L'Europa virtuale e i nuovi attrattori d'Eurasia: la Turchia come fulcro dinamico (1)
"Gengis Khan, figlio della severa Mongolia, salì sulla cima del Karasu Togol e guardò a Occidente, dove vide mari di sangue sui quali incombeva una nebbia rossa; poi guardò a Oriente, dove vide ricche città, templi luminosi, moltitudini felici, giardini e campi fiorenti. Egli disse ai suoi figli: A Occidente sarò ferro e fuoco distruttore, a Oriente sarò benefattore, edificatore, portatore di felicità alle genti e alla terra. Così la leggenda. E secondo me contiene molte verità"
(Ferdynand Ossendowski).
Parleremo della Turchia, ovviamente. Ma utilizzeremo la sua storia, e le determinazioni che la portano ad assumere l'importanza che ha, per analizzare l'insieme di una rete di situazioni e di tendenze concatenate. E naturalmente di interessi economici e politici precisi.
Ferdynand Ossendowski era un funzionario polacco al servizio degli Zar. Nel 1905 partecipò alla rivoluzione democratica e fu condannato a morte. Commutatagli la pena, passò alcuni anni in carcere e, nel 1917, si schierò con la controrivoluzione bianca. Dovette fuggire in Cina attraverso la Siberia, la Mongolia e il Tibet, dove assorbì la mistica sciamanica e la filosofia orientale. Diventò scrittore con il racconto visionario della propria fuga. Il libro (Bestie, uomini e dei, 1923), da cui sintetizziamo la citazione, termina con una profezia e un auspicio: l'Occidente sarà invaso da un'ondata migratoria orientale e distrutto; la nuova Eurasia in fermento non potrà, a differenza di quella di Gengis Khan, volgersi sia a Occidente che a Oriente: verosimilmente si volgerà solo a Occidente, come al tempo di Tamerlano il distruttore (Tamerlano era discendente di una tribù mongola, al suo tempo ormai "turchizzata". Come vedremo, gli eserciti delle orde mongole furono in gran parte formati da tribù turche). Poi vi sarà una vita nuova.
Non sembri strano il nostro citare un autore reazionario impregnato di mistica orientale. Bisogna rovesciare il punto di vista: Ossendowski era un rivoluzionario borghese polacco diventato reazionario in Siberia; fu l'Oriente a "costruirlo", non viceversa. Le "verità" che secondo lui la leggenda contiene sono state nella storia prima di passare nel mito.
Tamerlano era dunque turco. Egli volle ricostituire nel cuore dell'Asia l'impero di Gengis Khan, combattendo spesso contro eserciti anch'essi turchi. Riuscì a dominare su di un'area meno estesa, ma seconda solo al modello cui si rifaceva. Conquistò Mosca e bloccò l'espansione dell'impero ottomano occupando l'Anatolia. A Occidente fu protagonista di immani massacri, mentre a Oriente fu magnifico costruttore e amministratore, protettore della scienza e dell'arte, riedificatore di Samarcanda, una delle antiche capitali di Alessandro Magno. Alla sua morte, avvenuta mentre si apprestava a conquistare la Cina, ciò che era ad Occidente si disgregò, mentre a Oriente i suoi eredi furono gli artefici dell'impero Moghul.
Il grande Gengis Khan, mongolo, era riuscito in un impresa difficilmente ripetibile. Il suo capolavoro politico-militare era stata la convocazione e il controllo dell'assemblea delle tribù nel 1206, dalla quale era scaturito il complesso sistema tribale e militare che permise il governo di un'area immensa, gravitante intorno al Turkestan, e che comprendeva gran parte dell'Asia centrale e quasi tutta la Cina occidentale. Sistema grazie al quale era stato possibile stabilizzare le conquiste in Eurasia, completare la grande campagna di invasione della Cina, della Corea e del Giappone (quest'ultima fallita) e gettare le basi per la dinastia mongola Yuan (Qubilai Khan, nipote di Gengis Khan, aveva ospitato Marco Polo). Per cui quando si dice "Mongoli" si deve intendere, storicamente, la grande varietà di popoli che componevano l'impero − e quindi il formidabile esercito − del Khan, costituito, oltre che da Mongoli propriamente detti, da Iranici, Manciù e soprattutto Turchi, che all'apice della conquista mongola rappresentavano più della metà delle "orde" in movimento. Anche l'immenso impero di Gengis Khan fu effimero in Occidente, ma lasciò a Oriente la Cina, unitaria e civilissima.
Struttura "frattale" delle rivoluzioni
Il lettore ci scusi una piccola, apparente provocazione: che differenza passa tra un immigrato clandestino d'oggi e un cavaliere della steppa al seguito di Gengis Khan? Dipende. Tanta, infinita, se si guarda alla frase in sé e a ciò che suggerisce nell'immediato; assai meno se si sta cercando una qualche invarianza, in questo caso la determinante pressione geo-storica che si viene a creare entro e fra i popoli in alcune epoche, premessa per grandi movimenti di popoli. Il lessico usuale è meno sprovveduto della presunta intelligenza critica: "L'esercito degli immigrati invade i paesi dell'Occidente"; "Guerra all'immigrazione clandestina", càpita di leggere sui giornali.
Ovviamente demonizzare l'orda straniera non serve a fermarla. Anzi, nel caso dei terribili "Mongoli" il terrore facilitò la loro espansione. Tuttavia non erano come li dipinge il mito: non avendo una "civiltà nazionale" e neppure una religione, erano assai tolleranti verso le usanze e credenze altrui. Dopo le conquiste ottenute con inaudita violenza (ma solo contro chi vi si opponeva), si dimostrarono buoni amministratori dei territori annessi, controllati tramite funzionari locali. Per cui il leggendario terrore che incutevano in battaglia non solo è stato ridimensionato dagli storici, ma rappresentava un deterrente che permetteva di evitare i genocidi, usuali nei più antichi effimeri imperi delle steppe. E in ogni caso non era di natura diversa rispetto a quello di stato praticato da tutte le nazioni, anche e soprattutto quelle moderne. Del resto i Mongoli in quanto tali, poco numerosi, non avrebbero potuto controllare l'impero più vasto mai esistito solo con il terrore di una forza militare quantitativamente insignificante rispetto alla moltitudine di popoli "assoggettati".
Tornando alla nostra riflessione provocatoria, osserviamo che la pressione migratoria delle grandi ondate provenienti dalle steppe che portò i Turchi in Turchia era quantitativamente insignificante se paragonata a quella attuale, dovuta allo spostamento delle popolazioni indotto dalle guerre e, soprattutto, dalla forza del campo di gravitazione creato dalle concentrazioni di capitale. I Mongoli che incendiarono l'Asia e gran parte dell'Europa e del Medio Oriente erano pochi rispetto sia alla popolazione del pianeta che alle popolazioni turche, persiane, manciù, ecc. che spinsero in movimento, mentre oggi l'ondata migratoria è infinitamente più vasta. Nel XIII secolo l'intera popolazione mondiale assommava a circa 250 milioni di individui e l'orda mongola che cozzava contro la Grande Muraglia Cinese da due millenni era forse un decimillesimo di essa. Le scorrerie cui partecipò lo stesso Gengis Khan prima che nel 1206 fosse acclamato capo universale dei Mongoli erano opera di poche migliaia di guerrieri; il primo esercito con il quale iniziò la conquista di buona parte del mondo ne inquadrava 13.000 e le popolazioni vinte e assoggettate nei primi tempi non erano molto più numerose. Per confronto, pensiamo a quel che succede in questo momento nella regione, al milione di profughi accolti dalla sola Turchia durante la guerra Iran-Iraq, ai 4 milioni di albanesi che vi vivono (più numerosi che in Albania), ai due milioni di Azeri (turchi) espulsi dagli Armeni in Azerbaigian, ai 4 milioni di profughi prodotti dall'attuale guerra irachena, ai 4 milioni di Palestinesi ecc. L'ONU ha calcolato che nel 2000 un miliardo di persone vivevano sradicate dalle proprie terre d'origine, come profughi o emigrati. Ciò significa che in 200 anni di capitalismo, un multiplo della popolazione mondiale esistente nel 1900 (1,5 miliardi) si è mosso verso i luoghi in cui si concentrava il Capitale o verso quelli non toccati dalle guerre.
La struttura frattale delle rivoluzioni, grazie alla quale riusciamo a individuare degli invarianti sia a grande che piccola scala, ci è sempre servita per una teoria della previsione, per cui è chiaro che se parliamo della Turchia oggi, per capire le potenzialità che possono esplodere, non possiamo fare a meno di tener conto di tutte le determinazioni che hanno contribuito alla sua storia oltre che al contesto attuale. Nella società, come nel mondo fisico, esistono situazioni di rottura che nei sistemi complessi gli scienziati chiamano "criticità organizzata", nel senso che, nell'apparente caos, presentano elementi individuabili per costruire modelli di previsione. La situazione della Turchia è fortemente critica e altrettanto fortemente organizzata, nel senso che rivela elementi dinamici ormai capaci di marciare da soli, obbligando governi e diplomazie a corrergli dietro. Insomma, la "questione turca" potrebbe far impallidire ogni "questione nazionale" precedente da quando sono scomparse le colonie.
Si tratta di situazioni tipiche nelle quali basta una scintilla per scatenare il potenziale esplosivo, specie se si pensa che la questione specifica riguarda un paese europeo che ha come ambiente una unione fasulla di nazioni, due confini (balcanico e mediorientale) in stato critico e un'Eurasia in ebollizione. Questo paese, dunque, sarà proiettato dai fatti verso una politica sempre più "eurasiatica", allo stesso tempo nazionalista e internazionale. Un tipico prodotto dell'imperialismo. Parleremo dunque molto della Turchia, ma collegando necessariamente l'argomento specifico all'intero contesto geostorico suddetto, i cui attori principali, tolta l'Europa virtuale, saranno: la Russia alla ricerca di un'egemonia imperialistica locale, la Cina grandeggiante all'orizzonte, e l'India, per il momento schiacciata dai risultati tremendi di una mezza rivoluzione nazionale pacifista e imbelle. Con gli Stati Uniti che cercheranno di utilizzare le tensioni a proprio vantaggio mediante la solita dottrina della proiezione lontana di potenza fondata sul capitale finanziario e sulla rete di basi militari.
Il modello dei primi geopolitici, il non più tanto mitico Heartland, Cuore del Mondo, di Mackinder, s'è fatto sistema. Questo nostro articolo compone dunque una trilogia con i precedenti sulla Cerniera balcanica (n. 17) e sull'Europa fasulla (n. 22), perché l'asse che va dal Baltico al Golfo Persico rappresenta e più ancora rappresenterà in futuro, come abbiamo detto, il fulcro dinamico attorno al quale si decideranno le sorti del capitalismo in questa fase imperialistica esplosiva. Se la struttura frattale delle rivoluzioni mette in evidenza degli invarianti, non dovrebbe essere difficile individuarne alcuni, analizzando il mondo attuale attraverso i grandi schemi geopolitici del passato, sintetizzabili attraverso i tre principali: quello del citato Mackinder, quello di Spykman e quello di Haushofer.
Come si vede nella figura n. 1, i confini occidentali del Heartland, o Zona cardine, coincidono quasi perfettamente con quelli balcanici del Rimland, o Anello interno, e della Panrussia. Questa coincidenza sul cardine balcanico nei tre grandi schemi geopolitici, peraltro suggeriti da opposte politiche imperialistiche, l'inglese, l'americana e la tedesca, non può essere casuale. Essa è infatti dovuta alle condizioni materiali di questa "faglia" geostorica fra due continenti ed essa provocherà, almeno fino a quando esisteranno le nazioni, attriti catastrofici in almeno tre punti storicamente determinati: Polonia, Turchia e Medio Oriente. È assai significativo che proprio l'area Mediorientale non sia attraversata da un confine ma sia inglobata o nell'una o nell'altra delle concezioni geopolitiche: nel Rimland in Mackinder e in Spykman, nell'Eurafrica in Haushofer. Una nota è ancora necessaria: usiamo sempre il termine area non in senso geometrico e neppure semplicemente geografico; come suggerì la nostra corrente, lo useremo intendendo campo geo-storico, volendo ricordare che le determinanti geografiche e storiche producono i caratteri specifici non solo delle popolazioni e delle società ma anche delle rivoluzioni.
Per capire l'importanza che ha assunto la Turchia d'oggi è forse utile accennare alla funzione della Polonia di ieri, la "Nazione senza Stato". Essa fu il baluardo contro la penetrazione dell'oscurantismo russo verso l'Europa, da Marx considerato il peggior pericolo per la rivoluzione nel continente. Fu schiacciata e più volte smembrata fra gli Stati confinanti, ma meritò l'appellativo di "cavaliere d'Europa" perché stabilì una volta per tutte che la Rivoluzione marcia da Ovest a Est e mai viceversa. Napoleone ebbe in dono dalla Polonia un figlio e un esercito di ben 100.000 uomini, ma non seppe far tesoro né dell'uno né dell'altro contro la Russia e ciò contribuì alla sua disfatta. Allo stesso modo la Turchia dell'impero ottomano, pur reazionaria in sé, rappresentò un fulcro dinamico della rivoluzione entro il sistema di alleanze contro l'espansionismo della Russia verso il Mediterraneo.
Naturalmente la Russia, a sua volta, ha rappresentato la stessa unione dialettica di opposti: volta a Occidente era e rimane un elemento della controrivoluzione; volta a Oriente ha costituito e potrà ancora costituire un elemento di modernizzazione (verso le sue province asiatiche) e di contrasto nella formazione di potenze imperialistiche in grado di mirare in futuro al controllo sul Cuore del Mondo (Cina, India). Ma se il disfacimento dell'URSS ha rappresentato la scomparsa di un aggregato controrivoluzionario a sfondo ideologico che era stato in grado di spartirsi il mondo in zone di influenza con gli Stati Uniti, il disfacimento della Russia sarebbe un colpo tremendo alla rivoluzione, come lo sarebbe quello della Cina, perché farebbe arretrare la possibilità di accumulazione e quindi la compattezza del proletariato nei due paesi. Per questo l'attività degli Stati Uniti, dopo essersi sviluppata contro ogni velleità di unione europea, si concentrerà in futuro su questi due obiettivi primari. E naturalmente l'attacco alla Russia si svolge su due fronti, in Heartland e nella cerniera balcanica.
Un mondo di concatenazioni
Il mondo capitalistico è diventato in tutti i sensi un sistema molto complesso. In natura vi sono molti altri sistemi altrettanto complessi e, tra questi, gli organismi viventi lo sono più di ogni altro. Però, mentre gli organismi viventi hanno un'alta capacità di auto-organizzazione secondo un programma genetico, il sistema capitalistico possiede questa capacità solo localmente. Una fabbrica, ad esempio, è in grado di funzionare secondo una prassi rigorosamente e razionalmente e programmata, ma immersa nel mercato è in balìa del caso. Vi sono dunque dei sistemi complessi "intelligenti" e ve ne sono di "stupidi", come si usa dire, con linguaggio semplificato, in ambito scientifico. Un moscerino e un essere umano hanno dei punti in comune nel loro programma vitale, la loro struttura è "intelligente", cioè reattiva, allo stesso modo, a prescindere dalle capacità del loro cervello, cioè dal tipo di intelligenza che chiamiamo "mente". La crosta terrestre, tolta la sua parte biologica, è un sistema complesso che origina montagne, valli e deserti, ma lo scontro fra due zolle in una faglia è "stupido", scarica semplicemente energia accumulata. Nonostante ciò, è senza dubbio possibile descrivere scientificamente la dinamica dei terremoti o degli uragani: si sa che in determinate condizioni essi avverranno, anche se non si sa prevedere quando.
Noi abbiamo la possibilità di descrivere altrettanto perfettamente il sistema capitalistico e di formulare le sue leggi in modo scientifico, ma come per i terremoti e gli uragani, non siamo in grado di prevedere la data delle catastrofi rivoluzionarie o comunque di avvenimenti come crisi, guerre, ecc. Lungo la faglia di Sant'Andrea in California gli scienziati, gli abitanti e non ultimi i costruttori edili, si aspettano un terremoto di intensità superiore a quelli che si sono verificati finora. Ma nessuno è in grado di sapere quando si scatenerà The Big One (Quello Grande), come l'hanno chiamato. Si sa invece di certo, in modo assolutamente scientifico, che ci sarà; non solo, ma che più ritarda, più sarà violento, perché l'energia potenziale che si accumula gradualmente, esploderà in energia cinetica di violenza più che proporzionale rispetto al tempo. Vale a dire, ad esempio, che se raddoppia l'intervallo di tempo fra un terremoto e l'altro l'energia cinetica sprigionata dall'ultimo sarà tripla o quadrupla rispetto a quella del precedente.
La Turchia, come uno dei fulcri dinamici delle zone di cerniera, in questo caso quella balcanica (la Polonia l'abbiamo vista, un altro paese è l'Egitto, fra Maghreb e Makhresh), si comporta geopoliticamente come la faglia di Sant'Andrea, accumula potenziale fra le zolle d'Europa e d'Asia. Il suo comportamento sarà del tutto diverso da quello della Palestina, dove l'energia si accumula in gran quantità rispetto all'estensione del territorio, ma si scarica quotidianamente. Nella nostra escursione sul terreno della "fisica della storia" abbiamo visto che i fenomeni catastrofici sono scatenati da serie di eventi che non si presentano in modo lineare (in genere ciò succede quando vi sono forti interazioni o retroazioni). Ma, nonostante questo aspetto caotico, si formano importanti concatenazioni di eventi in grado di indirizzare comunque l'energia in un punto. Possono essere piccoli eventi che si concatenano uno dietro l'altro, come i vagoni che si aggiungono a un treno aumentandone velocità, massa e inerzia, finché l'intero sistema non risponde più ai meccanismi di controllo; oppure possono essere eventi che si concatenano a rete, lungo la quale si diffonde un segnale che si amplifica ogni volta che riceve un feedback dai vari nodi; possono essere eventi che portano alla somma dei due fenomeni. L'imperialismo è la fase capitalistica in cui è massima la socializzazione della produzione, in cui perciò i sistemi nazionali si aprono al mercato mondiale offrendo una valvola di sfogo al sistema economico-sociale ma anche elevando il livello di tutte le sue contraddizioni. Il proverbiale battito d'ali della farfalla che provoca un tornado agli antipodi non potrebbe essere stato pensato con il grazioso insetto sistemato in una camera a tenuta stagna.
Ci vuol poco a concepire la Turchia come un nodo particolarmente sensibile nella rete di eventi internazionali quando, come abbiamo visto, questo paese è all'incrocio delle tre determinazioni geo-storiche: balcanica, medioorientale ed euroasiatica. È praticamente impossibile che una potenzialità così elevata non si concretizzi, nel tempo e in un mondo sempre più stressato dalla produzione e ripartizione del plusvalore, in processi cinetici. E in questa dinamica grandiosa sarà molto difficile per la borghesia turca sopportare elementi di disturbo quali sono quelli che si stanno moltiplicando e aggravando invece di estinguersi: il contenzioso con l'Unione Europea, l'islamizzazione di una parte della società e la persistenza del problema nazionale curdo, quest'ultimo rivitalizzato dalle concessioni americane in Iraq, tali da prefigurare un Kurdistan indipendente poggiante su un mare di petrolio. Vedremo in dettaglio come la Turchia, che è praticamente senza petrolio, stia diventando un nodo vitale del sistema di oleodotti per trasportare il petrolio altrui in direzione Est-Ovest, una delle vie primarie per saziare la fame di energia dell'Europa.
Se ricordiamo la meccanica dei terremoti e l'applichiamo alla "fisica della storia" che sta alla base del nostro concetto di geostoria, vediamo che l'area di cui stiamo parlando accumula e scarica energia da molto tempo. Ma ne accumula globalmente più di quanta non ne scarichi localmente. I terremoti mediorientali sono endemici e per questo non mettono in discussione l'intero sistema. Tuttavia, senza ritornare indietro fino alla frizione fra Egizi e Ittiti o allo sdoppiamento dell'Impero Romano con Costantinopoli (poi Bisanzio, poi Istanbul), la storia di questa "faglia" ha già visto sconvolgimenti in grado di influire notevolmente sugli assetti politici del mondo. Ad esempio, lo smembramento dell'Impero Ottomano all'epoca della Prima Guerra Mondiale ad opera delle potenze imperialistiche fu la premessa per l'esplosione nazionalistica sfociata nella deposizione del sultano e lo scatenamento di una robusta "rivoluzione dall'alto" (1922). In Turchia furono poste le basi per una stabilizzazione borghese dal Bosforo al Caucaso; ma nel resto dell'ex impero molte aree, che i dominatori colonialisti avevano suddiviso con frontiere del tutto arbitrarie rispetto alle popolazioni autoctone, diventarono fonte di eterni conflitti. Fu grazie alla propria rivoluzione che la Turchia evitò lo smembramento previsto dal Trattato di Sèvres (1920), e fu grazie alla sua solidità come Stato che, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, fu riconosciuta dagli Stati Uniti come principale alleato nell'area, unica potenza "minore" che all'epoca avesse una struttura di tipo pienamente borghese.
Con la caduta della monarchia persiana, anch'essa fedele alleata degli Stati Uniti ma senza le potenzialità turche, Ankara diventò l'unico appoggio serio per la politica imperialistica americana (la monarchia wahabbita d'Arabia non poteva offrire che petrolio), ma la dissoluzione dell'URSS e le due guerre in Iraq hanno cambiato notevolmente lo scenario, offrendo alla Turchia l'occasione storica più importante dopo quella del 1920-1923 (denuncia del trattato di Sèvres, abrogazione del Sultanato e proclamazione della repubblica). Oggi non si tratta più di evitare uno smembramento e di fondare la nazione borghese bensì di impiantare un rapporto imperialistico con un'area immensa, solo in parte riferibile a quella dell'Impero Ottomano. Si capisce che, date queste premesse, la Turchia diventa un alleato che non può più sopportare la semplice subordinazione, e che incomincia a pretendere un suo specifico ruolo come potenza. Il rapporto con gli Stati Uniti cambia completamente, e si pone su un piano del tutto diverso rispetto a quello che intercorreva tra questi ultimi e paesi come l'Arabia Saudita, Israele, Iraq e Iran. Senza l'interesse americano, l'Arabia Saudita non avrebbe probabilmente retto alla prova della storia, così come non ha retto la satrapia iraniana nonostante la sua americanizzazione. Ma l'esempio più illuminante di tutti è quello di Israele, entità che è molto difficile definire "nazione" proprio perché la sua esistenza dipende unicamente da interessi altrui, cioè degli Stati Uniti, e dall'equilibrio assolutamente artificiale che fa dell'intero Medio Oriente una mostruosità geo-storica. Lo stato ebraico non è figlio del sionismo, che da solo non avrebbe potuto nulla; esso, insieme a quello palestinese − se mai ci sarà − è figlio dell'intreccio fra le politiche delle vecchie potenze coloniali, Francia e Inghilterra, e il loro scontro con l'emergente potenza americana, contro la quale cozzava anche il tentativo egemonico dell'URSS.
Come si vede, l'intreccio della rete è il fondamento, mentre l'attività dei singoli nodi è la conseguenza. E nella dinamica di tutte le reti sociali i nodi non sono affatto uguali, ci sono quelli che contano e quelli senza i quali i primi non potrebbero contare. Così il gran lavorìo della storia intorno all'Iran è riconducibile, nel secondo dopoguerra, al grande scontro fra le superpotenze, che tirano i fili dei loro Mossadeq e Pahlevi. Ognuno con le sue partigianerie, russofili e non-allineati di Bandung (i Nasser, Nehru, Sukarno, ecc.) da una parte, mondoliberisti e atlantici dall'altra. Ognuno a immaginare di essere assolutamente padrone del proprio libero arbitrio. Non troppo diverso è il caso dell'Iraq: anche se sul campo di battaglia delle due guerre mesopotamiche del 1991 e del 2003 c'era un solo paese imperialistico all'attacco di un nemico precostituito a tavolino, ciò non inficia il ragionamento precedente, anzi, lo rafforza, perché semmai rende ancora più chiara l'impotenza dei pretesi costruttori nazionali di storia in un'epoca come la nostra. Troppi commentatori frettolosi hanno definito "imperialistiche" le guerre di questo tipo, senza riflettere sul fatto che negli schieramenti internazionali i paesi aggrediti non contavano assolutamente nulla. Certo, assumendo in pieno il nostro concetto di "politiguerra" la definizione può adattarsi anche un episodio qualsiasi scatenato da un paese imperialistico che agisce i quanto tale (esempi estremi l'invasione della piccola Isola di Grenada da parte degli USA o l'appoggio alle cosiddette rivoluzioni arancione in vari paesi), ma per fare una guerra imperialistica classica ci vogliono almeno due paesi imperialistici.
La Rivoluzione guarda a Oriente
Nel 1853 Marx scrisse, in una delle sue lettere-articolo al New York Tribune, che in Europa vi erano tre mostri di conservazione medioevale: l'Austria, la Russia e la Turchia. Egli però concentrò le sue attenzioni solo sulla Russia, non tanto perché fosse la forza più espansionista, ma perché era rivolta a Occidente. Le mire della Russia sulla Turchia erano evidenti e, se i suoi piani fossero riusciti, a causa della sua moltiplicata potenza avrebbe avuto via libera sull'Austria-Ungheria. A questo punto nulla avrebbe impedito al gran bestione reazionario di modificare i frastagliati confini occidentali con l'Europa, e allora sarebbe apparso logico
"che la frontiera naturale della Russia corresse da Danzica o forse da Stettino a Trieste… La conquista della Turchia da parte della Russia non sarebbe che il preludio alla realizzazione dell'impero slavo, che alcuni fanatici filosofi panslavisti hanno sognato… Un tale evento sarebbe una calamità indicibile per la causa della rivoluzione… In questa emergenza gli interessi della democrazia rivoluzionaria e dell'Inghilterra vanno di pari passo".
Il passo si presta a considerazioni sulle valutazioni delle guerre in rapporto allo sviluppo delle aree coinvolte, ma qui ci interessa sottolineare che il fronte della rivoluzione per Marx doveva rimanere il più possibile a Oriente, travolgere la slavofilia interessata della Russia e puntare all'Asia; che un asse reazionario da Stettino a Costantinopoli via Trieste sarebbe stato una "calamità indicibile", mentre un'alleanza della medioevale Turchia con l'imperialistica Inghilterra avrebbe lavorato per la rivoluzione.
I principati danubiani furono sgombrati per intervento dell'Austria, che non aveva nessuna intenzione di lasciarlo fare a Inghilterra, Francia o Turchia, e tutto si decise in Crimea con l'assedio di Sebastopoli. Morì lo zar Nicola e gli successe Alessandro il quale, dopo la batosta della guerra, volse a Oriente gli interessi della Russia, conquistando i khanati dell'Asia centrale fino ai confini della Persia e dell'Afghanistan. Marx commenta nel 1855:
"La mira legittima per la forza espansiva delle energie slave era l'Asia. A confronto della desolazione stagnante di quel vecchio continente, la Russia è una forza civilizzatrice e il suo contatto non potrebbe che essere benefico".
Non è quindi indifferente ai rivoluzionari la direzione verso la quale sono puntate le mire espansionistiche di una qualsiasi potenza, anche nell'epoca imperialistica. Se dal 1914 in poi non siamo più favorevoli a guerre come quelle di Crimea, perlomeno siamo attenti al loro possibile risultato, in favore o meno dello sviluppo del proletariato e della sua lotta.
In una prospettiva eurocentrica quale si poteva avere nell'800, durante la rivoluzione industriale, abbiamo dunque un filo che collega nel tempo, al di là dei secoli, la nostra proverbiale marcia della rivoluzione da Occidente a Oriente (il primo a sintetizzare questa formula, sulla base degli scritti di Marx fu il Mehring). Abbiamo citato la leggenda dei Mongoli (XIII secolo), il cui capo universale ribadisce una leggenda ancor più antica salendo sulla montagna, dalla cui cima vede guerra e terrore a Ponente e civiltà e pace a Levante. Abbiamo citato il turco Tamerlano (XIV secolo), che non si sottrae alla determinazione delle spinte contraddittorie fra Est e Ovest, così come non vi si sottraggono ai tempi di Marx Russia, Inghilterra e Turchia ottomana. Possiamo ancora citare il misterioso popolo degli Unni, già menzionato da fonti cinesi mille anni prima di Cristo, che danno vita a un impero a Oriente (III secolo a.C.), mentre a Occidente, con Attila (V secolo d.C.), lasciano ovunque terra bruciata. Persino la storia d'America è fatta di sangue e terrore che l'Europa porta a Occidente, mentre la spinta rivoluzionaria borghese sembra attraversare l'Atlantico in senso opposto.
Vedremo nei dettagli che cosa si presenta di fronte allo sviluppo del potenziale turco a Occidente e a Oriente. Di certo il paese si trova attualmente, nella nostra metafora della tettonica a zolle, su di una faglia molto attiva, la quale memorizza nei suoi strati geologici potentissimi attriti del passato, mentre cova tensioni moderne altrettanto potenti. Risolta la propria questione nazionale borghese a scapito dell'Impero, la Turchia sta conoscendo uno sviluppo capitalistico che non tarderà a scatenare forze sopite sia al suo interno che nella sua area di influenza, che già esiste, come vedremo. Terminato ormai il cinquantennale rapporto d'interesse con gli Stati Uniti, il naturale svolgimento dei fatti corre verso una soluzione in grado di scatenare altre forze sopite, quelle di un'Europa che riesce ad essere unita soltanto nell'acronimo che si è data. I fatti in marcia possono condurre a due sole soluzioni: o l'Europa salirà sul trampolino di lancio turco proteso a Oriente, o la Turchia, proiettata per conto suo in Eurasia, diverrà il catalizzatore per il disfacimento conclusivo dell'Europa.
Per la Turchia una "questione nazionale" bell'e pronta
Abbiamo fatto ormai l'abitudine alle sempiterne "questioni" che nella storia del movimento operaio hanno costituito un fertile terreno per diatribe senza fine, premessa a idiosincrasie politiche, a separazioni velenose e a tutte quelle vicende che fanno parte della "Bisanzio socialista", come si diceva una volta. Per introdurre la gigantesca "questione nazionale" che si presenta alla Turchia, questione già metabolizzata a vari livelli da tutti i suoi partiti e teorizzata a livello filosofico, ideologico, storico e antropologico, occorrerebbe spiegare in poche righe come poniamo noi la detta questione, alla luce della nostra storia. Siccome non si può fare in così breve spazio, rimandiamo il lettore a quanto scritto dalla nostra corrente, e che troverà nella bibliografia di questo articolo.
Basti ribadire che, terminato il ciclo delle lotte di liberazione anticoloniale, il problema delle rivendicazioni nazionali, irredentistiche o autonomistiche non si è affatto assopito, anzi, con lo sviluppo del capitalismo è paradossalmente risorto anche dove sembrava superato. Solo che non ha più nulla di immediatamente rivoluzionario, neppure dal punto di vista borghese. Nel caso specifico, la Turchia ha già compiuto da tempo la propria rivoluzione borghese (dall'alto), perciò ogni evento prospettato dal nazionalismo turco non è che conservazione dei risultati già ottenuti a partire da quasi un secolo addietro. Nelle situazione geostorica di ogni area del mondo nessun comunista si sognerebbe, oggi, di partecipare a moti sociali nazionalisti se gli capitasse di vivere in un'area dove ne covano o ne dovessero esplodere. Tuttavia, come abbiamo già visto per le guerre, egli seguirà con attenzione i contesti in cui le spinte nazionali borghesi sono amplificate e hanno oggettive possibilità di spingere verso soluzioni favorevoli allo sviluppo del proletariato e quindi della lotta di classe. Vi sono esempi significativi di "questioni nazionali" sopravviventi nell'epoca del tardo imperialismo la cui soluzione non può venire da una forza interna al gruppo nazionale che le esprime, ma solo da eventi risultanti dallo scontro fra i grandi paesi imperialistici, dall'espansione delle zone d'influenza di alcuni di essi, dai loro interessi economici o, naturalmente, da uno sconvolgimento rivoluzionario internazionale. Di questi esempi ne citiamo quattro, tutti nella grande area intorno al cardine turco.
1) Esiste una teoria sionista secondo la quale la vera Palestina sarebbe il territorio chiamato Giordania, oggi assurto a nazione. C'è qualche fondamento storico e anche politico, ma ciò è ininfluente: si tratta di una teoria fondamentalista ebraica che nella versione più cruda prevede di espellere i palestinesi da ciò che resta delle loro terre e deportarli in Giordania in modo da rendere unitario il territorio israeliano. In parte questo programma è già stato realizzato dagli israeliani con il terrorismo, con la guerra e con l'oppressione: in Transgiordania e nelle città giordane, specie ad Amman, vivono ormai 2.100.000 profughi palestinesi su circa 6 milioni di abitanti, anch'essi in buona parte palestinesi (nella West Bank e a Gaza ne vivono 4 milioni). Durante il Settembre Nero i palestinesi combatterono eroicamente ed ebbero la possibilità reale di vincere contro l'esercito giordano, prevalentemente composto dalla guardia beduina di re Hussein, poco numerosa e ancor meno combattiva. Avrebbero potuto facilmente conquistare Amman, se solo fossero stati aiutati dalle nazioni arabe (la Siria mandò un reparto corazzato che però rimase inattivo) e da… Israele. C'era infatti un piano ebraico, sostenuto da settori dei servizi segreti occidentali, per risolvere in quel modo la "questione nazionale palestinese". Non se ne fece nulla, e i palestinesi furono massacrati per l'ennesima volta grazie a complicità incrociate, ma è lecito ritenere che, nella nostra epoca, consegnare la Giordania ai palestinesi sarebbe stato un risultato più decente che non il massacro a rate che continua da ottant'anni in vista di una fantomatica patria, cioè, se mai ci sarà, una specie di Stato-campo-di-concentramento. L'esempio l'abbiamo scelto apposta per il paradosso che pone, dato che l'arcinemico sionista ha perlomeno una prospettiva nazionale per i palestinesi, mentre ne sono ben lontane le varie fazioni inconseguenti nelle quali si divide la borghesia palestinese.
2) Nell'ottica sionista il popolo ebraico ha parzialmente risolto la sua "questione nazionale" con la proclamazione dello stato di Israele nel 1948 ai danni dei Palestinesi. Parzialmente, perché la tendenza sarebbe quella sopra ricordata, cioè di giungere a una espulsione degli arabi, tendenza più o meno esplicita a seconda delle correnti della borghesia ebraica. La soluzione "giordana" permetterebbe di realizzare la Grande Israele, nazione che alcuni sionisti vorrebbero estendere fino all'area coperta dagli antichi regni di Davide e Salomone, comprendenti, oltre al territorio attuale, parte della Siria, della Giordania e dell'Egitto. Anche questa è una situazione paradossale, sia per i motivi appena detti, sia perché Israele rappresenta un esempio di "rivoluzione borghese fino in fondo" trapiantata dall'esterno (cioè non si è svolta contro il feudalesimo o altra società antica ma contro un'altra nazione), e per di più consolidata solo tramite l'asservimento del sionismo agli interessi americani. Ciò è andato a scapito non solo della rivoluzione palestinese, schiacciata sul nascere e mai riuscita a darsi come guida una vera e propria borghesia nazionale, ma anche della stessa nazione ebraica, ridotta a sbirro massacratore e involuta fino allo stadio di tribù confessionale fondamentalista.
3) Più semplice e priva di paradossi, cioè abbastanza "lineare" è invece la "questione" dell'autodeterminazione del Kurdistan. Si tratta di un'area geostorica in origine grande quasi quanto l'Italia, dai confini abbastanza netti ma suddivisa artificialmente fra cinque paesi, Turchia, Iraq, Iran, Siria e Armenia. Le aspirazioni nazionali curde, in parte sostenute ancora oggi con forme di guerriglia, hanno sempre cozzato contro la oggettiva impossibilità di autodeterminazione, dovuta al rifiuto dei vari paesi (la Turchia rifiuta anche solo il concetto che vi sia una nazionalità curda). Tuttavia condizioni esterne eccezionali (l'invasione americana dell'Iraq) hanno permesso a una notevole parte della popolazione curda di riconoscersi in una unità territoriale autonoma con immediato e veloce sviluppo di attività capitalistiche (grazie ovviamente alla tutela americana e al petrolio). In caso di grandi sconvolgimenti internazionali sono dunque possibili ulteriori evoluzioni, fino a coinvolgere tutti i 25 milioni di Curdi.
4) Un'altra situazione lineare è quella del Tibet. Subito dopo la conquista della Cina, l'impero mongolo inglobò nei suoi confini anche l'area tibetana (XIII secolo). Dopo secolari vicende, che ebbero sempre la Cina come baricentro, nel 1950, sull'onda della rivoluzione borghese vincitrice, l'Esercito Rosso cinese invase il Tibet, "liberandolo" dal sistema feudale e semi-schiavistico esistente (1951). In questo caso siamo di fronte a una rivoluzione dall'alto proveniente dall'esterno, positiva per i contadini e pastori, potenziali proletari di domani. La soluzione, prettamente borghese, è quella già sperimentata con successo altrove e sostenuta dallo stesso attuale Dalai Lama: ampia autonomia con legislazione specifica. Non è certo auspicabile un ritorno a condizioni precapitalistiche, in cui sei milioni di tibetani sarebbero separati dal miliardo e mezzo di cinesi. Lo sviluppo del proletariato è favorito dalla dissoluzione del Tibet teocratico e monacale, cioè parassita, nella Cina industriale e laica.
La questione nazionale turca è risolta da tempo: una rivoluzione borghese durissima di tipo "lineare" ha sopraffatto le minoranze etniche, principalmente quella curda e quella armena, le quali pongono "questioni" anch'esse risolvibili, in ambito borghese, con una legislazione sulle autonomie locali. Tuttavia, come diceva Marx a proposito della Russia, l'appetito vien mangiando e, se non di nuovi territori, la Turchia ha sicuramente appetito di relazioni con il mondo turcofono al di fuori dei confini nazionali. Alcune frazioni della borghesia turca, pur ostentando una moderazione ufficiale, prospettano apertamente una "Grande Turchia" dal Mediterraneo allo Xinjiang cinese. Ciò comporta il passaggio continuo dalla linearità al paradosso e viceversa. Ad esempio, il fatto che la Turchia sia un paese laico e musulmano, europeo e anche asiatico (oppure né europeo né asiatico) comporta un certo grado di schizofrenia politica. Ma andiamo con ordine.
Gli esempi citati sono piccole cose di fronte ai progetti nazionalisti che serpeggiano, a diversi livelli di realismo (e temerarietà), tra le frazioni borghesi della Turchia odierna. In effetti, a dispetto delle posizioni diplomatiche ufficiali, la "questione nazionale turca" ha superato non solo i confini fra le componenti borghesi ma anche quelli di classe, per cui larghi settori del proletariato sono sensibili, ad esempio, al richiamo dei Lupi Grigi o altri gruppi "estremisti". Questo fatto introduce oggettivamente elementi contraddittori sia nella politica interna che in quella estera, con riflessi in paesi non turchi. Siamo di fronte a una realtà pan-turca che ha prodotto ideologia, la quale, a sua volta, produce effetti sulla suddetta realtà. Tutto ciò − come sempre succede quando vi sono feedback potenti in azione − ha degli aspetti sia paradossali che lineari, a differenza della rivoluzione "bismarkiana" dei Giovani Turchi:
1) situazione paradossale. Nel citare il Tibet, non si può fare a meno di ricordare un'altra provincia cinese con situazione critica, il Xinjiang. Il Tibet è ormai da mezzo secolo una provincia cinese, è grande quattro volte l'Italia e, nonostante il suo isolamento, non è stato esente da invasioni da parte dei turco-mongoli oltre che, naturalmente, da parte dei cinesi. Tuttavia è sempre stato abitato da tibetani e solo adesso si profila una cinesizzazione. Diversa la situazione nel Xinjiang, ovvero nel Turkestan Orientale. Questa provincia è grande quasi sei volte l'Italia e da millenni è popolata prevalentemente da uiguri, cioè turchi, oggi musulmani. La capitale, Ürümqi, ha due milioni e mezzo di abitanti. Il paradosso sta in questo: che di situazioni come quella dello Xinjiang ve ne sono molte perché la maggior parte dei turchi risiede in Turkestan (Eurasia) e non in Turchia mentre quest'ultima è un paese europeo del Sud Mediterraneo, finora inglobato nel sistema imperialistico della NATO, cioè nel Trattato del Nord Atlantico col quale, geopoliticamente parlando, non ha nulla a che fare;
2) situazione lineare. Nessuno al mondo potrebbe impedire alla maggioranza turcofona d'Asia di riconoscersi nel paese turco-europeo che per primo ha compiuto la rivoluzione borghese fino in fondo. E questo paese sarebbe assai stupido a non approfittarne. Sarebbero così automaticamente sviluppate le basi materiali per ciò che al momento potrebbe sembrare solo una leggenda, quella, appunto, della Grande Turchia. Se ci fossero dei dubbi sullo sviluppo di situazioni potenziali in determinati svolti storici favorevoli, basterebbe guardare al Grande Egitto, realizzato all'epoca di Mehemet Alì (1805-1848) il quale, a dispetto delle potenze imperialistiche e dell'Impero ottomano, inglobò nell'Egitto il Sudan, l'Arabia, la Palestina e la Siria, anche senza tutte le condizioni "nazionali" che invece esistono e contano nella storia dei Turchi molto più che non in quella degli Egiziani (cfr. Egitto. Le lotte delle masse operaie e contadine…).
Moralismo solidaristico piccolo-borghese
Nel mondo della "sinistra" vi sono alcuni che vedono una "questione nazionale rivoluzionaria" ovunque vi siano delle borghesie nazionaliste all'opera, meglio ancora se in concorrenza con un paese imperialista, specie se si tratta degli Stati Uniti. Eppure Lenin aveva parlato chiaro: un conto è − poniamo − l'oppressione politica dell'Inghilterra sull'India, sua colonia; un conto è l'oppressione economica della stessa Inghilterra sull'Argentina, un paese libero. Nel primo caso è in ballo una guerra nazionale rivoluzionaria, nel secondo caso una guerra e basta. Per costoro, veniamo all'oggi, in Palestina vi sarebbe sul tappeto una questione nazionale rivoluzionaria solo perché gli abitanti di un non-Stato "resistono" all'oppressione da parte di quelli di un altro non-Stato, da parte cioè di una nazione finta al servizio di un paese imperialista. Questi stessi personaggi vedevano un'analoga questione nazionale rivoluzionaria ad esempio presso i Curdi, altro popolo senza Stato, stanziato su di un'area molto più vasta e quattro volte più numeroso. Ora hanno cambiato idea, hanno rimosso i Curdi solo perché alleati con gli americani, che li hanno aiutati nell'autodeterminazione nazionale concedendogli anche i diritti sullo sfruttamento di parte del petrolio iracheno. I criteri oggettivi sfuggono, si va a simpatie, con metodo partigiano, offendendo i combattenti cui si dedica una solidarietà platonica. Non è strano quindi che ci sia l'abitudine di precipitarsi ad offrire questa "solidarietà rivoluzionaria" a qualunque borghesia lotti contro gli odiati imperialisti e si resti per lo più indifferenti, come nel caso che stiamo trattando, rispetto alla storia antica e recente di milioni e milioni di Turchi, un potenziale enorme. Indifferenza che magari potrebbe sparire… non appena la Turchia fosse eventualmente colpevole di "aggressione" nei confronti di altri paesi o al contrario fosse "vittima" di un'invasione mirante a bloccarne le pretese espansionistiche.
Non è certo con questo moralismo piccolo-borghese di bassa lega che Marx analizzava le potenzialità imperialistiche e le guerre conseguenti. Per noi la "questione" palestinese, quella curda e quella turca (degli ultra-nazionalisti turchi), pur così differenti, hanno la stessa valenza politica: in ogni caso vi è il tentativo di unificare un popolo-nazione. Dall'alto o dal basso, non importa, e oggi ancor meno di quando Bismarck unificò la Germania sotto gli occhi di Marx ed Engels. Quello che per noi cambia, rispetto ai cultori delle "questioni nazionali" irrisolte, considerate rivoluzionarie in quanto tali, è il punto di vista. Il nostro oggi è identico a quello di Marx di fronte a Sebastopoli, così come ieri fu identico a quello di Lenin di fronte alle colonie. Il concetto di geostoria spezza sia la linearità dei calendari che quella dei confini disegnati sulle carte geografiche (da quando abbiamo delle sedi, i planisferi appesi ai muri sono più volte invecchiati!).
Come abbiamo visto, noi usiamo il termine e il concetto di "geostoria" (da molti anni prima che esistesse la scuola di Braudel) per definire le aree spazio-temporali dello sviluppo, usando per il confronto un modello astratto di paese a capitalismo pieno (sappiamo che neppure gli Stati Uniti sono un paese a capitalismo "puro"); i borghesi avevano cercato di esprimere un concetto analogo con il termine "geopolitica". La nostra corrente notò che si trattava di una scienza materialista copiata dal metodo di Marx, una vera capitolazione di fronte ad esso:
"È un ramo di scienza che ha capito che le leggi dei fatti storici non si scoprono nelle tracce che hanno lasciato nel cervello dell'individuo ma nella fisica reale degli oggetti ponderabili. Americani, russi, tedeschi, che se la cucinano secondo gli ordini dei superiori, fanno tuttavia capo ad un maestro, il geografo inglese Mackinder. 'Oggi', egli scrisse, 'i fattori fisici, economici, politici e militari costituiscono ormai un sistema coordinato'. I borghesi imparano dal marxismo, i pretesi esponenti proletari lo gettano fuori" (Il pianeta è piccolo).
Ricordiamo ciò che abbiamo detto all'inizio a proposito della struttura frattale dei fenomeni in un mondo nel quale essi sono concatenati a rete. Per il capitalismo globale il pianeta è diventato inesorabilmente piccolo e soprattutto, come già notava Lenin, la produzione socializzata al massimo lo rende un "sistema coordinato", alla Mackinder. In questo sistema-mondo è difficile che gli eventi, per quanto minimi, non si concatenino fino a far nascere configurazioni nuove, che però sono inaspettate solo se non se ne individuano prima le potenzialità. Nel sistema-mondo attuale, plasmato da fattori fisici, economici, politici e militari, nessuno può uscire dalle determinazioni esistenti. Il petrolio è dov'è, e le basi americane anche, così come i mari o le montagne e gli strani confini disegnati dalla storia degli uomini. Ma le configurazioni politiche cambiano con l'accumulo o il venir meno di potenzialità. Di fronte a Sebastopoli Marx vide chiaramente quale fosse la biforcazione possibile e auspicò un esito, che fu poi quello effettivamente registrato dalla storia. Di fronte all'immobilità dell'Occidente nell'epoca della sua decadenza, la biforcazione possibile ridiventa quella fra le forze che si proiettano ad Est e quelle che si proiettano a Ovest.
Il già citato trattato di Sèvres doveva essere applicato mentre la Turchia e quel che restava dell'impero ottomano erano occupati da truppe inglesi, francesi, italiane e greche, con la zona siro-libanese assegnata alla Francia e quella giordano-mesopotamica all'Inghilterra, con una zona prevista per i curdi e una per gli armeni. Nessuno poté nulla contro l'impeto rivoluzionario della giovane borghesia turca, che unificò il paese trasformandolo nell'unica nazione all'epoca veramente indipendente di tutto il mondo afro-asiatico dopo il Giappone. Scomparsa l'URSS, riconcentratasi l'attenzione mondiale sull'Heartland e franate le velleità unioniste dell'Europa, diventa praticamente automatico il profilarsi di una nuova "questione nazionale" in Eurasia, quella del Turkestan.
Radici dell'identità pan-turca
Il Turkestan non è un paese ma una sconfinata parte dell'Asia, quasi completamente formata da territori dell'ex URSS, con un'importante appendice in Cina (indicativamente: gli attuali Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan, Kirghizistan, Afghanistan del Nord, Xinjiang Uighur). Più che in senso geografico preciso, a volte il termine è usato per designare un'area sfumata su cui vivono popolazioni di lingua uralo-altaica, cioè turca, che sono disseminate dal Mediterraneo alla Cina. Noi qui lo usiamo in questa seconda accezione. Il toponimo esisteva prima della conquista mongola ed è oggi un fatto politico, e non solo etnico, che ricorda la capacità di unione o federazione di cui le popolazioni di quell'area diedero prova più volte nella storia.
I khanati, ad esempio, furono il risultato spesso duraturo di queste unioni o federazioni. Da Gengis Khan alla dinastia mongola Yuan fondata dai suoi eredi, dall'Orda d'Oro che tenne la Russia fino al XIV secolo ai Tatari che formarono quelli di Astrakan, Crimea, Kuban, i khanati durarono fino a metà del XIX secolo, ed ebbero tutti un nucleo turco.
Se si possono riscontrare origini etniche comuni fra mongoli, tungusi e manciù, come fra iranici, caucasici e cosiddetti indoeuropei, i turchi originari che oggi sono in Baschiria, Kazakistan, Kirghizistan e Turkmenistan rappresentano un gruppo etnico assai omogeneo che nella storia ha dato un apporto fondamentale, diretto o indiretto, ai movimenti di tutti gli altri popoli, rappresentando in un certo senso il tramite per un cemento sociale, come successe a grande scala nelle "orde mongole", che di mongolo avevano poco, almeno sul versante occidentale. La famiglia di lingue turche è comunque imparentata con il mongolo, con il tunguso e con il manciù, perciò le orde si capivano anche se erano formate da genti diverse e insediate a distanze enormi. Di qui una possibile spiegazione della loro incredibile coesione politica e militare a dispetto della loro presunta "barbarie".
Anche la religione originaria, e quindi il sistema di conoscenza, era abbastanza coerente, ed è ricostruibile attraverso i miti, le leggende e le sopravvivenze recenti. Si tratta soprattutto di forme animistiche e sciamaniche, con il "culto" della lupa grigia come animale primigenio (il cielo), dell'orsa bruna (la terra; variante: la cerva), dello zibellino (la mutazione), del legno e del fuoco (l'energia). A queste forme, ancora vagamente presenti in tempi moderni, si sovrapposero il buddismo, il cristianesimo nella forma nestoriana, la corrente del manicheismo che giunse fino in Cina, finché non prevalse l'Islam, intorno al IX secolo, a cui gran parte delle popolazioni del Turkestan si convertì spontaneamente. Nonostante il tracciato recente di confini attraverso steppe e montagne, il Turkestan è rimasto relativamente unitario dal punto di vista etnico e linguistico, sopravvivendo alle differenze dovute alla recente sedentarizzazione e urbanizzazione.
Iniziando dalla presumibile zona di origine in Oriente, oggi rimangono in prevalenza o in buona parte "turche", le popolazioni:
1) dell'area siberiana dell'Altai, del fiume Irkut, delle regioni autonome russe di Tuva, Akassia, Jakuzia;
2) dell'area centroasiatica comprendente il Xinjiang cinese, il Kirghizistan (comprese le regioni cinesi, afghane e russe), il Kazakistan;
3) dell'area centroasiatica comprendente le popolazioni dei Karakalpachi, Kumyk, Karaoaj, Balkari, Nogaj, Karakaj, Karaym, Tatari, Baschiri e Ciuvasci, suddivisi fra Russia, Afghanistan, Iran, Cina;
4) dell'area centroasiatica comprendente: Uiguri, Turkmeni, Uzbechi, Qashqa'i, Asfhar, suddivisi fra Cina, Russia, Uzbekistan, Turkmenistan, Afghanistan, Iran;
5) dell'area asiatica centro-sud-occidentale comprendente Turkmeni, Azerbaigiani, Tatari, Gagauzi e Turchi attuali, suddivisi fra Russia, Azerbaigian, Turkmenistan, Iran, Afghanistan, Bulgaria, Moldova, Ucraina, Romania, Crimea e Turchia.
Un'eccezione etnica è rappresentata dal Tagikistan, che è rimasto un'isola di prevalente popolazione iranica nell'oceano turco. In totale la nazione virtuale del Turkestan, escludendo dal conteggio i non-turchi che pur vivono nell'area, e includendo la Turchia, ha oggi circa 200 milioni di abitanti. Non fu sempre così. Anticamente la Mongolia attuale faceva parte del Turkestan. Qualche studioso ha affermato che in origine non vi fossero né proto-mongoli né proto-turchi, ma che vi fosse un unico ceppo per i due popoli. Nel tempo si sarebbero aggiunte prove di ciò e si è ipotizzato che anche il giapponese e il coreano siano lingue di origini uralo-altaiche, cioè turche. A partire all'incirca dal IV secolo a.C., nelle steppe situate fra la Siberia, la Mongolia e la Manciuria, popoli nomadi, che solo in seguito furono chiamati "mongoli" come il ceppo originario, si radunarono in famiglie allargate, come attesta la storia scritta più tardi e, come in una reazione a catena, trascinarono altre famiglie, riunendosi in federazioni che s'intrecciavano e separavano di continuo, spostandosi in massa con tutto ciò che avevano, tende, armenti, vecchi, donne, bambini, anche in guerra (le donne avevano il compito di finire i nemici feriti). Questi nomadi non erano dunque numerosi, ma erano così mobili, decisi e violenti che incutevano terrore lungo tutto il confine che, dalla Siberia al Tibet, separava il Turkestan dalla Cina di allora. Per alcuni storici furono la causa indiretta della caduta dell'impero romano, specie quando alcune tribù turco-mongole, chiamate Hsiung-nu dai cinesi, e più tardi Unni dai romani, costrinsero l'imperatore Shi Huang-ti (246-210 a.C.) ad ampliare a dismisura la Grande Muraglia. Essa non sarebbe riuscita, millequattrocento anni dopo, a trattenere i Mongoli, ma intanto aveva costretto i nomadi a cambiare direzione finché, ondata dopo ondata, non arrivarono in Occidente, obbligando altre popolazioni nomadi a fare lo stesso, fino a premere sui limites orientali dell'impero romano.
In Eurasia gli incroci della storia produssero molte conseguenze, alcune a prima vista bizzarre, in realtà perfettamente spiegabili con la concatenazione degli eventi in un mondo per niente chiuso. Ad esempio, nel 53 a.C. legioni romane al comando di Crasso furono sconfitte dai Parti a Carre, in Mesopotamia. Diciotto anni dopo alcune centinaia di romani, sopravvissuti al massacro di Carre e fatti prigionieri, combatterono come mercenari inquadrati nell'esercito dei già citati nomadi Hsiung-nu (gli Unni) a migliaia di chilometri di distanza (nell'attuale Kazakistan) contro un corpo di spedizione cinese. Cinquecento anni dopo ritroviamo ancora gli Unni al tramonto della storia di Roma. Respinti dalla Grande Muraglia, furono sconfitti dai Romani a Troyes nel 451 (battaglia dei Campi Catalaunici). Non prima però di aver dato un contributo decisivo alla caduta dell'impero, dato che per fermarli fu necessario cooptare eserciti barbari nelle legioni romane (e così si assistette a cruentissime battaglie fra genti della stessa stirpe, perché anche Attila aveva dovuto ricorrere all'alleanza con altri eserciti barbari).
Fino all'XI secolo un paese chiamato Mongolia non esisteva: verso il V secolo quell'area geografica era "regno dei Tu-Chueh", cioè dei "Turchi orientali"; nell'VIII secolo fu un dominio uiguro, cioè di nuovo turco; nel IX passò ai Qirgiz, Kirghisi, ancora turchi; più tardi arrivarono i Cinesi e infine, dalla zona del fiume Amur, i Mongoli, che alcuni studiosi considerano di ceppo altaico come abbiamo visto. Se il ceppo è davvero lo stesso, non siamo di fronte a processi di "federazione" fra tribù etnicamente diverse e separate, come era stato ipotizzato, ma di movimenti umani all'interno di una stessa etnìa, come onde nello stesso mezzo (liquidi, gas o altro).
Tra la fine del XII secolo e l'inizio del XIII, per ragioni sulle quali gli storici sono in profondo disaccordo, dalla Mongolia partì una scintilla che riuscì a incendiare l'immensa area. Come molecole di un gas surriscaldato, i pastori nomadi, grandi cavalieri combattenti, entrarono nuovamente in movimento trovando un elemento unificatore in Gengis Khan, trascinarono con sé le popolazioni che incontravano e, spingendosi a ondate nelle steppe, conquistarono gran parte dell'Asia, con "orde" sempre più consistenti, che comunque, sull'immenso fronte, non superarono mai i 200.000 combattenti in tutto. Sembra che la più grande orda mongola fosse quella che, dopo la morte di Gengis Khan, attaccò l'Europa in Slesia nel 1241: 150.000 invasori mongoli, non solo soldati ma un intero popolo, furono fermati da un esercito teutonico composto da 30.000 uomini (l'invasione dell'Europa fu bloccata, ma i due eserciti si annientarono reciprocamente).
Come si vede, i Turchi odierni hanno materiale più che sufficiente per costruire ideologicamente una Grande Turchia, con tutti i miti di fondazione che vogliono. E naturalmente saranno tenuti d'occhio da tutte le potenze del mondo, specie dalla Russia, che percepisce strategicamente l'intero Turkestan non solo come confine meridionale ma come fascia di contenimento nel caso esso sia alleato di potenze avverse. Anche in questo caso si tratta di una questione antica: storici rancori russi sono ancora registrati sui libri di scuola moscoviti d'oggi, dovuti ai due secoli di dominazione dell'Orda d'Oro, un'orda mongola comandata inizialmente da uno dei figli di Gengis Khan e turchizzata già alla fine del XIII secolo.
Si è portati a concepire la storia secondo i parametri temporali della propria vita. Questo atteggiamento comporta errori sia nella valutazione dei tempi più lunghi di una vita, sia in quella dei tempi più corti. L'accumulo di fattori che precede gli esiti catastrofici ci sembra insopportabilmente lento, mentre non siamo individualmente preparati ad affrontare il momento di cuspide perché incomprensibilmente breve. Stiamo vivendo un'epoca in cui, mentre Europa e America sono in stagnazione sociale, l'Asia ribolle e tende a surriscaldare le vie-cardine che la geostoria ha determinato: ad esempio la Cerniera balcanica e il Medio Oriente, dal Baltico al Golfo; oppure l'immenso "corridoio", per ora virtuale, che dal Bosforo giunge a Vladivostok e in cui si parla prevalentemente uralo-altaico, cioè turco. La concatenazione degli eventi possibili è potente e gravida di elementi esplosivi, per cui una scintilla qualsiasi può far saltare la polveriera. Non è solo una questione di petrolio, gasdotti, corridoi, basi militari, diplomazia. Non ci sono solo USA, Russia e Cina, con l'Europa che annaspa in un angolo. Sull'immensa area si sta dispiegando un groviglio di forze che nessuna potenza imperialistica potrà controllare per i suoi scopi.
Specificità degli "imperi" turchi
Gengis Khan morì nel 1227, ma era ancora in vita quando già la sua leggenda riportava che una giovane vergine, sola, con un cammello e due sacchi pieni d'oro, avrebbe potuto attraversare in lungo e in largo il suo impero trovando protezione e stazioni di posta. In effetti la pax mongolica aveva comportato il rapidissimo ripristino della sicurezza sulle carovaniere, in special modo sulla Via della Seta aperta fin dalla preistoria, conosciuta da Greci e romani e ora organizzata in modo unitario per decine di migliaia di chilometri. Via che ovviamente non era una strada ma un complesso di percorsi che collegavano non solo l'Estremo Oriente con l'Occidente e viceversa ma anche e soprattutto le varie parti dell'Asia.
L'Islam era stato assorbito in Asia piuttosto tardi rispetto al Medio Oriente e al Nordafrica, come s'è visto, ma la nuova situazione politica e materiale fece della rete carovaniera un veicolo non solo di uomini e merci, ma anche di un Islam urbano, capace di grandi architetture e soprattutto di offrire (sempre dall'Occidente all'Oriente!) la struttura politica, amministrativa e giuridica che i Mongoli non avevano. Non che mancassero fin da tempi antichissimi forme centralizzate con le loro vie di comunicazione, ma esse si erano sempre dimostrate effimere, in balìa del muoversi spontaneo dei nomadi. Le popolazioni turche furono riunite per la prima volta in una parvenza di potere centralizzato di forma protostatale nel 552 d.C. (impero dei Turchi Celesti), realizzata a partire dall'attuale Mongolia. Lo ricorda la storia bizantina, in cui compare per la prima volta l'appellativo "Turchi". Ma questi tentativi, che pure avevano portato al controllo di immensi territori (fino a 18 milioni di Kmq!) furono sempre spazzati via da lotte intestine o scorrerie dei nomadi. Occorre attendere il X secolo, per vedere apparire un regno turco propriamente detto, a Ghazna, in Afghanistan, capace di una notevole cultura materiale, anche urbanistica, dovuta ai contatti dei suoi primi regnanti − che erano ex nomadi, resi schiavi dai loro nemici, ridiventati guerrieri e condottieri − con la civiltà persiana, già islamizzata.
Nelle alterne vicende, il regno di Ghazna fu soppiantato da un impero formatosi con l'aggregazione di altre genti turche provenienti dall'Asia centrale, i Selgiuchidi. Anch'essi ex nomadi animisti, avevano sincretizzato lo sciamanesimo con il buddismo per poi aderire all'Islam. Stanziatisi in un primo tempo nell'Afghanistan, la loro espansione li aveva portati direttamente in contatto con quasi tutte le grandi civiltà urbane del loro Occidente fino ad assorbire i caratteri della civiltà persiana. Dopo aver conquistato tutta la Persia con le sue città, presero Baghdad, Gerusalemme, Damasco, sottraendo anche vasti territori a Bisanzio in Anatolia (catturarono in battaglia l'imperatore di Costantinopoli, Romano V). Essi riprodussero nel loro impero non solo le moschee, le strade, i ponti, gli acquedotti, i caravanserragli visti nei paesi conquistati, moltiplicandoli su larga scala con estrema perizia tecnica, estetica nuova e grandiosità di volumi, ma anche la centralizzazione statale. Solo nel XIII secolo, lo stesso della calata dei Mongoli, costruirono 250 caravanserragli sulla rete carovaniera eurasiatica, con tutto ciò che questo comporta in fatto di comunicazioni e "infrastrutture" centralizzate. Nella zona selgiuchide-persiana, per la prima volta vi fu una fusione tra gli invasori nomadi turco-mongoli e le popolazioni stanziali arabe e ariane (i Mongoli arrivarono a Baghdad nel 1258). Ciò permise al sistema arabo-persiano-selgiuchide dei caravanserragli di estendersi a tutta l'Asia, specie tramite la civiltà persiana, che dall'Anatolia all'Afghanistan aveva già permeato di sé le architetture e le amministrazioni. Fu non a caso uno storico persiano, Ata-Malik Juvaini, a fornire la più monumentale storia agiografica dell'espansione mongola. Scritta nel 1260, essa è anche la prova che i terribili invasori delle steppe non erano così "barbari", e che anzi favorirono il sincretismo fra le culture.
Mentre i Turchi occidentali venivano assimilati dalle civiltà conquistate e ne portavano i risultati in Oriente, i Turchi orientali, che avevano già spazzato via ciò che rimaneva della civiltà centro-asiatica di Alessandro Magno (Battriana, Sogdiana, Gandhara, Corasmia), si frammentavano ritornando allo stadio del nomadismo e dell'orda (gli stessi Selgiuchidi mandarono nelle zone di confine le tribù combattenti restìe a sedentarizzarsi).
Quando nel corso del XIII secolo arrivarono gli invasori turco-mongoli, un cuneo selgiuchide, cioè puramente turco, era già penetrato in ciò che rimaneva dell'impero bizantino, consolidandosi in seguito anche durante la dominazione mongola. Questa penetrazione in Anatolia avvenne in diverse ondate, e con essa le popolazioni turche si sovrapposero sia a quelle indoeuropee, provenienti dal Caucaso e insediate fin dalla preistoria (e che diedero vita, nella locale età del ferro, all'impero ittita) sia a quelle già turche, anch'esse nomadi, giunte ben prima del dominio bizantino negli altipiani stepposi dell'Anatolia. Il cuneo selgiuchide fu la premessa per l'erosione finale del sistema bizantino, per la diffusione dell'Islam nella futura Turchia, per la formazione dell'impero turco ottomano e per la successiva caduta di Costantinopoli, che sancì la crescita d'importanza di tutta la cerniera "balcanica" con i suoi cardini e le linee di forza che l'attraversano.
Fattori di unificazione
Nelle stesse aree geostoriche in cui si originarono le antiche migrazioni turco-mongole vi fu, all'inizio degli anni '50, un processo di sedentarizzazione imposto dall'alto. In URSS, in Mongolia e in Cina, alcune tribù lo rifiutarono, continuarono la loro vita nomade migrando verso le steppe più inaccessibili al rullo compressore del capitalismo e in parte ancora vivono come i loro avi. Ma alcune famiglie originarie della Mongolia interna, del Turkestan, della Siberia e dello Xinjiang si unirono in una migrazione più impegnativa: seguendo antiche carovaniere, si spostarono verso l'Eurasia e percorsero più di diecimila chilometri a piedi per giungere, dopo anni, in Turchia. Non fu una grande migrazione: partirono circa 20.000 persone e ne arrivarono, stremate, circa 2.000.
Non siamo riusciti a ricostruire nei dettagli questa microstoria, ma sarebbe interessante sapere come mai alcune tribù turco-mongole avessero sentito il richiamo della Turchia in quegli anni. La storia d'Eurasia è ovviamente molto più complicata di quanto sia possibile affrontarla sia con una descrizione a grandi schemi sia con singole storie. Specie se si tratta di un retroterra storico vasto come quello a cui la Turchia attuale e alcune popolazioni, più numerose di quella citata, possono guardare. Troppi eventi, troppi protagonisti, troppa mobilità, troppe sovrapposizioni di date.
È da questo crogiolo che, all'inizio del XIV secolo emerge un'altra tribù turca, quella degli Osmanli (da Osman I, il capostipite), od Ottomani, in grado di rappresentare un attrattore sufficiente per l'inizio dell'ultimo ciclo "imperiale". Essa si costituì in emirato tributario dei Selgiuchidi in un'area di attrito con l'impero bizantino, e perciò determinante per lo sviluppo di tradizioni prettamente militari nella sua struttura sociale. Caduto l'impero selgiuchide sotto la pressione di tribù turche provenienti dall'Asia centrale, sospinte a loro volta dagli eserciti turco-mongoli degli eredi di Gengis Khan, gli Ottomani non solo sopravvissero sovrapponendosi agli Indoeuropei, ma conquistarono le più ricche terre dell'impero bizantino ed elessero a loro capitale Bursa, situata non troppo lontana dalla sponda meridionale del Mar di Marmara, proprio di fronte a Costantinopoli.
Le basi dell'impero ottomano sono dunque profondamente segnate dalla sua origine: la struttura era quella dell'impero selgiuchide; l'amministrazione e persino i funzionari erano quelli della Persia; l'esercito era turco ma rinforzato da elementi "arruolati", ancora bambini, nei paesi sottomessi e allevati secondo i criteri ottomani (i giannizzeri); l'economia, per la prima volta nella storia di questi popoli, era basata sullo scambio monetario garantito da una zecca di stato; la diplomazia, che non era certo il forte delle orde di un tempo, era costruita ora sui modelli arabi e bizantini (Orkhan, figlio del capostipite, sposò una Teodora, figlia dell'imperatore bizantino, intervenendo per questa via nelle lotte intestine del morente impero e conquistando senza combattere l'accesso ai Balcani).
Caduti gli imperi selgiuchide e mongolo, quando Costantinopoli era ormai ridotta ad un territorio poco più vasto delle sue fortificazioni, l'espansione degli Ottomani trovò ben pochi ostacoli. Questi vennero dalla Repubblica di Venezia sulle coste e, più tardi (1400), dall'attacco di Tamerlano che dissolse momentaneamente l'impero in Asia Minore. Esso resistette però nei Balcani, dove già da tempo era stata trasferita la capitale, Adrianopoli, e da cui ben presto partì la veloce riconquista dei territori perduti. Così entro la metà del XIV secolo tornarono ottomani gran parte dell'Anatolia nord-occidentale e parte dei territori bizantini al di là dei Dardanelli. Entro la metà del XV furono conquistate l'intera Anatolia, Costantinopoli, la Rumelia, la Bulgaria e la Valacchia; entro la fine dello stesso secolo la Grecia, l'Albania, la Bosnia, la Serbia, la Crimea e Trebisonda; entro la metà del XVI secolo la Mesopotamia settentrionale, il Kurdistan, la Siria, il Libano, la Palestina, l'Egitto, la Moldavia e la Podolia; infine, entro il 1683, epoca della massima espansione, l'Ungheria, la Stiria, la Transilvania, la Mesopotamia meridionale, l'Armenia, la Georgia, il Karabach, l'Azerbaigian, il Luristan, il Daghestan, Cipro, Creta, la Cirenaica, la Tripolitania e, come tributaria, tutta la costa maghrebina fino all'Atlantico.
Tale esplosione di potenza da parte di una piccola tribù turca scampata al cataclisma mongolo può essere spiegata solo con robusti fattori produttivi e sociali, come del resto succede con tutte le potenze che abbiano raggiunto il rango imperialistico (sia in senso antico che moderno). Tre fattori furono determinanti: 1) in tutte le terre occupate i contadini venivano affrancati dai vincoli feudali e personali (quando ad esempio i Turchi sbarcarono a Cipro, occupata dai Veneziani, i contadini greci insorsero contro questi ultimi i quali, pur non avendo mai conosciuto rapporti feudali in patria, li avevano mantenuti in loco); 2) una massa enorme di sudditi era tributaria di una dinastia dominante numericamente esigua, per cui il prelievo per sé stessa e per il suo esercito non era eccessivo; 3) veniva praticata una certa tolleranza verso usanze e credenze dei popoli assoggettati.
Tutti e tre i fattori erano una diretta conseguenza delle usanze dei popoli turchi e mongoli, che all'inizio dell'espansione dell'impero non erano ancora dimenticate. Per un nomade era impensabile legare un uomo alla terra, mentre nel feudalesimo era la prassi; un'orda combattente numericamente esigua poteva razziare derrate presso le popolazioni stanziali senza sconvolgerne l'equilibrio economico; la tradizione dell'animismo-sciamanesimo, ovvero di una non-religione, rendeva indifferente al nomade turco o mongolo quale tipo di credenza praticasse un popolo conquistato.
Contrariamente a quanto tramandato dai suoi nemici, come nel caso dei Mongoli, l'esercito dell'impero ottomano non era più feroce di tutti gli altri eserciti. Basti leggere per confronto la cronaca della conquista di Gerusalemme da parte dei Crociati per rendersene conto. O quella della conquista delle Americhe. O quella di un bombardamento a tappeto sui civili in una guerra moderna. L'esercito ottomano, come gli eserciti che l'avevano preceduto e come quello di tutti gli imperi, era a composizione internazionale, e quindi aveva nei suoi ranghi uomini delle nazioni soggette. Il tipo di dominio sui vinti, quindi, non si basava esclusivamente sul terrore e sulle leggi dei vincitori. La classe dominante (in questo caso i discendenti di Osman, la corte, l'amministrazione e i capi militari raccolti intorno al sultano) era numericamente insignificante di fronte alla massa dei "sudditi". In assenza di una nobiltà feudale di tipo ereditario, la classe dominante riproduceva solo sé stessa, senza crescere in modo esponenziale come invece succedeva alle famiglie feudali. Perciò la massa oppressa non doveva mantenere troppi oppressori. Essa era suddivisa in comunità abbastanza autonome, costituite sulla base della loro etnia e specializzazione produttiva. Queste comunità (millet) erano in grado di rifornire sia la classe dominante che l'esercito e la flotta meglio di quanto facessero le società feudali contemporanee dell'Occidente. Erano più grandi della media dei feudi occidentali ed erano governate da un solo rappresentante del governo centrale, accompagnato da un giudice e circondato da relativamente poca burocrazia e polizia.
Alcuni caratteri della società ottomana sono fluiti in quelli della Turchia moderna, primo fra tutti la funzione centrale dell'esercito, guardiano dell'unità nazionale e dell'integrità costituzionale borghese, esercito-società, entro il quale si forgiano i cittadini come un tempo si forgiavano i giannizzeri, simbolo delle diversità riunite nell'impero.
Fattori di frammentazione
Le determinanti storiche della frammentazione dei popoli turchi si possono studiare con gli stessi criteri con i quali studiammo quelle di altri popoli (cfr. specialmente: Le cause storiche del separatismo arabo), tenendo conto ovviamente delle dovute differenze, non solo di epoca e di sistema sociale, ma anche di ideologia. Abbiamo visto che la Turchia moderna ha accolto i Turchi per ultima, mentre la maggior parte della nazione turca è ancora in Asia. La sua storia di sporadiche unificazioni è nello stesso tempo storia di rapide dissoluzioni. Gli "imperi" turchi d'Asia duravano un tempo medio di pochi decenni, così come quello mongolo propriamente detto è durato poco più di mezzo secolo (indicativamente: 1209-1267). Quando si sono avviati veri processi di amministrazione centralizzata statale è stato solo grazie all'apporto di altre culture, specie quella persiana.
Da questo punto di vista, tolti quello Selgiuchide e Ottomano, è un po' forzato chiamare "imperi" gli altri 14 grandi dominii militari turchi esplosi nelle steppe. Popolazioni nomadi potevano coinvolgere in una guerra mobilissima altre popolazioni nomadi, ma erano impossibilitate a unire le popolazioni stanziali assoggettate senza lasciar loro il compito dell'amministrazione e della produzione. Il nomade per definizione non produce nulla che non sia trasportabile, quindi non ha bisogno di progetto, contabilità, aritmetica, geometria, magazzino. E quando ne ha bisogno è perché ha conquistato popoli stanziali, i quali hanno già ciò che serve alla loro esistenza. Per questo gli "imperi" turchi o mongoli hanno lasciato il ricordo storico della loro violenza distruttrice piuttosto che della loro civiltà.
Il conflitto fra conquistatori razziatori e popolazioni stanziali produttive era insanabile nel momento della conquista. Perdere tempo in un assedio intorno a una città fortificata non aveva senso per i nomadi, quindi l'alternativa era solo la capitolazione o lo sterminio come esempio terroristico. Ma in ogni caso bisognava passare prima dalla conquista delle mura, che fu possibile solo "importando" dall'industria militare cinese i tecnici capaci di fabbricare sul posto macchine d'assedio. La tecnica terroristica funzionava, tanto che, mediamente, per lo più le popolazioni si lasciavano inglobare, con gran risparmio di vite umane. Tuttavia le conquiste non erano stabili per il semplice fatto che il comando locale doveva essere suddiviso secondo linee tribali, e queste variavano di continuo a causa delle lotte intestine; per cui in ogni "impero" eurasiatico non fu possibile la formazione di un gruppo dominante che si potesse definire classe in senso stretto.
All'alta capacità militare si accompagnava l'assenza quasi assoluta della politica e dell'amministrazione, come abbiamo detto, anche se il breve periodo di Gengis Khan produsse un ammirevole surrogato con mezzi di una semplicità disarmante: per la prima volta nella storia dei Mongoli, le forze combattenti furono organizzate in unità gerarchiche a base decimale, con un comandante scelto fra le tribù per ogni dieci, cento, mille e diecimila guerrieri; allo stesso tempo, per mantenere i collegamenti fra le varie parti dell'impero, fu organizzata una rete di velocissime staffette a cavallo. In effetti gli esempi che abbiamo riportato di "civiltà nomade", termine che di per sé sarebbe un ossimoro, sono esempi di civiltà altrui a cui i nomadi si sono adeguati, come nel caso della dinastia cinese Yuan, dei Selgiuchidi e di Tamerlano con i suoi successori Moghul. Ai Mongoli non servivano le città. Anche la loro capitale, Karakoram, all'inizio era una tendopoli. La leggenda registra un significativo aneddoto: una volta conquistata la Cina settentrionale, Gengis Khan avrebbe dato l'ordine di spianare tutte le città con le loro mura per far posto ai pascoli, ma ne sarebbe stato dissuaso dai suoi figli, a loro volta convinti da un'assemblea cinese di saggi.
Le forze centrifughe presenti nel Turkestan (ricordiamo che con questo termine si definisce un'area vastissima dai confini sfumati che va dalla Turchia alla Cina passando dal Caucaso) non sono cancellate dalle recenti frontiere borghesi. Esse non sono più prodotte da questioni tribali, se non in misura insignificante, ma da interessi di avide borghesie locali che hanno una visione storica ampia quanto un biglietto di banca. Queste borghesie parassite non hanno forza intrinseca, e potrebbero essere spazzate via da un qualsiasi movimento sociale che fosse minimamente determinato. In effetti ciò è già successo, ma per adesso unicamente allo scopo di sostituire una cricca borghese con un'altra. Esse infatti sono utilissime ai paesi imperialistici che si scontrano nel Heartland, e da questi paesi sono sostenute.
La Turchia è un paese capitalistico moderno, popoloso e militarmente attrezzato. Nel suo codice genetico vi è l'impulso selgiuchide verso l'Oriente così come quello ottomano verso l'Occidente. Non alla maniera di Mussolini, che voleva far rivivere i fasti dell'impero romano, ma come uno dei cardini del mondo nei quali si accumula del potenziale politico reale. Per adesso non ci sono segnali di coinvolgimento autentico delle popolazioni turche. In Eurasia trionfa il separatismo. Ma la situazione non è per niente stabile e il nazionalismo pan-turco che ne deriva non assomiglia per niente al pan-arabismo del partito Baath, la cui ideologia della "resurrezione araba" era, appunto, pura ideologia.