Le molteplici culture dell'epoca borghese
Charles Percy Snow, Le due culture, Marsilio, 2005.
John Brockman, La terza cultura, Garzanti, 1999.
Per noi che discendiamo da una corrente storica "anticulturalista" (ogni rivoluzione non è una questione di cultura ma di forza) è banale ricordare che nella suddivisione storica secondo i modi di produzione anche le "culture" si susseguono in base allo stesso criterio. Vi sono anticipi e ritardi rispetto allo sviluppo materiale, ma diamo per scontato che in ogni epoca vi è una sola "cultura", ed è quella della classe dominante.
Prima della rivoluzione borghese una netta suddivisione in settori all'interno della conoscenza umana non esisteva, tant'è vero che lo stesso possente manifesto della borghesia rivoluzionaria, l'Encyclopédie, curata e in parte scritta da Diderot e d'Alembert, era intesa come un grandioso "Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri", cui lavorarono esperti di vari settori e con idee diverse (Diderot era un letterato, d'Alembert matematico, entrambi agnostici, Quesnay medico, economista e credente, d'Holbach naturalista materialista ateo, ecc. ecc.), ma tutti con una disposizione ancora unitaria rispetto alla conoscenza.
La dicotomia attuale fra scienza e umanesimo, contro cui si scagliano i due saggi che presentiamo, è abbastanza recente e risale al secolo scorso. È un bel paradosso, perché il romanticismo culturale si sviluppò in parallelo proprio alla cosiddetta rivoluzione industriale. Più la scienza entrava nella vita quotidiana degli uomini, più gli intellettuali la disprezzavano, relegando gli scienziati al rango di detentori di una conoscenza secondaria rispetto alle alte sfere raggiunte dal pensiero puro della filosofia e dell'arte.
Naturalmente la discussione si sviluppò proprio in Inghilterra, dove stava fiorendo l'industria, e questo provocò le prime violente battaglie che portarono a una divisione sempre più netta fra le "due culture"; divisione che in tempi molto più vicini a noi, nel 1959, produsse infine un contraccolpo con la relazione universitaria di Snow e i conseguenti violentissimi attacchi quando essa fu pubblicata (l'autore, inglese, era scienziato e scrittore). Va detto che dal nostro punto di vista le tesi di Snow sono assai deboli, quasi inesistenti, e che la discussione ripresa in America da Brockman con La terza cultura non risolve nulla: entrambi gli autori non riescono a liberarsi dalla credenza che la divisione del sapere sia effettiva, e che le sue varie sfere semplicemente non riescano a comunicare. Insomma, sono ben lontani dall'immaginare una società che liberi finalmente il suo cervello collettivo e raggiunga l'altezza della conoscenza unica prefigurata da Marx.
Tesi deboli, abbiamo detto, ma nonostante tutto in grado di sollevare un putiferio mondiale che stupì l'autore per primo; il quale dopo qualche anno cercò di spiegarne la ragione con l'avanzata di uno sviluppo materiale in grado di mettere in crisi il modello intellettualistico borghese, non più legato alla realtà ma sempre più proiettato nell'ideologia. Riprendendo il vecchio discorso di Snow, Brockman fa notare nella sua antologia commentata che l'accelerazione dovuta alla scienza non sopporta più una pseudo-conoscenza ridotta a cronaca intorno a un infinito "lui le ha detto e allora lei gli ha replicato". Gli umanisti son gente che scrive libri su altri libri scritti da gente come loro, nei quali si perde ogni riferimento al mondo reale, mentre questo mondo è in "rivoluzione permanente e alla scienza tocca in sorte di raccontare questo grande romanzo". L'ideologia non è più in grado di spiegare niente, ammesso che lo sia mai stata in passato, ma la scienza sì, e quando sbaglia può arrivare a riconoscerlo perché si basa su ipotesi verificabili.
Questo ottimismo scientista è estraneo a ciò che Marx ed Engels si aspettavano dallo sviluppo della forza produttiva sociale, dalla scienza applicata all'industria. Snow era convinto, nel 1959, che la scienza applicata avrebbe riformisticamente portato all'eliminazione della miseria, mentre Marx aveva affermato che la miseria sarebbe cresciuta proprio in virtù di questa applicazione, di qui il processo sociale rivoluzionario di tipo catastrofico. Anche Brockman, un po' distratto rispetto alla previsione sballata di Snow, è convinto che il mondo migliorerà per merito della grande avanzata scientifica:
"A differenza di quanto accade nella cultura tradizionale, i risultati della scienza non riguardano le invidie di una casta di mandarini astiosi; le sue conquiste cambiano la vita di ciascuno di noi e del pianeta sul quale viviamo".
Per carità, non ci metteremo a criticare tutto ciò, ci basta sottolineare il fatto che anche la scienza di quest'epoca è a pieno titolo "cultura tradizionale". Brockman è un agente editoriale specializzato in lavori scientifici e divulgativi, non può non sapere che anche gli scienziati si comportano esattamente come "una casta di mandarini astiosi". Ve n'è traccia persino nell'antologia da lui curata sulla terza cultura.
Gli autori in effetti non riescono ad auspicare una vera conoscenza unificata, ventilano al massimo un dialogo fra le culture o un qualche processo interdisciplinare, che è la sanzione delle differenze. Rimane l'assurda contrapposizione, anche se evidentemente maturano i tempi per l'unificazione della conoscenza, che comunque avrà bisogno di una rivoluzione per realizzarsi. La polemica sembra quindi allargare il fossato che separa le "due culture" invece di restringerlo, ma è tuttavia un prodotto del bisogno umano di abbattere barriere. Un testo della nostra corrente (cfr. n+1, n. 15-16, pagg. 109 e segg.) fa notare che i grandi lavori scientifici passati alla storia sono insieme arte e scienza, umanesimo e conoscenza della natura, filosofia e tecnologia (ammesso e non concesso che abbiano senso queste dicotomie largamente usate anche dagli autori in questione, nonostante l'esplicita pretesa di farne a meno). Il De rerum natura di Lucrezio, la Divina commedia di Dante, il Dialogo sui massimi sistemi di Galileo, i Principi matematici della filosofia naturale di Newton, il dialogo fra Einstein e Bohr sull'interpretazione della realtà fisica ("titanico", dice P. Odifreddi in un passo del suo commento alla riedizione de Le due culture) sono opere che attraversano il tempo e le classi, non sono incasellabili secondo alcuna dicotomia.
Coloro che si sentono in linea con il movimento reale verso la società nuova non dovrebbero perciò semplicemente partecipare a un "dialogo" tra le sfere della conoscenza. Dovrebbero piuttosto fare uno sforzo collettivo (piccolo rovesciamento della prassi) per unificarle in un insieme comune che parli un linguaggio comune. Il quale non potrà più essere quello della matematica, fisica, filosofia, chimica, letteratura, biologia, arte, ecc., isolate dal loro contesto storico, cioè dalla dinamica sociale, storica, geografica, che le ha fatte diventare quel che sono. Non dovrebbe quindi solo mettere insieme le tessere di un mosaico, che pur separate compongono un disegno complesso, ma concepire un continuum, "una sola scienza".