura fosse un insieme di oggetti con le loro belle proprietà riconosciute una volta per sempre, con le loro relazioni ben individuate; una natura recepita da un cervello umano in grado di farsene un modello mentale, di produrre perciò anche i criteri di classificazione e conoscenza. Tutto ciò ovviamente non è di per sé "sbagliato", ma è solo una fotografia di ciò che nell'immediato percepisce l'individuo. Darwin distrusse questo rassicurante modello positivista e introdusse una dinamica che ancor oggi stenta a liberarsi dalle concezioni precedenti (un problema che erediterà la società futura).
Il cervello non è un contenitore di un qualcosa che chiamiamo "idee", non è una specie di hardware su cui implementare una specie di software metafisico. Neanche il corpo "contiene" il cervello e gli altri organi come fosse una scatola, né la società contiene i corpi, né la natura contiene il tutto. Quella "cosa" che chiamiamo assai primitivamente idea è parte integrante del corpo umano, un flusso elaborato di informazioni da e verso la natura circostante. Si capisce che ciò si presta anche a metafisiche più sofisticate, ma dal nostro punto di vista rimane acquisito il fatto che anche la borghesia ha dovuto infine registrare che non siamo noi individui a pensare con il nostro cervello, ma che è la natura a pensare con un insieme di strumenti che si è data attraverso i processi evolutivi della materia.
L'aggregazione primordiale di atomi in molecole, poi in organismi cellulari, poi in sistemi più complessi ha percorso la via dei "quanti", fino a una complessità sufficiente da trasformare quantità in qualità, fino alla organizzazione della materia portata al punto di percepire i "quali". Per dirla con termini presi a prestito da Edelman, oggi la specifica materia-uomo-società non ha nessun problema sia nel costruire computer numerici (quanta) sia nell'evolvere secondo i suoi propri caratteri mutanti e scattare da un livello sociale all'altro (qualia).
… e la società-cervello
Con il lavoro, la produzione e l'interazione sociale finalizzata l'uomo accelera enormemente la propria marcia, al punto di evolvere molto più velocemente sul piano della società e relegare in second'ordine l'ominazione sul piano biologico. Infatti l'evoluzione sociale si misura oggi da un decennio all'altro, e non ha più alcun senso metterla in parallelo con quella biologica che ha bisogno di milioni di anni. L'uomo-industria è una realtà che rende ormai percettibile una sola evoluzione, quella esterna al corpo, quella del general intellect ricordato da Marx.
Il caso del manufatto bifacciale è cristallino: la concentrazione intensa e le operazioni complesse necessarie per la sua costruzione hanno contribuito ad affinare la sensibilità della mano, a "fabbricarne" il sistema nervoso in collegamento con il cervello e quindi a strutturare il cervello stesso con la formazione di nuove aree specializzate. Per esempio l'area di Broca, specifica per il linguaggio, della quale si è visto lo sviluppo attraverso i fossili. Se si forma della materia corticale dedicata al linguaggio in un ominide che ha ancora la laringe situata in alto e quindi è anatomicamente incapace di parlare, ciò significa che la produzione materiale è nello stesso tempo linguaggio, che l'uomo non è tanto ciò che mangia, come si dice, quanto soprattutto ciò che fa, ciò che produce producendo sé stesso. Haeckel ed Engels non disponevano certo delle conoscenze odierne sui reperti fossili, sugli strati archeologici, sulla datazione, e non potevano ricostruire al computer fasci muscolari, cervelli, fattezze esteriori e modelli sociali, ci arrivarono con la potenza dell'indagine dialettica (insieme delle relazioni): oggi il paleontologo ha mezzi infinitamente superiori a disposizione, ma ha perso capacità d'indagine, avendo subìto più dei suoi predecessori l'influenza del Capitale. Lo scopritore di australopitecus afarensis (Lucy) ad esempio, non riusciva a credere che un ominide con cranio così arcaico, addirittura con abitudini ancora arboricole, avesse gambe così moderne:
"Lucy sconvolse totalmente la nostra mente, non c'è altro modo di descrivere l'effetto che causò… Quando le ossa scarseggiano le speculazioni possono essere audaci fin che si vuole, nessuno potrà mai contraddirle… Tutte le precedenti congetture circa la presenza o l'assenza di locomozione bipede furono troncate. Perché qui c'era una creaturina con il cervello come quello di una scimmia antropomorfa e un bacino e ossa delle gambe quasi identiche a quelle degli esseri umani moderni… Gli ominidi avevano camminato eretti tre milioni di anni prima di Cristo. Cosa ancor più sorprendente, essi camminavano eretti prima che il loro cervello incominciasse ad ingrandirsi… Negli anni Sessanta si argomentava con molta persuasività che l'uso di utensili e lo sviluppo del cervello avevano preceduto la locomozione bipede e che probabilmente erano stati i fattori responsabili di essa. Lucy distruggeva questa tesi. Mi sorpresi a domandarmi quale altra l'avrebbe sostituita" (Donald Johanson, Lucy - Le origini dell'umanità, sottolineatura dell'autore).
Oggi l'evoluzione a-gradualistica dimostrata da Lucy e da ricerche successive (che hanno retrocesso a 3,7 milioni di anni fa l'origine di australopitecus afarensis) viene chiamata "a mosaico", un po' come se l'evoluzione completa del corpo fosse raggiunta mediante "tessere" separate, che spiegherebbero i salti evolutivi e quindi la contraddizione fra il cranio e il resto dello scheletro. Per noi la contraddizione non c'è: quelle "tessere", almeno per l'uomo, furono il risultato della tecnica, o meglio, dell’industria come sua condizione fondamentale di esistenza, come sua vera natura di specie. Questa evidenza era persino passata nel mito: Prometeo ("colui che vede in anticipo"), così chiamato da sua madre Gea (la Madre Terra), aveva offerto all'uomo la scienza e il fuoco affinché egli si trasformasse "da bambino a essere razionale, padrone della propria mente". La scienza aveva permesso di agire in un mondo in evoluzione, che si era reso cosciente delle differenze fra il prima e il dopo; non più quindi sotto il segno di un tempo circolare sempre uguale a sé stesso come quello degli dei eterni ma di un tempo in divenire, come sono in divenire gli uomini, perché il presente non è che un passaggio in cui si manifesta "la memoria di tutto, operosa madre delle tecniche". Ed esse erano più potenti dei fulmini e dei tuoni di Zeus, un dio ottuso che non si era reso conto del segreto tremendo, della capacità che esse avevano riposto nelle mani dell'uomo, quella di progettare, di vedere il futuro prima che si fosse realizzato, addirittura di farlo.
La tecnica non è solo capacità di costruire o progettare oggetti, è anche l'insieme di conoscenze, strumenti e strutture che incominciano a funzionare come protesi amplificatrici delle capacità umane (dal sasso scheggiato che sostituisce artigli e zanne sino ai mezzi di comunicazione che amplificano la capacità di movimento dei corpi e quella di trasmettere informazioni a distanza). Il linguaggio allora non è solo comunicazione, e neppure solo impalpabile mezzo di produzione, ma è il tramite di tutta l'attività dell'uomo nuovo, dell'uomo-industria, una specie di organo umano che si è evoluto al di fuori del corpo, che collega i corpi in una rete inestricabile di relazioni. È stata recentemente scoperta una specifica attività del cervello nei momenti in cui gli uomini entrano in relazione tra loro: un individuo sa esattamente che cosa sta facendo un suo simile ed è in grado di prevederne il comportamento perché l'azione percepita mette in moto un'attività cerebrale simmetrica, come se in chi osserva un dato comportamento si riproducesse la stessa attività neuronale dell'osservato in azione. Ora, se le azioni degli "altri" muovono in noi le stesse parti di cervello, quelle che ci mettono in grado di riprodurre virtualmente il loro comportamento prima che si manifesti, è evidente che siamo di fronte a un fenomeno fondamentale per capire le relazioni sociali dal punto di vista biologico (agli alti livelli di alcune arti marziali si coltivano sensibilità ritenute esoteriche ma che sono probabilmente dovute a meccanismi di questo tipo).
Attribuire un'intenzione, è entrare nella dinamica del comportamento futuro, sia del prossimo che di noi stessi. Ed è un qualcosa che avviene a livello di cellule collegate in rete fra loro, attivate a distanza (vista, udito). Ma come si è potuta sviluppare tale capacità se non in relazione con altri sulla base della ripetizione di gesti, comportamenti, linguaggio? Nulla ci impedisce di pensare che l'azione reciproca tra il cervello sociale e quello del singolo sia della medesima natura evolutiva della relazione fra il sasso bifacciale, la mano e il cervello. Probabilmente anche un gatto che acchiappa un topo mette in moto meccanismi simili, ma è certo che la caccia coordinata di venti uomini è altra cosa, come del resto una partita di calcio e, ovviamente, una fabbrica con ventimila operai.
Lo specifico sviluppo accelerato dell'uomo non poteva che portare allo sviluppo "esterno" di organi e capacità. La memoria individuale diventa collettiva con la parola, la scrittura e adesso la rete informatica. L’aspetto invariante di questi strumenti è che tutti sono prodotto del lavoro e tutti servono per svolgere lavoro. Se paragoniamo il braccio di una ruspa alla mano umana è evidente che anche l'organo meccanico, questa protesi potente, ha avuto bisogno di una memoria sociale per essere prodotta. Il computer e la Rete non sono altro che uno degli ultimi risultati della proiezione all'esterno dell'attività intellettiva umana, e la loro natura non differisce da quella di una pietra bifacciale con relativo movimento di neuroni in chi la fabbrica e la usa con altri (cfr. Il cervello sociale). Fissare il pensiero su carta o altro qualunque supporto significa trasferire il "contenuto" del cervello e metterlo a disposizione della comunità, significa produrre informazione che può essere trasmessa anche ai posteri, eliminando il passaggio da individuo a individuo, quindi annullando il tempo e lo spazio.
Il cyborg, paradigma marxiano
Per l'uomo la produzione di strumenti e manufatti in genere, cioè la scienza, la tecnica e la loro applicazione, non costituisce dunque l'accessorio esterno di un essere già completo ma piuttosto il completamento della sua struttura incompleta, imperfetta. Si può dire che egli diventa uomo solo nel momento in cui si avvale della tecnica. Se dal punto di vista genetico e istintuale l'uomo è limitato, l'industria, attraverso cui si esprime il lavoro, diventa necessariamente
"la condizione dell’esistenza degli uomini indipendentemente da tutte le forme di società, è una necessità eterna della natura, per mediare il ricambio organico tra uomo e natura, cioè la vita degli uomini" (Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo I).
Questo, come abbiamo visto, fu addirittura il punto di partenza dell'intera costruzione teoretica di Marx, che critica da subito una visione puramente strumentale e utilitaristica dell'industria:
"La storia dell'industria sino ad oggi è stata intesa non nella sua connessione con l'essere dell'uomo ma sempre e soltanto in una relazione esteriore di utilità". Al contrario, l'industria va intesa come "rivelazione essoterica delle forze essenziali dell'uomo" (Manoscritti).
Qui è già ben presente il fatto che l'industria non è un fattore accessorio allo sviluppo dell'uomo, è anzi connaturato ad esso, un elemento indispensabile non solo per il suo sviluppo ma per la sua stessa esistenza. Perciò la separazione tra scienza della natura e scienza della società è un completo non-senso. Se esiste una sola scienza, che è storia del divenire della natura, allora "la storia della natura e la storia degli uomini si condizionano reciprocamente" (Ideologia tedesca). Attraverso il lavoro l’uomo umanizza la natura e allo stesso tempo procede alla propria naturalizzazione facendo coincidere umanesimo e naturalismo. È su questa base che Marx imposta tutta la sua critica alle opposizioni e ai dualismi tipici della filosofia: l'uomo e la natura, lo spirito e la materia, l'anima e il corpo, il soggetto e l'oggetto, ecc. Lo "spirito umano" non è un fattore indipendente dalla vita reale degli uomini: siccome il lavoro è la condizione indispensabile della loro esistenza, l’anima, la ragione, l’intelletto sono prodotti derivati che possono essere studiati solo attraverso la dinamica storica della produzione materiale. In altre parole l'uomo non può essere considerato indipendentemente dal suo porsi in relazione con la natura attraverso l'industria.
In effetti, le società molto antiche, pre-classiste, ebbero un simile approccio all'antropologia; esse non separavano la vita dal lavoro, dalla conoscenza e dalla tecnica. Con le società di classe poco per volta la separazione fra gli uomini si rifletté nella separazione fra i rami della conoscenza e delle attività pratiche (divisione sociale e tecnica del lavoro); si perse l'approccio globale alla conoscenza (anche se sopravvissero in alcuni casi la vastità del sapere e la capacità di relazioni generalizzanti), per giungere all'epoca attuale, in cui è scomparso ogni residuo di scienza che non separi l'uomo dall'industria (esclusi ovviamente i militi della nuova forma sociale come per esempio Marx ed Engels). Solo a partire dagli anni '50 si incomincia a considerare il lavoro dell'uomo come parte integrante della natura umana e a riprendere in modo ragionato l'evidenza neotenica della nostra specie in quanto fattore scatenante di sviluppi integrati fra evoluzione biologica e sviluppo tecnico-strumentale (cfr. ad esempio l'opera di Norbert Wiener).
Ormai chi opera ancora una separazione tra l'uomo e la sua strumentazione, senza ammettere che quest'ultima è solo un'esteriorizzazione del corpo biologico, si colloca nelle sfere della mistica e della religione. È significativo invece che l'approccio integrato all'antropologia sia stato portato avanti contemporaneamente da diversi autori in ricerche indipendenti tra loro. Come dire che la borghesia ha clamorosamente capitolato di fronte alla conoscenza comunista, mossa da potenti fatti materiali. Per esempio dalla complessità raggiunta da un sistema sociale ormai posto di fronte alla necessità rivoluzionaria di scattare a un livello superiore.
Da André Leroi-Gouhran a Thomas Kuhn, dai ricercatori di Palo Alto (informatica) a quelli di Santa Fe (complessità), dalla cosmologia alla letteratura di fantascienza, è tutto un morire e fiorire di paradigmi scientifici intorno alla natura dell'uomo-industria. Negli anni '60 vi furono le allucinanti anticipazioni di Philip Dick, basate sulla mera proiezione delle realizzazioni capitalistiche in un qualche futuro. La serie Star Trek non poté fare a meno di introdurre popoli galattici dai caratteri ultra-tecnologici e non-capitalistici (come i Borg, una specie bionicamente potenziata i cui individui sono cellule di un cervello collettivo). Negli anni '80, sulla stessa base, un ramo della sovrastruttura ideologico-letteraria prese la forma del movimento cyberpunk. Il nome fu alquanto inappropriato rispetto alle sue determinanti reali, ma nel suo ambito nacque la figura del cyborg (cybernetic organism), un ibrido biotecnologico non solo nel senso che il corpo umano con l'impianto di strutture "artificiali" fu trasformato in una specie di semi-macchina, ma nel senso più ampio di reale proiezione esteriore dell'intera dotazione tecnica umana. Per cui persino la facoltà di pensare sfumò tra uomo e macchina, anzi, entro il complesso macchinista integrato che si autonomizzava contro gli umani (che William Gibson avesse letto i Grundrisse prima di scrivere Neuromante?).
L'uomo e la mente estesa
Significativamente, in parallelo ai fenomeni di sincretismo fra scienze e arte, fra uomo e macchina, si sviluppò il concetto di "mente estesa" (Gregory Bateson), mente che dovrebbe essere l'insieme delle relazioni fra gli organismi e il loro ambiente, il quale a sua volta si estende all'intera biosfera, la quale prende l'energia dal Sole, e così via. Che cosa è questo strano concetto che, pur prendendo il nome da una delle più pure categorie metafisiche (mente) è collocabile a pieno diritto nel grande filone materialistico? Per descriverlo non possiamo fare a meno di ricorrere a un déja vu:
- è un insieme di parti interagenti;
- l'interazione fra le parti è attivata dalla loro differenza;
- l'interazione è dovuta a catene di determinazione circolari;
- affinché tutto ciò avvenga, dev'essere immessa energia;
- ogni differenza è un invariante trasformato di ciò che precede;
- ogni trasformazione può essere descritta solo con livelli di tipi logici coerenti con i fenomeni soggiacenti.
Non è qui il caso di fare uno studio "marxista" su questi sei punti; basti notare che il senso di déja vu è provocato dalla loro straordinaria somiglianza al programma di lavoro che Marx si dette per l'intera sua opera, purtroppo incompiuta, di critica al Capitale, della sua negazione per affermare la società futura: si provi a scrivere "Capitale" al posto di "mente" e si vedrà che siamo di fronte a un sotto-insieme (Capitale) dalle stesse caratteristiche, negate, dell'insieme (natura, mente). Notare in particolar modo i punti 5-6) cioè lo scatto da n a n+1 secondo categorie invarianti che passano trasformate al livello superiore.
Secondo Bateson, da cui abbiamo ripreso l'elenco semplificandolo un po', si può parlare di vita, evoluzione, apprendimento, ecologia, pensiero e simili solo quando si è di fronte a sistemi che soddisfano tutti e sei i punti. Ora, se facciamo attenzione, vediamo che tutti i punti sono perfettamente coerenti sia con l'insieme logico homo sapiens e tutta la sua tecnologia, sia con l'altro insieme, ben più vasto, natura-uomo-industria. Ma separare l'uno dall'altro è sbagliato, si incorre in un errore logico, perché non si tratta di due fenomeni, bensì di un fenomeno all'interno dell'altro. L'insieme più vasto natura comprende l'insieme parziale homo. Il contrario (idealismo, uomo re del creato, ecc.) non si può fare, i livelli logici non lo permettono e le determinazioni concatenate (relazioni, dialettica) nemmeno. Il cyborg è dunque l'ultimo anello della catena deterministica di trasformazioni, dal livello inferiore a quello superiore, un tipo di catena valida per l'uomo, che passa dall'australopitecus al sapiens; per la società, che passa dalla caccia alle reti informatiche; per l'industria, che passa dalla selce scheggiata alla centralizzazione delle multinazionali; e per la natura, che passa da un pianeta rovente, avvolto di metano, ai primi microrganismi, alla produzione di ossigeno e alla biosfera che comprende la nostra specie.
La mente estesa, se la riferiamo solo alla specie umana, non è l'insieme degli organi biologici e di quelli tecnologici gli uni accanto agli altri (contiguità), ma l'insieme integrato con l'ambiente antropomorfizzato così delle metropoli come delle campagne (continuità). Su tale concetto si è basato un altro ricercatore, Andy Clark, che ha coniato il termine di "natural born cyborg" per definire l'uomo, il quale non è concepibile al di fuori del suo contesto tecnologico, l'industria – sia essa della pietra o del microprocessore – ancora una volta considerata come natura antropologica (alla Marx). E non ha nessuna importanza se gli ormai numerosi Clark e Bateson, giunti a risultati coerenti con il processo rivoluzionario, dicono e scrivono individualmente sciocchezze idealistiche, in contraddizione con sé stessi.
Tra l'altro, da questo punto di vista dev'essere integrato nel discorso sull'uomo-industria anche quello sull'arte, per millenni non distinta dalle altre attività umane e invece da un paio secoli separata, fatta vivere in un suo mondo a parte, estrema contraddizione di una società che assomma la vitalità del cervello globale alla mortifera persistenza della proprietà locale, privata. Se l'industria è la natura antropologica dell'uomo, tutta la produzione artistica non è qualitativamente diversa. Tant'è che le società antiche usavano lo stesso termine per indicare il complesso della produzione umana, téchne per i Greci, ars (artis) per i latini, voce quest'ultima dall'etimologia complessa, risalente ad armus, articolazione del braccio (greco: harmòs), per cui, guarda caso, abbiamo arte, arto, armonia, arma, arnese.
Marx ci ricorda che non si può fare distinzione ideologica fra quelle che sono ancora le "forze essenziali dell'uomo" e un'industria creduta puramente strumentale, trattata con criteri di semplice relazione esteriore, utilitaristica in senso banale, perché industria e arte sono la stessa cosa, hanno partecipato come spinta unitaria alla formazione della nostra specie. Se si chiama industria un deposito di pietra scheggiata in una caverna è semplicemente ridicolo chiamare in altro modo, cioè arte, i dipinti che ne ornano le pareti, e religione le tracce di attività rituale che accompagnano entrambi. "Non esiste in realtà una cosa chiamata arte" diceva Ernst Gombrich. Tutta la cosiddetta storia dell'arte dimostra che nelle società arcaiche (e in larga misura in quelle classiche), non vi era assolutamente separazione fra aspetti diversi della produzione sociale. L'intera produzione "artistica" delle società antiche in realtà non era considerata tale, con il significato odierno, ma espressione corrente dell'industria contemporanea, espressione della natura umana. È curioso notare come la natura si vendichi spietatamente delle sbruffonate "artistiche" dell'uomo capitalistico: proprio all'apice del culto dell'individuo "artista" la presunta arte oggi adopera materiali dell'industria, mentre la stessa industria (nel senso di fabbrica) diventa "arte" se disegnata da un architetto famoso. Ma non c'è nessuna differenza fra il motore che esce nuovo di fabbrica e quello prelevato dal demolitore e collocato su di un piedistallo dallo "scultore" pop. Senza contare che nei musei di arte moderna si espongono oggetti di uso comune, come cavatappi, stoviglie, poltrone e lampadari.
Come fa notare Leroi-Gourhan, la cosiddetta arte ha solo 50.000 anni, 15.000 se consideriamo raffigurazioni complesse, meno di 200 se l'intendiamo come merce, mentre l'industria ha almeno 4 milioni di anni, cioè l'età degli ominidi. Quindi la vera divisione è nel passaggio dall'industria umana alla merce, non dalla tecnica all'arte. Il complesso di relazioni che definisce la mente estesa ci permette (o ci obbliga, che in scienza è lo stesso) di vedere con molta chiarezza lo sviluppo dell'uomo-industria come generale co-evoluzione di tutte le componenti della natura, comprese tutte le manifestazioni del lavoro umano. Il percorso è lacerato da traumi e punteggiato di accelerazioni, eventi sui quali l'uomo ha costruito più o meno arbitrariamente la propria storia scritta, ma in nessun modo si giustifica la separazione fra vita e lavoro, fra industria e arte, fra uomo e natura.
La vita dell'uomo è "arte"
A parte gli attributi idealistici moderni, si è sempre definito arte un qualcosa che si contrappone a natura, che non si trova nell'ambiente, che è prodotto specifico dell'uomo. Abbiamo visto che questa definizione è parziale, antropocentrica, perché l'uomo stesso è arte della natura; abbiamo anche visto che è recente, dato che l'uomo si è sempre sentito parte della natura molto più di quanto oggi si sia disposti a credere. La separazione tra arte e industria si sviluppa quando prende piede la produzione manifatturiera e in serie, a partire dal Rinascimento. Allora, al predominio delle relazioni naturali uomo-natura e della qualità d’uso (preferiamo utilizzare valore d'uso solo quando vi sia confronto con il valore di scambio) subentra quello dello scambio e del denaro. Attraverso questa separazione l'industria "perde" il suo carattere artistico.
Solo nel '900, con il maturare delle condizioni rivoluzionarie per il salto in una società nuova, l'uomo ha incominciato a riavvicinare i "due" aspetti dell'attività umana. Non è un caso che, in parallelo alla rivoluzione d'inizio '900 in Europa, vi sia stata la gigantesca rottura degli schemi artistici precedenti, fino alla teorizzazione (e in parte realizzazione) della necessità di fondere vita, produzione e arte. In Russia c'era già stata prima della guerra 1914-18 una polemica fra coloro che volevano trasportare le opere d'arte nei musei e coloro che volevano lasciarle negli ambienti per i quali erano nate, senza sradicarle dal contesto di cui erano parte integrante. Al culmine del processo rivoluzionario questo timido concetto venne completamente superato dall'effettivo movimento di massa che eliminava la differenza fra l'arte e l'industria, fra la vita e la sua rappresentazione (pittorica, teatrale, letteraria, cinematografica, urbanistica, ecc.). L'uomo provava a ricomporre la propria umanità alienata sotto le insegne di ciò che fu chiamato futurismo, costruzionismo, suprematismo, correnti ancora separate che però accennavano già a una nuova concezione unitaria dell'esistenza (anche il futurismo, il dadaismo, il surrealismo nati negli altri paesi ebbero sprazzi di critica radicale all'esistente, anche se non poterono essere fecondati dalla rivoluzione in modo immediato e diretto).
Con la vittoria della controrivoluzione, l'approccio alla nuova umanità, a quell'antropologia che Marx aveva tracciato nei Manoscritti, venne messo in ombra e anche la critica sociale che vi era implicita si dileguò, non tanto sotto l'attacco congiunto di fascismo e stalinismo contro l'arte "degenerata", quanto nel proseguimento del processo di individualizzazione e di mercificazione che il tentativo rivoluzionario aveva soltanto intaccato. Alla sconfitta del movimento rivoluzionario del proletariato si accompagnò, nonostante tutto, l'affermarsi ancor più stringente della rivoluzione materiale, rappresentata dallo sviluppo della forza produttiva sociale. Fu inevitabile il risorgere degli stessi problemi con altre forme, con più forza ancora, questa volta sotto l'aspetto della ricerca scientifica e dell'automazione macchinista (cioè due delle forme di arte-vita dell'uomo).
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, seguendo criteri apparentemente lontani tra loro, in paesi diversi, ricercatori che non si conoscevano neppure per sentito dire, giunsero quasi contemporaneamente in tutto il mondo a studiare i fenomeni legati alla complessità delle relazioni entro le categorie della natura. Prima con la teoria dell'informazione, poi con i problemi connessi all'intelligenza artificiale e la robotica, infine con l'ingegneria genetica e le neuroscienze. Ci vuole poco a capire che si tratta di rami della conoscenza che hanno effetti pratici sulla forza produttiva sociale e quindi sono rivolti quasi esclusivamente a continuare l'opera di evoluzione dell'uomo al di fuori del proprio guscio biologico. Va da sé che, lasciati in mano alla classe capitalistica, sono armi di potenza smisurata in grado di estinguere l'umanità più che di farla evolvere, ma ciò non autorizza affatto il primitivista a strillare genericamente contro la tecnica e a vagheggiare il mondo perduto di Falco Nero e delle incontaminate praterie.
Gli strumenti scientifici, tecnici e artistici non sono più mere proiezioni esterne del corpo umano, compresa la mente, ma organi umani tout court. La letteratura fantascientifica ci offre scenari onirici di organismi cibernetici e società ibride fra macchine e uomini, ma comunque al di sotto della realtà potenziale già sviluppata nel presente. Ovviamente tali produzioni letterarie non sono che una rappresentazione orripilante del presente nel futuro, e non può essere altrimenti per un'arte che ha le sue radici direttamente nel sistema di macchine capitalistico, di cui l'uomo è una mera appendice. Tolto il lato horror e in un certo senso magico-malefico mutuato da una realtà insopportabile, l'ibridazione dell'uomo con il suo apparato tecnologico non è nuova, essendo già avvenuta da tre o quattro milioni di anni. Lasciate da parte le sciocchezze primitiviste sull'auto-domesticazione umana, fu un fatto positivo, rivoluzionario, che continua tuttora con ben altri mezzi, comprese le demonizzate biotecnologie, nient'altro che riproduzioni "artistiche" di ciò che la natura fa da un miliardo di anni e più. Togliere la conoscenza dalle grinfie del Capitale, questo è il vero problema.
Il rovesciamento della prassi
In critica a quanto affermato finora, ci si potrebbe obiettare che l'intera ominazione fino ad oggi, sviluppatasi non solo come integrazione fra l'individuo e la società, ma anche fra il suo essere biologico e la tecnologia, sia giunta a un punto di rottura, dato che nel frattempo quest'ultima è diventata una mostruosità resasi autonoma, in grado di dominare la nostra specie, di sottometterla al proprio sviluppo ormai fine a sé stesso.
Se infatti non si precisasse il rapporto tra l'attuale dominio totalizzante del Capitale e la maturazione estremamente contraddittoria delle condizioni per il salto a una società nuova, si rischierebbe di fermarci ad una esaltazione del Capitale in quanto motore della prossima epoca storica. L'apologia della crescente forza produttiva sociale è parte del programma comunista, perché il capitalismo è la base della prossima società, e ne abbiamo una potente dimostrazione nel Manifesto. Ma è certo solo una mezza verità, che presa da sola non vale assolutamente niente. L'altra metà è che lo stesso capitalismo produce la sua antitesi. Ora, questa antitesi affossatrice della vecchia società è sempre stata identificata con il proletariato e con il suo partito. Altra mezza verità che non vale niente se non si specifica che per partito non s'intende semplicemente un'organizzazione fatta di proletari e che per proletariato non si intende una classe in senso statistico; concetto che abbiamo sottolineato nel capitoletto "Il cervello-società" a proposito della specie. Se infatti riprendiamo il passo e sostituiamo specie con classe scriveremo: "La classe ci appare sotto l'aspetto dialettico di un doppio modo di essere: da un parte come identità, in un dato periodo, di tutti gli individui intesi statisticamente; dall'altra come insieme vitale e variante, caotico e provvisorio, che possiede potenziali evolutivi costantemente sottoposti all'azione dell'ambiente".
Avevamo citato anche Edelman, il quale afferma che la coscienza, cioè il modo di essere umani di noi primati un po' speciali e promettenti, si è formata in un processo e continua ad essere un processo, non è una cosa, né un'anima immateriale, né un pezzo di cervello, un insieme di neuroni, un grosso grumo di cellule dedicate. Guarda caso Marx utilizza la stessa espressione per mettere in guardia chi intendesse per Capitale una cosa e non un processo (esattamente: valore in processo, che non è certo un oggetto materiale, anche se la sua definizione è risultato del metodo materialistico). Ma allora anche gli insiemi interni della specie, come la classe e il partito non possono essere cose ma processi. Infatti i grandi rivoluzionari hanno sempre trattato questi aspetti sociali considerandoli nella loro dinamica storica, mai come fatti contingenti, fotografati durante lo sciopero tale dei proletari o il congresso talaltro dei politici.
Solo così si può capire come potrà mai, una classe che "pensa" esattamente come i borghesi (e anche peggio dal punto di vista della conservazione dell'esistente, affossare il capitalismo; come potrà mai questa classe esprimere una sua comunità-partito in grado di compiere l'immane impresa di rovesciare la prassi corrente e di indirizzare tutta la forza produttiva sociale a far sì che venga ribaltata l'attuale sottomissione dell'uomo al Capitale e alla sua tecnologia; di rovesciare l'intera psiche umana tarlata dall'ideologia del valore, dalla perpetuazione della propria schiavitù.
Abbiamo visto che quando la società era meno fetente di quella odierna psyché significava "ciò che muove la natura". Ora dobbiamo aggiungere che téchne significava "essere padrone del proprio pensiero". L'uomo non avrebbe mai potuto rovesciare la prassi, cioè diventare progettista del proprio futuro, senza essere padrone del proprio pensiero, se non avesse smesso di essere ape per diventare architetto, a cominciare dal primo chopper raccolto già scheggiato in un fiume e poi riprodotto:
"L'uomo non può fare nella sua prima prova un'ottima ascia di pietra o uno schifo. Egli deve imparare con la pratica a compiere la propria opera, mentre un castoro può fare la sua diga e un uccello il suo nido tanto bene la prima volta quanto se fosse vecchio e pieno di esperienza" (Darwin, Origine dell'uomo).
L'uomo impara ad essere padrone dei propri mezzi, a progettare e, appunto, a rovesciare la prassi, cioè antivedere il risultato. E la si può certo rovesciare con pochi mezzi, come dimostrano le grandi realizzazioni monumentali di alcune grandissime civiltà del passato. Vuol dire che farlo con i mezzi resi disponibili dall'immensa forza produttiva sociale di oggi ci aiuterà anche a fare a meno di troppi mezzi, a raggiungere, attraverso la tecnologia, il pieno controllo umano sulle nostre risorse, al limite a farne volontariamente a meno. Altro che primitivismo.
Noi abbiamo depositato nella memoria dell'esperienza, come esempi negativi, le iconografie e le liturgie di quella che riteniamo essere diventata una specie di religione per gran parte del XX secolo. La visione di una società utopistica basata sulla morale del "bene dell'umanità", conseguito attraverso la lotta di una classe operaia santificata e della sua chiesa-partito non ci appartiene, fa parte della pre-storia della specie homo. Riteniamo che quella visione, di fronte a ciò che sarebbe utile e a ciò che lo stesso capitalismo ci sta preparando, sia addirittura ridicola (cfr., oltre ai classici, la nostra serie di studi su quello che abbiamo chiamato "programma rivoluzionario immediato come manifesto politico"). È un mondo che ancora sopravvive come uno zombie, assolutamente cieco di fronte al cyborg globale, un mondo legato al passato, che nella vera umanità dell'uomo-industria percepisce solo la massima disumanizzazione tecnologica, cioè quella mezza verità che di per sé non vale niente.
Finalismo materialista
Leroi-Gouhran, nel suo libro Il gesto e la parola sul processo evolutivo dell'uomo come essere biologico e nello stesso tempo industriale, si pone il problema della compatibilità fra queste due parti sdoppiate della stessa natura umana. È chiaro che per l'autore l'evoluzione attuale dell'uomo avviene ormai all' "esterno" del suo corpo, ma è anche chiaro che essa ha in qualche modo preso il sopravvento e rischia di schiacciare l'uomo come un apprendista stregone non più in grado di controllare le forze che egli stesso ha imprudentemente evocato. C'è in questa osservazione lo stesso contenuto che c'è in Marx quando parla dell'autonomizzazione del Capitale e (l'accostamento sembra provocatorio ma è del tutto razionale) in molta science fiction quando produce film come Terminator o Matrix, dove le macchine (o meglio: i "risultati del processo di produzione immediato") prendono il sopravvento sull'uomo. È lo stesso substrato materiale che fa scrivere a filosofi come Severino o a psico-filosofi come Galimberti i loro saggi contro il dominio della tecnica.
Nei Manoscritti il problema è analizzato dal punto di vista dinamico: l'industria era umana, è inumana, sarà nuovamente umana ad un livello superiore. Per giungere al livello superiore (n+1) si è dovuti passare dai precedenti (n-1 e n). Stando fissi in n come dei fotografi dilettanti si vede nel rapporto uomo-industria una semplice relazione esteriore di utilità (come l'uomo ha prodotto la scheggia litica per cacciare, adesso produce l'automobile per viaggiare). Ma togliamo la produzione estraniata e abbiamo immediatamente un processo non solo produttivo, bensì sociale, storico; una dinamica di cambiamento (l'uomo ha già prodotto, in una società senza classi, in modo umano, e così potrà produrre in futuro, beneficiando dello sviluppo nel frattempo avvenuto). L'effetto Matrix è dovuto esclusivamente all'estraniazione dell'uomo rispetto al suo prodotto (comprese le macchine, le metropoli e le reti infrastrutturali). Rovesciata la prassi nell'intera società come la si rovescia oggi nella produzione, ecco che l'uomo reintegra in sé il suo prodotto, si riumanizza riumanizzando ciò che ora lo rende schiavo.
Pur trattandosi della stessa macchina, in Terminator il cyborg era "cattivo" e asservito al potere, nel sequel era "buono" e rivoluzionario: persino Hollywood sa dunque che la macchina di per sé obbedisce al sistema che l'adopera. Non arriva invece a immaginare che non di semplice individuo-macchina si tratta, separato dall'uomo ma che l'insieme è indissolubile. Per questo noi usiamo il termine uomo-industria, che ricorda l'uomo globale mentre cyborg o uomo-macchina si ferma all'individuo. Curiosamente e significativamente il soldato iper-tecnologco degli eserciti moderni, quello che si vede in giro per Baghdad imbottito di aggeggi elettronici è, in confronto ai vari cyborg alla Robocop, più un uomo-industria che un individuo-macchina. A differenza dei suoi omologhi hollywoodiani non potrebbe sopravvivere un minuto sul campo di battaglia se non fosse una cellula dell'intera società capitalistica (nel caso specifico, il suo centro nervoso è non tanto a Washington quanto nelle sale operative computerizzate e segrete di Tampa, in Florida).
Tutta la rete di attrezzature umane che copre la Terra soggiace agli stessi criteri di analisi. Non è un'entità separata, è una gigantesca estensione che il cervello della nostra specie in evoluzione si è data. Il rovesciamento della prassi ci permette di finalizzare il futuro, quindi la nostra specie deve "soltanto" fare il salto ad una forma sociale che permetta di finalizzarlo non per il Capitale ma per le sue proprie esigenze.
Nel nostro lavoro abbiamo sempre dato molta importanza a puntare il detector là dove le capitolazioni della borghesia di fronte al marxismo si fanno più evidenti. Qualcuno ci rimprovera di fare eccessiva apologia di questo movimento reale entro la classe avversaria, di sopravvalutarlo rispetto ai problemi della classe, con il suo sindacato, le sue rivendicazioni, i suoi partiti più o meno opportunisti. Di non pensare insomma a che cosa si possa fare di concreto per demolire questa società. Non produrremo "prove" di attività di fronte al tribunale dei curiosi e dei chiacchieroni. Ma, come l'operaio lotta in modo anonimo, confuso entro la massa dei suoi compagni, per obiettivi che ognuno crede contingenti e invece fanno parte della generale lotta di classe, così anche il non proletario, addirittura il borghese, può partecipare inconsciamente al generale movimento verso la società futura. È un risultato evidente del movimento reale. Ogni passo del processo materiale verso la società futura, ogni apporto alla conoscenza che demolisca i miti dell'ideologia borghese schiera di fatto il suo portavoce fra i militi della rivoluzione comunista. Si tratta di uno dei temi più affascinanti del nostro patrimonio teorico e l'abbiamo affrontato per esempio in Militanti delle rivoluzioni, più di dieci anni fa. È anche il significato autentico dell'esclamazione di Marx: "Ben scavato vecchia talpa!"
Questa è una società che, pur esaltando continuamente lo sviluppo delle forze produttive, evidenzia nel contempo sempre più chiaramente la sua inadeguatezza a governarlo. Al suo interno agiscono individui e classi separati sia dalla divisione sociale del lavoro che dalla proprietà, in un contesto dove il prodotto del lavoro sociale diventa proprietà privata. Ora tale contesto ha origini materiali fin che si vuole, ed ha effetti altrettanto materiali, ma chiunque capisce che è anche un immane fatto politico fondato ormai sul niente, che basta eliminarlo per essere catapultati in un'altra epoca. E il linguaggio ovviamente ne soffre: il termine "dispotismo di fabbrica" è nel nostro vocabolario, ma si riferisce alla società di oggi, non a una caratteristica immanente della fabbrica. Si dice che la fabbrica produce merci ed è su di essa che vive il capitalismo. È vero e falso nello stesso tempo: oggi la fabbrica produce merci di sicuro, ma esse lo diventano solo quando come prodotto compaiono sul mercato, si confrontano con la proprietà e rispondono all'unico fine di valorizzare il Capitale; lungo tutto il processo produttivo avanzano dei semilavorati cui si aggiungono altri semilavorati senza che intervengano mai segni di valore.
Ma proviamo a ragionare su "merci" meno discretizzabili dei prodotti di una fabbrica. Che cos'è una rete ferroviaria? Una merce? Un mezzo di produzione? E che cosa produce, viaggi? Lo stesso vale per una rete stradale, navale, aerea, telefonica, televisiva, informatica, irrigua, bancaria, idraulica, fluviale, satellitare, ecc. Tutte "merci" che non si comprano e che si pagano per l'uso, in un rapporto che non è più di compra-vendita di un oggetto fisico bensì un continuum con la vita di tutti i giorni. Il nostro corpo sociale, evolutosi intorno al nostro corpo biologico non ha affatto bisogno, per esistere, del ticket, della bolletta, dell'abbonamento o che altro. Come si vede il termine "fabbrica" assume un significato più ampio non appena diventi più ampio il punto di vista. Allo stesso modo la parola composta "uomo-industria" di Marx diventa altra cosa rispetto all'immagine aberrante che ci offre questa società. La parola "proletariato" evoca allora una forza storica agente, non più un insieme di operai che si accasciano stanchi davanti al televisore, si ubriacano di fesserie e vanno a votare per il borghese che li sfrutta, pure contenti di essere presi in giro con la storia del diritto-dovere.
Siamo partiti con l'uomo che sviluppa le proprie capacità attraverso una debolezza biologica, la quale, tramite l'industria, si capovolge in vantaggio e lo porta nei millenni ad evolversi "esternamente" al corpo biologico. Di qui l'identità fra uomo-industria e specie umana, ma anche fra animale evoluto e specie "diversa", che sa immaginare e produrre i propri strumenti invece di raccoglierli in natura. Quando diciamo "rovesciare la prassi", dunque, significa non solo "progetto", ma anche realizzazione, modifica del corso degli eventi in modo da ottenere il futuro. Sono temi che coinvolgono ovviamente tutta la storia della filosofia (alla voce "finalismo"); ma proprio il reale svolgersi del processo elimina ogni parvenza mistica riconducendo il complesso dell'ominazione, compreso il percorso a venire, ad un coerente materialismo, capace di individuare complesse reti di relazioni e operarne di nuove. Perciò dialettico, non adulterato dall'ideologia.
Per Marx è l'intera natura a procedere verso l'uomo-industria, e con questa affermazione si è attirato da parte di alcuni la critica per "finalismo idealistico". Ricercatori borghesi non ottenebrati dalle dispute ideologiche confermano le catene deterministiche che portano alla organizzazione spontanea della materia senza che gli eventi cosiddetti casuali annullino la legge generale del determinismo. Kauffman nel suo libro A casa nell'universo ha dedicato all’argomento un capitolo intitolato "Noi i previsti", dove dimostra che le catene molecolari necessarie alla vita hanno un'altissima probabilità di formarsi spontaneamente dalla materia inerte, tanto da fargli dire che siamo il prodotto di eventi "pressoché inevitabili" e quindi sicuramente non gli unici in un Universo fatto tutto della stessa materia (cfr. il nostro articolo Principii di organizzazione). Nulla ci impedisce di affermare, allo stesso titolo, che anche il passaggio dal primate neotenico all'uomo è pressoché inevitabile, quindi inscritto nelle leggi di natura (oltre tutto, all'alto livello di organizzazione raggiunto da un primate, il passaggio all'evoluzione successiva è molto più "probabile" che non la formazione delle prime catene molecolari del vivente).
Non siamo di fronte a un ritorno delle teorie bergsoniane dell'evoluzione creatrice − e nemmeno di fronte alla creazione strisciante di Teilhard de Chardin, dove l'evoluzione della natura è determinata dal primo impulso divino (radici storiche delle attuali sciocchezze antidarwiniane sul "progetto intelligente") − bensì a un coerente insieme teoretico in grado di spiegarci la complessa vicenda che ci ha determinato come uomini. Parliamo quindi di uomo-industria non perché l'essere biologico "uomo" s'è dato delle protesi, per quanto potenti, con cui essere più forte, andare più veloce, sviluppare più potenza e organizzarsi in una società più complessa. Non è questa l'immagine che dobbiamo avere di noi stessi come specie. Marx non afferma che l'uomo è diventato industria, bensì che la natura è diventata industria attraverso l'uomo. Questa precisazione va fatta per evitare di ricadere in una visione antropocentrica del mondo. E avere una concezione più esatta, scientifica, della prossima evoluzione, anzi, di quella che stiamo vivendo e che chiamiamo rivoluzione.
Fenomenologia di Internet in quanto cervello sociale neotenico
Spunto da una conversazione fra anonimi smanettoni trovata sul Web
La Rete non è un prodotto-merce come gli altri. Anzi, contraddittoriamente, pur essendo sottomessa alla generale legge del valore, cioè al Capitale, si ribella a ogni tentativo di omologazione. Non scaturisce da esigenze economiche. È sfuggita all'apparato militare da cui è nata, ma anche alle accademie universitarie che la umiliavano come strumento elitario. Non proviene da un progetto scientifico secondo un qualche "paradigma" ma è diventata paradigma essa stessa. È un collage fra "pezzi" e "funzioni" telecom e informatiche, ma la sua vera natura è un'immane memoria dinamica al cui confronto l'hardware e il software non sono niente. È un cucciolo dell'homo sapiens (ha poco più di dieci anni oltre lo stadio fetale), quindi tremendamente fragile ma ditta già sulle sue decisioni. In quanto settore delle "nuove tecnologie" è fonte di gran parte della variazione del PIL globale ma è estremamente refrattaria alla legge del valore. Veicola la quasi totalità delle transazioni fra industrie (B2B, business to business, ovvero, secondo Marx: dominio del lavoro morto sul lavoro vivo) ma è solo un catalizzatore, non partecipa alla produzione materiale. È un mostro sociale che nessuno è ancora riuscito ad addomesticare e, scandalo degli scandali, non è proprietà di nessuno, si fa da sé, su standard propri.
La sua neotenìa è evidente. Non solo è cucciola: è anche debole, disarmata, infiltrabile, controllabile, violentabile, manovrabile. Chiunque può riempirla di scienza o di spazzatura, di bellezza o di obbrobrio. Può usarla il governo del paese più potente del mondo o un bambino per giocare. Anzi, è molto usata per giocare, dato che gioca soprattutto il tecnico smanettone che le dedica la sua vita (e il gioco è l'unica forma di attività umana nella società del valore).
Si evolve secondo il criterio degli "equilibri punteggiati", dato che la sua evoluzione graduale provoca salti ogni volta che l'uomo si appropria di una sua nuova funzione. Il suo codice genetico non può che essere la matrice di sviluppo di sé stesso ed è distribuito a bassissimo livello macchina con protocolli free, di pubblico dominio. S'infiltra dappertutto e ha un fattore di crescita che nessun fenomeno ha mai conosciuto nella storia dell'Universo (tolto il Big Bang, o la Creazione da parte di Yahveh, che fa lo stesso). Il mondo la costringe ad essere lo specchio delle sue nefandezze e tuttavia è già fonte di conoscenza più della Biblioteca di Alessandria.
È il prodotto del paese più ricco, corrotto, decadente, controrivoluzionario, e tuttavia nei paesi più poveri, dove cova la rabbia del mondo, ci sono baracchini di fortuna con l'insegna "Internet Point". E nessuno li potrà fermare.
Letture consigliate
- Bateson Gregory, Mente e natura, Adelphi, 1984.
- Bateson Gregory, Per un'ecologia della mente, Adelphi, 1976.
- Cameron James, Terminator 1, 1984 e Terminator 2, film, 1991.
- Clark Andy, Dare corpo alla mente, McGraw-Hill, 1999.
- Clegg Edward J., Homo sapiens. Introduzione alla biologia umana, Boringhieri, 1971.
- Darwin Charles, L'origine delle specie, Boringhieri, 1967.
- Darwin Charles, L'origine dell'uomo, Edizioni Barion, 1933.
- De Rosnay Joël, L'homme symbiotique. Éditions du Seuil, 2000.
- Dick Philip, Tutti i racconti. Le presenze invisibili, 4 voll., Mondadori, 1996.
- Edelman Gerald, Più grande del cielo, Einaudi, 2004.
- Engels Friedrich, Antidühring e Dialettica della Natura, Opere complete vol. XXV, Editori Riuniti, 1974.
- Gibson William, Neuromante, Editrice Nord, 1993.
- Gould Sthephen J., Questa idea della vita, Editori Riuniti, 1984.
- Kauffman Stuart, A casa nell'universo, Editori Riuniti, 2001.
- Kelly Kevin, Out of Control, Urra Apogeo, 1996.
- Leroi-Gourhan André, I. L’uomo e la materia; II. Ambiente e tecniche, 2 voll. Jaca Book, 1993-1994.
- Leroi-Gourhan André, Il gesto e la parola, Einaudi, 1977.
- Marx Karl, Engels Friedrich, L'ideologia tedesca, Opere complete vol. V, Editori Riuniti, 1972.
- Marx Karl, Il Capitale, vol. I, cap. V, UTET, 1974.
- Marx Karl, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Opere complete vol. III, Editori Riuniti, 1976.
- Marzke Mary, Evolution of the hand and bipedality (se ne trovano stralci su Internet).
- Principii di organizzazione, n+1 n. 13 del 2003.
- Rizzolatti G., Arbib M., "Language within our grasp", Trends of neuroscience, n. 21, 1998 (pp. 188-194).
- Schwartz Jeffrey H., La scimmia rossa. Gli orangutan e le origini umane, Giunti Editore, 1990.
- Verhoven Paul, Robocop, film, 1987.
- Volosinov Valentin, Linguaggio come pratica sociale, Dedalo, 1980.
- Wachowsky Andy e Larry, Matrix, film, 1999.
- Wiener Norbert, Introduzione alla cibernetica, Boringhieri, 1966.
- Wiener Norbert, Dio & Golem s.p.a., Bollati Boringhieri, 1991.
- Wilson Frank, The Hand, How Its Use Shapes the Brain, Language, and Human Culture, Pantheon Books, 1998.