Capitalismo che nega sé stesso
Una crisi ai limiti del modo di produzione capitalistico
Il sistema creditizio accelera lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Nello stesso tempo, il credito affretta le violente eruzioni di questo antagonismo, le crisi, quindi gli elementi dissolventi del vecchio modo di produzione. Questi i caratteri immanenti del sistema del credito: 1) sviluppare la molla della produzione capitalistica fino al più puro e colossale sistema di gioco ed imbroglio; 2) limitare sempre più il numero dei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; 3) realizzare la forma di transizione a un nuovo modo di produzione (Marx, Il Capitale, Libro III, cap XXVII).
Una crisi magnifica
Nel numero scorso di questa rivista abbiamo pubblicato un articolo cui abbiamo voluto dare un titolo significativo, che evocasse il lungo lavoro da noi svolto sulla base delle anticipazioni di Marx ed Engels e delle successive elaborazioni della nostra corrente. L'articolo era intitolato Non è una crisi congiunturale ed era la continuazione di un lavoro pluridecennale su un'affermazione che riteniamo tanto fondamentale quanto provata a partire dai nostri classici: la crisi di oggi non è altro che una delle oscillazioni entro un ciclo di crisi più lungo e cronicizzato, databile dall'inizio degli anni '70 e da allora sempre uguale a sé stesso.
Queste oscillazioni interne al presente ciclo, molto più ampie in termini assoluti di quelle verificatesi durante il ciclo di crisi del 1929-39, non sono state accompagnate da effetti altrettanto devastanti sulla società. Hanno cioè distrutto molto meno capitale in percentuale rispetto all'attuale capitalizzazione delle borse e all'attuale massa del capitale finanziario. Ma sarebbe un grave errore pensare che tutto l'arco quasi quarantennale di questa crisi sia da attribuire semplicemente alle oscillazioni di borsa, agli effetti monetari, alla speculazione o agli abbagli di capitalisti e governanti. È vero invece il contrario: tutto ciò che avviene a livello del capitale fittizio non è altro che la sintomatologia di ciò che avviene a livello del capitale reale.
La differenza è in Marx, che chiama capitale reale la massa di valori che entra ed esce dal ciclo produttivo, compresa quella che serve alla circolazione del denaro e delle merci, e capitale fittizio la massa monetaria derivata, cioè quella che si forma esclusivamente nella circolazione, ad esempio una cambiale che, servita a una transazione materiale (denaro contro merci o servizi), viene scontata in una banca che a sua volta la adopera come mezzo di pagamento, cioè come denaro. E se è capitale fittizio ogni sopravalore che apparentemente si formi nella circolazione (da non confondere quindi con il plusvalore), è capitale fittizio anche il reddito di un azionista d'industria che venda la proprie azioni ricavandone, oltre ai dividendi (plusvalore), anche un sopravalore di mercato.
Si capisce allora come, in un modo di produzione arrivato al suo limite già ai tempi di Marx, e oggi ormai quasi interamente basato sul credito e sulla finanza, le crisi si manifestino in primo luogo a livello finanziario, monetario, azionario, creditizio. A prima vista, infatti, non si tratta che della convertibilità in denaro delle suddette cambiali, che oggi si sono per lo più trasformate in complessi strumenti finanziari, derivati, ecc.). Tuttavia queste cambiali non potrebbero esistere se in origine non fossero servite come pagherò per scambi di merci e servizi reali. I mutui subprime, che la leggenda vuole all'origine dell'attuale disastro finanziario, non sono altro che cambiali, dei pagherò legati a un'ipoteca immobiliare, "scontati" nel mercato interbancario, impacchettati in titoli che si chiamano giustamente derivati e sono fatti circolare come denaro da reddito.
Ma, dice Marx, quando l'estensione della carta (oggi dei byte nella rete computerizzata) va molto al di là del fabbisogno sociale, quando i pagherò derivati incominciano a rappresentare ogni genere di attività finanziaria, legale o truffaldina, la crisi è inevitabile. E aggiunge un'osservazione che oggi suona come una tremenda condanna di fronte agli spasmodici tentativi internazionali di salvare il sistema: "Una legislazione bancaria insensata può peggiorare una crisi creditizia, ma nessuna legislazione bancaria può eliminare le crisi". A causa del credito, le imprese del Capitale sono sempre più imprese sociali in contrasto con quelle private. La crescente autonomia del Capitale nei confronti dei suoi possessori privati, ormai quasi completamente spodestati dalle loro funzioni, la crescente socializzazione del lavoro sotto il comando del capitale globale, non è altro che la soppressione del Capitale come proprietà privata nell'ambito stesso del capitalismo (cfr. Marx, Il Capitale, Libro III, capitoli 27 e 30).
Di fronte a crisi acute, che un tempo non erano ancora chiamate sistemiche come quella cronica attuale, Marx ed Engels si scrivevano commentando: "Questa crisi è magnifica". Avessero avuto sotto gli occhi ciò che sta succedendo in questi giorni avrebbero fatto salti di gioia: nella storia del capitalismo non si era mai verificato il collasso simultaneo del credito, del valore degli immobili, dei mutui, delle azioni, delle obbligazioni, dei fondi di investimento aperti e chiusi, con relativo fallimento di banche e con l'esplosione dei prezzi delle materie prime (speculazione sulla loro crescente scarsità effettiva) subito seguito dal loro crollo (segno evidente di deflazione, molto più temuta dell'inflazione perché sintomo di soffocamento nella sfera della produzione industriale). Tutto ciò nella prospettiva di una recessione, ormai data per scontata e durevole.
La legislazione bancaria insensata ha aggravato la crisi, ma, appunto, nessuna legislazione può evitarla: mentre scriviamo, a nemmeno un mese dai provvedimenti drastici tesi ad evitare il collasso dell'intero capitalismo, gli stessi enti che hanno varato i decreti ammettono che le migliaia di miliardi di dollari "iniettati nel sistema" sono stati bruciati senza altro effetto che quello di alimentare la speculazione di borsa. Infatti gli indici di tutto il mondo hanno risposto con improvvisi recuperi, mentre a nessuno conviene ricordare che i massimi recuperi della storia sono avvenuti proprio dopo i massimi crolli nel periodo della Grande Depressione.
Economia stalinizzata e proletariato stakanovizzato
Oggi gli interventi degli Stati sono di gran lunga maggiori che in passato, sia dal punto di vista monetario quantitativo, sia dal punto di vista della vera e propria "nazionalizzazione dell'economia", come giustamente annota persino The Economist, il periodico inglese dedito fin dal tempo di Marx alla santificazione del mercato. Dopo il 1929, i fascismi si erano limitati a controllare il livello dei profitti, ridistribuire il reddito e rilevare le industrie in crisi per riassestarle e rimetterle sul mercato. Oggi le nazioni più potenti emanano simultaneamente, a tappeto, decreti per un controllo dell'intera economia, attuando vere e proprie statizzazioni del credito. Non solo intervenendo sulle banche, ma anche fornendo direttamente capitali all'industria, specie alle piccole e medie imprese da sempre vessate e ora strangolate dalla stretta creditizia. Negli USA, ad esempio, lo Stato acquisterà direttamente, saltando le banche, le credit papers, obbligazioni emesse dall'industria per le esigenze immediate di finanziamento. Nei paesi dell'Unione Europea l'aperto aiuto statale alle singole industrie non è permesso, ma se altri importanti paesi lo forniscono, le leggi della concorrenza livelleranno le condizioni internazionali. Essendo congelato il mercato interbancario, le singole banche stanno addirittura obbligando i loro clienti a rientrare dai fidi, cioè stanno chiedendo loro denaro anziché fornirlo!
Hanno ragione i fondamentalisti americani dell'ideologia liberista: si tratta di una stalinizzazione dell'economia mondiale che nemmeno Baffone avrebbe potuto immaginare. Essa richiederà di stakanovizzare conseguentemente e brutalmente i proletari per decenni, in uno sfruttamento inaudito, per estrarre la mostruosa quantità di plusvalore necessaria non tanto a compensare la massa monetaria "creata", cosa impossibile, quanto a ridare fiducia su di essa ed evitare la sua banale e semplice cancellazione. E oltretutto la misura non è ancora colma. Negli Stati Uniti iniziano a far capolino le carte di credito insolvibili, altri pagherò dietro ai quali non ci sono case a far da copertura ipotecaria. Uno "scoperto" totale. E nessuno sa che cosa potrebbe succedere alla massa dei futures e derivati, "creata" dall'aspettativa di forti rialzi strutturali dei prezzi delle materie prime, ed ora in bilico a causa della sindrome recessiva e quindi della deflazione.
In un'economia come quella americana, dove il debito privato eguaglia l'intero PIL (13.000 miliardi di dollari), sembrerebbero capitalisticamente ragionevoli coloro che predicano un indirizzo dei capitali finanziari verso la cosiddetta economia reale. Stolti e pazzi. A parte il fatto che non esistono due economie, una reale e una irreale, mentre come abbiamo visto esiste capitale reale e capitale fittizio, questa è una crisi di sovrapproduzione di capitali come il mondo non ha mai visto. Ed eccesso di capitali vuol sempre dire eccesso di merci. I disgraziati che non possono pagare i mutui e quelli che accumulano debiti sulle carte... di credito sono precipitati nella miseria perché si produce troppo, non troppo poco. Se anche solo la millesima parte del capitale fittizio (esclusivamente circolante) si convertisse per miracolo in capitale reale (produttivo di valore), il mondo esploderebbe, ricoperto di merci invendute. E anche la necessaria cancellazione di capitale fittizio è minima rispetto a ciò che sarebbe necessario per disintossicare momentaneamente il Capitale: in tredici mesi di crisi "dei mutui" sono stati azzerati "solo" 25.000 miliardi di dollari, meno di un ventesimo rispetto alla sola massa di derivati esistente. Al momento non si vede alcuna reazione di classe, ma la situazione materiale è davvero magnifica.
Il negro dell'Alabama e il Capitale che non esiste
In un programma televisivo inglese due comici, un finto intervistatore e un finto economista discutono sulla crisi. La domanda è: com'è potuto succedere? Semplice, dice l'economista: poniamo di incontrare un povero negro dell'Alabama con reddito basso e senza casa; gli diciamo che può mettersi un tetto sopra la testa a un prezzo ragionevole, con un mutuo a tasso superiore a quello corrente − dato il tipo di solvibilità − ma garantito dal sicuro aumento del valore della casa, naturalmente ipotecata. Il negro ha la casa e la banca ha un mutuo ad alto rendimento, che impacchetta con altri mutui dello stesso genere e vende sul mercato (ricordate la cambiale riscontata). L'intervistatore inarca i sopraccigli: ma chi si compra il debito a rischio di un negro dell'Alabama? Semplice, ripete l'economista: è una questione di marketing. Siccome il rendimento è alto e la garanzia è sicura dato l'andamento del mattone, mi faccio assegnare un alto punteggio da una società di rating, rinomino il debito del negro "Credito strutturato di alta gamma" − senti come suona bene − e vado a venderlo come derivato a Berlino o a Sidney dove il compratore non potrà chiedere all'impiegato di banca cosa diavolo c'è dentro. E l'impiegato, sbandierando il rating, penserà solo alla provvigione da intascare.
Non siamo sicuri di aver riportato a memoria l'esatto dialogo, ma il senso è quello. Lasciamo perdere quindi il marketing, i nomi fantasiosi e i traffici di quella che ormai è la vera economia reale (cioè l'economia del capitale fittizio) e basiamoci sull'unico rapporto che produce valore, quello fra capitale e forza-lavoro. Dimentichiamo perciò la fibrillazione mediatica sui fallimenti, sulle sincopi borsistiche, sulle nazionalizzazioni, sulle politiche anticrisi e sulla necessità di un governo mondiale dell'economia (come se fosse possibile in un mondo di nazioni). Tutte manifestazioni sovrastrutturali, manipolazioni illusionistiche, inversioni di causa-effetto.
Scusate ma è necessario un piccolo ripasso. Ci bastano poche righe. Di Marx è nota la "formula trinitaria che abbraccia tutti i segreti del processo di produzione sociale": capitale, terra e forza-lavoro. Il capitale è suddiviso in mezzi materiali (impianti, materie prime, semilavorati, ecc.), profitto d'impresa e interesse; la terra produce rendita per il solo fatto di essere proprietà privata; il valore della forza-lavoro equivale al valore della quantità di prodotti e servizi necessaria a riprodurla (salario). Ora, i mezzi materiali contengono in ultima analisi profitto e lavoro, il profitto non è altro che una manifestazione locale del plusvalore globale e l'interesse non è altro che una ripartizione del plusvalore, quindi procediamo a una eliminazione, per cui la formula trinitaria nuda e cruda diventa: Capitale, rendita, lavoro. Ma la terra di per sé non ha valore, esiste, non è stata prodotta, quindi il valore che essa apparentemente "rende" deve provenire da un'altra parte. Siccome il salario è dato, come abbiamo visto, non rimane che il plusvalore. La rendita è una ripartizione sociale del plusvalore. Bene, siamo giunti alla semplificazione massima: plusvalore-capitale e lavoro-salario. Qui Marx, giunto al termine del Terzo Libro del Capitale, ci ricorda le ragioni per cui ha scritto questa sua opera:
Ma il capitale non è una cosa; è un determinato rapporto sociale di produzione, proprio di una determinata formazione storica della società, che si rappresenta in una cosa e conferisce a questa cosa uno specifico carattere sociale. Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione, materiali e prodotti. Il capitale sono i mezzi di produzione trasformati in capitale, che in sé non sono capitale più che siano denaro, in sé e per sé, oro o argento. Sono i mezzi di produzione monopolizzati da una determinata parte della società (Il Capitale, Libro III, capitolo XLVIII).
È solo in questo rapporto sociale che, a causa della proprietà, oltre ai fattori materiali della produzione esistono anche Capitale e salario. In un altro tipo di rapporto rimarranno "plusvalore" e lavoro, dove le virgolette stanno a significare che non si tratta di valore di scambio ma di lavoro: oltre alla riproduzione della vita fisica del lavoratore, occorre anche pensare alla riproduzione dei mezzi di lavoro, delle scorte, delle infrastrutture, di ciò che va inevitabilmente dissipato, ecc., così come l'organismo biologico riproduce le proprie cellule senza bisogno che siano proprietà di qualcuno.
Ma il rapporto sociale sta già diventando di "altro tipo": l'istupidimento generale dei governanti di fronte alla batosta di ottobre dimostra abbondantemente che la "non esistenza potenziale" del capitalismo di cui parlava esplicitamente Marx è oggi ancor più marcata e che basterà veramente poco al proletariato per spezzare gli ultimi vincoli che lo legano, con tutta l'umanità, al regno del valore.
Il negro dell'Alabama o il fast-food worker, l'operaio costretto a mangiare polpette al Mc Donald's, semidisoccupati, spiantati e senza casa, si sono trovati nel mezzo di un ciclone che ha portato il costo del denaro vicino allo zero (ora all'1% in USA, 0,5% in Giappone), per cui il differenziale per un mutuo ad alto interesse diventava sopportabile anche per comprarsi case da 500.000 dollari su un mercato a prezzi crescenti e quindi "sicuro". Abbiamo visto com'è andata: con il capo dell'economia americana Bernanke "disposto a gettare soldi gratis dall'elicottero sulla popolazione pur di scongiurare il disastro". Un momento: denaro a costo zero significherebbe casa a costo zero pagabile semplicemente con lavoro nel tempo. Hanno ragione i beceri fondamentalisti più bushiti di Bush: c'è del socialismo in America.
Regalare denaro. Per farne che cosa?
La crisi di metà anni '70, causata dalla creazione di un'enorme massa monetaria vagante in seguito alla dichiarazione unilaterale di inconvertibilità del dollaro e dalla decuplicata rendita petrolifera tramutata in capitale finanziario, ha dato inizio − come abbiamo visto più volte − a una crisi cronica entro la quale la massa di capitale fittizio non ha fatto che aumentare. È questa massa che ha apparentemente provocato i crolli dell'87, del '97, del 2000 e quello attuale. Ma la crisi non è affatto "finanziaria".
L'interesse è parte del profitto, e quindi per ogni capitalista che chieda denaro a prestito il saggio d'interesse non può mai essere superiore al proprio saggio di profitto. Fallirebbe. Portare il saggio d'interesse fino a zero (tra il 2002 e il 2006 il costo del denaro negli USA è stato diminuito per 18 volte consecutive) significa mediamente equiparare i capitalisti che hanno bisogno di anticipi di capitale dalle banche a quelli che invece si autofinanziano con il plusvalore dei cicli precedenti. Significa abolire le leggi della concorrenza, cioè il mercato, cioè l'essenza del capitalismo. Ma lasciamo il terreno della realtà potenziale e ancoriamoci a quello della realtà attuale, nel senso di cinetica.
In seguito al crollo delle borse tra il 2000 e il 2002 (nel frattempo vi fu anche l'attacco alle Twin Towers), il governo americano cercò di tamponare la crisi varando una politica economica di rilancio dell'economia, facilitando il mercato del denaro con bassi interessi, iniettando liquidità sul mercato e raddoppiando la spesa militare: gli Stati Uniti diventarono di fatto il paese con l'economia più statizzata del mondo. È da allora che parte del capitale fittizio si è mossa verso l'edilizia, fino a rappresentare, solo in questo campo, fino all'80% della crescita americana di quel periodo (il dato è di Joseph Stiglitz). Si trattò evidentemente di speculazione, ma tutti sanno che gli speculatori si muovono là dove la possibilità di guadagno è ritenuta più alta. C'è quindi da chiedersi come mai non si siano rivolti all'industria per diventare stabili possessori di azioni, come facevano i capitalisti di una volta (per incassare dividendi e non per compravendite speculative ogni qualche minuto, ventiquattro ore su ventiquattro). E c'è da chiedersi quanto affidabili siano le cifre del PIL o "valore aggiunto" se con esso viene conteggiata anche parte del capitale fittizio.
La speculazione esiste da quando esiste il denaro, ma da quando il denaro è capitale essa non riguarda più soltanto la ricerca del massimo profitto in occasioni particolari. Essa è invece il modo di essere del capitalismo. Ai tempi di Marx si speculava sul cotone e sui raccolti futuri di paesi lontani proprio come si fa adesso. Vi erano, proprio come adesso, crack bancari e crisi finanziarie. Solo che mai come adesso i capitali speculativi si erano allontanati dal mondo della reale produzione di plusvalore. Ci sono degli strumenti finanziari (Credit Default Swaps) creati ad arte per far debiti e investire sul comportamento di altri che hanno debiti, cioè sulla loro capacità di onorarli o meno. Abbiamo visto, con Marx, che già al secondo ordine di sconto di una semplice cambiale non c'è più alcun legame con la transazione fisica originaria, denaro contro merce o servizio. Oggi con i derivati e gli swaps si arriva a dieci o più ordini di distanza, dietro a quel tipo di scambio non c'è più nulla, e se quel tipo di scambio rappresenta il 95% del "mercato", allora persino un Guido Rossi può dire, dopo un secolo e mezzo, che "questo non è più capitalismo".
È dagli anni '70 che si dà la colpa delle crisi alla finanziarizzazione del mondo e alla speculazione che ne deriva, ma nessuno è mai riuscito ad evitare che masse di capitale, quasi esclusivamente fittizio, si muovessero autonomamente per il pianeta. Il fatto è che nessun economista, capitalista, governante o mago può più far nulla di fronte a un fenomeno descrivibile con cifre da capogiro: 550.000 miliardi di dollari in derivati di vario tipo, 45.000 miliardi in Credit default swaps, 2 o 3.000 miliardi in mutui e carte di credito a rischio più altre diavolerie finanziarie (l'Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari E Finanziari cita un ammontare nozionale complessivo di 900.000 miliardi di dollari). E si tratta di stime per difetto, assolutamente inattendibili. Quando i giornali scrivono che nell'ultimo anno borsistico si sono "bruciate" azioni per 25.000 miliardi di dollari, si basano sui dati della capitalizzazione di borsa, tanto in partenza, tanto all'arrivo, una semplice sottrazione su dati certi. Ma nessuno sa calcolare a quanto ammontino effettivamente i miliardollari mossi attraverso i sofisticati strumenti finanziari del capitalismo attuale: il 60% delle transazioni non avviene neppure sul computer ma al telefono. E non ne rimane traccia.
Denaro abbondante e a poco prezzo, dunque, ma per fare cosa se l'industria e i servizi vendibili non producono più un plusvalore sufficiente a ripagare anche l'interesse che pur non può essere prelevato altrove? Si capisce bene che il gioco non può continuare all'infinito, è inevitabile una massiccia cancellazione di capitale, prima fittizio e poi reale. Reale, certo, perché la corsa alla produttività genera plusvalore relativo, aumento della sua massa a scapito del saggio (rapporto fra profitto e capitale anticipato) e una grande sovrappopolazione relativa, esclusa dalla produzione e quindi dal consumo.
Mentre radio, televisione e giornali si trastullavano con gli effetti sintomatici della crisi, la crisi stessa si incaricava di mostrarsi per quello che era: un intoppo cronico della produzione di plusvalore, un permanente difetto di accumulazione che porta il sistema capitalistico a muoversi sull'orlo del caos, là dove piccole condizioni al contorno possono condurre a mortali biforcazioni. Non era ancora del tutto definito il fallimento della Lehman Brothers, con grossi titoli sul più grande disastro bancario mai avvenuto, che anche la Washington Mutual falliva, un crack più grave ancora. Per non parlare della AIG, il maggior gruppo assicurativo-bancario del mondo, che lo Stato aveva salvato dal fallimento con il prestito di una novantina di miliardollari e che invece bruciava tale somma in una settimana soltanto per tamponare le falle più vistose. Per non parlare dell'abbassamento simultaneo dei tassi da parte delle banche centrali dei sei maggiori paesi del mondo. Per non parlare, infine, dell'emergere di una situazione finora sfiorata con cautela dai media ma assolutamente fondamentale: con il congelamento mondiale del credito all'industria e al consumo migliaia e migliaia di fabbriche sono sull'orlo del fallimento o perlomeno in grandi difficoltà, a partire dai colossi automobilistici fino ai produttori di beni di consumo meno durevoli, passando attraverso il settore più delicato di tutti, quello dei mezzi di produzione.
Grande Depressione bis?
Non stiamo a ritornare sull'enorme quantità di notizie simili già riportata alla rinfusa dai mezzi d'informazione, i quali mescolano negligentemente gli aspetti fenomenici con quelli sostanziali. Ma occorre sottolineare il fatto che di questa crisi ci stanno mostrando, più o meno consapevolmente, solo la punta dell'iceberg. Questo significa due cose: primo, che gli esecutivi degli Stati sono giustamente preoccupati e fanno di tutto per non diffondere il panico; secondo, che non hanno capito la profonda natura sistemica della crisi stessa e quindi non sanno assolutamente che pesci pigliare. Certo, sono in molti ormai a parlare di "crisi sistemica", che nasce dal motore primario dell'accumulazione capitalistica, provoca sconquassi sovrastrutturali, i quali a loro volta hanno effetti micidiali sulla struttura. Tuttavia il pericolo epocale che sta correndo il sistema in quanto tale è esorcizzato da tutti. La paura di dover affrontare una recessione marciante verso la depressione è molto diffusa anche fra la popolazione, ma non è intaccata la fiducia nella capacità di ripresa del capitalismo. Persino tra i sinistri, al di là delle frasi sindacaleggianti su "chi pagherà la crisi", si pensa che la tempesta possa passare come tutte le altre volte.
Noi non saremmo così sicuri che la tempesta passi e tutto ritorni come prima, fino alla prossima crisi. Può darsi che i provvedimenti massicci di nazionalizzazione dell'economia producano effetti, sia immediati che lontani nel tempo. Può darsi che si vada in recessione per un paio d'anni come prevedono diversi economisti, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e i vertici dell'OCSE. Può darsi che riprendano i consumi e che la crescita permanga, magari attestandosi a livelli più modesti, trainata dai grandi paesi emergenti. In fondo si può vivere nel debito perenne pagandone solo gli interessi, come chi affitta in leasing un'automobile invece di comprarla. Ma solo a patto che il debito non cresca oltre la capacità di pagamento degli interessi. O a patto che qualcun altro li paghi. Il debito si può anche cancellare con una dichiarazione d'insolvenza e quindi col fallimento. Insomma, per il capitalismo non è impossibile sopravvivere malato di finanziarizzazione e debito. A livello di capitale fittizio si può fare e disfare, la somma algebrica globale è sempre la stessa. A parte naturalmente la differenza fra chi ne esce sanguinante e chi fa sanguinare gli altri accrescendo il divario fra la massa dei redditi bassi e l'esigua minoranza di quelli alti.
C'è comunque un andamento storico inesorabile che ci mostra una perdita di energia del sistema dovuta all'aumento della produttività, cioè alla legge della caduta del saggio di profitto. C'è all'orizzonte la questione della rendita che il profitto e il salario dovranno pagare per materie prime sempre più scarse. Per noi è indubbio che questa crisi non riguarda solo il capitale fittizio. Il capitalismo s'è preso una botta sulla struttura dell'accumulazione, dalla quale non si risolleverà più. Non sarà una Grande Depressione bis, tipo 1929. Sarà qualcosa di molto peggio. Non sarà un infarto con terapia (Seconda Guerra Mondiale) e convalescenza (Ricostruzione) ma un'agonia cui il proletariato dovrà mettere fine.
Ci si chiederà: come fate ad essere così sicuri? Quale hybris vi guida per giungere a una tale arroganza di previsione, quando tutti sanno, compresi voi che bazzicate l'argomento, che quando si tratta di sistemi complessi, dal comportamento non lineare, la previsione è impossibile?
Rimandiamo per una risposta generale all'altro articolo che compare su questo stesso numero. Precisiamo soltanto che la società è un organismo vivente, fatta di altri organismi viventi. Fra questi, l'organismo più complesso che la natura sia stata in grado di produrre, l'organismo più interattivo con la biosfera e con sé stesso e quindi il meno lineare di tutti è l'uomo; ed esso, come tutti gli esseri viventi, muore. Il suo ciclo di vita-morte è abbastanza ben conosciuto. La lunghezza è variabile, ma se un uomo ha un nemico mortale può finire ammazzato in qualunque momento della propria vita. Lo sappiamo, la parabola è imperfetta. L'individuo muore ma la specie gli sopravvive, e l'eventuale assassino potrebbe non essere diverso dall'assassinato e sostituirlo semplicemente. Si potrebbe discutere sulle metafore che è possibile costruire con la nostra piccola parabola: con la rivoluzione russa l'assassino diventò peggio dell'assassinato, mentre nella rivoluzione a venire l'assassino fa già parte di un universo sociale del futuro. Ma per adesso ci serve solo affermare che il capitalismo muore e tanto basta. Questa crisi, ormai praticamente quarantennale, mostra tutte le magagne dell'organismo capitalistico. Che è innegabilmente tenace, ma è malato, senile e drogato. Per di più in overdose.
Per le ragioni cui abbiamo accennato non si può ripetere la crisi del '29. Diverse sono le premesse. Allora c'era capitale finanziario alla Hilferding e imperialismo alla Lenin, cioè capitale d'investimento ed espansione coloniale, oggi c'è capitale fittizio e globalizzazione asfittica. C'è una bella differenza e la troviamo già in Marx: il mercato estero fu la base per lo sviluppo del capitalismo; l'industria capitalistica produsse un'esuberanza di merci e capitali; diede quindi vita al mercato mondiale; una volta affermatosi il mercato mondiale, l'industria da fattore dello stesso ne divenne il prodotto. Oggi l'industria, pur rimanendo il fattore primo della produzione di tutto il valore nella società, è diventata oggetto subordinato al Capitale "finanziario" (nell'accezione odierna) ed è scambiata sul mercato, liquidata, smembrata, centralizzata, ridimensionata, rilocalizzata, ecc. a seconda di come tira il vento, senza riguardi rispetto alla sua struttura materiale e sociale. L'importante è che sia al servizio del Capitale e dei suoi funzionari, cosa che tra l'altro provoca un conflitto permanente fra i detti funzionari superpagati e i tecnici che devono badare al ciclo produttivo in quanto tale.
Della Grande Depressione ci interessano comunque anche alcune analogie con la crisi attuale. Normalmente si dice che il crollo borsistico iniziato il 24 ottobre del 1929 causò una crisi che sfociò, appunto, nella Grande Depressione, durata 12 anni e superata solo con la guerra. Ciò non è esatto. L'economia americana era già in recessione da qualche mese ed era asfittica almeno dall'anno prima. La produzione industriale era calata del 20% su base annua e l'indice generale dei prezzi all'ingrosso era sceso del 7,5%, mentre la produttività operaia era cresciuta dal 1921 al 1929 del 43%! In quei dieci anni il divario sociale era aumentato enormemente: l'1% della popolazione era giunto ad accaparrarsi il 40% del reddito totale, mentre all'80% non andava che il 20%. Nello stesso periodo s'era verificata una gigantesca centralizzazione industriale: in 1.200 fusioni erano confluite più di 6.000 aziende, tanto che le 200 maggiori aziende americane giunsero a possedere il 50% del potenziale industriale degli Stati Uniti. Più di metà della popolazione americana viveva già prima del crollo al di sotto della soglia di povertà (750 dollari all'anno pro capite). Dall'estate del 1927 alla primavera del 1928 la Riserva Federale aveva varato una politica di espansione creditizia proprio per scongiurare la crisi, e tutti gli economisti odierni sono concordi nel dire che fu "giusto e ragionevole", peccato che il denaro a basso costo fosse usato per la "speculazione" e non vi fosse stata la spinta espansiva. Nel 1927 vi fu poi l'equivalente del G20 odierno, cioè una conferenza internazionale contro il protezionismo, che si concluse… con un aumento del protezionismo (una politica che fu chiamata "Saltare al collo del vicino"). Nonostante ciò, ma noi diciamo proprio per ciò, i prezzi di borsa erano saliti dal maggio 1928 al settembre 1929 del 40%, a dispetto delle misure prese fin dal 2 febbraio del '29 dalla Federal Reserve che, contro la speculazione, aveva proibito i prestiti bancari per acquisti di azioni allo scoperto. La somma delle misure prese dagli Stati senza alcun coordinamento ebbe effetti disastrosi e la recessione divenne anche deflazione, vanificando i residui tentativi di porvi rimedio (fra il 1930 e il 1933 vi furono venti conferenze internazionali per discutere sulla "questione del grano").
Veniamo ai giorni nostri per una comparazione. I dati ufficiali per il 2007 ci mostrano 37 milioni di americani al di sotto della soglia di povertà (10.700 dollari pro capite), cioè il 12% della popolazione. Ma i 750 dollari del 1929 rappresentano 9.100 dollari di oggi, quindi nel 2008 il governo americano considera "livello di povertà" quasi lo stesso reddito di un americano povero del 1920, quando il cibo rappresentava una grossa percentuale della spesa e non era così diffuso il prelievo fisso con bollette, canoni, assicurazioni, ecc. Infine, diverse fonti ammettono il totale fallimento della "società del benessere" che dovrebbe distribuire il reddito e dar luogo a una generalizzata middle class: oggi il reddito dell'1% della popolazione è rimasto invariato, in proporzione, rispetto a quello del 1928. È in tale contesto che esplode il debito privato della famiglia americana, di cui il mutuo a rischio è solo una piccola parte. La vendita a credito fu uno degli espedienti economici per alleviare la Grande Depressione, ma questo tipo di debito-credito non può espandersi come quello degli Stati: il privato consumatore − non capitalista e non rentier − non può estrarre plusvalore dalla società (anche se, per dirla alla Lenin, il proletario americano partecipa in qualche misura allo sfruttamento del mondo).
La conclusione è tremenda per gli adoratori del capitalismo: dopo ottant'anni la povertà relativa degli americani è la stessa di quella degli anni '20 e le stesse sono le cause profonde. Con una differenza: mentre allora per la maggioranza della popolazione declinava il reddito nominale, in parte compensato dalla deflazione, oggi declina il reddito reale, a causa della suddetta struttura dei consumi. D'altra parte i milioni di disoccupati che nel '29 erano ridotti semplicemente alla minestra pubblica, non avrebbero potuto far debiti, mentre i milioni di disoccupati d'oggi e gli altri milioni di proletari con doppio e triplo lavoro a bassissimo salario fanno invece debiti su debiti. Anche se il debito privato è stato solo l'innesco che ha fatto saltare il coperchio di un sistema basato sul credito universale, è evidente che è l'intero sistema creditizio a vivere di vita propria, a non essere più in grado di soddisfare i requisiti dell'accumulazione capitalistica e a produrre un mostruoso castello di carte "speculativo" poggiato sul nulla.
La crisi del 1929 fu molto classica: il sistema in forte crescita aveva provocato su sé stesso una retroazione positiva più forte ancora, cioè vi era troppo plusvalore da reinvestire in confronto alla quantità di merci che potevano essere consumate; o che poteva essere esportato su di un mercato mondiale ancora impregnato di protezionismo (che tra l'altro con la crisi fu rafforzato, con peggioramento della situazione). Troppa produzione, troppo capitale, troppa appropriazione privata di fronte all'esplodere della produzione sociale. E soprattutto salari troppo bassi.
All'epoca il Capitale dovette darsi una configurazione sovrastrutturale (statale) che permettesse un controllo più o meno centralizzato dell'economia e, dal punto di vista degli espedienti per cavarsela, seguì, specie negli Stati Uniti, tre strade: gli investimenti statali coperti dal debito pubblico (deficit spending); i crediti immobiliari, cioè i mutui ai privati (home equity loans); le carte di credito personali. Da notare che negli Stati Uniti le credit cards più usate non sono come le nostre, che quasi sempre rappresentano il diritto di prelievo su un conto corrente coperto; quelle americane rappresentano una effettiva apertura di credito ad alto interesse con possibilità di pagamenti allo scoperto.
Oggi quindi l'espediente di ieri è diventato sistema, dal livello dello Stato a quello del proletario semioccupato, dalla banca allo speculatore individuale, per rivitalizzare un sistema drogato che è esploso proprio sull'esasperazione del meccanismo creditizio, fino a diventarne talmente dipendente da finire in overdose. Come si vede, la speculazione e tutti gli altri incidenti di percorso non sono che epifenomeni. Il keynesismo non è più la salvezza perché ormai è malata la struttura del sistema (e già quella medicina non si rivelò sufficiente, tanto che fu necessaria una guerra mondiale). Perché si è appunto verificata una delle più importanti inversioni dialettiche previste da Marx: se a partire dalla spesa pubblica il credito fu uno strumento per la crescita dell'economia quando il capitalismo era ancora vitale, un'economia che conta quasi esclusivamente sul credito per mantenersi in vita è già praticamente morta. Per la semplice ragione che il meccanismo dell'accumulazione dev'essere plusvalore che ritorna nello stesso ciclo che l'ha prodotto, e non valore "rubato" da un'altra parte o addirittura fittizio. L'accesso al credito dovrebbe essere un'esigenza straordinaria in vista di un risultato (maggior produzione di plusvalore o superamento di una difficoltà contingente), non la prassi normale.
Formazione del capitale fittizio internazionale
L'attuale sistema, nonostante l'apologia della globalizzazione o l'avversione per la stessa, nella sostanza non è più globalizzato di quello del 1913, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Il commercio internazionale in rapporto al PIL globale mantiene più o meno la stessa proporzione. Quello che è sostanzialmente cambiato è il movimento di capitali, che invece è circa venti volte superiore (ufficialmente; in questi casi gli economisti, non potendo calcolare su dati certi, si riparano dietro alla formula "dato nozionale"). Siccome l'eccesso di capitali internazionali è in rapporto all'eccesso di merci che valicano le frontiere, l'unica spiegazione per questa montagna di capitali vaganti è che essi si siano resi autonomi rispetto alle transazioni materiali, e che possano esistere solo perché la sfera produttiva li alimenta senza esserne a sua volta alimentata. Siamo di fronte a un perfetto caso di vampirismo economico.
Una legge economica descritta da Marx ma presente anche nei manuali dell'economia politica borghese stabilisce che, ferma restando la velocità di circolazione della moneta, la massa monetaria e il valore delle merci prodotte devono crescere di pari passo. Se in qualche modo la massa monetaria cresce più del valore delle merci, l'eccedenza si riversa inevitabilmente nella circolazione, tentando di valorizzarsi in essa, diventando cioè prettamente speculativa. Nell'ultimo quarto di secolo Germania, Giappone e poi Cina hanno prodotto ed esportato molto, specie negli Stati Uniti. Una massa di merci contro dollari inconvertibili, usati in buona parte dai tre paesi per acquistare petrolio e altre materie prime (rendita che tornava nel circuito bancario) più titoli di stato americani. Questi tre paesi (anche altri, ma questi di più) hanno fornito valore-denaro che, impiegato sul mercato globale, ha "creato" moneta speculativa. La massiccia deregulation reaganiana del mercato finanziario è servita agli americani ad approfittarne in massimo grado, e agli "speculatori" non è dispiaciuto affatto che si sviluppassero bolle speculative di portata mondiale.
L'economia dei maggiori e più vecchi paesi industriali ha superato da tempo l'equilibrio fra produzione e consumo interni, e molti paesi ormai si approvvigionano all'estero di merci non più prodotte all'interno. Con la crescente divisione internazionale del lavoro l'eccezione è diventata anche qui la regola, per cui il mercato mondiale presenta una sorta di specializzazione per aree: ad esempio in Occidente la produzione di macchine fotografiche e di prodotti elettronici di consumo ha incominciato ad estinguersi già quarant'anni fa; le cosiddette Tigri asiatiche importano la maggior parte del cibo in cambio di prodotti industriali; alcuni paesi in via di sviluppo importano cibo pur esportando materie prime agricole tanto da essere praticamente obbligati alla monocoltura da esportazione.
Sulla base di questa divisione del lavoro il credito interno si è espanso fino a diventare credito internazionale, per cui, nelle transazioni materiali, il maggiore paese importatore del mondo, gli Stati Uniti, ha incominciato ad indebitarsi non solo all'interno ma anche all'estero, accumulando sia debito commerciale che statale. La maggiore differenza con la crisi del 1929 consiste proprio in questo: mentre allora c'era un sistema in crisi ma con potenzialità intatte in termini di ripresa economica, dimostrate con il gigantesco sforzo bellico che ha permesso di mandare ai quattro angoli del pianeta milioni di soldati serviti da un apparato militare mai visto, oggi tali potenzialità sono decadute. Gli Stati Uniti s'indebitano nei confronti del sistema mondiale, il quale funziona come una banca che presta ma accetta come interesse del denaro virtuale, creato dal nulla (fiat currency, valuta garantita da un imperativo dello Stato). I maggiori creditori degli Stati Uniti come Giappone e Cina, accettando i bond americani e l'enorme deficit commerciale, legittimano la creazione mondiale di denaro.
La produzione per il consumo della famiglia americana (il 70% del consumo totale) è demandata in gran parte all'estero. Gli Stati Uniti si comportano come una banca a rovescio. Mentre la banca moltiplica credito e quindi moneta, essi moltiplicano debito, confidando sul fatto di essere sostenuti dalla fiducia mondiale nella loro potenza e nella loro moneta. Comprano merci pagandole con cambiali (bond statali) che altri paesi accumulano (tagliando cedole di interessi), oppure scambiano (come le famose cambiali scontate di Marx). È in questo modo, come fu per gli eurodollari e i petrodollari, che si crea ulteriore moneta. Finché se ne crea in modo proporzionale al nuovo valore prodotto e alla velocità di circolazione, non succede niente, ma se si accumula semplicemente debito (o credito, sono complementari) senza un corrispettivo valore, prima o poi la bolla deve necessariamente scoppiare.
Per capire meglio la "creazione" di moneta o di capitale fittizio è forse utile tracciare un micromodello di produzione e di mercato, ricorrendo alle notazioni marxiane che ben conosciamo:
D - M - P - M' - D' (denaro, merce, produzione, merce trasformata, più denaro)
La variazione in più del denaro alla fine del ciclo deriva dalla produzione, c'è formazione di valore e di moneta che gli corrisponde, e tutto fila liscio. Anche se all'interno del micromodello qualcuno fa il furbo e salta da D a D' senza passare attraverso la produzione, non ha possibilità di creare nulla, il suo denaro aggiuntivo lo deve prendere a qualcun altro che se ne ritroverà in tasca di meno. La somma algebrica è sempre quella di prima.
Adesso immettiamo nel micromodello un dispensatore di credito, cioè una banca, che anticipi il denaro D. Alla fine dei passaggi indicati dalle frecce una parte di D' (denaro maggiorato) andrà a pagare l'interesse per D anticipato dalla banca. Il sistema bancario ha ovunque facoltà legale di prestare denaro in quantità molto superiore a quella effettivamente esistente in deposito come fondo di garanzia. In Europa tale fondo può essere in media intorno al 15-20% dei prestiti e negli Stati Uniti il 10%. Ricevendo gli interessi sui prestiti, una banca americana che avesse un deposito di 100 lo vedrebbe, poniamo, salire a 120, acquisendo automaticamente la facoltà legale di prestare per 1.200. Da dove sono spuntati quei 200 se ha ricevuto per interessi derivanti dalla produzione solo 20? Dal susseguirsi dei cicli di credito-debito più veloci del ciclo D - D'.
L'unico modo per abbassare il moltiplicatore del credito bancario è aumentare la riserva obbligatoria in deposito. Ma è esattamente ciò che l'ondata liberista ha evitato di fare fin dal tempo della deregulation di Reagan e della Tatcher, liberando nel contempo le banche da altri obblighi e controlli. Adesso si ricercano i "colpevoli", ma per più di vent'anni è stata di moda la cieca apologia del capitalismo senza freni. Quando ormai le riserve obbligatorie sono quello che sono, l'aumentarle per decreto non farebbe altro che peggiorare il grado, già alto, di congelamento del credito. E comunque, anche triplicando o quadruplicando la riserva non si intaccherebbe l'ammontare del capitale fittizio esistente. Di fatto il sistema bancario è insolvente per sua natura intrinseca, e nessun banca commerciale può permettersi che vi sia una corsa al ritiro dei capitali di risparmio. Così come nessuna banca d'affari può permettersi una verifica immediata degli strumenti finanziari a rischio venduti in giro per il mondo, specie se il credito interbancario è congelato (vedi gli esempi, rispettivamente, della Northern Rock inglese e della Lehman Brothers americana).
In tale contesto di credito/debito/creazione di moneta, si impone un dato fondamentale: il consumo delle famiglie americane cresce all'incirca nella stessa percentuale del PIL degli Stati Uniti, ma da trent'anni a questa parte è dovuto quasi esclusivamente ad una corrispondente crescita dell'indebitamento delle famiglie stesse, che ammonta ormai a 10.000 miliardollari (il 70% del PIL). Ciò significa che 1) eliminare il crescente indebitamento delle famiglie americane significherebbe bloccare la crescita del PIL; 2) eliminare il debito delle famiglie senza bloccare la crescita significherebbe creare moneta per interventi keynesiani di pari importo. Un'altra situazione senza via d'uscita, soprattutto tenendo conto del fatto che dall'agosto del 2008 c'è una flessione del credito dovuta automaticamente alla flessione dei consumi: se quest'ultima si accentuasse e durasse, collasserebbe non solo l'economia degli Stati Uniti ma quella mondiale. Per pagare gli interessi sul debito globale americano (privato, pubblico ed estero) è necessario che il resto del mondo continui a imprestare agli Stati Uniti 1) i dollari che questi creano per pagare gli interessi; 2) i dollari che il resto del mondo incamera come credito commerciale esportando merci negli Stati Uniti. Ormai la locomotiva prende carburante solo… dai propri vagoni.
Secondo le teorie del caos e della complessità siamo di fronte a retroazioni e doppi vincoli estremamente pericolosi per la sopravvivenza dell'intero sistema capitalistico in quanto tale.
Inerzia e resilienza del sistema
Un sistema soffre tanto più d'inerzia quanto più necessita di energia per essere smosso dal suo stato iniziale. Più il capitalismo s'è ingigantito e potenziato, meno è risultato capace di correggere i propri difetti, anzi, li ha aggravati. Da quando la cosiddetta crisi dei mutui è scoppiata, s'è sentito parlare anche di resilienza del sistema. La resilienza è la capacità meccanica di un materiale di assorbire urti improvvisi senza subire deformazioni o, più precisamente, di tornare alle condizioni iniziali dopo averle subite. Anche per quanto riguarda la resilienza il capitalismo non se la cava più troppo bene: pur se ideologicamente i suoi sostenitori affermano il contrario, esso ha sempre più bisogno dello Stato per essere aiutato a risolvere le proprie contraddizioni o perlomeno alleviarne le conseguenze.
Se la massa monetaria interna americana eguaglia il PIL degli USA e se il solo debito delle famiglie vi si avvicina (più del 70%) è chiaro che per ripianare questo debito non vi è, semplicemente, abbastanza denaro circolante. Il che non sarebbe un problema se l'ammontare del debito permettesse di creare moneta, ma ciò si può fare solo in parte (trasformando i debiti in strumenti finanziari, com'è successo con i mutui), la cifra è troppo grande. Di fatto, paradossalmente, i debiti delle famiglie sono annullabili attraverso due processi antitetici: l'inflazione e la deflazione. L'inflazione fa discendere il valore monetario del debito e risulta più facile ripianare quest'ultimo se il reddito del debitore è in qualche modo indicizzato (correlato all'aumento dei prezzi); la deflazione provoca un abbassamento dei prezzi, e se il reddito non è indicizzato è ugualmente più agevole ripianare il debito. In ogni caso dev'essere lo Stato a decidere se indicizzare o meno i salari (gli altri redditi si indicizzano di norma da soli).
Nella presente situazione tutti temono un processo deflazionistico, perché sarebbe indice di recessione e potrebbe ulteriormente congelare credito e produzione. Questo è il motivo per cui gli economisti sono tutti concordi nel dire che il passo più importante, prima ancora del salvataggio delle industrie, è il salvataggio delle banche, cioè del sistema diventato sistema del credito/debito. In pratica gli Stati sono di fronte a un dilemma: continuare a sostenere il credito con immissioni massicce di denaro, e così contribuire al rafforzamento delle cause che hanno prodotto la crisi da debito; oppure lasciare che il mondo vada in deflazione/depressione, salvo intervenire con provvedimenti nei confronti della spaventosa situazione sociale che sicuramente ne deriverebbe.
Semplicemente adottando le cifre delle statistiche borghesi, abbiamo potuto affermare che senza la crescita del credito alle famiglie (visto che nessuno pensa più all'aumento del loro reddito) non vi può essere crescita in generale. Il guaio è che negli ultimi sei o sette anni il credito alle famiglie è stato usato massicciamente per alimentare appunto… il circuito del credito. Così, secondo gli stessi calcoli della Federal Reserve, il credito apparentemente garantito, quello sulle case, ha raggiunto i 1.600 miliardi di dollari, cui se ne aggiungono forse altrettanti sulle carte di credito che invece non sono garantite per niente. E siccome il meccanismo si è inceppato e il capitale fittizio nel frattempo creato s'è bruciato, è come se l'equilibrio debito/credito delle famiglie fosse regredito a sei o sette anni fa. Con l'aggravante che oggi, a differenza di allora, non c'è più la possibilità di rifare il gioco. Infatti banche, economisti e governanti non sanno più dove sbattere la testa per trovare un sostituto della bolla immobiliare. E tremano, perché quando scoppiò quella del Giappone, questo paese precipitò in una stagnazione che dura ormai da quindici anni. E l'America non è il Giappone.
Inerzia al rattoppo, dunque, e resilienza di fronte ai provvedimenti, nel senso che quelli presi finora non hanno prodotto effetti né sulla struttura del credito né sulla fiducia nel sistema (tra l'altro non tutti i fondi stanziati dai vari governi sono già stati utilizzati, in parte perché ci vuole del tempo, in parte perché il sistema non li ha assorbiti). Perciò il sistema se ne va in recessione in modo molto classico, terrorizzando i medici al suo capezzale, i quali incominciano a diagnosticare una depressione, pur senza dire nulla di preciso, un po' perché non lo sanno, un po' per non diffondere il panico. Per la prima volta dalla crisi del '29 il consumatore americano minaccia di far scendere la propria spesa. È presto per capire se sarà una tendenza durevole, ma se lo fosse, gli effetti sul mondo sarebbero esplosivi. Un mondo che vede crescere paesi rampanti, dal capitalismo giovane e aggressivo, con una popolazione giovanissima e piena d'energia, mentre paesi imperialisti troppo maturi arrancano a causa della concorrenza e di un'accumulazione asfittica, di una popolazione che invecchia, di un Capitale malato che non reagisce più alle medicine.
Negli Stati Uniti da sei mesi quel minimo di assistenza medica e sociale esistente è in crisi e minaccia il fallimento. La generazione dei baby boomers del dopoguerra sta andando in pensione e si è già vista decurtare i risparmi del fondo pensionistico del 30%. In tutti gli altri paesi a vecchio capitalismo l'accumulazione asfittica non permette più di mantenere il livello di assistenza precedente. Ovunque il salario è in ribasso, sia in termini relativi (rispetto alla produttività) che in termini assoluti (precarietà, sovrappopolazione relativa e assoluta). En passant: vanno così a carte quarantotto non solo le teorie del welfare, ma anche tutte quelle del sottoconsumo e dell'offerta che creerebbe da sé la propria domanda. Diminuiscono i consumi perché si è consumato troppo e diminuisce la produzione perché si è prodotto troppo.
I vecchi paesi avrebbero bisogno di ritornare alla ricostruzione postbellica, quando piovvero i miliardollari del piano Marshall, e un po' di keynesismo (la borghesia non ha mai avuto il coraggio di applicarlo sul serio) permetteva di investire in deficit spending, cioè ingigantendo il debito pubblico. Ma l'intero processo è irreversibile e quei tempi non torneranno più, mentre la creazione di moneta ha provocato una mentalità economica normalizzata sulle potenze di dieci. L'Alaska, un paese grande quanto cinque volte l'Italia, fu comprata dagli Stati Uniti per sette milioni di dollari. A quei tempi si ragionava di spese correnti dello Stato in termini di kilo-dollari; dalla Grande Guerra alla Grande Depressione in mega-dollari; dopo la Seconda Guerra erano diventati giga-dollari; oggi siamo ai tera-dollari e si incomincia a sfondare il tetto dei peta-dollari (0,9 p$ l'ammontare nozionale degli strumenti derivati sul mercato finanziario). Ogni passaggio un moltiplicatore di mille: migliaia, milioni, miliardi, biliardi e triliardi (1015). È troppo, anche per la mente inflattiva di economisti e governanti cresciuti in un sistema che crea capitale fittizio a go-go.
La "Tempesta perfetta"
Verso la fine del 1991 sull'Atlantico settentrionale era in via di estinzione un grande uragano, quando si verificarono simultaneamente le condizioni che gli avrebbero riconferito molta più energia distruttiva di quanta ne avesse avuta nel suo momento di massima potenza. Tali condizioni non solo non si erano mai verificate tutte insieme, ma tutte insieme non si sarebbero probabilmente presentate mai più; perciò i meteorologi, osservando che i parametri registrati facevano di quel fenomeno naturale un modello perfetto, lo chiamarono appunto The perfect storm. L'episodio ispirò un libro e un film con lo stesso titolo, rispolverato e usato dai giornalisti per la crisi attuale. Tra il 2000 e il 2001 l'economista James Puplava aveva scritto, sul sito della sua società privata di consulenza, una serie di articoli sul potenziale di crisi, proprio prendendo spunto dalla "tempesta perfetta" e utilizzando il paradigma meteorologico per indagare sul pericolo rappresentato dalla simultaneità di diversi fattori, ognuno dei quali in grado di sconvolgere l'economia mondiale:
Al momento ci sono tre forze economiche in grado di diventare fronti di un uragano di magnitudine crescente. La prima e di gran lunga più pericolosa è la montagna di debiti accumulata dai consumatori e dalle aziende. La seconda è il turbinio di una borsa sull'orlo del collasso. La terza è una recessione del ciclo economico americano. Ognuna di queste forze è di per sé intrinsecamente distruttiva. Se mai dovessero collidere tutte in una volta, darebbero luogo alla tempesta finanziaria perfetta (J. Puplava, The perfect financial storm, 2000).
Noi metteremmo per prima l'economia produttiva e per ultime le borse, ma lasciamo stare. Il debito/credito è ovunque. Specie negli USA sono in debito i privati, i singoli Stati, lo Stato federale, i comuni, le aziende. Le borse, l'abbiamo visto, hanno perso 25.000 miliardollari in meno di un anno. E sul fronte del capitale reale non va meglio: mentre scriviamo la General Motors, la Ford e la Chrysler sono sull'orlo della bancarotta e stanno chiedendo: perché salvare solo le banche? Non siamo forse noi i rappresentati della improvvisamente santificata "economia reale"? E allora, aggiungiamo noi, perché non salvare anche tutti gli altri debitori? Sappiamo perché queste domande rimarranno senza risposta: se mai fosse ipotizzabile una eliminazione del debito americano bisognerebbe emettere una quantità di moneta inimmaginabile. Quindi tutto continuerà come prima, con la gestione del debito stesso. Il problema è da dove potrà mai provenire la quantità di valore necessaria. La risposta la sappiamo già: con emissione di moneta, cioè di non-valore, attraverso le Banche centrali e il sistema bancario in generale. Aggravando proprio il problema che si vorrebbe risolvere. Perché all'ultimo gradino c'è il consumatore, che ha solo debito senza credito e non può emettere moneta, né chiedere aiuti istituzionali.
Non esiste bailout (salvataggio) per il proletario che resterà senza lavoro. E anche se non rimarrà disoccupato egli consumerà esattamente per il valore del suo salario, lasciando da parte prima la casa in proprietà, poi la carta di credito, poi qualche stupido gadget che lo sfrenato consumismo l'ha portato a comprare, in ultimo il companatico. Ovviamente, mai il pane. Ma prima, molto prima di intaccare la possibilità di acquistare il pane, si ribellerà. E lo farà proprio come prevede Marx, cioè non per un'ideologia rivoluzionaria improvvisamente assorbita come pensava Proudhon, ma per conservare quelle schifezze che la società capitalistica gli ha dato e poi tolto. Perché meschina è la rivolta politica immaginata da politici e gruppettari, mentre grandiosa e universale è la rivolta economica, che parte non dalla testa, ma dai visceri:
Proudhon confonde le idee con le cose. Gli uomini non rinunciano mai a ciò che hanno conquistato, ma ciò non significa che non rinuncino mai alla forma sociale in cui hanno acquisito determinate forze produttive. Tutto al contrario. Per non essere privati del risultato ottenuto, per non perdere i frutti della civiltà, gli uomini sono forzati a modificare tutte le loro forme sociali tradizionali, non appena il modo delle loro relazioni sociali non corrisponde più alle forze produttive acquisite (lettera di Marx ad Annenkov, 28 dicembre 1846, corsivo nostro).
Letture consigliate
- Quaderni di n+1, La crisi storica del capitale senile, 1985; La legge del valore e la sua vendetta (Lettera ai compagni n. 21), 1989; La crisi del sistema bancario americano (Lettera ai compagni n. 25), 1992; Il feticcio dei mercati, il mercato dei feticci (Lettera ai compagni n. 35), 1997; Globalizzazione (Lettera ai compagni n. 40), 1999.
- John Kenneth Galbraith, Il Grande Crollo, Boringhieri 1972.
- Hyman Minsky, Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo il 1929, Einaudi 1984.
- Charles Kindleberger, La Grande Depressione nel mondo, Etas Libri 1982.
- Ravi Batra, Il crack finanziario 1998-1999, Sperling & Kupfer 1998.
- Brad Setser, Sovereign Wealth and Sovereign Power. The Strategic Consequences of American Indebtedness, Council on Foreign Relations, Center of Geostrategic Studies, n. 37, September 2008.
- World Economic and Financial Surveys, Global Financial Stability Report. Containing Systemic Risks and Restoring Financial Soundness, April 2008.
- Robert Manning, Living with Debt, Lending Tree 2008.
- James Puplava, The Perfect Financial Storm?, Financial Sense Perspectives, July 18 2000 to 16 august 2001.
- Andy Sutton, Anatomy of a disaster, Financial Sense University, August-October 2008. http://www.financialsense.com/fsu/editorials/sutton/2008/1027.html.
- Guido Rossi, "Come combattere il liberismo globale", La Repubblica 10 gennaio 2008, estratto dal libro Il mercato d'azzardo, Adelphi 2007; "Il grande tonfo del capitalismo di mercato", La Repubblica 26 settembre 2008.