Un programma: l'ambiente
Rapporto svolto alla riunione redazionale d'estate. Rimini 6 giugno 2009, Registrazione.
"Tutto l'ambiente borghese conduce all'individualismo. La nostra lotta socialista, anti-borghese, la nostra preparazione rivoluzionaria deve essere diretta nel senso di gettare le basi del nuovo ambiente. Ecco in che cosa noi vediamo tutto un programma del movimento giovanile. Sottrarre la formazione del carattere all'esclusiva influenza della società presente, vivere tutti insieme, noi giovani operai o no, respirando una atmosfera diversa e migliore, tagliare i ponti che ci uniscono ad ambienti non socialisti, recidere i legami per cui ci si infiltra nel sangue il veleno dell'egoismo e della concorrenza, sabotare questa società infame, creando oasi rivoluzionarie destinate un giorno ad invaderla tutta, scavando mine destinate a sconvolgerla nelle sue basi"
Da Un programma: l'ambiente, articolo pubblicato nel 1913 su L'Avanguardia, organo della gioventù socialista.
Questa relazione è dedicata ai giovani. È evidente che c'è un processo di ricambio generazionale in corso, una staffetta in cui il testimone sta passando velocemente di mano. Con i tempi che corrono non potevamo volere di più. Faremo di tutto per assecondare questo processo. Dovremo per un momento parlare di noi stessi, ma cercheremo di farlo tenendo presente le fortissime determinazioni materiali che coinvolgono tutti.
Marx e l'ambiente, da mezzo a fine
Perché l'ambiente? Perché con l'ambiente non si può fare a meno di interagire. Esserne gli effetti e gli artefici nello stesso tempo. Proviamo a pensare a ciò che è diventato oggi il lavoro che si concretizza intorno e per mezzo di n+1. Diciamo "diventato", perché, grazie all'ambiente storico in cui siamo nati e ci siamo formati, abbiamo da una parte subìto un'evoluzione, dall'altra imposto dei caratteri ambientali che dall'evoluzione abbiamo derivato. Oggi ad esempio riusciamo a razionalizzare argomenti che un tempo sfioravamo appena, anche se erano presenti nei lavori della Sinistra Comunista "italiana" (l'aggettivo, improprio in ambito internazionalista, distingue la corrente che fondò il PCd'I dalle altre correnti di sinistra, ad esempio i consigliari tedeschi e olandesi. Di qui in poi useremo semplicemente "Sinistra"). E se rispetto ai risultati raggiunti dalla nostra corrente di riferimento abbiamo potuto elaborare qualcosa in più, difficilmente da soli saremmo riusciti ad affrontare decentemente tale elaborazione. È allora evidente che per "ambiente" si deve intendere qualcosa di dinamico nel tempo. Nessuno può fare a meno di radici storiche, così come non può fare a meno di una comunità in cui si elabori e si agisca collettivamente. Nella quale e con la quale, appunto, interagire. Il problema è vedere come ci si riferisce a radici storiche e, insieme, a comunità presente, come esse influiscono su di noi. Il nostro confrontarci con la Terza Internazionale e con la Sinistra non è analogo a quello di altri che pur lavorano sugli stessi presupposti. Perciò l'ambiente loro non è analogo al nostro. La Sinistra era un qualcosa di diverso rispetto alla Terza Internazionale già nel 1920. È indispensabile comprendere tale differenza, perché essa ha ripercussioni importanti per lo sviluppo dell'ambiente di partito. Per fare un esempio, è possibile capire bene Einstein solo passando da Galileo e Newton, ma è noto che secondo Marx è ancora più vero il contrario: solo quando si giunti al più recente livello della conoscenza è possibile capire appieno i livelli precedenti. Nessuno si sognerebbe oggi di fare scienza fermandosi alla relatività galileiana o alla meccanica newtoniana. Ecco, la Terza Internazionale è stata il nostro Galileo-Newton e la Sinistra il nostro Einstein. Chi avesse dei dubbi pensi a quest'altro nodo nella rete di relazioni storiche: come Lenin disse che era impossibile pensare a un Marx senza un Hegel, noi diciamo che è impossibile pensare a una Sinistra senza una Terza Internazionale. Ma la Sinistra per noi è anche e forse soprattutto critica alla degenerazione della Terza Internazionale. Perciò riferirsi a quest'ultima senza tener conto della sua degenerazione e della conseguente critica che ne fece la nostra corrente sarebbe come riferirsi alle degenerazioni mistico-alchemiche odierne senza tener conto che ci sono stati Galileo e Newton (anche se quest'ultimo amava pasticciare con l'alchimia).
Noi sosteniamo che l'ambiente "rivoluzionario" nel suo complesso è regredito non solo rispetto alla critica che la nostra corrente aveva espresso nei suoi sessant'anni di storia ma anche rispetto all'Internazionale degenerata che la stessa corrente criticava pur ritenendo di rimanerne ancora parte integrante. Quella della regressione altrui è naturalmente una nostra convinzione, ma la sostengono robuste prove. Ognuno le può rintracciare confrontando i documenti prodotti dalla Sinistra dalla fondazione alla degenerazione dell'IC e nel secondo dopoguerra. Oggi c'è mediamente più politicantismo che nell'Internazionale bolscevizzata del 1926, c'è più infatuazione democratica, più frontismo, più tendenza alla tattica immediatista, più assorbimento di teorie e pratiche borghesi, più tracotanza sospesa sul vuoto teoretico. L'ambiente è più marcio e individualista. Le cronache lo registrano a tutti i livelli e noi stessi, pur consapevoli del fenomeno e perciò vigili, ne possiamo essere toccati.
Tutto questo fa parte della storia del partito della rivoluzione e dobbiamo affrontarlo come fece Marx nel 1860, quando spiegò perché aveva voltato le spalle alla Lega dei Comunisti mentre guardava fiducioso alle avvisaglie materiali del partito futuro. Come nella società il socialismo aveva fatto il salto dall'utopia alla scienza, così nell'ambiente rivoluzionario era necessario un salto riguardo alla concezione del partito. Marx l'aveva già anticipato nei Manoscritti del 1844: quando gli operai si riuniscono per discutere di un loro problema, la riunione è il mezzo per raggiungere uno scopo, cioè la soluzione del problema; tuttavia, non appena si realizza l'ambiente adatto, ecco che il problema si tramuta in mezzo e la riunione, la comunità operaia diventa lo scopo. Siamo di fronte a una delle più belle descrizioni della genesi del partito rivoluzionario organico. Attraverso la lotta per risolvere un problema contingente, la classe proletaria scopre il bisogno del partito come comunità estranea al mondo borghese, di natura diversa rispetto alla società che pur l'ha generata.
L'ambiente in cui ci troviamo oggi ha prodotto in modo del tutto naturale, data la controrivoluzione, fenomeni degenerativi che si auto-alimentano. L'impossibilità di realizzare una comunità-partito saldamente ancorata ad un programma storico (la Gemeinwesen anticipatrice della società futura) ha prodotto una mostruosa autoreferenza, dalla quale deriva un fenomeno assai curioso: elaborazione e azione sono in relazione non alla condizione reale della società attuale ma a ciò che la società era quando esistevano partiti di classe e una Internazionale Comunista in grado di determinare situazioni muovendo milioni di uomini. Questo sfasamento temporale rende tutta la sinistra sedicente rivoluzionaria completamente fuori posto rispetto alla società così com'è. Un ambiente che parla a sé stesso attraverso i suoi ricordi non può trovare, come invece sapevano fare gli operai del 1844, il senso di una comunità "altra", in cui lo scopo immediato diventi il mezzo, e il mezzo dello "stare insieme" diventi lo scopo, diventi cioè una vera anticipazione della società futura. Viviamo in un mondo rovesciato: quello che è scienza del divenire umano sembra utopia (Gemeinwesen! Essere comune! Ma state con i piedi per terra!) e quello che è utopia vien fatto passare per scienza concreta ("buttiamo a mare le basi americane!" come diceva la canzoncina degli anni '60. Facile, no?).
Scherzando (ma non troppo) su un compleanno
In una delle riunioni dell'anno scorso abbiamo ricordato come, esattamente trent'anni prima, un sostanzioso gruppo di compagni iniziasse un percorso che, fra mille difficoltà e una dispersione di energie in mille rivoli, avrebbe portato a quello che è oggi il nostro lavoro. E, un po' sul serio e un po' scherzando, abbiamo detto due parole sulla ricorrenza, citando questo fatto del passato per noi significativo, non tanto perché valga la pena di tramandarlo ai posteri, ma perché ci serve come punto di riferimento soggettivo, per conoscere uno degli aspetti della genesi di n+1. Ovviamente il percorso lo possiamo individuare solo a posteriori, perché all'epoca regnava più che altro la confusione. Erano passati dieci anni dal Sessantotto e non è il caso qui di ricordare dettagliatamente che cosa siano stati il Settantasette e il disfacimento dei gruppi o partiti che in un modo o nell'altro erano stati travolti dall'ennesima ondata controrivoluzionaria. Ancor meno vale la pena di esporre i dettagli che riguardano le tribolazioni degli individui o dei raggruppamenti e le loro sorti alterne. Per noi fu più di tutto doloroso constatare che gran parte dei raggruppamenti ancora agganciati al ricordo della Sinistra avevano subìto una deriva terzinternazionalista, rivelata da un atteggiamento teorico e pratico che già allora alcuni compagni del Sud francese chiamavano "marxista-leninista" e che noi chiamammo in seguito "luogocomunista". Il lungo processo di allontanamento dalle basi organiche della Sinistra si stava completando ed era irreversibile. E di conseguenza il "sostanzioso" gruppo iniziale di compagni subì uno sgretolamento micidiale.
In questo disastro noi dicemmo provocatoriamente che fu buona cosa non solo la scomparsa di molte organizzazioni, compresa quella di cui avevamo sino ad allora fatto parte, ma anche l'impossibilità, date le premesse, di costituirne altre che non clonassero le stesse ovvietà luogocomuniste.
Per alcuni di noi era infatti ormai chiaro che ci trovavamo in un circolo vizioso in grado di riprodurre l'esistente e basta. Ogni tentativo, anche notevole dal punto di vista dell'impegno e della ricerca, portava a risultati non dissimili da ciò che ci circondava. Così giungemmo alla conclusione che sarebbe stato possibile l'affermarsi di un nuovo ambiente rivoluzionario solo con la scomparsa di quello attuale. Ciò significava e significa che, come affermavano i giovani socialisti nel 1913, dovevano e devono nascere delle "oasi rivoluzionarie", come tante mine riposte nel sottosuolo della società borghese, in grado di far saltare per prima cosa l'ambiente borghese in cui sono immersi i proletari. Naturalmente senza un riferimento a potenzialità materiali le aspirazioni dei giovani socialisti sarebbero apparse pura utopia. Ma la formazione della Frazione rivoluzionaria intransigente, poi comunista, e la realizzazione, alcuni anni dopo, di un forte e organico Partito Comunista d'Italia dimostrarono che tali potenzialità esistevano.
Oggi il potenziale rivoluzionario è nei fatti enorme, ma è annichilito da un altrettanto enorme potenziale controrivoluzionario. Per quanto la situazione storica sia completamente diversa, ci troviamo in una palude politica analoga a quella dell'inizio '900, quando la potenza della socialdemocrazia sembrava dominare incontrastata sul proletariato, corrompendolo con l'oggettivo infiltrarsi delle attività borghesi nel suo ambiente, dal parlamento alle cooperative, dai partiti ai sindacati. Il problema della corruzione riformista che pesa sul proletariato oggi è incomparabilmente più grave che ai tempi in cui lo affrontava ad esempio Lenin, ma proprio per questo la rottura dev'essere più drastica. E non c'è altro modo di sottrarsi a questa corruzione totalizzante che esserne consapevoli e agire di conseguenza, indipendentemente dal successo immediato possibile.
Quindi niente utopie, niente falansteri, ma piedi per terra; e innanzi tutto un programma politico che deve guardare al futuro e che quindi deve negare i caratteri della controrivoluzione luogocomunista e dei suoi strumenti, a cominciare da un partito strutturato democraticamente. A proposito di questa negazione noi, a differenza di altri che hanno ormai ripudiato le proprie origini, non riteniamo che vi siano difetti intrinseci, peculiari della Sinistra. Non abbiamo certo il culto di una mistica corrente armoniosa e già perfettamente organica, e ne conosciamo i difetti, le motivazioni delle spaccature, le aberrazioni teoretiche nate nel suo seno e maturate altrove. Ma è evidente che il nocciolo fondamentale teoria-prassi resiste alla critica, che i difetti summenzionati sono fenomeni d'importazione. Del resto è sempre così: Trotsky non era un buon comunista prima del 1917 e non lo è stato dopo il trionfo dello stalinismo; ma il "trotskismo" non è tanto una deviazione rispetto alla teoria rivoluzionaria quanto una infiltrazione democratoide, quindi borghese, nelle file del proletariato. Per rimanere nel campo dell'antistalinismo di maniera, anche il "bordighismo" non è tanto un tradimento del pensiero di un personaggio quanto il ritorno al pensiero della Terza Internazionale; cioè di un organismo che, nonostante gli immani sforzi di Lenin e di pochi altri, si portava dietro troppe categorie della società borghese (indotte certo dall'ambiente di doppia rivoluzione in Russia). In entrambi i casi abbiamo il suddetto fenomeno d'importazione, che è anche regressione a uno stadio precedente di sviluppo della teoria del partito. Infatti Trotsky aveva già coerentemente criticato il pensiero borghese che sopravviveva nei ranghi rivoluzionari russi, così come Bordiga aveva coerentemente criticato il pensiero socialdemocratico che permeava ancora i ranghi della Terza Internazionale, conducendola a un politicantismo manovriero, degenere persino per degli scafati parlamentaristi borghesi (per non parlare dei processi e dei plotoni di esecuzione successivi che ne furono la conseguenza).
Dunque in una scorsa riunione ci eravamo ritagliati una quindicina di minuti per festeggiare il nostro trentesimo compleanno. Un evento piuttosto virtuale e simbolico, un po' perché i militanti della vecchia organizzazione oggi presenti al nostro lavoro sono assai pochi (fortunatamente accompagnati da assai più numerosi giovani), un po' perché la data è stata fissata prendendo lo spunto dal primo documento scritto collettivamente dal ricordato "sostanzioso gruppo di compagni" nel 1978. Quel documento era, guarda caso, intitolato Sulle questioni organizzative oggi. Si capisce già dal titolo che era in qualche modo collegato al tema dell'ambiente. Con tutti i difetti che poteva avere, in esso si cercava di mostrare che la struttura della comunità politica intesa in senso marxista non doveva essere il problema bensì la soluzione.
Oggi il suo contenuto, scritto allora a più mani, ha importanza solo come memoria del nostro percorso, in quanto capostipite di una lunga serie, in parte pubblicata sul nostro web. È invece tutta la serie che ha per noi un'estrema importanza. Primo, perché rappresenta la continuità "ambientale" di una precisa compagine anche se i suoi singoli elementi andavano e venivano; secondo, perché rappresenta una continuità di lavoro che giunge fino alla rivista, al sito internet, alla newsletter, all'archivio fisico e digitale, insomma a tutti gli strumenti che ci siamo dati in questi decenni. Si tratta di una traccia viva del lavoro — a volte entusiastico a volte sofferto — di innumerevoli compagni coinvolti in una drastica selezione che riteniamo epocale, come vedremo, che è appena incominciata e che richiederà tempi lunghi.
Ci siamo occupati più volte della nostra genesi, ma sempre nell'ottica di una storia di respiro più ampio, che è quella della corrente cui facciamo riferimento, e di ciò che seguirà, non importa se in continuità diretta o indiretta. Il passato lo conosciamo bene, il futuro molto meno. Eppure la scienza si fonda proprio sulla possibilità di previsione e di anticipazione. Per questo a un certo punto abbiamo raccolto le testimonianze della produzione teorica rivoluzionaria (non solo dell'antiforma odierna ma di quella emersa in tutte le epoche) sul "partito delle rivoluzioni" e ne abbiamo ricavato una relazione (esposta a Torino nel 2004) sull'invarianza storica del partito come anticipatore della società futura e distruttore dei vecchi rapporti tra gli uomini. Purtroppo essa non è stata registrata e dovremo ricostruirla sulla base del materiale documentario raccolto per la sua preparazione. Ad ogni modo il percorso tracciato per mezzo di riunioni come quella ricordata è semplice e prende le mosse da pochi punti basilari:
1) l'ambiente in cui si sono formati i nostri ascendenti politici diretti, ovvero la storia della Sinistra a cominciare dalle sue peculiarità storiche (cfr. Peculiarità storica della Sinistra…);
2) le determinazioni materiali che hanno rappresentato la base per il nostro lavoro, che hanno cioè permesso il nostro tentativo di dar vita a un ambiente anch'esso peculiare rispetto a quello in cui siamo immersi nella quotidianità (cfr. Lettere ai compagni fino alla n. 20);
3) le determinazioni materiali che stanno alla base della dinamica futura, sia per quanto riguarda il partito-anticipazione-ambiente, sia per quanto riguarda il movimento di masse di uomini sollecitate dall'invivibilità crescente del sistema globalizzato (cfr. testi in bibliografia dal n. 1 al n. 7).
La peculiarità storica della Sinistra Comunista "italiana".
Contributo supplementare per una spiegazione
Abbiamo già citato il nostro articolo sulla peculiarità storica dei nostri antenati. Vale forse la pena insistere su un particolare di grande importanza sul quale la Sinistra aveva in progetto un lavoro mai andato in porto: la penisola italiana come ambiente geostorico avanzato per la formazione di esperimenti sociali di portata mondiale, come il fascismo, e di conseguenza anche un ambiente favorevole alla formazione dell'antitesi, un movimento genuinamente rivoluzionario in senso comunista. Troviamo accenni in molti testi di partito, ma l'unico tentativo sistematico fu opera di alcuni elementi separatisi dal partito negli anni '60, rimase allo stadio di traccia e purtroppo non fu mai pubblicato.
La corrente anarchica italiana si differenzia notevolmente dall'anarchismo bakuniniano preso di mira e spietatamente demolito da Marx. Malatesta, Cafiero e Costa (che confluirà nel Partito Socialista), tanto per ricordare tre dei personaggi più conosciuti, erano militanti rivoluzionari e avevano ben chiaro il rapporto fra il fine politico e il movimento di classe. Berneri nel secolo successivo ricorderà che anarchismo vuol dire rifiuto dello Stato, non dell'organizzazione, non della disciplina e neppure del principio di autorità, quando liberamente accettato. L'anarchismo italiano, a dispetto dei pallidi demo-anarchici attuali, fu un movimento comunistico razionale. Ciò portò in Italia alla collaborazione sindacale fra anarchici e comunisti, cosa dimostratasi impossibile in altri paesi.
Anche il socialismo italiano, che nasce con connotati moralistici e a volte addirittura mistico-religiosi, si differenzia infine dalle socialdemocrazie europee, producendo come sintesi il Partito Socialista Italiano (1892). Il quale, benché sia il risultato della fusione di circoli socialisti, movimenti operaisti e sindacalisti, società di mutuo soccorso ecc., entro un anno dalla nascita si dà un programma marxista e un'organizzazione nazionale con la sua rete politica e sindacale radicata nel territorio, con l'obbligo dell'adesione individuale. Fino alla guerra di Libia è in mano ai riformisti, ma con l'espulsione della loro ala oltranzista, il partito è controllato dai massimalisti. È in tale contesto che, sulla base di una memoria storica risalente a durissime lotte proletarie e alla formazione di un ambiente marxista, matura una sinistra giovanile preparata, decisa e bellicosa, tanto da farsi poi conoscere come "intransigente" in ambito internazionale. Ed è significativo che nello stesso periodo, a cavallo dei due secoli, si formi sia una scuola scientifica di alto livello, i cui esponenti sono spesso dei positivisti materialisti, sia una corrente letteraria socialista, poi sommersa e fatta dimenticare dai modelli estetici che la borghesia imporrà nella scuola.
Come si vede il retroterra storico ha già in sé alcuni elementi che prefigurano la Sinistra, ma soprattutto da questo filone un po' particolare (che risente evidentemente delle forti determinazioni dovute alla storia del capitalismo più vecchio del mondo) scaturisce la particolare combattività dei giovani socialisti contro ogni degenerazione, non tanto della dottrina, su cui spergiurano tutti i traditori, quanto del comportamento politico e quindi — siamo lì — dell'ambiente politico. L'Italia non aveva solo il primato del capitalismo più vecchio e corrotto del mondo, era anche il paese che aveva inventato il trasformismo. Ora, al tempo della formazione della Sinistra nell'ambito della federazione giovanile del PSI, questo termine era stato applicato alla politica da poco e quindi conservava tutto il suo significato originario. Trasformista è l'attore di varietà che ricopre più ruoli e ricompare velocemente sulla scena ogni volta in veste diversa. Trasformismo fu quello della borghesia italiana che nelle sue espressioni parlamentari utilizzò, da Depretis a Crispi e Giolitti, deputati che passavano da una parte all'altra degli schieramenti elettorali a seconda dei giochi delle clientele. Il PSI non era indenne dalla malattia trasformista, dedicandosi alla formazione di blocchi elettorali con chiunque garantisse un maggior numero di voti. Si capisce che la Sinistra in formazione fosse mal disposta verso quell'ambiente e desiderasse, con tutte le proprie forze, realizzarne uno diverso.
Quando intorno al 1912 queste istanze giovanili si concretizzarono in una battaglia politica all'interno del partito, condotta in parallelo a quella sulla questione "culturalista" (cioè contro la stramba idea che al proletariato mancasse la cultura per riuscire nella rivoluzione, mentre è proprio quel poco di cultura borghese che lo frega), la corrente era matura. Il suo primo atto pubblico fu l'uscita di un gruppo di militanti dalla sezione di Napoli (ma non dal partito) accompagnata dalle motivazioni diffuse attraverso un documento: il trasformismo rischiava di precipitare tutto il partito al livello del più volgare politicantismo borghese. L'opportunismo non è un fenomeno morale ma materiale. È il riflesso ideologico e politico di una condizione di vita. Se l'ambiente è quello borghese o una sua copia conforme, è inevitabile che il pensiero e l'azione vi si adeguino. Non si diventa opportunisti perché si adotta una teoria o ci si adegua a un impulso morale. Lo si diventa quando si vive o si è costretti a vivere in un ambiente che dell'opportunismo fa la sua bandiera. L'opportunismo è l'abito psicologico del mercante che si adatta al cliente per rifilargli la merce (anche se il mercante quando diventa potente finisce per stimolare il compratore a un consumismo compulsivo per rifilargli ancora più merce).
Troviamo del tutto normale che in un paese che ha sul groppone mille anni di capitalismo; un vago ricordo del feudalesimo, rintracciabile solo spingendosi indietro nel tempo fino al periodo longobardo e carolingio; antenati come Machiavelli, i banchieri fiorentini e Galileo; una storia di invasioni, guerre e mescolanze di popoli; troviamo normale che in un ambiente geostorico del genere, si sia sviluppata una corrente così particolare come la Sinistra, teoreticamente più matura che altrove, esente perciò da suggestioni democratiche e riformiste, da pruriti frontisti e tattiche improvvisate. Esente, in fondo, da residui borghesi illuministici, tipici di una rivoluzione passata e ormai incompatibili con l'ulteriore sviluppo sociale (qui l'obiezione di solito è: allora com'è stato possibile il maturare del bolscevismo in un paese arretrato? La risposta è semplice: il bolscevismo è maturato non tanto in Russia quanto nell'ambiente internazionale, specie in critica alla socialdemocrazia europea).
Il percorso della Sinistra è abbastanza facile da ricostruire, quindi non dobbiamo far altro che proiettare i dati in nostro possesso in direzione del futuro per avere risposte su ciò che occorre intraprendere o portare a compimento. Ma non lo si può fare quando l'ambiente sia ancora quello della Terza Internazionale degenerata, quando si abbiano in mente congressi, votazioni, lotta politica tra frazioni, maggioranze e magari… processi con fucilazioni. Nonostante la "nostra" corrente non ci sia più — l'abbiamo detto tante volte — nonostante i vecchi compagni del '21 siano tutti morti, rimane testardamente sulla scena una memoria che non vuole sparire. Organismi che si richiamano alla Sinistra perdurano, muoiono, rinascono con una vitalità notevole. Del resto succede con tutte le correnti che si richiamano a Marx. Ma il terreno è inquinato, anzi, è reso tossico dai sedimenti di troppa storia. Per questo occorre mettere mano alle peculiarità storiche suddette per vedere se si può contribuire alla rigenerazione almeno parziale dell'ambiente, se tale lavoro avrà la possibilità di diventare contagioso o se sarà necessario un cataclisma socio-storico per riprendere il filo dall'inizio: anche oggi l'Italia presenta peculiarità storiche passibili di sviluppi notevoli.
Il contagio ambientale
Va ricordato che la formazione della Sinistra investe tutto il partito e non solo a Napoli, dove si concretizza un nucleo più combattivo di altri. Del resto a Napoli era stata fondata nel 1870 la prima sezione del'Internazionale e l'ambiente era all'epoca industrializzato quanto quello del Nord. Così la data di nascita della Sinistra non è semplicemente il 1912, anche se in quell'anno, al Congresso di Reggio Emilia, è attiva la Frazione Intransigente rivoluzionaria già ben conosciuta in tutto il partito (a Napoli i giovani fondano il Circolo Carlo Marx, che esce dalla sezione locale pur rimanendo legato al partito). Nel 1910, ad esempio, i giovani intransigenti si erano fatti le ossa al Congresso di Milano dove era emerso lo scontro fra i riformisti e i rivoluzionari, impegnati, questi ultimi, in una "riscossa" che mostrava l'esistenza di una corrente dalle radici più profonde di quanto non rivelassero i semplici dati della democrazia elettiva congressuale. Nel 1911 la gioventù socialista e tutta la parte rivoluzionaria del partito lottano contro la guerra di Libia e contro gli intrighi con i massoni e i borghesi anticlericali. Nel 1913 a Bologna la gioventù socialista celebra il proprio Congresso in piena autonomia rispetto alla politica di compromessi, e l'anno successivo, al Congresso di Ancona del partito, i rivoluzionari sono impegnati nella battaglia contro la destra su tutti i fronti e senza esclusione di colpi. L'ambiente si surriscalda, i giovani si schierano e provocano la discussione nel partito, ormai riconosciuti come corrente e come scuola, spiazzando gli "anziani" che avevano sempre sottovalutato la Federazione giovanile. La discussione sul culturalismo contro Tasca, mai sopita, esplode, e viene pubblicato l'articolo sull'ambiente che ispira la relazione odierna.
Nell'estate del 1914 scoppia il conflitto mondiale, le socialdemocrazie capitolano votando i crediti di guerra. In Italia solo la Sinistra lotta per il disfattismo rivoluzionario. L'insieme del partito si barcamena invece con la formula vigliacca "né aderire né sabotare". Gli interventisti vengono espulsi, i giovani si offrono per "revolverare Mussolini". In occasione delle conferenze di Zimmerwald e Kienthal si delinea una sinistra internazionale. La Sinistra propugna una "feroce intransigenza" nella difesa delle "frontiere ideologiche" del marxismo contro la catastrofe socialdemocratica e riprende la stessa formula di Lenin: "trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria". Nel 1917, quando scoppia la Rivoluzione d'Ottobre in Russia, la Sinistra è l'unica forza al mondo che riconosce nell'evento un fatto mondiale e non nazionale. Scriverà poco dopo sul Soviet, il suo giornale, che il "bolscevismo è pianta di ogni clima" e che "la rivoluzione sociale internazionale è all'ordine del giorno della storia".
Nel 1918, al XV Congresso del PSI la Sinistra accetta senza condizioni le tesi di Lenin e forza il partito ad appoggiare la rivoluzione internazionale. Si tratta – dice contro la destra che mugugna – di "vedere quale delle tendenze è sulla linea del Programma del Partito e corrisponde alle finalità che esso si propone". Nel 1919 grandi scioperi sono proclamati in Italia. In Ungheria e Germania esplodono moti rivoluzionari. Tasca, il bersaglio della lotta anticulturalista, è con Gramsci alla fondazione dell'Ordine Nuovo a Torino ed è subito lotta della Sinistra contro la concezione consigliare e gradualista del nuovo periodico. Di fronte ai grandi avvenimenti rivoluzionari, coerenza vuole che si abbandoni il putrido terreno parlamentare. La Frazione intransigente cambia gli aggettivi nel proprio nome e diventa Comunista e Astensionista. Quando viene fondata l'Internazionale Comunista la Sinistra vi aderisce specificando che l'ambiente socialista soffre ancora della presenza di socialdemocratici opportunisti, e in alcune corrispondenze spiega la propria posizione programmatica che è come una premonizione su ciò che succederà più tardi proprio all'Internazionale stessa.
Non si trattò di vaticinio ma della conseguenza di un'azione politica coerente. Si richiedeva in fondo che l'Internazionale sapesse e potesse affrontare la questione che adesso possiamo definire "ambientale" e che allora era un imperativo politico: 1) la base teorica dell'IC doveva essere in tutto e per tutto coerente con il marxismo; 2) l'organizzazione doveva essere veramente Internazionale: non un risultato ottenuto sull'onda della rivoluzione russa bensì l'inizio del processo per giungere al partito mondiale unico e organico; 3) in essa doveva diventare operante la separazione dei comunisti dai riformisti attraverso una dura selezione degli appartenenti all'organismo; 4) doveva essere dispiegata una lotta contro la visione gradualistica della rivoluzione, tipica della Seconda Internazionale; 5) doveva essere riaffermato senza mezzi termini il principio della dittatura proletaria e dell'estinzione dello Stato; 6) doveva essere capita la natura organica del partito rivoluzionario e la sua funzione primaria nella direzione del movimento generale del proletariato, compresa la formazione degli organismi intermedi o la conquista di quelli esistenti.
Questa piccola scaletta temporale, da fine '800 al 1920, ci serve per mostrare come la coerenza di una compagine giovanile, considerata con sufficienza dal partito, inizialmente con base territoriale minima, diventi in pochissimo tempo, forte del suo programma intransigente, un interlocutore internazionale nel processo rivoluzionario. Quando nel 1920 la Sinistra partecipa al II Congresso Mondiale dell'IC, richiede, anzi, pretende una enunciazione più rigorosa dei punti di adesione alla nuova Internazionale, contro la tendenza, già rilevata sul Soviet, all'aggregazione di tendenze e partiti nazionali quando non addirittura nazionalisti. Nel 1921 la Sinistra si stacca dal PSI e fonda il Partito Comunista d'italia, l'unico tentativo di dar vita a un partito basato sul centralismo organico, nel quale, dichiaratamente, ci si proponeva di anticipare la società futura. Tentativo brutalmente interrotto proprio dall'Internazionale.
Il contagio ambientale aveva funzionato generalizzandosi quando la rivoluzione mondiale era in fase montante; si era inceppato quando la rivoluzione iniziava la ritirata. Purtroppo non si trattò di una ritirata strategica, di quelle che preservano il nucleo della propria forza militare, ma di uno sbandamento caotico, che lasciò l'esercito nelle mani del nemico, comprese le armi e le salmerie.
Emuli dell'ambiente borghese
Nella sua battaglia anticulturalista la Sinistra non si sognava ovviamente di negare utilità alla conoscenza del mondo, comprese le opere degli uomini e la loro società. Quel che negava è che la cultura borghese sia un qualcosa di asettico e neutro. Negava che si possa conoscere — e adoperare quel che si conosce — allo stesso modo in veste di proletario o in veste di borghese. Negava che il dominio borghese si facesse forza dell'ignoranza, osservando che la vera forza della borghesia consisteva invece nel dominio della sua cultura, cioè dell'insieme della sua ideologia. Infatti, aggiungeva, nel comparto scientifico non c'erano meno imbrogli e falsità di classe che nel comparto filosofico o storico, come nel caso eclatante del Lombroso e soprattutto del suo allievo-sbirro Ottolenghi.
Il percorso scientifico è naturalmente un percorso di classe e noi utilizziamo la conoscenza che c'è, fino a quando una rivoluzione scientifica non scalzi il vecchio paradigma dal suo piedistallo. Qualche critica la possiamo avanzare, ma non è questo il problema. Il problema vero, grave, è che i depositari borghesi della cultura stabiliscono delle gerarchie che vengono copiate pari pari dai loro emulatori riformisti, e tali gerarchie della conoscenza hanno il loro bravo risvolto politico. Croce e Gentile avevano una concezione dualistica della conoscenza: la cosiddetta cultura umanistica aveva la preminenza, mentre la scienza e la tecnica non erano considerate che in via subordinata, come fonti secondarie del sapere. Tasca e Gramsci erano della stessa scuola. La concezione culturalistica della politica socialista aveva un suo risvolto pratico: al vertice c'era il gruppo parlamentare coadiuvato dai politici e dagli intellettuali; alla base c'erano le organizzazioni operaie e di partito, che dovevano la loro tutela all'intercessione dei riformisti presso il potere borghese, per cui i rappresentanti operai venivano "condotti per mano nelle scale dei ministeri". I giovani dovevano crescere alla scuola di un tale partito. La Sinistra pretendeva che venisse rovesciata questa situazione: il socialismo scientifico portava una nuova concezione del mondo e dei rapporti umani, quindi l'organizzazione di partito doveva essere conseguente e tagliare i ponti con l'apparato borghese, che comprendeva i rappresentanti operai al suo servizio.
All'apparato socialborghese, opportunista e trasformista, la Sinistra diceva di preferire le organizzazioni settarie dei repubblicani "gialli" o addirittura quelle dei preti: almeno si sapeva a quale padrone appartenevano. È in tale situazione di scontro che si fa strada il concetto forte di "ambiente" rivoluzionario, non come utopia, ma al contrario, come possibile realizzazione di istanze legate all'umanità futura (cfr. testi in bibliografia dal n. 8 al n. 12). All'opposto, la concezione culturalista privilegiava il pensiero, dal quale l'azione sarebbe scaturita. Era perciò del tutto conseguente la prassi politica: il cambiamento del mondo è dovuto alla coscienza che se ne ha, e quindi la politica è quella prassi che permette di utilizzare gli strumenti migliori allo scopo. In tale concezione non esiste il rovesciamento dialettico che abbiamo visto in Marx: il trovarsi nello stesso ambiente, il partito, non è lo scopo individuato mentre si cerca di risolvere un problema contingente. Al contrario, il partito è il mezzo per raggiungere lo scopo, in questo caso un risultato contingente, una riforma politico-economica, un miglioramento sindacale della condizione operaia all'interno del sistema borghese, un accordo con varie componenti per raggiungere una maggioranza parlamentare. Va da sé che, una volta consolidata a sistema questa situazione, il partito omologato si autoriproduce e tutto ruota darwinianamente intorno agli espedienti utili alla "lotta per la sopravvivenza del più adatto"… al mondo borghese.
È facile capire che la concezione cultural-volontarista conduce agevolmente alle teorie secondo le quali le rivoluzioni "si fanno", così come si fanno i partiti e le loro alleanze, fronti, tattiche, programmi che variano a seconda delle situazioni contingenti, poniamo per "edificare" il socialismo e magari, com'è successo di teorizzare, "in un solo paese". Per la Sinistra le insopportabili condizioni materiali in cui si trovava l'operaio e i loro riflessi sui visceri, sui nervi e sul cervello erano la premessa indispensabile per giungere all'organizzazione rivoluzionaria. La cultura era un accidente estraneo al processo di formazione della coscienza di classe, perché non è mai l'uomo che "sceglie" di "fare" le rivoluzioni nella storia, bensì sono le rivoluzioni che si danno gli strumenti adatti, scelgono i loro capi obbligandoli a svolgere i compiti adeguati. È frutto di una hybris tremenda il pensare che le rivoluzioni siano "fatte" da quattro gatti che hanno il potere di trascinare le masse o peggio di "educarle", come si diceva una volta con scarso senso del ridicolo. I Cristi e i Paoli con i loro discepoli, i Marat e i Robespierre con i loro seguaci, i Lenin e i Trotsky con i loro militanti, all'inizio della loro "carriera" non avevano praticamente séguito. E nella maggior parte dei casi sono stati riesumati a posteriori per dare significato a rivoluzioni già compiute. L'idolatria per Cristo o per Lenin è un fatto postumo. Non c'è cervello o braccio di un qualche Napoleone che possa determinare i destini dell'universo. Carlyle con il suo mito degli eroi sbagliava, semplicemente, ma rifletteva delle idee e non dava fastidio a nessuno, mentre l'enorme accumulo di "politica" dovuto all'immaturità della rivoluzione europea negli anni '20 ha avuto delle conseguenze micidiali.
La concezione secondo la quale le rivoluzioni "si fanno" in base a ciò che l'ideologia suggerisce è appunto una concezione culturalista. L'intransigente lotta dei nostri vecchi compagni contro di essa è di un'importanza formidabile. L'opportunismo, ripetiamo, è un insieme di concezioni e comportamenti che derivano da processi materiali, non morali, e quasi tutto quello che riguarda la degenerazione materiale del movimento operaio (le sconfitte, i terribili massacri che ne sono spesso seguiti e anche agli scontri all'interno della classe operaia) si è ammantato di queste errate concezioni e comportamenti. Ancora nel 1926, quando ormai i giochi erano fatti, al congresso di Lione Amadeo Bordiga tenta, all'interno di un lungo riepilogo di sette ore (andato perso o distrutto, purtroppo, nei meandri degli archivi di Mosca) di porre la questione. Alla fine del suo intervento si rivolge a Gramsci e gli ricorda che cosa distingue i comunisti. E nell'intervista che rilascia un mese prima di morire, l'unica, quasi un testamento politico, egli ricorda:
"Desidero dire che, in realtà, essi [i punti di contrasto con Gramsci e i centristi] prendono origine da un unico dissenso circa la impostazione della ideologia e, potrei dire, della filosofia da cui nasce l'incendio della rivoluzione di classe. Ciò dissi a Gramsci al Congresso di Lione […] Entrambi avevamo esposto a fondo le soluzioni da dare, nei vari settori di attività, ai molti problemi che si ponevano ai comunisti italiani. A conclusione di questo scambio di programmi io dichiarai, rivolto ad Antonio, che non si è in diritto di dichiararsi marxisti, e nemmeno materialisti storici, solo perché si accettano come bagaglio di partito certe tesi di dettaglio, che possono riferirsi vuoi all'azione sindacale, economica, vuoi alla tattica parlamentare, vuoi a questioni di razza, di religione, di cultura; ma si è giustamente sotto la stessa bandiera politica solo quando si crede in una stessa concezione dell'universo, della storia e del compito dell'Uomo in essa. Sono passati molti anni, ma sono certo di ben ricordare che Antonio mi rispose dandomi ragione sulla fondamentale conclusione da me così enunciata, ed ammise anzi che aveva allora scorto per la prima volta quella importante verità".
La concezione politicantesca della rivoluzione, questo riflesso delle condizioni materiali capitalistiche nella testa degli uomini (cui si aggiunge l'ideologia dominante) è alla base di tutti gli opportunismi che il movimento operaio ha conosciuto nella sua storia. Non è affatto un fenomeno del passato, ma una determinante che agisce ancora oggi sul cervello degli uomini. Agisce più profondamente che mai proprio oggi che le "meravigliose sorti e progressive" dovrebbero avere infuso nei detti cervelli almeno un poco di quell'osannato metodo scientifico di cui la borghesia va così fiera per le sue realizzazioni tecniche. Proprio oggi è, allora, più che mai necessario essere in sintonia con i compagni "giovani" del 1912 i quali sapevano benissimo che il bagaglio teoretico tanto acclamato dagli "anziani" era una truffa per nascondere gli intrallazzi riformistici e far tacere le pulsioni rivoluzionarie, giustificate da una reale marea montante. Più delle formule culturaliste oggi come allora serve un programma classista. È ovvio che alla base di detto programma vi è un'impostazione fondata su una specifica conoscenza, la quale ingloba conoscenze comuni a quelle della borghesia; ma ciò che viene normalmente chiamato "cultura" è in generale la sedimentazione di una specifica conoscenza della classe al potere e non ci serve. E siccome la vera conoscenza verrà dopo che la rottura rivoluzionaria avrà stabilito l'inizio di una nuova epoca e perciò di una nuova rivoluzione scientifica (o "culturale", se il termine non richiama fantasmi recenti), quel che serve, che è assolutamente prioritario, è il riunire le proprie forze in contrasto totale con il mondo borghese, un po' come i primi cristiani che dicevano di "essere in questo mondo ma non di questo mondo".
C'è una differenza sostanziale fra coloro che si sentono deterministicamente strumenti scelti dalla rivoluzione in antitesi drastica con il mondo borghese e coloro che credono come mosche cocchiere di aver "scelto" la rivoluzione e quindi di avere il "diritto" di chiamare il proletariato a "farla"; fra coloro che aderiscono a un movimento materiale di cambiamento del mondo e coloro che "vogliono" cambiare il mondo "facendo politica". Questo Marx rinfacciava a coloro che stendevano programmi politici rivoluzionari senza vedere che intorno a loro la società borghese non poteva fare a meno di rivoluzionare sé stessa. Che intorno a loro, fissati al partito della democrazia, stava maturando il partito dell'insurrezione. Che intorno a loro la rivoluzione era un fatto permanente e non uno spettacolo da recitare a comando, secondo sollecitazioni contingenti. E Marx ne traeva anche una lezione sul piano operativo, perché ciò che contava era lo sviluppo di una forza collettiva, di un particolare cervello sociale proiettato nel futuro e in grado di produrre cambiamenti epocali, non l'aggregarsi di individui geniali in grado di arringare le folle, di scrivere tonanti elzeviri o di stupire parlamenti. L'individuo umano (cioè non più appartenente alla società di classe) per Marx è immediatamente interattivo, pone la propria differenza al servizio dell'altro, il proprio lavoro come complemento di quello altrui, gode della eliminazione dell'egoismo, è una parte del tutto e la sua vita è senza senso quando è alienata rispetto a questo tutto:
"Supponiamo di aver prodotto in quanto uomini. Ognuno di noi avrebbe doppiamente affermato nella sua produzione sé stesso e gli altri. Io avrò: 1) materializzato nella mia produzione la mia individualità, e la sua particolarità, e per questo fatto avrò gioito tanto durante l'attività di una manifestazione della vita individuale, che nella contemplazione dell'oggetto prodotto; io avrò provato la gioia individuale e riconosciuta la mia persona e la mia potenzialità nella sua forma materializzata e sensibile, ossia senza dubbio alcuno. 2) Nella tua soddisfazione e godimento per l'uso del mio prodotto io troverò un godimento immediato, tanto per la consapevolezza di aver soddisfatto un bisogno umano col mio lavoro, che per avere materializzato la natura umana e quindi procurato ad un altro essere umano l'oggetto che corrisponde alla sua. 3) Di essere stato per te l'intermediario tra te stesso e la specie umana, e per tal fatto di essere sentito e riconosciuto da te come un complemento del tuo proprio essere e come una necessaria parte di te stesso, e dunque di sapermi affermato tanto nel tuo pensiero che nel tuo amore. 4) Di aver prodotto nella mia manifestazione di vita individuale la tua manifestazione di vita e di avere dunque affermato e realizzato nella mia attività, direttamente, la mia vera essenza; ossia il mio essere umano e il mio essere sociale" (Estratti da James Mill).
A che serve un ambiente anticulturalista
Trasportiamo il contenuto grandioso di queste proposizioni al nostro tema dell'ambiente. Il partito rivoluzionario è l'ambiente in cui si tende al rifiuto di questa società e all'affermazione-anticipazione di quella futura. Ora immaginiamo un partito che abbia la sua brava gerarchia interna piramidale, che mandi deputati nei parlamenti a discutere degli affari della borghesia e del proletariato, o mandi delegati ai propri congressi, dove si vota democraticamente tesi contro tesi sostenute da individui che finiscono per diventare professionisti della politica, rappresentanti di una base tesserata. Immaginiamo questo partito che sovrintenda al lavoro di difesa delle condizioni immediate dei proletari in un sindacato strutturato allo stesso modo, dai congressi alle tessere, dalle tesi ai professionisti sindacali ecc. ecc. Come potrebbe mai un partito del genere riflettere la potente negazione dell'individuo, lo scioglimento dell'egoismo tratteggiato da Marx?
È fin troppo facile per i nostri avversari ricorrere all'eterno argomento dell'opportunista: "Già, ma qui si ha a che fare con la dura realtà, mica con le vostre utopie". Sorvoliamo sul fatto che da un secolo e mezzo questi né carne né pesce sono tanto realisti da immedesimarsi completamente nella pura e semplice realtà borghese. Tanto impegnati in ciò, da riuscire persino a non combinare assolutamente nulla dal punto di vista riformista, terreno sul quale il fascismo li ha di gran lunga surclassati, ridicolizzandoli (la Sinistra ha spiegato con chiarezza come il fascismo sia stato "il realizzatore dialettico delle istanze riformiste inevase").
Dunque non siamo "realisti", "concreti", "tattici". Ebbene, vogliamo dimostrare che coloro che ci muovono questo tipo di "critica" non solo non sono in sintonia con la realtà, ma non sono altro che un rifiuto della storia al pari della decadente borghesia attuale. Infatti le loro concezioni non fanno parte di alcuna delle forme sociali esistite, perché in tutte si è manifestato in qualche modo il cervello sociale e ognuna, nel corso della propria rivoluzione, ha espresso il proprio partito come comunità anticipatrice combattente. Non fanno dunque parte del mondo comunistico primitivo, ancora perfettamente organico e umano, in armonia con il ciclo della natura. Non fanno parte della fase di transizione, in cui si plasmava una qualche forma di organismo centrale secondo un principio organizzatore ma c'era ancora traccia evidente dei rapporti comunistici. Non fanno parte della società antica, nella quale sopravviveva un rapporto entro la gens, e anche fra le gentes, che escludeva il ruolo dell'individuo come lo immaginiamo oggi: persino l'eroe era un prolungamento della società che lo esprimeva (i Greci tra l'altro avevano già tratteggiato il concetto di comunità-cervello-collettivo). Non fanno parte della società feudale che, fino al tardo medioevo, non conobbe il concetto di individuo, e la comunità di villaggio era ancora basata sia sulla proprietà ibrida, individuale e comune, sia sulla solidarietà, che si manifestava con lo scambio di lavoro famigliare. Si potrebbe concludere che gli opportunisti "concretisti", sono allora dei cloni prodotti a immagine e somiglianza della borghesia, ma questa sarebbe solo una mezza verità perché la borghesia ha raggiunto, durante la sua rivoluzione, vette che costoro neppure sanno immaginare.
Mettiamo i piedi per terra e "siamo concreti". Raccontiamo brevemente come un rivoluzionario borghese — e all'epoca non era solo — descrivesse l'umanità come un continuum dal quale l'individualismo è escluso e che quindi presuppone l'essere sociale, il cervello collettivo di cui la persona non è altro che una cellula. Il testo che citeremo è di Denis Diderot, filosofo, e fu scritto per burlare il suo ex amico d'Alembert, matematico. Entrambi erano stati gli ideatori, compilatori e co-realizzatori dell'Encyclopédie, il massimo risultato prodotto dalla rivoluzione borghese, ottenuto tra l'altro mettendo in moto un formidabile cervello collettivo. D'Alembert, che s'era ritirato a vita tranquilla, non gradì il fatto che nel libro comparissero personaggi conosciuti cui erano fatte recitare frasi reputate all'epoca sovversive, e chiese all'autore di bruciarlo, cosa che questi fece. Il libro, un vero gioiello sulla teoria della conoscenza, fu ritrovato fra le carte lasciate in eredità dall'autore a Caterina di Russia ed è una bordata di artiglieria contro le concezioni del mondo aristocratico morente. Ne citiamo un brano, in relazione perfetta con la nostra questione dell'ambiente. Dopo aver sostenuto che nel mondo non c'è soluzione di continuità fra la natura e gli esseri e fra esseri, dato che ogni atomo di ogni cosa partecipa all'essenza dell'altra, minerale, vegetale o vivente, l'autore continua:
"Non vi è essenza di un essere particolare. No, senza dubbio, dato che non c'è nessuna qualità di cui ogni essere non sia partecipe… E voi parlate di individui, poveri filosofi! Lasciate stare i vostri individui, rispondetemi. Non ammettete che in natura tutto è concatenato e che è impossibile che vi sia un vuoto nella catena? Cosa volete dire allora con i vostri individui? Non esistono affatto, no, non esistono affatto. Non c'è che un solo grande individuo: il tutto. In questo tutto c'è una parte che voi chiamate così e così. Ma quando darete il nome di individuo a questa parte del tutto, sarà in base a un concetto falso, come se in un uccello voi chiamaste individuo l'ala o la piuma dell'ala".
Segue un passo in cui Diderot sostiene il concetto secondo cui l'individuo muore ma la specie è eterna, anzi, muore anch'essa, ma lasciando molecole che si trasmuteranno in altra forma, per cui non v'è punto della natura intera che non soffra o non goda. E tutto è collegato da una rete di fili sensibili come una ragnatela (pensiamo al testo tradotto in inglese, ragnatela = web!). Normalmente si attribuisce a Diderot una concezione panteistica, cioè di chi vede Dio in tutta la realtà della natura, dell'universo. Altri enciclopedisti erano deisti, cioè immaginavano un principio creatore spogliato dagli ammennicoli della religione rivelata. Nel Sogno Diderot è buon materialista anticartesiano e si spinge oltre persino rispetto al più tardo positivismo. Quindi, come Laplace, non ha bisogno dell'ipotesi divina. Egli sovverte ironicamente non solo l'ordine della cultura tardo-feudale ma anche il filosofare dei borghesi suoi contemporanei inconseguenti. Esprime infine una concezione non banale dell'evoluzionismo biologico e sociale, sempre tenendo come sfondo una specie di filosofia… antifilosofica. Non per niente Lenin lo cita come esempio di materialismo non empiriocriticista. E quindi non è un caso che, a differenza dei dialogati tradizionali, i personaggi contribuiscano tutti a far emergere la tesi dell'autore invece di sostenere tesi contrapposte. In Diderot è il cervello sociale che "secerne" la teoria, e questi passi sono di una chiarezza tale che li abbiamo utilizzati più volte, ad esempio scrivendo sui "militi delle rivoluzioni" (Lettera ai compagni n. 33).
Ma ritorniamo al nostro ambiente "concreto": i comunisti dovrebbero essere almeno all'altezza di un rivoluzionario borghese. Dovrebbero estendere la loro critica dall'individualismo attuale alle manifestazioni degenerate che vi corrispondono, ed estendere il concetto olistico della continuità delle parti con il tutto al partito-comunità che dovrà anticipare il futuro. Nel 1913 i giovani socialisti marxisti intransigenti pensavano che ciò fosse possibile. Nel 1921 tentarono e ci riuscirono, spingendosi poi temerariamente fino ad azzardare un approccio organico nientemeno che con la grande Internazionale Comunista. Questa, che si appoggiava sul successo di un Ottobre che aveva annichilito il mondo, non recepì. Come si vede, tutto è già accaduto, non possiamo proprio ritornare indietro. Ma certo la devastazione è stata grande e nel 2009 sembra che nessuno capisca più un'acca di ciò che è già stato raggiunto. Dev'esserci pur qualcuno che riprenda il filo della "ragnatela". L'importante è che il movimento nel tempo rimanga sé stesso. E se gli individui possono tradire, degenerare, essere ingoiati dall'esistente, il partito storico non muore mai. Diderot, tanto per rimanere alla rivoluzione precedente la nostra, utilizza l'immagine di un monastero in cui monaci vanno e vengono ma l'insieme rimane sempre il medesimo, come avviene in un organismo in cui è attivo il ricambio vitale delle cellule. E se non piace l'immagine del monastero, cambiamola con quella di una grande fabbrica moderna con i suoi operai e avremo in più flussi di energia e materia che passano da un livello all'altro senza scambio di valore.
Monastero o fabbrica l'importante è capire che l'umanità stava parlando per bocca di Diderot e che così facendo manifestava un bisogno di rivoluzione, perché un intero ambiente era già predisposto per ascoltare il ribaltamento della metafisica feudale in filosofia positiva della scienza. A quel punto non c'era più nulla da fare: nemmeno la potenza congiunta della monarchia francese e della Chiesa era riuscita a bloccare il progetto e la realizzazione dell'Encyclopédie, sponsorizzati nientemeno che dall'influentissima marchesa de Pompadour, favorita del Re. Il partito storico è la fabbrica della rivoluzione, non sparisce mai; il partito formale è la sua manodopera, va e viene con alterne affermazioni sul campo. Ma sarebbe arbitrario separare dualisticamente i due fenomeni, perché non è mai successo che la memoria storica di una rivoluzione sia cancellata del tutto. Il pericolo maggiore che corre l'ambiente rivoluzionario non è l'oblio completo ma la confusione fra i materiali delle rivoluzioni che si succedono: la nostra, quella comunista, non potrà mai affermarsi con gli strumenti e le categorie di quella precedente. Fu questa confusione all'origine dell'ambiguità dell'ambiente rivoluzionario degli anni '20.
Assecondare un movimento che c'è
Che il partito storico viva e sia in buona salute lo tocchiamo con mano attraverso indicatori economici, politici e sociali. Il capitalismo è in crisi, e di essa abbiamo potuto dare una spiegazione attraverso i classicissimi strumenti di Marx, senza cambiare una virgola. La sovrastruttura borghese è ormai un freno all'ulteriore sviluppo della forza produttiva sociale, e lo si vede attraverso la sclerosi degli apparati di dominio, dai partiti allo Stato, incapaci di rivitalizzare un sistema moribondo. In risposta a questa situazione vi è la classica rivolta dell'uomo non più per cercare di acquisire qualcosa di nuovo ma per cercare di non perdere ciò che ha già acquisito, come dimostrano gli scontri sociali nel mondo, dalle rivolte delle banlieues in Francia a quelle dei distretti industriali in Cina. Troppo poco, si dirà. È vero, intanto però si assottigliano gli spazi per il dialogo interclassista, non c'è più margine per manovre riformistiche di un qualche peso; mentre non solo la classe operaia, ma tutta la popolazione è messa di fronte alla pura e semplice impossibilità di formulare delle "rivendicazioni" che abbiano un senso di fronte all'impossibilità di realizzarle. Si sta formando un ambiente sociale che dovrà per forza avere un suo riflesso nell'ambiente politico rivoluzionario non appena si manifesti un minimo di polarizzazione sociale, classe contro classe. E tutto ciò in immensi agglomerati urbani, quali nessuna rivoluzione del passato, tutte urbane dal neolitico in poi, ha conosciuto.
Nel frattempo, contro la bestiale alienazione e l'isolamento dell'individuo, pur immerso in agglomerati di milioni di suoi simili, si moltiplicano i segnali di un bisogno di comunità, naturalmente non esplicito e consapevole, ma chiaro per chi voglia e possa vederlo. E anche questo fenomeno non potrà che riflettersi in ambito politico. Chi non lo vede? Ovviamente il culturalista crocian-gramsciano, che invece di indagare scientificamente sui fatti materiali, cioè su ciò che gli uomini fanno, si basa su ciò che gli uomini teorizzano intorno a sé stessi. Da questo circolo vizioso, da questa girandola autoreferenziale occorre uscire, e se ne esce soltanto assecondando un movimento che c'è, non inventando movimenti virtuali. Ecco dov'è il realismo rivoluzionario. Solo quando scatta una determinata soglia di tensione sociale, ed essa è accompagnata dalla presenza effettiva del partito, è possibile far intervenire il "rovesciamento della prassi", cioè l'indirizzo dovuto alla "volontà", quella che gli anarchici e tutti gli immediatisti antepongono al corso materiale degli eventi. A livello della spinta fisiologica elementare l'esistenza di un ambiente rivoluzionario è l'unica condizione affinché si realizzi il ricordato rovesciamento di Marx, il riunirsi per risolvere problemi diventa lo scopo, ne nasce una comunità umana in contrapposizione alla non-comunità alienata:
"No, perdìo, la via della propaganda non è la teoria, ma il sentimento, in quanto questo è il riflesso spontaneo dei bisogni materiali nel sistema nervoso degli uomini. Occorre, se vogliamo vincere le riluttanze egoistiche dell'operaio, fargli vedere le condizioni di tutti i suoi simili, portarlo in un ambiente che gli parli della "classe" e del suo avvenire. Sotto l'influenza di tale ambiente egli non correrà rischio di diventare un rinnegato. E che non sia questa un'opera di cultura lo prova il caso degli intellettuali che "rinnegano" con grande facilità, malgrado la solidità teorica delle loro idee, a cui certo non potrebbero mai giungere gli operai… [Nell'intellettuale] la convinzione vera, in generale, si forma poi, a contatto dell'ambiente operaio, per il confronto con quello che si è lasciato. L'opinione politica non è un atteggiamento di pensiero, ripetiamolo a costo di essere lapidati da idealisti, culturisti, maniaci della 'Filosofia' o della 'Scienza' ".
Il fatto che si formi quell'ambiente ferocemente anti-capitalistico di cui parlavano i nostri compagni nel 1913 non è una questione di volontà, ma chi arriva a concepire che ciò è necessario lo deve almeno inserire nel proprio programma. E almeno tentare di dar vita a qualcosa di un po' diverso da ciò che si trova in giro. In fondo, per non cadere nella trappola opportunistica, si tratta semplicemente di non lavorare troppo di fantasia, di non essere come gli utopisti che avevano il proprio modello da proporre al mondo. Invece di mettersi a tavolino e stilare un programma da distribuire al popolo occorre individuare quale sia il movimento storico attuale come sbocco di un lavorìo sociale di secoli e assecondarlo. Il risultato non sarà né un partito democratico, né un bar-discoteca imbrattato, né un cimitero coi santini appesi al muro, né un partito-quadri dedito a perpetuare sé stesso macinando adepti. Quando si individua una dinamica si è già fatta gran parte del lavoro per capire quali possano essere i suoi sbocchi. Siamo abituati, come eredi della Sinistra, a sentirci apostrofare con il termine sprezzante di "attendisti", cristallizzato presso gli omologati fin dai tempi di Stalin. È attendista chiunque attenda un'occasione per svolgere un'attività, ad esempio tutti coloro che si agitano in occasioni che è l'avversario a preparare, una legge antiproletaria, una base militare, un contratto di lavoro non firmato. Il non-attendista rovescia quel che Lenin chiamava codismo: sa che prima viene il lavoro sistematico in funzione dell'ambiente adatto, e interviene di conseguenza in occasione degli eventi del tipo di quelli elencati.
Se ci soffermiamo sulla genesi dell'uomo-industria tratteggiato da Marx non troveremo difficile estendere le note di quest'ultimo alla società-industria, nella quale i legami tra uomini sono strettissimi tanto da renderli completamente interdipendenti dal punto di vista consumistico e produttivo, proprio mentre la contraddizione fra produzione sociale e appropriazione privata li rende estranei dal punto di vista umano. Quando ci siamo chiesti — e ci hanno chiesto — quale accidente di percorso ci abbia fatto fare un sobbalzo e inseriti in una carreggiata oggettivamente diversa da tante altre esperienze, ci siamo anche dati una risposta: in campo organizzativo l'ambiente viene prima di tutto il resto.
Ora, questo argomento potrebbe apparire vagamente provocatorio: ma come, proprio voi che ci tenete tanto al rigore teoretico, che esplorate territori di sovrapposizione fra la teoria rivoluzionaria e le capitolazioni della scienza borghese di fronte ad essa, che ritenete essenziale il rigore programmatico di fronte alle improvvisazioni tattiche, proprio voi ritenete che l'ambiente debba venire prima, ad esempio, della teoria? Prima della buona organizzazione e dei legami con il proletariato?
È così, ma non lo diciamo noi, lo dicono Marx ed Engels, se questo serve a tranquillizzare chi ha sempre bisogno di qualche ipse dixit. Lo dice la corrente che lottò contro la degenerazione socialdemocratica, fondò il Partito Comunista d'Italia come sezione italiana dell'Internazionale Comunista, e lottò contro la degenerazione "stalinista" della stessa. Marx l'abbiamo citato riferendoci a un passo dei Manoscritti del 1844. La nostra corrente l'abbiamo citata riferendoci allo specifico articolo sull'ambiente. Sentiamo adesso come affronta la questione Engels ne La Sacra Famiglia:
"Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l'astrazione di ogni umanità, perfino dell'apparenza della umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tutte le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l'uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile; proprio perciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non invano il proletariato passa per la dura ma tonificante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l'intero proletariato, s'immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere. Il suo fine e la sua azione storica gli sono irrevocabilmente prefissati nelle sue condizioni di vita, come nell'intera organizzazione della presente società borghese" (IV, Glossa marginale critica 2).
Il proletario è dunque un elemento del capitalismo, ma in quanto tale sarà storicamente costretto ad essere un elemento della distruzione del capitalismo. Bisogna assolutamente chiedersi come e dove ciò possa essere realizzabile. Nella fabbrica? Nel sindacato? In casa? Non esiste entro la società capitalistica un "luogo" dove il proletario possa rappresentarsi non come classe in sé, mera risultante di un censimento statistico, ma come classe per sé, ovvero come fattore di eliminazione dei rapporti attuali e perciò di eliminazione di tutte le classi. Temi ripetuti fino alla nausea ma forse, dopo Marx ed Engels, sviscerati nel loro significato concreto solo dalla Sinistra. Infatti, se non si fa della metafisica, ad ogni proposizione deve seguire l'indicazione pratica, possibilmente con l'elenco degli strumenti necessari. Come abbiamo visto, all'inizio degli anni '60 c'erano dei ragazzotti che cantavano "Buttiamo a mare le basi americane". Spensieratamente, non tenevano conto di almeno due cose: 1) che per farlo occorrevano forza e organizzazione adeguate; 2) che nel mondo di allora non avrebbero potuto farlo che come partigiani di uno dei due poli imperialisti, cioè dell'URSS. E infatti è in quella veste che cantavano "canzoni di protesta" e recitavano brani di Brecht. Il loro ambiente partigianesco era di gran lunga inferiore a quello dei coetanei americani che protestavano contro "il sistema" dell'uomo a una dimensione, marcusianamente certo, ma di sicuro non a favore di un altro sistema esistente.
La soluzione pratica, concreta, per la rottura della palude omologata pseudo rivoluzionaria è la formazione del partito. Solo che nel dire "partito" bisogna subito ricorrere a una spiegazione, tanto il termine è sputtanato. Partito per noi non è sinonimo di organizzazione politica fra altre organizzazioni politiche, ma è realizzazione di un'anti-società organica. Come dicevamo nel 1946, un partito rivoluzionario non è tale se contro la forma sociale esistente non esprime, sia nella sua struttura che nelle sue svariate manifestazioni di energia, un'anti-forma. Altrimenti non fa che adottare tale e quale la forma esistente. E di fronte ad essa, se non la si nega, ci si può solo con-formare rivendicando al massimo una sua ri-forma (Tracciato d'impostazione).
Facile, difficile, impossibile
Oggi, mentre è agevole (per chi lo voglia) individuare le manifestazioni del partito storico, non abbiamo ancora la possibilità, non diciamo di realizzare, ma nemmeno di individuare, tracce di quello formale. Cioè non ha ancora assunto forma individuabile una reazione alla società presente che sia allo stesso tempo la sua negazione pratica. Episodi di rivolta causati da una "vita senza senso" non mancano, tuttavia statisticamente sono finora poco rilevanti e in genere sono autolesionisti. È un fatto che si moltiplicano i suicidi degli operai, ma non esiste una forma equivalente di violenza operaia nei confronti dei capitalisti. Da questo punto di vista la società sembra relativamente ingessata. Gli scontri, anche molto significativi e di grandi proporzioni come quelli delle banlieues francesi, avendo come obiettivo soltanto le propaggini di ultimo ordine dello Stato, non lasciano nulla dietro di sé, almeno nell'immediato.
Eppure nella società attuale milioni di persone cercano forme di comunità contro l'isolamento. Vi è ovviamente uno sfruttamento commerciale del fenomeno, come da parte delle imprese americane che forniscono edifici per intentional communities chiavi in mano. O lo sfruttamento politico, come nelle banlieues francesi, dove lo Stato, per contrastare la comunitarizzazione su base etnica, di quartiere, di interessi vari non escluso il microcrimine, cerca di proporre centri di integrazione comunitaristici gestiti da banlieusards già integrati. Per non parlare dei media, che sguazzano nel disordine sociale guadagnando denaro. Il capitalismo non può fare a meno di produrre migliaia di comunità perché ne produce il bisogno nello stesso tempo in cui le disgrega. Certo è una tragedia il fatto che non si tratti più (o ancora) di comunità di operai alla Marx, ma non si può essere sicuri che questo sia un difetto. Il precipitare di eventi catastrofici potrebbe come niente far sentire l'urgenza di una comunità umana che finalmente si possa esprimere attraverso i proletari, l'unica classe in questa società che sia spontaneamente organizzata perché organizzato è il suo lavoro, la sua vita. È previsto dalla teoria che le classi di coccio in mezzo a quelle di ferro si polarizzino da una parte o dall'altra.
Aderire a questa realtà, far parte di un ambiente politico consapevole di questo bisogno è meno utopistico di quanto lo sia una riproposizione di cliché partitici creati volontaristicamente. Ci facevano sorridere certi nostri interlocutori quando affermavano di essere il partito storico. E c'era da rimanere allibiti quando si scopriva che per partito storico intendevano le piccole compagini organizzate, ridotte ai minimi termini dalla situazione storicamente sfavorevole. Il partito storico, per dirla alla Marx-Engels, è il prodotto sociale complessivo della grande industria moderna, della forza produttiva sociale incatenata da una sovrastruttura che non le corrisponde più, della liberazione definitiva e irreversibile di tempo di lavoro alienato che potenzialmente si può già trasformare in tempo umano di vita. È tragica la limitatezza epistemologica dei "comunisti", la mancanza di passione, l'adagiarsi in un tran tran auto replicante mentre la società intera sforna prove su prove dell'esistenza reale del comunismo come movimento verso una realtà futura, la base migliore per un ambiente rivoluzionario.
Facile, difficile, impossibile… Non sono questi i parametri che possono influenzare il lavoro rivoluzionario. L'unico parametro possibile è la coerenza con il programma che determinazioni più forti di qualsiasi individuo fanno scegliere. In nessuna rivoluzione del passato gli uomini si sono ritrovati e organizzati (come scopo e non come mezzo) calcolando se fosse facile o difficile, se convenisse o no. Quando la borghesia produce lavori come quello di Kevin Kelly sul comunismo reale contro il comunismo politico (dal quale abbiamo ricavato un articolo per il n. 25 scorso), dovrebbe essere lampante che siamo di fronte all'azione del partito storico che recluta. E se l'autore vuol far soldi mostrando al mondo che i risultati comunistici della tecnologia e del cervello sociale piegheranno anche il business capitalistico a questi processi ormai storici, ebbene, non vi è motivo sufficiente per decretare che è tutta una montatura capitalistica, che tanto il mondo capitalistico mercifica ogni cosa. Che scoperta: quel mondo ti vende anche Il Capitale di Marx e le Opere complete di Lenin.
Detto ciò, dovrebbe essere chiaro che il concretizzarsi del partito storico in partito formale ci porterà ad una organizzazione di tipo diverso rispetto a quelle che l'umanità ha conosciuto nel passato. Non è difficile immaginare che ciò succeda, è difficile immaginare il modo e quali aspetti avrà la nuova organizzazione. Ma, come in ogni procedimento scientifico, per poter rispondere è necessario che la domanda sia formulata correttamente. E allora qui la domanda è: per portare a compimento la rivoluzione in corso affinché si giunga alla "dittatura del proletariato", possiamo immaginare un partito che si fondi sulle caratteristiche di quelli che abbiamo conosciuto nella storia? La risposta non può essere che: "evidentemente no". Nessuno potrà ammettere che ci possa servire la forma di transizione dalla società comunistica primitiva a quella schiavistica antica, quando le classi non c'erano ancora e la rivoluzione era rappresentata da un embrione di potere centrale coordinatore. Né si potrebbe immaginare la formazione di un ambiente comunistico simile a quello dei primi cristiani, che preparò le basi per il Medioevo delle cattedrali, dei papi e degli imperatori. O quello dei borghesi, che partirono dai salotti della nobiltà in crisi per arrivare alla fondazione di parlamenti.
Fin qui tutto fila abbastanza liscio. Il problema si presenta con la rivoluzione d'Ottobre che, non essendosi potuta estendere in Europa, rende difficile la domanda e quindi impossibile la risposta. Ci si chiede infatti: era coerente con il marxismo l'opera dei bolscevichi? E siccome la risposta è inevitabilmente e giustamente "sì", ecco che la domanda si trascina non soltanto la risposta sulla politica bolscevica ma anche quella sull'ambiente sia del partito bolscevico che dell'Internazionale. Si sa che le critiche borghesi e piccolo borghesi riguardano la mancata democrazia. La critica della Sinistra fu invece che il partito russo e poi l'Internazionale soffrissero ancora troppo della malattia democratica. Non è qui il caso di riprendere estesamente i termini dello scontro: basti ricordare che nella fase montante della rivoluzione la Sinistra partecipò attivamente al fine di realizzare, almeno in tendenza, il partito unico mondiale del proletariato, mentre nella fase calante criticò aspramente la politica frontista e le tattiche di compromesso, finendo esautorata sia dall'IC che dal PCd'I. Una sola citazione del 1925 è sufficiente per introdurre ciò che diremo in seguito:
"Noi sosteniamo che gli insuccessi in Germania sono in rapporto alla maniera insufficiente di risolvere i problemi delle direttive politiche fondamentali attraverso i congressi e il lavoro degli organi direttivi del Comintern. Nel lavoro politico di questo prevalgono criteri di equilibrio congressuale tra i gruppi dirigenti dei partiti, di manovra interna a tipo parlamentare. [Invece] il criterio che a noi sembra vitale per il partito rivoluzionario è condurre un lavoro politico che sia la negazione dialettica dei metodi e delle consuetudini del politicantismo borghese" (Il pericolo…).
L'accusa è tremenda: la Germania era il fulcro della rivoluzione in Europa, e affermare che l'insuccesso dell'IC nei confronti della situazione tedesca era dovuto a questioni di equilibrio congressuale e di politicantismo borghese significava negare che quell'ambiente fosse adeguato ai compiti che la rivoluzione mondiale poneva. Il fatto è che l'Internazionale non era diventata così, lo era sempre stata, perché così era la stragrande maggioranza dei partiti che ne facevano parte. La difficoltà della risposta è oggettiva, ma si supera facilmente con un minimo di logica: l'opera dei bolscevichi fu coerente con il marxismo ed essi risolsero magnificamente il problema di una rivoluzione dai compiti borghesi condotta da un partito comunista (quindi rivoluzione proletaria comunista); fu incoerente nel momento in cui vi fu il riflusso rivoluzionario e si trattò di plasmare l'Internazionale per trasformarla da coacervo di partiti assolutamente disomogenei e ben poco comunisti in partito unico mondiale del proletariato. Per quanto quest'affermazione apodittica possa essere in contrasto con i miti della storia ricreata a posteriori (come sempre del resto), c'erano solo due partiti effettivamente comunisti nel mondo: quello di Russia e quello d'Italia. Stop. Le loro differenze, anche notevoli, non intaccavano la loro fondamentale base teoretica e tattica. Furono travolti entrambi e da lì bisogna ripartire, da quando erano integri e vitali, quando influenzavano gli altri partiti invece di esserne influenzati. Entrambi avevano dato luogo, indipendentemente l'uno dall'altro, allo stesso ambiente rivoluzionario, e ciò è agevolmente rintracciabile nei testi che essi hanno prodotto. Ma quello d'Italia lasciò anche una critica al regresso successivo, quello di Russia no, perché ne fu protagonista. E anche la reazione internazionale alla "bolscevizzazione" frontista e tatticista fu un disastro di carattere democratico, alla cui dinamica la Sinistra non volle partecipare, rimanendo isolata.
Abbiamo visto dunque che mentre è relativamente facile – con gli strumenti adatti – analizzare le rivoluzioni della storia passata, è piuttosto difficile analizzare la rivoluzione in corso. Per la semplice ragione che vi siamo immersi e siamo costretti a parlare di noi stessi. "Noi" inteso come la generalità di coloro che, nel variopinto ventaglio dei "marxismi", agiscono in nome della rivoluzione. Ancora una volta è necessario uscire dall'insieme, dato che fino a che ne facciamo parte non potremo far altro che scrivere una meta-storia. Se riusciamo a sollevarci al di sopra della contingenza vediamo che l'isolamento della Sinistra, lungi dall'essere stato un danno, è stato il fattore primario della sua lucidità storica. In tutte quelle che oggi vengono chiamate rivoluzioni scientifiche il nuovo che avanza ha comportato il proprio isolamento prima di esplodere nella società e uccidere il vecchio. Noi stessi, risultando "espulsi" dal vecchio ambiente, siamo stati costretti a svilupparne uno nuovo. Non ce lo siamo inventato, è emerso, come si dice con il linguaggio di chi analizza i fenomeni legati al caos deterministico.
Se facciamo riferimento a una corrente che ha contribuito alla formazione dell'Internazionale Comunista e ne ha fatto parte fino al 1926, non possiamo però più identificarci con essa perché non c'è più. Utilizziamo il linguaggio che abbiamo a disposizione, d'accordo, ma a rigore esiste una sinistra solo se esistono una destra e un centro, come appunto fino al 1926. Quando nel 1945 riprese l'attività della corrente, essa si autodefinì "partito internazionalista", ma l'ambiente fu quello della Terza Internazionale, di cui gli stessi militanti avevano fatto parte vent'anni prima. Infatti la storia di quel partito fu oltremodo tribolata proprio perché il suo programma del dopoguerra era in contraddizione con la permanenza di un ambiente terzinternazionalista. E questa contraddizione alla fine lo fece esplodere.
Da un lato esso era uno dei nodi che integravano la rete di relazioni di tutto il movimento rivoluzionario nella storia e nei vari paesi; dall'altro era l'anticipazione di un futuro che aveva difficoltà nel riuscire ad adoperare il passato come patrimonio fondante senza replicarlo supinamente. Questa difficoltà si manifestava anche a livello simbolico-estetico. Come l'Armata Rossa andava all'assalto cantando la Marsigliese e l'Internazionale faceva abuso di apparati pletorici e di retorica figurativa, così il nuovo "partito" adottò — o meglio continuò ad usare — l'estetica e il linguaggio della rivoluzione sconfitta. Ora, siccome la rivoluzione come dinamica storica non può mai essere sconfitta, bisogna chiedersi che cos'è che è stato sconfitto e che cos'è che si imporrà invece come teoria, come azione, come estetica e come linguaggio. E diamo la risposta: è stato sconfitto il ricorso alle categorie della società borghese per le funzioni del partito proletario; si imporrà un discorso che peraltro è già stato impostato dalla Sinistra, o perlomeno da una parte di essa fin dal 1921: per ogni rivoluzionario è il futuro che deve progettare il presente. È difficile? Dipende: ad esempio una fabbrica qualsiasi ci riesce benissimo, sia progettando sé stessa che progettando i suoi prodotti. È il mercato che la frega in quanto azienda.
Simili, diversi, "altri"
Il Primo Maggio scorso, a Torino, dove c'è ancora una grande manifestazione con forte partecipazione proletaria, come tutti gli anni siamo stati presenti in piazza con le nostre pubblicazioni, abbiamo avuto il nostro momento conviviale e abbiamo tenuto una riunione approfittando del convergere di diversi compagni da varie località. Al termine di una breve relazione, molte domande hanno permesso di affrontare la natura del nostro lavoro. La domanda forse più interessante è stata posta da un giovane compagno proveniente dalla Francia e che incontravamo per la prima volta. "Navigando su Internet", ha detto, "si trovano centinaia di siti e di blog pubblicati da partiti e gruppi vari che si riferiscono al marxismo; se uno capita sul vostro nota immediatamente una enorme differenza con gli altri. Indipendentemente dal fatto che si sia d'accordo o meno, perché tale differenza?".
Bella domanda, centrata. Anche noi siamo ben consapevoli di questa differenza e dovremmo trovare il modo di parlare proprio dell'ambiente da cui siamo determinati e che in qualche misura stiamo determiando. Ma vi sono domande alle quali nessun relatore può rispondere, per quanto abile e preparato, senza che esse stesse vengano riformulate. Noi non possiamo sapere perché sia maturata la differenza e perché sia diventata manifesta. Ci sono tanti raggruppamenti che si rifanno alla Sinistra e sono stati sottoposti alle stesse determinanti nostre. Possiamo solo confrontare la loro storia con quella di n+1 senza che qualcuno possa da ciò ricavarne delle risposte ai perché. Sappiamo che in ambito scientifico nessuno si chiederà mai perché un grave cade proprio a quella velocità o perché il rinoceronte ha un corno sul naso. Lo fanno ad esempio i bambini, che sono bravissimi a infilzare uno dietro l'altro infiniti "perché", ma dato che in loro prevale l'approccio analogico alla conoscenza, hanno bisogno di informazione sensoriale più che razionale. Infatti possiamo sapere come cade un grave e come può evolversi un essere vivente, scovare delle leggi soggiacenti, ma dal punto di vista razionale il perché non ha senso.
La domanda va quindi riformulata e riportata a cause indagabili, cioè a una storia conosciuta e documentabile. Poniamo di essere sostanzialmente diversi. Il fatto, se è vero, dovrebbe essere, per confronto, documentabile con precisione. E infatti lo è. Ci sono anche analogie, e queste sono rintracciabili in un filo rosso che possiamo seguire nella storia. Si può risalire fino a Marx, come per tanti. Qui è importante il come ci si riferisce a Marx. Saltano fuori altre differenze. E così via, passando al come ci si riferisce alle successive correnti in cui si è diviso il marxismo ecc. Ci siamo avvicinati un po', ma non abbiamo ancora risposto, nonostante avessimo riformulato la domanda passando dal perché al percome.
Se l'oggettiva diversità è documentabile, dovrebbe essere altrettanto documentabile il percorso che l'ha provocata. Infatti una dinamica che non c'entra nulla con gli individui che compongono n+1 ha provocato l'emergere di un ambiente favorevole alla diversità. Che il nostro "pensiero" e la nostra "volontà" non c'entrassero è provato: trent'anni fa non volevamo uscire dal partito in cui eravamo ma ci hanno buttato fuori; vent'anni fa non volevamo che si verificasse una selezione così drastica e siamo rimasti isolati. Tuttavia dieci anni fa volevamo essere quello che siamo adesso e ci siamo riusciti. Ma avevamo già incominciato ad essere diversi proprio a causa dell'isolamento che ci ha costretti a piantarla con il dibattito e a riscoprire un programma che conteneva già il concetto organico di ambiente prefigurante. Che quella del programma esistente fosse una condizione necessaria ma non sufficiente lo dimostra il fatto che a parole s'era tutti quanti fatto indigestione di "partito prefigurazione". Adesso ci sembra tutto abbastanza normale: siamo stati buttati fuori da un ambiente con il quale eravamo entrati in rotta di collisione, e siccome proprio da questo conflitto era nato un progetto, ecco che doveva realizzarsi un altro ambiente, incompatibile con quello di prima. Voluto, certo, ma solo dopo che qualche enzima giunto dall'altrove storico aveva prodotto una fermentazione.
Noi naturalmente siamo un granello di pulviscolo nell'universo, ma la diversità matura grazie all'emergere, dal brodo di coltura caotico del milieu marxista, di alcune caratteristiche in armonia con la dinamica del sistema verso il suo futuro, che sarà collasso, catastrofe, scontro di classe. Non esiste ancora la possibilità di rovesciare la prassi, di far valere il progetto sul caso, quindi l'ambiente in generale funziona secondo le normali leggi di natura. Il processo è ancora selvaggio e segue ritmi darwiniani, ma la condizione in cui siamo adesso, la nostra struttura di lavoro l'abbiamo voluta. È già un piccolo rovesciamento della prassi. Che è stato possibile solo perché una situazione materiale ci ha impedito qualsiasi altra via.
Insistiamo su questo fatto perché il nostro percorso, nel suo piccolo, ha delle analogie con quello della Sinistra. Bisogna collocarsi assolutamente fuori dall'esistente, astrarre da esso, per poter maturare un programma che lo superi e permetta di ritornarvi per modificarlo. Ciò ha a che fare sia con il Metodo di Marx (1857), sia con le Tesi su Feuerbach, (1845), sia con la logica moderna (la quale, dal 1931, ha dimostrato l'assurdità del cercare il perché del perché). Il materialismo non è semplice individuazione e interpretazione dell'oggetto; è interazione reciproca con il soggetto. Abbiamo visto in altra sede che ciò è provato anche nella moderna teoria delle reti: nessuna rete si può sviluppare solo con "legami forti" entro un nodo; è necessario che si realizzi una relazione fra nodi tramite i "legami deboli". Ma affinché ciò accada, è necessario avere una visione generale della rete, cosa che non è possibile dall'interno di un singolo nodo. Questa era la visione del partito in Lenin (Lettera a un compagno), e le analogie si possono estendere alla teoria del caos, a quella dell'informazione e persino alla termodinamica. Nel nostro caso occorreva che fossimo isolati per poter recuperare integralmente il programma della Sinistra — che conteneva tanti spunti in questo senso — e utilizzarlo per ulteriori elaborazioni. Ciò naturalmente ha comportato automaticamente anche la scomparsa dell'isolamento, compreso il ricongiungimento generazionale.
In ultima analisi — abbiamo detto per rispondere alla domanda — visti dall'esterno, cioè dal punto di vista di oltre sei miliardi di persone, siamo simili ad ogni raggruppamento che si riferisca al marxismo; nello stesso tempo, visti dall'interno del milieu marxista, siamo diversi, come giustamente ha rilevato il giovane compagno. Tuttavia c'è un livello di osservazione che non è nel primo insieme e nemmeno nel secondo ma che è "altro" rispetto ad essi, e cioè il livello dell'aderenza allo sviluppo futuro della specie umana e del suo ambiente sociale. È quel punto di vista che vorremmo soddisfare, se ci sarà possibile.
È noto il passo di Lenin sul sogno descritto nel Che fare: un conto è il sogno puro e semplice, un conto è il sogno determinato da un'esperienza materiale che ne stabilisce i contenuti e gli permette una sintesi. Nel primo caso si ha una bella utopia, nel secondo caso si ha la classica lampadina che si accende nel cervello quando questo ha messo ordine nei dati accumulati alla rinfusa, magari mentre dormiamo. Il lettore ci prenda sul serio perché, anche se stiamo volando basso, stiamo citando non solo Lenin ma anche Einstein e Marx (cfr. bibliografia e capitoletto precedente).
Il partito dall'utopia alla scienza
L'utopia si caratterizza in genere per la descrizione di un modello di società cui siano cancellati i difetti che ha quella in cui si vive o, meglio ancora, di una società ideale e meravigliosa completamente inventata. L'utopia politica si caratterizza per la descrizione di un modello sociale che l'umanità dovrebbe adottare. Il socialismo trascende dall'utopia alla scienza quando individua le leggi del cambiamento sociale e, senza inventare nulla, dispone i suoi militi in un'armata che marcia — e quando è il caso combatte — in sintonia con "il movimento reale che cambia lo stato di cose presente".
Noi ci siamo trovati in una situazione molto simile al sopravvento dell'utopia, e vale la pena parlarne perché si verifica piuttosto di frequente e soprattutto ha agganci con una storia ben più grande della nostra. Quando il nostro vecchio partito esplose, gruppi sparsi di superstiti si riunirono per qualche anno nel tentativo di ricomporre un'organizzazione. C'eravamo anche noi. Siccome nel frattempo si erano evidenziate le differenze, che già c'erano ma erano rimaste quiescenti sotto l'ala del partito, maturò l'idea secondo cui bisognava unirsi, fare un lavoro di omogeneizzazione e naturalmente giungere a un nuovo partito. Il modello di partito c'era (o si credeva che ci fosse), quindi mancava solo l'omogeneizzazione. Da notare che ancora oggi, dopo più di vent'anni, ci sono gruppi che teorizzano questo modo di aggregarsi e fanno tentativi in tal senso, ovviamente con risultati nulli. Non è detto che il metodo aggregativo, a determinate condizioni, non possa funzionare. La nostra corrente l'aborriva, ma ad esempio l'Internazionale Comunista nel 1919 nacque così, quando per iniziativa dei bolscevichi vittoriosi furono raggruppati una quarantina di partiti, gruppi e organismi vari assolutamente disomogenei. I promotori bolscevichi confidavano nella rivoluzione internazionale montante che avrebbe comportato una omogeneizzazione politica; per cui (anche se, a dire il vero, l'unico dei grandi partiti socialisti o comunisti presenti fin dall'inizio era quello russo) l'IC lasciò una porta aperta alla successiva adesione di forze più disomogenee ancora, ad esempio i partiti socialisti che non avevano partecipato al tentativo di rivitalizzazione della socialdemocrazia. Ma era in atto in tutto il mondo, appunto, un movimento rivoluzionario in fase acuta e non era sbagliato ipotizzare che tale movimento avrebbe avuto influenza sulla disomogeneità e prodotto quindi una successiva selezione verso il Partito Comunista Mondiale.
In una situazione paludosa come la nostra è inammissibile comportarsi come se vi fosse la pressione di determinazioni forti come quelle di allora. Il massimo che può succedere è che ve ne siano in direzione del superamento soggettivo della palude, dato che al momento non si può parlare di rovesciamento della prassi in altro senso. Ed è proprio nei momenti paludosi che la relativa tranquillità sociale permette di gettare le basi per situazioni future (speriamo non ci sia bisogno di citare di nuovo Marx, Lenin e tutti coloro che hanno constatato questa realtà traendone conclusioni). È proprio mentre perdura la palude che la possibilità di rappresentare il futuro si misura con l'ambiente. Nel quale si possa sviluppare un codice genetico promettente contro quello che ha già in sé i prodromi dell'estinzione. La teoria ha bisogno di astrarre dalle complicazioni del concreto per ritornarvi con le idee chiare. E ogni ambiente particolare è un concreto che non è mai neutrale; quindi non è difficile ritornarvi con la suddetta teoria per verificare se ha una struttura che si confonde con il resto della società o se ne ha una che la nega, pur facendone parte e interagendo con essa. Per noi tale struttura è già stata definita e descritta nei particolari, ed è con questo metro che misuriamo gli ambienti con i quali veniamo in contatto:
"La teoria marxista in tutto il suo completo insieme, come economia scientifica, come interpretazione del corso storico umano, come programma di azione rivoluzionaria e definizione della rivendicazione della società comunista […] ha per portatore una collettività ben delimitata, anche quando i precisi confini in momenti convulsi ne divengono non facilmente identificabili, ossia il partito, nel quale al di sopra di spazio e tempo, di frontiere e generazioni, si raccolgono e si collegano i militanti rivoluzionari. In certo senso il partito è l'anticipato depositario delle sicure consapevolezze di una società ancora da venire e successiva anche alla vittoria politica e alla dittatura del proletariato. Né in questo vi è nulla di magico, poiché il fenomeno è storicamente constatabile per tutti i modi di produzione e per quello stesso della borghesia, i cui precursori teorici e primi lottatori politici svolsero la critica di forme e valori del tempo affermando tesi, che successivamente divennero di accezione generale: mentre nell'ambiente che li circondava gli stessi autentici borghesi seguivano le confessioni antiche e conformiste, non ravvisando nelle enunciazioni teoriche nemmeno i loro palpabili materiali interessi" (Vulcano della produzione… corsivo nostro).
Abbiamo visto che per la Sinistra l'ambiente rivoluzionario è un prodotto più dell'intuizione e dell'istinto dovuti alle spinte materiali che del raziocinio teoretico. Prima dunque viene "il riflesso spontaneo dei bisogni materiali nel sistema nervoso degli uomini"; solo dopo l'organizzazione, cioè l'ambiente, diventa lo scopo razionale. Del resto è un fatto evolutivo della nostra specie, e oggi anche il più incallito idealista deve ammettere che ci siamo evoluti a partire dai piedi e dalla pancia, per poi, attraverso il lavoro e l'affinamento della mano, giungere al cervello con le sue aree dedicate (cfr. L'estinzione della scuola…). Ergo, sbagliano coloro che credono di "creare" un ambiente partendo dal cervello, mettendosi d'accordo, omogeneizzando il loro pensiero o le posizioni o le teorie o le interpretazioni su queste ultime, ecc. L'ambiente è il frutto di un bisogno materiale, non di una pensata. Come nell'evoluzione biologica, prima esiste la vita pratica, il cervello con le sue razionalizzazioni viene dopo. Prima vengono l'esigenza e la capacità di lavorare in modo collettivo con lo spirito che Marx tratteggia così compiutamente in critica a James Mill, dopo viene la preparazione del corpo collettivo a tutti i compiti che dovrà affrontare. Per Marx il processo rivoluzionario non è frutto della politica umana ma "un lavoro della natura".
È anche per questo che abbiamo bisogno di monitorare continuamente le capitolazioni ideologiche borghesi di fronte al marxismo ("orientare il nostro detector", diceva la Sinistra): esse ci mostrano il lavoro della natura che evolve negando continuamente la forma presente, ci mostrano cioè una delle manifestazioni del comunismo in atto. Certo che con tali premesse chiunque abbia un programma anti-forma ha qualche problema nell'estendere la rete delle relazioni: se pure vi è un indubbio fermento ed emergono raggruppamenti (o anche solo comunità in rete) controcorrente, l'omologazione luogocomunista è ancora largamente soverchiante e gli individui ne sono invischiati e schiacciati. Ciò nondimeno, l'ottimismo rivoluzionario non può essere scalfito: i caratteri del futuro partito saranno dettati dall'immensità dei compiti e quindi ogni vincolo sarà felicemente spazzato via. La rivoluzione in corso, che attende solo il suo compimento catastrofico, non è una delle rivoluzioni, ma "la" rivoluzione. Fra le varie periodizzazioni operate dalla teoria (comunismo primitivo, società di classe, comunismo sviluppato; oppure schiavismo, feudalesimo, capitalismo, comunismo; ecc.) questa nostra epoca, secondo l'espressione di Marx, è quella che separa la preistoria dell'uomo dalla sua storia.
Quella comunista non è una rivoluzione fra le tante
Riassumendo, vogliamo proprio esagerare, provocatoriamente, contro tutti gli ingessati luogocomunisti. Il comunismo (e il partito comunista che ne rappresenta il divenire) è il legame tra l'uomo primitivo e l'uomo umano. In mezzo c'è il ponte rappresentato dalle società di classe. Esse durano un tempo relativo brevissimo in confronto ai milioni di anni dei periodi che vengono prima e dopo. Con la cosiddetta rivoluzione neolitica l'umanità passa da uno stadio all'altro della sua evoluzione sociale, e la rottura è grande quanto quella del passaggio dall'uomo di Neanderthal a quello di Cro-Magnon (noi). C'è di mezzo nientemeno che l'estinzione di un ramo evolutivo della nostra specie e lo stesso capiterà con i modi di produzione.
Torniamo al ponte. Due milioni di anni di comunismo naturale e poi cinquemila di società classiste proprietarie, una bazzecola. Ma di che potenza! Sviluppo massimo della forza produttiva sociale, fine della preistoria umana, inizio della storia. In ultima analisi due epoche collegate da una sola transizione. Non lo diciamo noi, lo dice Marx. Bene, adesso che ci siamo coperti le retrovie, vediamo la sequenza: 1) estinzione di una delle ultime due specie Homo dell'ordine dei Primati; 2) sviluppo della società comunistica naturale di caccia e raccolta; 3) rivoluzione neolitica con introduzione del surplus; 4) società di classe; 5) società comunista sviluppata. Quale il confronto possibile? Solo con una transizione di pari portata. Escludendo l'estinzione di Homo Neanderthalensis in quanto non è una transizione, rimane la rivoluzione neolitica. La rivoluzione comunista non è "una" rivoluzione tra tante, è "la" rivoluzione che mette fine alla preistoria umana estinguendo l'Homo Aeconomicus.
Che questa sia una società ormai fiacca, senza più spinte evolutive interne lo dimostra la persistenza, non combattuta ma utilizzata, di ampie isole di paradosso sociale, come in Asia o in Medio Oriente, dove a infrastrutture all'americana con grattacieli e tutto quanto, sopravvivono aspetti fumettistici alla Flash Gordon o alla saga di Dune, dove sfrecciano le astronavi ma vi sono principesse, re e regine, rapporti feudali e persino schiavi. Siamo ancora parte di una società antica, facciamo fatica a proiettarci verso quella nuova e l'estetica sociale lo mostra anche nel cuore dell'Occidente con il nostrano satrapo orientale e la sua corte di eunuchi.
L'anticipazione della società futura avviene attraverso il recupero di caratteri perfettamente individuabili che passano invariati nella storia. Ogni rivoluzione esprime la sua comunità anticipatrice. È dimostrabile che sta nascendo dentro questa società un qualcosa che non ne fa più parte. Per noi, comunità-partito ha questo senso: anticipazione della società futura. Ogni società ha espresso una qualche forma anticipatrice, e nel medesimo tempo ha tentato di usarla per conservare sé stessa, come del resto annota Marx quando scrive ad Annenkov contro Proudhon. L'osservazione è di una potenza dialettica formidabile. Ogni società esprime la sua Gemeinwesen (essere comune). Quella presente, capitalistica, cerca di impedire la formazione di comunità incontrollabili per mezzo di comunità omologate. Ma persino i servizi segreti nostrani si sono preoccupati per la decadenza dell'efficacia ammortizzatrice di partiti, sindacati, associazioni e parrocchie. Sostituiti da altri tipi di comunità, per adesso informi ed embrionali, cioè fuori schema. Se n'è accorto lo Stato francese che ha dovuto affrontare e spiegare il fenomeno delle banlieues e lottare contro il fenomeno della communautarisation. Noi diciamo che il partito della rivoluzione sarà invece un razionale imporsi di una "comunitarizzazione" di tipo nuovo.
Indipendentemente da quanto possa influire un lavoro come quello di n+1 sull'ambiente, qualsiasi comunità che nasca oggi, se è per autentica reazione a ciò che l'umanità sta perdendo è oggettivamente rivoluzionaria, non può rappresentare altro che un elemento propulsore per un'altro tipo di comunità. Se ce lo dice un borghese del calibro di Sarkozy, se ce lo dicono i servizi segreti italiani, dobbiamo crederlo, perché in questo momento la borghesia incomincia ad aver paura, sente l'effettiva necessità di difendersi da rivolte che non hanno più i caratteri di un tempo ma sono contro la società in quanto tale.
Letture consigliate
- Amadeo Bordiga, Un programma: l'ambiente, L'Avanguardia, 1° giugno 1913.
- Sezioni piemontesi del PCInt., Sulle questioni organizzative oggi, autunno 1978.
- La peculiarità della Sinistra comunista "italiana" e il suo tormentato retroterra storico, n+1 n. 12, 2003.
- PCd'I, Tesi di Roma, Rassegna comunista n. 17 del 1922 (rif. nel testo n. 1).
- PCInt., Utopia, scienza, azione, importante capitolo di Proprietà e Capitale, Prometeo n. 10 del 1948 (2).
- PCInt., Origine e funzione della forma partito, Programma comunista n. 13 del 1961, ora nella serie dei Quaderni di n+1 (3).
- PCInt., Appunti per le tesi sulla questione dell'organizzazione, Programma comunista n. 22 del 1964 (4).
- PCInt., Considerazioni sull'organica attività del partito quando la situazione è storicamente sfavorevole, Programma comunista n. 2 e 3 del 1965 (5).
- PCInt., Tesi di Napoli, Programma comunista n. 14 del 1965 (6).
- PCInt., Tesi di Milano, Programma comunista n. 7 del 1966 (7).
- Amadeo Bordiga, Organizzazione e partito, L'Avanguardia, 20 luglio 1912 (8).
- Amadeo Bordiga, L'idealismo socialista, L'Avanguardia, 11 agosto 1912 (9).
- Amadeo Bordiga, Preparazione culturale o preparazione rivoluzionaria, L'Avanguardia, 20 ottobre 1912 (10).
- Amadeo Bordiga, La nostra missione, L'Avanguardia, 2 febbraio 1913 (11).
- Amadeo Bordiga, Per la concezione teorica del socialismo, L'Avanguardia, 23 marzo e 13 aprile del 1913 (12).
- Amadeo Bordiga, Per la cultura socialista, L'Avanguardia, 13 luglio 1913 (13).
- Amadeo Bordiga, Il pericolo opportunista e l'Internazionale, L'Unità del 30.9 1925.
- Edek Osser, Intervista ad Amadeo Bordiga, Storia Contemporanea n. 3 del 1973.
- Karl Marx, Estratti da James Mill, 1843, Opere complete, Editori Riuniti, vol. III.
- n+1, Militi delle rivoluzioni, Lettera ai compagni n. 33, 1996.
- n+1, L'estinzione della scuola e la formazione dell'uomo sociale, n. 13 del 2003.
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