Contributi a una teoria della conoscenza
Jacob Bronowski, Le origini della conoscenza e dell'immaginazione, Newton Compton, 1980, pagg. 106.
Enrico Bellone, Qualcosa là fuori, Codice Edizioni, 2011, pagg. 102.
Scriveva la nostra corrente nel 1960: "La scienza non è arrivata ancora a dimostrarci come accade che nell'individuo entri [cibo] ed escano le tesi che noi andiamo ad enunciare; non ha saputo ancora dimostrarci che processo si svolge in quei meccanismi, in quegli organi del nostro corpo che servono alla nutrizione e alla digestione, tra l'assorbimento in genere delle energie esterne e la produzione del nostro pensiero". I due volumetti rispondono in parte al quesito e portano utili elementi sia a una teoria generale della conoscenza, sia al nostro specifico assunto della inscindibile unità fra arte e scienza, negata fino a pochi anni fa dall'epistemologia borghese e ancora adesso negata nei fatti.
Bronowski era un matematico che non disdegnava di cimentarsi con altre discipline scientifiche e con quella che comunemente chiamiamo arte. Era anche un valido educatore. Nel saggio sono raccolte sei conferenze da lui tenute a Yale. Il filo conduttore è semplice: la nostra concezione del mondo è fortemente determinata dal nostro essere biologico. La nostra percezione, l'immaginazione, la capacità di costruire un apparato simbolico, dipendono dalla nostra costituzione biologica. Noi riceviamo informazione dal mondo che ci circonda e la possiamo tradurre in ciò che chiamiamo conoscenza solo attraverso i sensi, i quali sono attivati da disposizioni di cellule, organi particolari, innervature tra di essi e il cervello. Esaminando il meccanismo della percezione, giungiamo anche a capire le modalità di trasmissione di ciò che abbiamo acquisito e quindi a capire la natura del linguaggio e della nostra capacità di astrazione, di pervenire ai sistemi formali del metodo scientifico. La scienza non può che essere il risultato dell'interazione fra noi e la natura attraverso i mezzi che la natura stessa ci ha fornito. Questa circolarità ha nel medesimo tempo un difetto e un pregio: da una parte ci permette di elaborare sistemi di conoscenza complessi ma senza possibilità di evoluzione a causa dei limiti fisiologici dei nostri sensi; dall'altra questi stessi sistemi apparentemente chiusi sono permeabili a inaspettate connessioni con la realtà e ci permettono perciò tentativi sistematici di individuare gli errori, cioè di cambiare paradigma. L'unità di arte e scienza sarebbe dimostrata appunto dalla capacità di superare di volta in volta i nostri limiti.
Bellone era un fisico. In quanto storico della scienza era anche epistemologo. Forte dei risultati scientifici raggiunti trent'anni dopo le conferenze di Bronowski, ne riprende il discorso e integra le varie parti, mantenendo in linea generale l'assunto di base. Nel libro non si fa menzione dell'autore precedente, ma la continuità è chiara. L'osservazione di partenza è la stessa che fu dei filosofi: molti fenomeni della natura, i più elementari per i nostri sensi come i più complessi, sono da noi vissuti con naturalezza, senza che ne siamo coscienti. Ma non appena scendiamo sul terreno della conoscenza ecco che si presenta un problema assai grave, quello della definizione di eventi anti-intuitivi, cioè estranei a ciò che i nostri sensi ci dicono. La Terra ci sembra immobile, mentre il Sole sorge e tramonta. I sensi dunque ci ingannano. Ma come facciamo a saperlo, se non abbiamo altro per interagire con la natura e "capirla"? Il discorso sul Sole e sulla Terra è ormai poco impressionante, mentre al tempo di Copernico o Galileo era assai pericoloso, ma lo stesso principio vale per il mondo che ci circonda e per la concezione che ne abbiamo oggi. Tutto quello che ad esempio vediamo, tocchiamo, sentiamo, annusiamo e gustiamo non esiste nella forma e sostanza da noi percepite. Noi non abbiamo la facoltà di distinguere la reale continuità fra noi e la materia che ci circonda, abbiamo bisogno, per vivere, di vederla scomposta in oggetti discreti, al massimo contigui ma non continui. Eppure i fisici ci dicono che le cose non stanno così: un occhio diverso dal nostro potrebbe vedere un universo di atomi assai distanti tra loro e peraltro non costituiti da aggregati di palline come li si disegna sui libri di divulgazione, bensì da "particelle" dall'esistenza assai ambigua, fra materia ed energia.
"Ciò che noi percepiamo, dice Bellone, è regolato, in buona parte, da criteri innati, da regole che l’evoluzione biologica ha inciso nei nostri sistemi nervosi. Da questo punto di vista, del tutto estraneo al senso comune, le cosiddette percezioni non sono registrazioni di quanto accade all’esterno dei nostri corpi, ma sono costruzioni conformi ai criteri innati che abbiamo al nostro interno".
Ciò vuol dire che il mondo da noi definito "esterno" in realtà è un modello percettivo ricreato nel nostro cervello. Questa peraltro è una situazione ottimale per l'adattamento all'ambiente e quindi all'evoluzione: gli organismi viventi si adattano all'ambiente che li ospita proprio ricostruendolo allo scopo. Ricostruzione ed evoluzione vanno di pari passo. Con una semplice dimostrazione "fisiologica" si spazzano via con estrema facilità secoli di dissertazioni sull’essenza umana determinata dal libero arbitrio. Noi crediamo di avere un'autonomia di "giudizio" rispetto alla natura, ma tale credenza è soltanto la creazione di un organismo che ha bisogno di essere in sintonia evolutiva con l'ambiente di cui fa parte.
Nella nostra condizione non congeliamo affatto la conoscenza, né la possibilità di uscire dalla creazione percettiva. Proprio gli elementi evolutivi dovuti alla relazione ambiente-organismo ci permettono di fare il salto ad un nuovo livello. Ciò succede con "scoperte" ed "elaborazioni" che vengono effettuate e registrate in qualche angolo dell'insieme uomo-natura, precisamente in qualche individuo e gruppo mutante. L'inizio di nuova conoscenza, di conseguenza, non può essere diffuso, dev'essere per forza limitato a una parte. Quest'altro aspetto demolisce la costruzione ideologica che sta alla base del "principio democratico". E demolisce anche il concetto di individuo come fattore di storia. Il cervello percepisce effettivamente un organismo un po' speciale, portatore di novità. Reagendo in modo del tutto aderente ai principii di natura, cioè evolutivi, ha una reazione di rigetto, almeno finché la novità non si estende a molti individui. Quando la novità è condivisa, allora scatta l'imitazione. Ma durante il passaggio da uno stadio all'altro, dal vecchio al nuovo, c'è una terra di nessuno nella quale il gruppo mutante può essere indifferentemente bruciato od osannato. Cosa che a volte succede in sequenza a proposito dello stesso soggetto: da eroe a mostro e viceversa.
In natura non esiste la dicotomia tra soggettività e oggettività. Esiste un insieme di relazioni tra i suoi elementi costitutivi, organismi, ambiente, materia, energia. La loro interazione costante produce determinate configurazioni, e ogni cambiamento in uno degli elementi ne produce altre. La capacità degli organismi e dei loro insiemi di modificare configurazioni dipende dalla capacità di neutralizzare le costruzioni innate dovute ai nostri sensi e di sostituirle con progetti. Gli animali non ci riescono, l'uomo è diventato tale quando ha incominciato ad essere un mutante. Il discorso che vale per l'interazione organismo-ambiente vale per l'intera società.