Realtà e percezione
Contributo alla teoria rivoluzionaria della conoscenza [1]

"La società futura non chiede nessun materiale alla infame società presente, e non considera patrimonio umano la pretesa scienza positiva costruita dalla rivoluzione borghese, che per noi è una scienza di classe da distruggere e rimpiazzare pezzo per pezzo, non diversamente dalle religioni e dalle scolastiche delle precedenti forme di produzione. In modo totalmente rivoluzionario abbiamo edificata la scienza della vita della società e del suo sbocco futuro. Quando questa opera della mente umana sarà perfetta, e non potrà esserlo se non dopo la uccisione del capitalismo, della sua civiltà, delle sue scuole, della sua scienza, e della sua tecnologia da ladroni, l'uomo potrà per la prima volta scrivere anche la scienza e la storia della natura fisica e conoscere i grandi problemi della vita dell'universo" (Tesi di Napoli, 1965).

Come d'abitudine, anticipiamo alcune conclusioni in modo che sia chiaro, prima di addentrarci nell'esposizione, che cosa vogliamo dimostrare. La teoria rivoluzionaria, per definizione, non può scendere a compromessi con l'ideologia della classe dominante senza snaturare sé stessa. D'altra parte la definiamo normalmente teoria "di classe" in modo improprio: se l'ideologia dominante non può che essere quella della classe dominante, la classe dominata non potrà avere una sua ideologia dalla quale ricavare una teoria specifica. Occorre dunque distillare dall'ideologia dominante prima la teoria dominante, e poi separare da ciò che è specifico della società presente ciò che invece, nella dinamica della rivoluzione in corso, è già anticipazione della società futura. È il senso generale della citazione di Marx che abbiamo posto in apertura del nostro sito su Internet: se non fosse possibile ricavare i dati della società futura da quella presente, così com'è, ogni tentativo di far saltare quest'ultima sarebbe donchisciottesco. La teoria rivoluzionaria non cade quindi dal cielo, non è una "creazione" dell'intelletto, ma scaturisce dallo scontro materiale fra il modo di produzione attuale e quello futuro. Vedremo nel corso dell'esposizione che la parte della teoria generale riguardante la conoscenza comporta il superamento della mera percezione sensoriale per conseguire la necessaria capacità di astrazione, conseguire perciò capacità di "fare scienza". Non si procederebbe di un millimetro se non dessimo risposta alle domande: chi è il soggetto che acquisisce capacità di astrazione superando la mera percezione sensoriale? E non è forse ogni rivolta, come ammette lo stesso Marx, il risultato di una percezione della realtà da parte della classe oppressa? Nessuna rivoluzione s'è mai affermata in seguito all'assunzione di una teoria da parte della massa dei rivoluzionari, e nemmeno in seguito a pratiche utilizzate da minoranze programmaticamente preparate. In ogni rivoluzione vittoriosa, invece, c'è sempre stata una unità di fatto fra la conoscenza raggiunta dal partito storico della rivoluzione e lo schieramento delle masse in movimento spontaneo, unica garanzia per lo sviluppo del partito formale:

"Nella parte decisiva della sua dinamica la conoscenza prende le sue mosse sotto forma di una intuizione, di una conoscenza affettiva, non dimostrativa; verrà dopo (corsivo nostro) l'intelligenza coi suoi calcoli, le sue contabilità, le sue dimostrazioni, le sue prove. La novità, la nuova conquista, la nuova conoscenza non ha bisogno di prove, ha bisogno di fede! Non ha bisogno di dubbio, ha bisogno di lotta! Non ha bisogno di ragione, ha bisogno di forza! Il suo contenuto non si chiama Arte o Scienza, si chiama Rivoluzione!" (Dal mito originario ecc. vedi bibliografia).

Nella cronologia delle grandi rivoluzioni (neolitica, antica, feudale, borghese e comunista) noi siamo di fronte alla più decisiva di tutte. Ragionando a un secolo dopo l'ultimo tentativo comunista e prima del prossimo assalto, abbiamo l'obbligo di capire che cosa è successo in passato per essere in regola con il futuro. Non è una frase fatta: tra il 1917 e il 1926 si è consumata una delle grandi tragedie della storia umana e la misura della sua gravità si può avere solo operando un confronto con ciò che sarebbe potuto essere, non semplicemente studiando ciò che è stato.

Il rovesciamento della piramide conoscitiva

Nell'archivio storico che stiamo da decenni ampliando, ordinando, digitalizzando, utilizzando, pubblicando, è racchiusa la nostra memoria, un'eredità ricevuta dalle generazioni che ci hanno preceduto. Da conservare, ma soprattutto da non trattare come una specie di museo del nostro background, come spesso succede. Per questo ci piace considerarlo non tanto un "archivio" quanto una grande raccolta di materie prime, semilavorati ed energia inseriti di volta in volta in quello che possiamo considerare un processo produttivo. Attraverso quest'ultimo, il materiale elaborato giunge a nuovi livelli di completezza, o perlomeno vi tende. Va da sé che si parla di elaborazione secondo il principio di invarianza, cioè che procede rispettando la coerenza interna del sistema e di tutti gli elementi che lo compongono. Ogni nuovo prodotto vi si aggiunge e vi si collega, ed è certo affascinante immergersi nel tutto per ricavarne direttrici di lavoro, concatenare testi rimasti cronologicamente distanti e spazialmente distinti, inserire tessere nel grande mosaico della rivoluzione in corso.

Tutto questo per dire che adesso, ancora una volta, attingeremo dal nostro non troppo metaforico schedario per integrare, con apporti nuovissimi e vecchissimi, materiali d'archivio da noi pubblicati qualche anno fa con il titolo Per una teoria rivoluzionaria della conoscenza (nel numero doppio 15-16 di n+1, giugno 2004). Il perché è presto detto: non ci risulta che sia mai stata analizzata l'azione politica degli uomini o delle loro organizzazioni dal punto di vista della teoria della conoscenza. Al di là dei grandi lavori preparatori di critica alla filosofia lasciati da Marx ed Engels, l'unica debole traccia, seppure molto precisa, la troviamo nel citato lavoro del 2004. Anche il grande sforzo di Lenin nel descrivere la differenza fra la "filosofia marxista" e quella empiriocriticista in tema di teoria della conoscenza rimane nell'ambito del confronto filosofico fra concetti; per cui non può rispondere agli interrogativi sulla natura dell'azione politica in relazione alla natura della conoscenza umana, vale a dire in relazione al modo di apprendere dell'uomo. Vedremo che questa relazione potrebbe essere la chiave per comprendere molti passaggi storici altrimenti impenetrabili.

Ovviamente non vi è nessuna teoria della conoscenza senza l'attività di chi conosce, qualunque forma di vita rappresenti, ammesso e non concesso che la natura inanimata sia priva di memoria e conoscenza (vedere il citato lavoro del 2004). I compagni ricorderanno che uno dei temi portanti di quella fondamentale antologia è il "rovesciamento della piramide conoscitiva", che vuol dire, in breve, ricollegarsi a Marx ed Engels e trattare l'ideologia, la teoria, in fondo la scienza, come prodotto dell'attività umana e non come fattore. Conviene forse ribadire che è lo stato del sistema economico-sociale a determinare le idee degli uomini, per cui anche la teoria scientifica nasce a posteriori per spiegare, razionalizzare o standardizzare i processi di produzione e riproduzione della nostra specie. In definitiva l'uomo ha disegnato carte nautiche dopo millenni che navigava; ha dato una sistemazione scientifica alle leggi della termodinamica dopo che è stata inventata e costruita la macchina a vapore; è stata elaborata una fisica dell'elettricità dopo che si sono costruite pile, dinamo e lampadine. E così via.

L'estrema conclusione rispetto a questo "rovesciamento" è, nella sua portata politica: noi non potremo avere una completa teoria rivoluzionaria della conoscenza finché non sarà abbattuto l'edificio su cui si è sviluppata la conoscenza attuale. Tuttavia possiamo ottenere una preziosa approssimazione collocandoci in prospettiva, proiettandoci nella società futura, almeno per quanto riguarda la negazione delle categorie di quella attuale. Vale a dire che facilitiamo l'anticipazione della conoscenza futura in due modi: primo, prefigurando i rapporti umani futuri col sentirci membri di un partito completamente diverso rispetto a quelli conosciuti; secondo, rovesciando la prassi scientifica corrente, cioè partendo non dai risultati immediati della produzione e della riproduzione dell'uomo capitalista ma da quella che abbiamo definito come una specie di fisiologia della conoscenza, dato che abbiamo un corpo, dei sensi e abbiamo dato corso da sempre a società più o meno complesse che sono state e sono corpo e sensi collettivi.

Stabilito che la conoscenza è influenzata dai rapporti di classe, per sapere come l'uomo fa a conoscere non dobbiamo partire da ciò che egli conosce nella società capitalistica bensì da ciò che può conoscere a prescindere da un certo tipo di società, sia essa antica, feudale o borghese. Come vedremo, l'uomo attuale si è evoluto da stadi precedenti affinando i propri sensori biologici, gli unici che potevano e possono metterlo in relazione con l'ambiente. Sensori che svolgono la loro funzione da milioni di anni e non possono essere fatti evolvere artificialmente, possono essere solo amplificati. Come sottoprodotto di questo approccio otterremo anche la spiegazione del perché, nell'attuale società, l'uomo può conoscere sé stesso e la natura solo al modo borghese e di come, all'interno di questa rigida determinazione, possa presentarsi un fattore mutante, dapprima in un numero limitatissimo di esemplari umani, in grado di introdurre nuove forme di conoscenza; le quali forme, pur manifestandosi entro il mondo borghese, si collocano oltre ad esso. Questo fattore mutante lo possiamo paragonare al meme, introdotto da alcuni evoluzionisti per analogia al gene: i memi sono frammenti di informazione che possono partecipare al processo evolutivo della conoscenza umana e modificare la vita materiale.

Fatta questa premessa, ricavata dal patrimonio presente nel nostro archivio e supportata, come abbiamo visto, da un lavoro assimilabile al processo di produzione e riproduzione della nostra specie, dobbiamo chiederci quale possa essere il risvolto politico di cui abbiamo appena parlato. Se la conoscenza è un prodotto dell'attività umana e una vera teoria rivoluzionaria della conoscenza non potrà esistere se non dopo che si sono rovesciati i rapporti di potere fra le classi, come facciamo a parlarne adesso con cognizione scientifica di causa e non come di un modello utopico da realizzare? C'è qualcosa che non funziona a livello di logica. Introducendo la funzione anticipatrice del partito miglioriamo la situazione ma, trasferendo il processo conoscitivo dagli individui a una comunità impersonale, per quanto proiettata nel futuro, non sciogliamo il nodo logico.

La chiave del problema sta non solo nell'origine, ma soprattutto nella funzione del partito, come possiamo dire parafrasando un nostro testo molto conosciuto. Non è sufficiente che il partito esista e rappresenti il movimento reale verso il futuro: esso deve riassumerne in sé la realizzazione. Ora, se ci fermassimo a questa enunciazione, correremmo il rischio di cadere in un volgare attivismo volontaristico, ed infatti proprio questa è stata l'interpretazione revisionistica, ancora in auge, della famosa ultima tesi su Feuerbach di Marx: "I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo". È chiaro che prendersi la briga di trasformare il mondo sarebbe un compito gravoso anche per degli dei. D'altra parte perché darsi la pena di agitarsi se per comunismo s'intende, con Marx ed Engels, "il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente?". Grazie a questo movimento reale la rivoluzione ci scodellerà la società comunista senza che si debba muovere un dito. Se noi facciamo parte del processo, cioè del movimento reale, così come ne fa parte il partito, diventa difficile immaginare un movimento che abolisce sé stesso, c'è un paradosso logico. Il "movimento reale" evocato da Marx ed Engels è semplice evoluzione gradualistica se non produce conoscenza e conseguentemente coscienza, quindi volontà o, come dice la nostra corrente riprendendo Engels (Dialettica della natura), "rovesciamento della prassi". È questo il fattore che spezza il paradosso logico. Conoscenza e coscienza (volontà) proiettano il partito al di fuori del movimento evolutivo gradualistico, lo collocano di scatto ad un superiore livello, dal quale è possibile influire sulla realtà.

Se ciò non avviene, il livello politico esistente ingloba ogni velleità rivoluzionaria riconducendola all'evoluzione gradualistica, riformista, parlamentarista, frontista, democratica, ecc., quel che successe effettivamente nel corso del tentativo rivoluzionario 1917-1926. È sbagliato pensare che vi furono errori, tradimenti o sconfitte nel senso militare del termine: come vedremo, i protagonisti, masse, capi o partiti che fossero, non ebbero la possibilità di uscire dal livello logico della società così com'era ed agirono secondo i dettami di essa. Si diedero strutture democratiche, deliberarono in congressi simili a parlamenti, fecero "politica" a tutti i livelli, dal compromesso sindacale al lavorìo di corridoio in margine ai congressi.

La percezione del reale nella prassi politica

Prima di passare ad una panoramica di esempi sui problemi provocati dall'impossibilità di avere una unione completa fra teoria coerente della rivoluzione e prassi, sintetizziamo quanto detto fin qui con l'aiuto di uno dei nostri testi di base, Partito e azione di classe, 1921: 1) le rivoluzioni e i partiti non si "fanno", si dirigono; 2) i compiti attuali del partito si deducono da quelli che avrà nella società futura. Primo, dunque: la rivoluzione c'è, ha un suo decorso, non la si può "fare". Certo, al suo culmine vi potrà essere una qualche forma di insurrezione. Secondo: il partito si forma nel corso della rivoluzione e tende in via naturale ad attingere le sue funzioni dalla società capitalistica (l'ideologia dominante è quella della classe dominante), per cui è necessaria una direzione che possa spezzare questo vincolo e introdurre funzioni attinte dalla società futura. In entrambi i casi vi è un problema vitale di direzione. Il testo citato precisa che le conoscenze necessarie non possono essere tratte dalla somma di quelle ereditate ma occorre un salto di paradigma, come si direbbe adesso.

Vada per il salto di paradigma, si potrebbe dire, ma che diavolo c'entra la prassi politica con la teoria della conoscenza? Una tale domanda è giustificata solo dall'abitudine di non porsela. Naturalmente quello che stiamo producendo è un semilavorato e non un ponderoso saggio, quindi ci limiteremo per ragioni di tempo ad analizzare solo un pezzo della nostra storia, specificamente quella degli anni 1917-26, avvertendo in anticipo che la teoria soggiacente (che vedremo dopo) vale per tutte le attività umane e che solo in relazione al lavoro collettivo in corso la utilizziamo per rispondere alla domanda che tanti si pongono: perché la rivoluzione in quel periodo è fallita e perché s'è trasformata in una immensa controrivoluzione? Ci troviamo di fronte a uno di quei classici casi in cui per ottenere una risposta bisogna distruggere la domanda e riformularla. Può "fallire" una rivoluzione intesa, con Marx ed Engels, come "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente"? Può trasformarsi in controrivoluzione?

No. Possono fallire una insurrezione, un colpo di stato, un assalto al potere come al tempo della Comune, ma non può fallire la rivoluzione. Quando nel 1848 la vile borghesia tedesca non riuscì a scatenare la propria rivoluzione, ci pensò Bismarck a farlo, ed Engels scrisse che questo rozzo Junker stava lavorando per noi. Quando Stalin divenne il simbolo della controrivoluzione in Europa, la nostra corrente sottolineò la dialettica storica di quel momento: venuta meno la condizione per la doppia rivoluzione in Russia e in Cina, in Asia procedeva comunque la rivoluzione borghese. Stalin e Mao "lavoravano per noi"? Certamente, anche se dal punto di vista proletario si trattava di controrivoluzione. Decisivo è infatti il punto di vista nel quale ci collochiamo: in quel periodo la Vecchia Talpa aveva scavato a ritmo industriale elevando gli esecutivi di Italia, Germania, Stati Uniti, Russia, Cina e Giappone al rango di nemici chiari, inequivocabili, per di più intenti a perfezionare la macchina dello Stato in un processo che si sarebbe rivelato irreversibile. La percezione politica di quell'evento universale fu: Democrazia contro Fascismo, Resistenza. La realtà storica fu: imperialismo esasperato; proletari costretti a combattere come soldati politici (termine coniato dalle Waffen SS) per uno degli schieramenti imperialistici; rivitalizzazione del sistema borghese alla scala planetaria per mezzo secolo.

Nella teoria della conoscenza la percezione immediata, come vedremo, è la base primaria su cui si formano le nostre idee sul mondo. Esse scaturiscono in un primo tempo dalla strettissima relazione fra l'individuo o la specie e l'ambiente, l'adattamento evolutivo, la mutazione. Nella misura in cui l'uomo evolve come essere sociale, produce e riproduce la propria esistenza fino a mutare la sua natura di uomo in uomo-industria (Marx, Manoscritti); la percezione immediata non basta più, anzi, senza teoria, fisica, matematica, biologia, ecc., essa conduce ad errore. La conoscenza e coscienza del mondo modificano drasticamente il rapporto uomo-natura (che comunque rimane natura-natura, dato che l'uomo non può essere non-natura); per cui tutto diventa mediato dalla conoscenza, la quale aumenta con andamento esponenziale e si trasforma in "scienza", cioè in intervento consapevole che anticipa un risultato voluto e progettato. Non si vede perché questo che abbiamo chiamato "rovesciamento della prassi" non possa essere applicato anche alle relazioni entro la massa degli uomini, che è divisa in classi ecc. Eppure, se analizziamo la natura delle relazioni fra uomini in questo campo, vediamo che essa rispecchia ancora lo stadio delle percezioni più o meno soggettive, che è poi lo stadio a cui si sono fermati anche gli animali più evoluti.

Abbiamo dunque scelto di portare il discorso sulla teoria della conoscenza nell'ambito politico per due motivi: 1) vogliamo dimostrare che l'approfondimento scientifico di un tema come quello della conoscenza non è fine a sé stesso ma è collegato in modo strettissimo alla capacità o possibilità delle forze rivoluzionarie di entrare in sintonia con il processo rivoluzionario seguendolo o anticipandolo; 2) vogliamo dimostrare che la forza della controrivoluzione non può nulla contro la comparsa di elementi sociali mutanti, i quali, congelati nel loro sviluppo per periodi più o meno lunghi, si ripresentano ostinatamente sulla scena storica. Naturalmente il contesto non è quello di una conoscenza acquisita individuo per individuo come a scuola (la nostra corrente si è caratterizzata anche per la sua lotta "anticulturalista"), bensì quello del sorgere di una forza impersonale, il partito rivoluzionario, in grado di rappresentare coerentemente l'intero percorso della nostra specie verso la società nuova.

La prassi non rovesciata: dirigere o essere diretti

Nel secondo volume della nostra Storia della Sinistra Comunista, c'è un capitolo dedicato al II Congresso dell'Internazionale Comunista del 1920, intitolato "Un culmine e un bivio". I termini sono formalmente esatti: culmine, perché in quell'anno l'Internazionale tende a superare l'improvvisazione democratica con cui l'anno precedente era stato preparato il suo congresso di fondazione. Sotto la predominante influenza bolscevica produce tesi teoreticamente ineccepibili. Richiede ai suoi membri, per l'adesione e per l'appartenenza, un maggior rigore. Inquadra correttamente le fasi storiche delle rivoluzioni borghesi e di quella proletaria. Si appella all'internazionalismo comunista auspicando la formazione di un partito unico della rivoluzione mondiale. Bivio, perché l'IC avrebbe potuto essere effettivamente l'innesco per la rivoluzione in Europa e quindi nel mondo solo rimanendo fedele alle tesi prodotte, cosa che non fu. Nello stesso momento in cui venivano elaborati i documenti teorici di cui sopra, il loro contenuto veniva annientato dalla prassi politica dominante al Congresso. Questa rottura gigantesca non era avvertita dai protagonisti, i quali perciò continuavano a comportarsi come fossero nei corridoi di un parlamento, immersi in una specie di realtà virtuale, costruita entro lo scenario dei rapporti esistenti, che non veniva osservata, analizzata e modificata da un livello superiore.

Ragionando con il distacco permesso dagli anni, soprattutto basandoci sull'insegnamento della nostra corrente che con potente intuizione denunciò fin da allora la deriva opportunista, constatiamo che in generale vi fu un consistente divario fra il corso storico reale e la percezione soggettiva dei protagonisti. Così il potenziale grande partito mondiale della rivoluzione proletaria si trovò non solo impossibilitato a rovesciare la prassi, ma subì tutti i condizionamenti che dalla prassi non rovesciata agivano su di esso. Contro questo pericolo la nostra corrente mise in guardia l'IC e i partiti che la formavano fin dal 1920, lasciandoci sull'argomento una gran quantità di prove scritte inconfutabili.

Quella che era già considerata una vittoria della rivoluzione, in Russia e altrove, aveva naturalmente acceso aspettative di grandissimo respiro in tutto il mondo. L'armistizio Berlino-Mosca del 1917 amplificava speranze plausibili, nonostante la ripresa, nel 1918, dei combattimenti. L'attacco tedesco aveva indebolito la Russia costringendola a capitolare e a cedere territori sullo strategico versante europeo. "Cedere spazio per guadagnare tempo" era una formula facilmente comprensibile, ma la pace di Brest-Litovsk era anche la via obbligata per una Russia diventata non-nazione, attraversata dalla guerra civile e spezzettata in una ventina di territori controllati da varie forze controrivoluzionarie assedianti il piccolo nucleo sovietico. La capitolazione della Germania e la fine della guerra avevano alimentato ulteriormente le aspettative. Il forte proletariato tedesco che già aveva dato prova di eroico disfattismo a guerra in corso, aveva la strada spianata di fronte a sé, e infatti, dopo pochi mesi, insorgeva armato contro la propria borghesia. Il massacro che ne era seguito, il tentativo ripetuto e fallito con la Repubblica dei Consigli di Monaco e quella di Budapest, non avevano condotto a una ridefinizione più precisa della tattica, anzi, avevano portato i bolscevichi a "stimolare" alquanto artificialmente la "costruzione" della III Internazionale.

Da questo momento (marzo 1919) al II Congresso (luglio 1920) la storia vede un procedere divergente fra il riflusso della rivoluzione in Europa e l'ascesa, con relativo consolidamento, del potere sovietico in Russia. Il quale inesorabilmente, incomincia ad identificarsi con lo stato. Ma il fenomeno non è avvertito o, se lo è, viene ignorato. Tutti i capi bolscevichi sono convinti che sia una questione di pochi mesi, dopo di che la Germania getterà sul campo la forza del suo proletariato. Le sconfitte sono attribuite all'influenza nefasta dei socialtraditori. Lenin è fra i più ottimisti, Zinoviev parla di processo così vertiginoso che porterà alla vittoria addirittura in poche settimane, non solo in Europa ma anche nel resto del mondo.

A congresso in corso, i delegati seguono con una tensione incredibile il contrattacco dell'Armata Rossa e la sua marcia su Varsavia. Il partito bolscevico è talmente sicuro della vittoria che rifiuta una mediazione inglese per la pace con la Polonia. Lenin incontra una delegazione francese e dà per sicura la presa di Varsavia, la caduta della Germania, la riconquista dell'Ungheria, la rivolta in Italia e nei Balcani. Ancora quando l'Armata Rossa è ormai bloccata ed è costretta a scaramucce nella Prussia orientale, Lenin si aspetta l'insurrezione polacca e s'indigna contro chi constata che in quella zona contadina reazionaria non c'è più niente da fare.

Di fatto, il Congresso si attendeva la rivoluzione ma era già esso stesso in mano alla controrivoluzione. Erano presenti delegazioni di partiti o frazioni per nulla comuniste, non in regola neppure con le condizioni di adesione stilate da una commissione in margine ai lavori congressuali. La delegazione francese, ad esempio, era guidata da Marcel Cachin, social-nazionalista interventista che i delegati italiani chiesero di mettere alla porta, zittiti dai russi perché costui rappresentava "decine di migliaia di organizzati".

Fermiamoci un momento a questo punto. È evidente che in quanto elencato fin qui, benché in modo ultra-sintetico, ci sono tutti gli elementi per rendersi conto della divergenza fra i fatti reali e la percezione che gli individui e le organizzazioni nel loro insieme avevano dei fatti stessi. A parte i nostri compagni di allora e altri poco considerati congressisti, tutti erano convinti che "piccole" falle nella coerenza rivoluzionaria fossero ininfluenti. In che modo poteva influire un punto in più o in meno nell'elenco delle condizioni di ammissione? Poteva una precisazione tattica o qualche accordo di corridoio modificare l'andamento impetuoso della rivoluzione in corso? La presa del potere in Russia e l'imminente esplosione della potente Germania erano fatti di per sé sufficienti a giustificare sia l'ottimismo, sia l'indifferenza rispetto alle deroghe teoriche e tattiche.

In natura vi possono essere piccole realtà che producono grandi effetti, figuriamoci poi se queste realtà non sono affatto piccole ma sono solo percepite come tali. Prendiamo la Germania, il paese che più ha influito sulla controrivoluzione in Europa e in Russia. Fra il 1919 e il 1920 in Germania vi erano due partiti comunisti, il KPD e il KAPD (Partito Comunista di Germania e PC Operaio di Germania) e un Partito Socialdemocratico "Indipendente", USPD. Sullo sfondo il grande (elettoralmente) Partito Socialdemocratico di Germania (SPD). La sinistra dell'USPD aveva chiesto l'adesione all'Internazionale che, sicura degli esiti della rivoluzione, aveva temporeggiato pensando che gli indipendenti, oscillando fra socialdemocratici e comunisti, alla fine si sarebbero spostati verso questi ultimi. Invece la rivoluzione "tardava", e l'IC accettò i negoziati per l'ingresso della USPD a condizione che fossero espulsi gli elementi di destra ecc. affinché si potesse procedere alla fusione con il Partito Comunista. Dalla fusione fra la destra del KPD e la sinistra del USPD nacque alla fine del 1920 il VKPD (Partito Comunista Unificato).

Erano giochi politici propri della tradizione borghese, ma vennero considerati del tutto normali. Il guaio è che l'IC reputava rivoluzionario il proletariato tedesco in blocco, ritenendo che la sua parte inquadrata nel Partito Socialdemocratico e nel Partito degli indipendenti, fosse passibile di influenza da parte comunista. La pestifera concezione democratica portava a ragionare in base a "maggioranze", o comunque a numeri, senza tener conto della complessità dei rapporti, non solo in Germania. Esclusivamente in questa ottica si può capire come mai l'IC subisse addirittura l'influenza dei meri dati elettorali tedeschi: nelle elezioni del 1920, il Partito Comunista aveva preso 500.000 voti, gli indipendenti cinque milioni e il Partito Socialdemocratico sei milioni. I dirigenti dell'Internazionale non ritenevano neppure pensabile che entro il proletariato rivoluzionario tedesco si riproducessero realmente proporzioni da uno a dieci sfavorevoli per il partito comunista. Ciò produsse una politica dall'influenza nefasta nei confronti dei partiti di tutti gli altri paesi. Come si può credere che il parlamentarismo serva a qualcosa e nello stesso tempo non credere a ciò che riflette?

La percezione del reale nella diplomazia del Partito-Stato

Nel marzo del 1920, a Copenhagen, c'è un abboccamento extrapolitico fra alcuni esponenti del PSI e del partito russo sotto l'occhio interessato dei rispettivi governi in vista della ripresa di rapporti commerciali. Nitti in persona facilita i contatti. Sono presenti Bombacci per il PSI, Cabrini per la Lega delle Cooperative e Litvinov per lo stato russo. In aprile il PSI invia, sempre con l'appoggio di Nitti, una missione tecnica per studiare le realizzazioni del governo sovietico. Tutti i delegati italiani viaggiano con passaporti regolari, cosa che in altre occasioni simili si era rivelata impossibile. Queste missioni non hanno direttamente a che fare con l'imminente congresso, dato che non se ne conosce ancora la data, e ad esse infatti partecipano elementi estranei ai partiti promotori. Comunque, a Copenhagen viene stabilito l'elenco dei delegati che dovranno recarsi a Mosca.

Questi, partiti da Milano, vengono accolti alla frontiera russa da Zinoviev, che li avvisa solo allora dell'imminente II Congresso dell'IC. Sul treno si svolgono già manovre di corridoio: Zinoviev discute con Bombacci l'espulsione degli ultrariformisti dal PSI. Serrati, che difende i destri, viaggia sullo stesso treno, non è informato dei colloqui e ne fa un caso politico. La delegazione, giunta a Mosca, si divide. Una parte si dedica al congresso, l'altra al perfezionamento degli accordi commerciali stipulati a Copenhagen. Al Congresso i delegati del PSI si accorgono con sorpresa che è stata invitata a parte una delegazione della Sinistra Comunista (Bordiga, De Meo, Polano). La sorpresa è ancora più grande quando si viene a sapere che l'invito è venuto da Lenin in persona. Questi aveva presumibilmente stilato delle liste differenziate, come traspare da una lettera a Gheller del 20 giugno 1920 in cui gli chiede di "rintracciare esattamente e nominativamente" Francesco Misiano, massimalista di sinistra. Bordiga era già in viaggio per conto della Frazione allo scopo di prendere contatti con elementi di sinistra in Svizzera, Germania, Olanda e Danimarca. Dalla Germania aveva inviato alcune note per la stampa di partito, criticando i tentativi di avvicinamento USPD - KPD, giustificando la scissione del KAPD, pur alla luce di una diversa impostazione teorica sulla questione dell'astensionismo.

Questi accenni sulla situazione "ambientale" al II Congresso possono essere facilmente integrati con la descrizione dello scontro politico di quegli anni, presente nel secondo volume della Storia della Sinistra Comunista. Qui ci preme soprattutto evidenziare l'inadeguatezza della struttura che avrebbe dovuto prefigurare il partito mondiale del proletariato. Bordiga era stato invitato in quanto rappresentante della Frazione, e quindi senza diritto di voto. Ma rappresentava il reale livello raggiunto dal comunismo "italiano", mentre la delegazione ufficiale del PSI era composta per la quasi totalità di elementi "destrorsi", non solo distanti dal comunismo ma spesso anche da un serio socialismo democratico riformista. Erano proprio quei personaggi che, a parte l'ambiguo Serrati, Lenin e l'IC chiedevano di espellere senza tante storie. Perché si venivano a creare queste situazioni? Lenin aveva riconosciuto nel Soviet, l'organo della Sinistra "italiana", la stessa coerenza rivoluzionaria del bolscevismo. L'antiparlamentarismo era un elemento comune e la necessità di separarsi dai riformisti anche. Ma al congresso il partito bolscevico distribuiva ad ogni singolo delegato l'opuscolo di Lenin sull'Estremismo malattia infantile del comunismo. La contraddizione era palese: la drastica condanna di pochi elementi ritenuti estremisti grandeggiava all'ordine del giorno, mentre nessuno badava al ridicolo lassismo nei confronti della massa degli invitati che, Condizioni di ammissione alla mano, sarebbe stata da buttar fuori.

La destrorsa delegazione italiana incarnava perfettamente la situazione: attrezzata con spaghetti, salsicce e fiaschi di vino per far fronte alle carenze provocate dalla guerra civile, non si era data il compito di una verifica teorica e politica, non stava cercando un aggancio alla rivoluzione mondiale: da una parte intrallazzava (Serrati era un campione in quel campo), dall'altra "osservava" un inedito modello di governo. Come se si trattasse di vedere come funziona una macchinetta, anticipava i futuri pellegrinaggi dei Bernard Shaw, dei Curzio Malaparte o degli orrendi coniugi Webb (tutti personaggi che si sarebbero poi recati nella Russia staliniana come "osservatori"). Aveva un bel dire Zinoviev:

"Non sapevamo che fossero arrivati dei riformisti; avevamo la fiducia più completa in Serrati come in tutte le persone che egli aveva condotto seco; li ritenevamo elementi ancora confusionari, ma la cui devozione alla causa proletaria fosse veramente sincera".

Macché causa proletaria, quelli si erano subito trovati a loro agio, trescando nei corridoi degli ex palazzi zaristi. Esponenti della corrotta piccola borghesia italica, lasciavano passare sulla loro impermeabile pelle le lavate di capo di un Lenin, che era terribile ma non aveva esperienza di quanto fossero coriacei gli opportunisti nostrani. I quali, di fronte ai ripetuti attacchi non solo di Lenin ma anche di Trotskij, Zinoviev, Bucharin, non avevano reagito, come se la cosa non li riguardasse. Serrati anzi difese a nome di tutta la delegazione sia Turati, che non c'era, sia D'Aragona, che invece era presente. Criticò l'invito a Bordiga e a Polano (quest'ultimo in rappresentanza della gioventù socialista) senza essere contraddetto. Infine, i rappresentanti delle cooperative e dei sindacati, svolto il loro lavoro di scambio economico e registrati i caratteri del modello analizzato, semplicemente se ne andarono senza nemmeno partecipare al congresso.

Questa era la materia sulla quale i bolscevichi facevano tanto affidamento. Ed era più o meno la stessa in ogni paese. L'anno dopo l'IC teorizzava la necessità del fronte unico. Un anno ancora e, per quanto riguarda l'Italia, dove il Partito Comunista d'Italia era appena sorto scindendosi dal PSI, l'Internazionale ordinava di riunificarsi con quest'ultimo alla sola condizione che venissero espulsi i destri. In margine al IV Congresso i delegati del PCd'I furono raggruppati nel famigerato Hotel Lux e sottoposti a pressioni di ogni genere su quella che fu subito chiamata "questione italiana", tanto che Bordiga, dall'Italia, dovette intervenire più volte. Ecco una delle molte lettere cifrate spedite a Mosca:

"Ci pare che [a Mosca] si circondi di sfiducia tutto quello che dicono e fanno i comunisti, mentre si sorride a tutti gli scalzacani della politica italiana. Starebbe a voi reagire a questo modo di fare e informarci a tempo dell'indirizzo che costà si adotta. Se poi vi avessero persuasi a quelle verità tattiche che noi per nostra limitatezza non intendiamo e con cui non ci adattiamo, vogliate almeno con la vostra eloquenza epistolare farci parte di tali lumi, per non lasciarci nella oscurità e nell'errore. Ma in ogni caso, e qualunque opinione si abbia sul calcolo sublime della politica, occorre pestare su una macchina da scrivere, e dare segno di vita al partito che costà vi ha delegati. Saluti comunisti, e scusate lo stile dovuto al fatto che in questi giorni abbiamo per le mani certi c... probabilmente ben diversi da quelli di cui costà fassi larghissimo impiego" (6 agosto 1922).

C'è materiale abbondante per rendersi conto di quali fossero i metodi utilizzati dal partito russo e dall'IC per "convincere" i recalcitranti. In pochi anni la situazione peggiorò. Con l'avvento della "bolscevizzazione" forzata dei partiti comunisti la corruzione si tramutò in terrorismo politico. Al Congresso di Lione (1926) i voti congressuali furono semplicemente falsificati per estromettere la Sinistra. La parabola opportunistica si chiuse con la catastrofe cinese, e per quanto riguarda gli anni successivi si può parlare unicamente di ragion di stato. Alla fine degli anni '20 un ciclo si era consumato. Per chi volesse farne tesoro, gli insegnamenti, cioè le Lezioni delle controrivoluzioni, come s'intitola un nostro testo, sono formidabili.

Realtà e percezione secondo la rivoluzione borghese

Questo stringato racconto, ridotto agli eventi, cioè depurato dai grandi propositi e dall'apparato di testi, è certamente duro da digerire, ma può aiutare a capire il divario fra realtà e percezione nel corso della più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai intrapreso, quella che stiamo vivendo da quando è stato pubblicato il Manifesto. La pretesa di combattere la società borghese restando all'interno della stessa, senza far corrispondere l'azione alla teoria, cioè senza che sia realizzato un "rovesciamento della prassi", è il più micidiale errore epistemologico in cui può incappare il partito della rivoluzione. Il guaio è che non si tratta propriamente di un "errore".

Lo scarto fra realtà e percezione ha prodotto un'enorme mole di materiale filosofico per millenni e continua a produrne anche a livello di conoscenza scientifica. C'è un piccolo problema di significato che dobbiamo superare prima di procedere: un tempo, nel linguaggio filosofico, "percepire" era riferito a oggetti o situazioni acquisiti ai sensi e compresi in quanto tali. Oggi il termine fa parte del normale linguaggio ed è utilizzato più che altro in riferimento alla differenza che può esistere fra quanto rilevato dai nostri sensi, soggettivamente, e quanto può essere rilevato in modo oggettivo ad esempio da una misura: c'è un'effettiva differenza fra la temperatura percepita a seconda dell'umidità, vento, abiti indossati, e quella misurata da un termometro. Tutto ciò è meno banale di quanto possa sembrare a prima vista, ma non ci inoltreremo nel campo delle diatribe sull'induzione/deduzione ecc. o in quello ancora più insidioso dell'indeterminismo fisico, per il quale sparisce il dualismo oggetto/soggetto. Rimaniamo quindi nel campo della percezione in quanto sensazione individuale o collettiva variabile e quasi sempre erronea – o meglio differente – rispetto a una "misurazione" oggettiva.

Galileo fu uno dei primi scienziati a teorizzare la necessità di criticare i risultati ottenuti attraverso i sensi ingannevoli e a ricercarli invece attraverso astrazioni supportate da misurazioni oggettive, che permettessero una verifica sperimentale. L'illuminismo materialista e ateo portò a conseguenze filosofiche il metodo galileiano, e la rivoluzione borghese lo pose alla base della rivoluzione scientifica e tecnica che da quel momento coinvolse l'Europa e il mondo. Il paradigma galileiano è acquisito da Marx nella sua esposizione sul metodo (Introduzione a Per la critica dell'economia politica, 1857) e resiste benissimo anche oggi agli attacchi di nuove scoperte o formalizzazioni, tanto che è evocato negli schemi conoscitivi di Newton, Einstein, Lenin, Bateson, fino alla nostra corrente (cfr. Einstein e alcuni schemi di rovesciamento della prassi).

Che si tratti di un prodotto della rivoluzione borghese acquisito anche dalla nostra non c'è dubbio, così come non c'è dubbio che è acquisito quel prodotto della società schiavistica antica che è la geometria euclidea, la quale a sua volta sopravvive benissimo anche se nel frattempo sono nate le geometrie non-euclidee. Perché allora è così difficile per la nostra rivoluzione trovare strumenti umani, individui o collettività, in grado non solo di comprendere questi temi e inserirli nelle loro tesi politiche ma di utilizzarli come arma per dirigere uomini ed eventi invece di farsi dirigere?

Lo scopo di Galileo con i suoi studi, non era quello di aggiudicarsi un round nella disputa teologica, come nel Medioevo. E tantomeno voleva convincere i preti. Passati i tempi del confronto fra sapienti, non si scontravano più gli Abelardo e i Bernardo, correnti entro un modo di produzione, ma direttamente uomini che riflettevano modi di produzione diversi. Non si trattava di prendere partito per Aristotele e Tolomeo contro Copernico e Galileo e viceversa, ma di capire la natura alla luce dell'industria sorgente, senza interpretazioni teologiche o filosofiche, vale a dire ricavando teorie senza allineare frasi ma fatti, astrazioni poggianti sulla realtà, esperimenti. Galileo non era un buon filosofo, se la cavava male con le speculazioni, ma era un grande scienziato, a suo agio nel progettare esperimenti mentali e reali per dimostrare le sue teorie. E per farlo non usava il latino ma il volgare, portando i testi scientifici ad altezza letteraria. Considerava il suo metodo come "nostra militia", che legava allievi, amici, protettori e… acquirenti.

Diceva ai suoi avversari: Guardate dentro al benedetto cannocchiale e vedrete i Pianeti Medicei girare intorno a Giove. Invece di ricavare ipotesi in mancanza di conoscenza, conoscerete fatti da cui ricavare certezze dopo aver calcolato e sperimentato. Copernico non aveva denunciato il vecchio sistema geocentrico in quanto errato. Semplicemente aveva molti dati a disposizione per realizzare un modello teorico più preciso e rispondente ai moti del Cosmo. Dal punto di vista dei moti relativi, è la stessa cosa mettere al centro del sistema la Terra o il Sole, perciò incaponirsi sulla disputa fra principii esula dall'osservazione scientifica, dalla teoria e dalla verifica. Gli uomini avevano sempre visto la Luna e il Sole girare intorno alla Terra e il fatto che così fosse anche per i satelliti di Giove non poteva convincere nessuno della necessità di cambiare riferimento. Le prove c'erano, gli astrolabi greci, arabi, medioevali e rinascimentali funzionavano ed esistevano mirabili manuali esplicativi. Galileo comprese che era necessaria un'opera di pulizia: affinché il dato scientifico non venisse inquinato dalla percezione soggettiva, bisognava eliminare quest'ultima. Il salto in una nuova epoca fu di portata gigantesca. Come si può, diceva la tradizione, eliminare ciò che ci riportano i nostri sensi, se essi, oltre alla perfezione della fede, sono tutto quel che possediamo per conoscere il mondo? La rivoluzione rispondeva che no, non è vero che possediamo solo i sensi attraverso cui percepire la realtà: abbiamo la geometria, la matematica, l'astronomia, tutti strumenti ricavati dalla nostra osservazione del mondo ma che ormai sono altro, sono mezzi potenti per capire il mondo, sottratti a ciò che "sente" il singolo, universali anche in mano a non importa chi.

Questi essenziali riferimenti vanno integrati con ciò che abbiamo già scritto sull'argomento in passato e non è il caso di ripetere. Ricordiamo solo l'importantissima nota posta all'inizio del nostro testo Elementi di economia marxista, dove si espone la necessità, se si vuole fare scienza, di trattare quantità misurabili, vale a dire di ricondurre il qualitativo al quantitativo o comunque a realtà trattabili secondo invarianti, come il calcolo sempre uguale dell'area di infiniti poligoni, ecc. La rivoluzione industriale segue la rivoluzione borghese che libera la società dai soffocanti limiti dell'epoca feudale. L'industria si appropria totalmente della nuova scienza e la forza produttiva sociale si espande a ritmo esponenziale. Tutto converge verso l'accumulo del potenziale necessario alla nostra rivoluzione. La teoria di quest'ultima registra i massimi livelli raggiunti dalla conoscenza umana e ne anticipa gli ulteriori sviluppi (sistema di macchine, automazione, cervello sociale, liberazione di forza-lavoro dal processo produttivo, ecc.).

Ma infine, alla prova dei fatti, la teoria non trova applicazione nei rapporti fra uomini e partiti. Anche nella Terza Internazionale prende il sopravvento l'utilizzo delle vecchie categorie borghesi all'interno di una struttura fondata sul modello borghese. Gli stessi "partiti della rivoluzione", a diversi gradi, si erano adeguati a questo modello. Opportunismo, parlamentarismo, trasformismo, revisionismo e altre piaghe in "ismo" li avevano investiti con i noti risultati. Gli operai insorgevano dovunque, ma il loro slancio cozzava tragicamente contro parlamenti, congressi, tesi frontiste, tradimenti, oscillazioni tattiche. Una catastrofe.

Roma-Mosca via Berlino o viceversa?

Siamo abituati a dare un nome a ciò che ci circonda e anche a raggruppare per insiemi i vari oggetti della nostra osservazione. Davanti a noi abbiamo una bottiglia, tre bicchieri, due microfoni, quaranta sedie e così via. Affiniamo la descrizione di ciò che nominiamo ed elenchiamo, per cui la bottiglia è verde, il bicchiere è trasparente, il microfono è acceso, le sedie sono allineate. Noi, osservatori, sappiamo dare descrizioni qualitative approfondendo le qualità degli osservati, mettendoci fantasia, arte, estro creativo e un sacco di altre cose che rispondono a una relazione tra il "fuori" che percepiamo e ciò che ci portiamo "dentro", sia innato o acquisito. Ma quel "tre bicchieri", quell'elemento quantitativo affibbiato all'oggetto, quell'espressione del tutto astratta eppur così importante elimina d'un colpo tutte le nostre soggettive percezioni di qualità, ci obbliga con una violenza insopprimibile ad una comunità entro la quale quel dato è condiviso senza possibilità di discussione da cinesi e americani, vichinghi e boeri, senza democrazia, maggioranze o dibattiti su tesi contrastanti. Quel "tre" non ha colore, sapore, temperatura, profondità, insomma, non sollecita alcuno dei cinque sensi, non genera passioni del cuore o del cervello. Non ha neppure valore, una categoria astratta con cui questa società ci ha abbondantemente intossicati. Eppure senza quel piccolo insignificante segno numerico non sarebbe neppure pensabile la società, anzi, l'umanità attuale. La storia è risaputa: secondo la tradizione fu Pitagora il primo "filosofo" a scoprire una relazione fra mondo della natura e mondo delle astrazioni. Egli era ciò che più tardi si sarebbe definito un metafisico, e proprio andando "oltre la fisica" introdusse fra le conoscenze umane un principio che, come quello di Galileo cui abbiamo accennato, cambiava il modo di concepire il mondo. Fino ad allora da una parte c'era la natura, dall'altra l'uomo e il suo pensiero. A dir la verità ancora oggi si continua a percepire una dicotomia uomo/natura e la popolazione del globo continua tranquillamente a pensare che vada bene così; ma per quanto riguarda la scienza, con Pitagora ci troviamo ad una delle sue svolte fondamentali, rivoluzionarie. In pratica egli notò, a partire dalla musica, che alcuni aspetti delle arti e mestieri, fenomeni specificamente umani, erano riconducibili a numeri. E siccome le arti e i mestieri realizzavano il loro scopo con strumenti materiali, cioè fatti di materia naturale elaborata, ecco che i numeri rappresentavano il punto di contatto fra il mondo della materia e quello dello spirito. Non sappiamo se questo punto di contatto rappresentasse per lui un superamento della dicotomia materia-spirito, ma di fatto il "suo" motto "tutto è numero" porta a uno dei sillogismi che solo più tardi, con l'avvento della logica, procurò tanti grattacapi ai filosofi (cioè agli scienziati dell'epoca): se tutto è numero e natura/spirito fanno parte del tutto, allora natura/spirito sono numero, cioè la stessa cosa.

Questo risultato necessario si ripresenta molte volte nella storia, ma gli uomini, nella loro generalità, si comportano ancora oggi in modo "naturale", cioè senza utilizzare la potenza degli strumenti adatti al rovesciamento della prassi. Così, nella "vita normale", persistono sia le dicotomie natura/pensiero, sia le discussioni su un "mondo di carta", come Galileo chiamava l'affabulazione incapace di capire la natura. Ovviamente l'umanità usa in modo assolutamente condiviso il metro e il litro, l'orologio e il GPS, il computer e il denaro, mediando di continuo tra i due mondi pre-pitagorici, quello della natura e quello del pensiero, ma se deve lanciarsi nella lotta politica non si comporta in modo sostanzialmente diverso rispetto all'età di Pericle o di Cicerone. L'impero della percezione soggettiva continua imperterrito a dominarci, il numero di coloro che adottano i criteri dell'astrazione come ponte fra la natura e il pensiero rimane statisticamente trascurabile fuori dalla scienza asservita alla produzione di merci.

Quando ci poniamo da questo punto di vista per ricavare i necessari insegnamenti dalla storia della nostra rivoluzione, siamo al di fuori del campo dei giudizi o della critica rispetto al presunto errore. La Comune di Parigi, come dice un nostro testo, fu grande per ciò che realmente fu, non per ciò che i suoi esponenti vollero fosse. Lo stesso vale per la Terza Internazionale. Le porcherie sbirresche denunciate dalla nostra corrente ben prima che qualcuno si accorgesse della deriva opportunistica e poi controrivoluzionaria non scaturirono dal nulla, ebbero la loro matrice nella natura della cosiddetta avanguardia, la quale non fu in grado di porsi al di sopra del movimento che doveva dirigere. Tuttavia, come rivendichiamo la Comune blanquista, proudhoniana e assai poco influenzata dai pochi internazionalisti, rivendichiamo quell'avanguardia. Rivendicarla come propria non ha nulla a che vedere con l'ossequio ufficiale e acritico verso tutto ciò che ha rappresentato. Anzi, è proprio nell'individuarne i limiti con una precisa autopsia sul cadavere che riusciamo a capirne la grandezza che le permise di raggiungere il "culmine" di cui abbiamo parlato, anche se giunta al "bivio", non imboccò la strada che come corrente ci aspettavamo.

Ci rendiamo conto dell'enorme salto epistemologico che la nostra corrente richiedeva ai protagonisti sulla scena della rivoluzione. Una determinazione storica atipica, riconosciuta come tale anche da Lenin, aveva fatto esplodere un processo insurrezionale in Russia, mentre cresceva la tensione rivoluzionaria in tutta Europa. I principali paesi capitalistici sui quali poggiava la potenza materiale della rivoluzione erano l'Inghilterra, la Francia, la Germania e l'Italia. Per quanto riguarda le potenzialità insurrezionali, la vecchia Inghilterra era tagliata fuori per raggiunti limiti di età. La Francia non era riuscita a sprigionare il tradizionale potenziale politico, e il suo proletariato non aveva potuto evitare che la peggior feccia del politicantismo (Cachin, Frossard, ecc.) si ponesse alla sua guida. La Germania, industrialmente potentissima, era un paese troppo giovane, con un proletariato ancora ingenuo, un movimento comunista oscillante e una socialdemocrazia carnefice. L'Italia aveva un'industria poco sviluppata ma un proletariato assai combattivo, un partito socialista in mano alla corrente massimalista che almeno era riuscita a non appoggiare la guerra, e un neonato partito comunista, molto forte in relazione agli schieramenti in campo e alla realtà industriale, soprattutto ben attrezzato dal punto di vista teoretico grazie a storiche battaglie contro la borghesia più vecchia del mondo e l'opportunismo più ruffiano. La Russia aveva sviluppato, grazie alla scuola internazionalista dell'emigrazione, un notevole nucleo comunista, temprato alla lotta e capace nel suo insieme di grande coerenza teorica, qualità che avevano permesso un coerente percorso verso l'insurrezione e la presa del potere.

Questa sintesi, per quanto estrema, ci dice chiaramente che le uniche due forze in grado di affrontare alla fine della guerra il fermento rivoluzionario senza tradire, anzi, senza aver già tradito, erano quella russa e quella italiana. Il principio individuato da Marx, riportato da Mehring, ripreso dalla nostra corrente e mai smentito dai fatti, che la rivoluzione proletaria marcia da Ovest a Est a partire dal centro Europa, avrebbe preteso la realizzazione di una saldatura preferenziale fra il nuovo partito italiano e il partito che aveva preso il potere in Russia. Tra di essi era infatti maturata una identità di fatto (Il Soviet: "Bolscevismo, pianta di ogni clima") anche se i contatti e la collaborazione erano problematici. Questa saldatura avrebbe fortemente influenzato la situazione in Germania, il cui proletariato non era in grado, nonostante la sua forza, di contrastare l'opportunismo, essendo, più che in altri paesi, ancora impregnato di democrazia (vedi il fenomeno del consigliarismo). Si capisce che uno schema del genere è difficile da accettare persino da parte di elementi che fanno riferimento alla Sinistra Comunista "italiana" in modo coerente. Questa difficoltà è frutto di una "percezione" assolutamente soggettiva, estranea a un modello scientifico, ma allora come adesso era in effetti impensabile che dal punto di vista geostorico russo si guardasse all'apparentemente insignificante Italia invece che alla potente Germania, la prima potenza industriale d'Europa. Le determinazioni materiali, la predisposizione politica, e gli ultimi avvenimenti ponevano la Russia nella condizione ottimale per cadere in un "errore" epistemologico dalle conseguenze incalcolabili.

Nella geopolitica (cioè lo studio delle determinazioni geografiche sulla politica) le mappe, i colori, le delimitazioni delle zone d'influenza sono essenziali. Nella versione moderna si è soliti abbandonare i planisferi e disegnare zone sferiche centrate sullo stato-soggetto per mostrare con effetto grafico immediato la sua percezione del contesto, del rapporto con gli stati vicini. Il termine usato è proprio questo. La Russia era nelle condizioni più favorevoli per esasperare una mappa della propria percezione. Oltre ad essere una grande potenza, la Germania aveva condiviso con la Russia il fronte orientale su una linea di frizione storica. Per chiudere quel lunghissimo fronte il Ministero della Guerra tedesco aveva facilitato l'organizzazione del "treno di Lenin" che aveva riportato lo stato maggiore rivoluzionario in Russia attraverso territori tedeschi. La pace dolorosa di Brest-Litovsk aveva sottratto alla Russia un quarto dei suoi territori europei. Aveva anticipato la fine della guerra, ma ai bolscevichi non restava che augurarsi conseguenze sociali in Germania affinché lo scatenarsi del potenziale rivoluzionario permettesse di annullare il trattato (cosa che avvenne). Finita la guerra, effettivamente il proletariato tedesco si era schierato in formazione d'attacco inducendo a Mosca un giustificato ottimismo sulla prospettiva rivoluzionaria. Ma l'ordine storico era adesso invertito: la rivoluzione da quel momento avrebbe dovuto marciare dall'Est all'Ovest, e sui comunisti russi cadeva la responsabilità tremenda della sua direzione. Era una situazione innaturale. Il risultato fu che l'influenza politica continuò a marciare da Ovest a Est, ma non con la Germania come potenza che negava sé stessa per fondersi nella rivoluzione (questo era l'augurio di Marx), bensì come potenza e basta, con alla testa i macellai socialdemocratici Ebert, Noske e Scheidemann.

Il PCd'I e la percezione della rivoluzione

Nel 1925 la Sinistra Comunista pubblicò un articolo intitolato Il pericolo opportunista e l'Internazionale. Si trattava di una durissima denuncia della deriva tattica in corso, iniziata sotto il peso delle "situazioni" contingenti, nazionali o internazionali. Non era la prima denuncia e non fu neppure l'ultima, ma in essa fu particolarmente messa in luce la natura del nuovo opportunismo. Farsi guidare dalle situazioni contingenti significava abbassare i compiti della rivoluzione mondiale al livello della politica borghese. Il processo degenerativo non veniva identificato con quello della Seconda Internazionale, anche se gli venivano attribuiti gli stessi appellativi, opportunismo, revisionismo, tatticismo, ecc. ma era considerato più grave. I Bernstein e i Kautsy avevano teorizzato che il movimento è tutto e il fine nulla, che il socialismo si poteva fondere con la democrazia. In un certo senso la loro azione era coerente con una teoria esplicita. La Terza Internazionale no, giurava sui principii, sacralizzava un marxismo-leninismo degno di una religione e agiva in spregio a qualsiasi principio.

"Poche settimane dopo il complesso dibattito del III Congresso, venne fuori il fronte unico di cui nei deliberati di quello nulla si diceva. Il governo operaio comparve solo dopo le decisioni dell'Allargato del febbraio del 1922, scomparve o si attenuò in parte nelle decisioni del IV Congresso, per servire di base nel tempo successivo alla tattica in Germania. Solo allo scorcio del V Congresso e con riluttanza grandissima trapelò qualche cosa dell'altro grave passo della proposta di unità con Amsterdam. La nuova tattica, al solito, è un fatto compiuto, prima che un organo internazionale la abbia esaminata. Ora noi abbiamo sempre chiesto che in materia di tattica le decisioni siano tassative, e... preventive, non postume" (art. cit.).

Oggi possiamo rilevare l'altissimo livello della critica meglio di allora. Si pretendevano decisioni preventive. Che altro vuol dire se non progetti? Evidentemente il centro direttivo della rivoluzione aveva abdicato rispetto alla necessità del rovesciamento della prassi. Nella teoria di Darwin è previsto l'adattamento all'ambiente e, senza teoria, cioè senza progetto, senza rovesciamento della prassi, l'ambiente si stabilizza, si omeostatizza con tutte le forme di vita che ospita. La dialettica implicita nella teoria dell'evoluzione è che gli organismi mutano, registrano il mutamento a livello genetico e scattano ad una forma diversa. In effetti più che di evoluzione bisognerebbe parlare di rivoluzione, come sembrano ammettere alcuni scienziati contemporanei. L'uomo è in grado di intervenire nel processo evolutivo, almeno per quanto riguarda le proprie opere e la società. Se si limita a ricevere impulsi attraverso i propri sensi e ad agire esclusivamente in base ad essi non introduce elementi di novità nel processo medesimo.

La Sinistra aveva già preso posizione su questo argomento più volte, e sempre la sua voce all'interno del partito e dell'Internazionale aveva provocato una feroce insofferenza e infine una completa emarginazione. Più si facevano evidenti gli effetti perversi delle decisioni criticate, più venivano ignorate e combattute le forze che entro il partito e l'Internazionale cercavano di riportare alla coerenza fra teoria e prassi. Nel 1924 era comparso un importante articolo sulla rivista della Sinistra Prometeo, "Il comunismo e la questione nazionale". In esso si rispondeva, riportando l'argomento alla teoria, a una delle tante aberrazioni dell'Internazionale. In pratica essa aveva incominciato a scivolare dalla concezione secondo la quale la Germania era il potente paese fulcro della rivoluzione, a quella secondo la quale era invece un paese oppresso dalle vessatorie condizioni imposte a Versailles dai vincitori della guerra. Si avanzava, com'era d'uso all'epoca, una "questione nazionale" per la Germania, per cui si ipotizzava un avvicinamento fra i comunisti e il movimento socialpatriottico. L'incontenibile Radek, già regista per conto dell'IC dell'abboccamento frontista con la socialdemocrazia tedesca, si fece sostenitore di questo avvicinamento, esaltando addirittura lo spirito di sacrificio dei nazionalisti caduti per difendere la Ruhr dall'occupazione francese. Si era evidentemente al colmo, ma la Sinistra rispose pacatamente riportando la questione alla sostanza materiale, ripulita dalle incrostazioni immediatiste.

È assolutamente da respingere, scrisse, la tesi secondo cui la politica comunista è ricavata da un semplice "esame delle situazioni". Bisogna tener conto che questo esame va condotto alla luce di una teoria ben precisa che fissa dei principii inderogabili. Non si tratta di idee aprioristiche ma di un programma storico che affonda le proprie radici in tempi precedenti l'esistenza della stessa Internazionale, programma che essa ha già posto alla base della sua azione politica.

"La maniera di coordinare le soluzioni singole a questa finalità generale si concreta in postulati acquisiti al partito, e che si presentano come i cardini del suo programma e dei suoi metodi tattici. Questi postulati non sono dogmi immutabili e rivelati, ma sono a loro volta la conclusione di un esame generale e sistematico della situazione di tutta la società umana del presente periodo storico, nel quale sia tenuto esatto conto di tutti i dati di fatto che cadono sotto la nostra esperienza. Noi non neghiamo che questo esame sia in continuo sviluppo e che le conclusioni si rielaborino sempre meglio, ma è certo che noi non potremmo esistere come partito mondiale se la esperienza storica che già il proletariato possiede non permettesse alla nostra critica di costruire un programma ed un insieme di regole di condotta politica" (art. cit. Prometeo n. 4-1924).

Alla data del 1924 stavano per vincere coloro che di fronte ai richiami teoretici mostravano la massima insofferenza. Nel caso specifico della Germania, l'enormità dello scivolone era palese, ma non per chi lo stava vivendo immerso in quel mondo che suggeriva il famigerato "esame delle situazioni". Per la nostra corrente, ridurre il compito storico del grande proletariato tedesco a un più immediato problema di emancipazione nazionale era un fatto comprensibile solo alla luce di una catastrofe controrivoluzionaria. E pensare che, pochissimo tempo prima, era stata invece attribuita allo stesso proletariato la funzione di motore rivoluzionario in grado di trascinare l'Europa. Non aveva forse detto Marx che la Germania idealista piccolo borghese si sarebbe affermata come nazione soltanto negando sé stessa? E non ne aveva ricavato, dopo la guerra con la Francia, che la grande potenza industriale tedesca, ormai in pieno sviluppo, si sarebbe scontrata con la Russia arretrata aprendo la via alla rivoluzione mondiale? Ora la Russia rivoluzionaria ricacciava la Germania nel pantano idealista e patriottico della piccola borghesia. Era in gioco qualcosa di enorme, sconquassi del genere non potevano essere prodotti soltanto da "uomini che sbagliano".

All'epoca veniva del tutto naturale accollare la responsabilità all'opportunismo o addirittura agli opportunisti. Già Lenin aveva messo in guardia contro tale concezione, anche se egli stesso ogni tanto scivolava su questo punto nella guerra sul campo. Più tardi la nostra corrente precisò che il cosiddetto opportunismo non era un fenomeno che si potesse attribuire moralisticamente a uomini o partiti dal comportamento riprovevole, ma era un fenomeno sociale, da valutare esclusivamente in base alle determinazioni materiali che lo producevano:

"L'opportunismo non è un fenomeno di natura morale e riducibile a corruzione di individui, ma è un fenomeno di natura sociale e storica per cui l'avanguardia proletaria, invece di disporsi sullo schieramento che si pone contro il fronte reazionario della borghesia e degli strati piccolo-borghesi, dà l'avvio ad una politica di saldatura fra il proletariato e le classi medie. In questo il fenomeno sociale dell'opportunismo non diverge da quello del fascismo" (Tesi di Napoli).

Da questa importante considerazione, nel secondo dopoguerra fu sviluppata ulteriormente la teoria organica del partito, con risvolti sperimentali pratici limitati e temporanei, dei quali però ci sentiamo continuatori.

Una ucronìa come gedankenexperiment

Che cosa sarebbe successo se alla fine della Prima Guerra Mondiale la rivoluzione avesse marciato per il verso giusto e si fosse imposta una concezione organica del partito, accompagnata da una tattica conseguente rispetto alle condizioni rivoluzionarie dell'Europa? La scontata obiezione che la storia non si fa con i "se" va in questo caso tolta subito di mezzo: lo sappiamo benissimo. Tuttavia sappiamo pure che ad esempio, a scopo didattico, nelle scuole di guerra si riproducono scenari del passato, dalle Termopili a Dien Bien Phu, e vengono simulate condizioni alternative che possono confermare i risultati della realtà o modificarli sensibilmente. Questo lo si faceva un tempo con la riproduzione fisica dei teatri di guerra, muovendo soldatini, artiglieria, cavalleria. Oggi lo si fa con sofisticati programmi al computer, alcuni dei quali si trovano anche sul mercato. Simulazioni del genere vengono realizzate nei campi più disparati, dall'economia al clima, e la loro struttura più comune è quella di una modellizzazione dei dati ben conosciuti per proiettarne la dinamica nel futuro a scopo previsione.

Detto questo, non abbiamo alcuna intenzione di procedere alla definizione di un wargame dettagliato sullo scontro epocale fra due concezioni della rivoluzione in corso, cosa che tra l'altro sarebbe assai ardua, dato che interverrebbero fattori difficilmente trattabili in laboratorio. Tuttavia è interessante procedere per grandi linee con la nostra ucronia (= senza tempo, come utopia è = senza luogo). Gli esperimenti mentali (gedankenexperiment) hanno precedenti illustri e con quelli ci difendiamo da eventuali attacchi alle spalle. L'esperimento senza strumenti e materiali fisici risale agli antichi Greci, ma in campo scientifico moderno, per quanto se ne sa, è stato utilizzato la prima volta da Galileo, mentre il termine è stato coniato dal chimico-fisico Oersted a inizio '800. Einstein produceva esperimenti mentali a ritmo industriale. Schroedinger ci ha lasciato il suo celebre esperimento del gatto né vivo né morto.

Tanto per cominciare, il nostro inguaribile determinismo ci porta ad osservare che, se fossero rispettate integralmente, con precisione infinita le condizioni iniziali, il gioco sarebbe assai deludente: darebbe sempre lo stesso risultato. Ci sarebbe da tener conto del principio di indeterminazione, ma per adesso il mondo microscopico e quello macroscopico non hanno un linguaggio comune per capirsi e diamo per scontato che muoviamo le pedine solo a livello visibile. Fenomeni caotici potrebbero determinare situazioni inconoscibili, ma al momento gli scienziati del caos sono d'accordo sul determinismo e quindi sorvoliamo, perché per muovere i primi passi della simulazione introdurremo una variabile ben più potente che non il proverbiale battito d'ali della farfalla che provoca l'uragano.

Nel 1920, come abbiamo visto, arrivano a Mosca due delegazioni del PSI, una composta quasi esclusivamente di destrorsi, l'altra in rappresentanza della Frazione Comunista Astensionista. Vengono stilate le 21 condizioni con l'apporto decisivo della Frazione. Il 2 agosto Bordiga risponde a Lenin sulla "questione" dell'astensionismo. Dichiara di non voler nemmeno sfiorare la natura dei problemi sollevati, ma ribadisce che l'azione parlamentare in quel momento rivoluzionario distoglie i proletari da ciò che stanno tentando di fare, cioè dall'insurrezione. Pronostica che l'azione dell'Internazionale non potrà essere nello stesso tempo parlamentare e rivoluzionaria. Butta lì una frase alla quale i congressisti rimangono indifferenti: non vorrei – dice – che con la partecipazione di ministri comunisti ai governi borghesi si aprisse la strada, dopo la conquista del potere, alla partecipazione di ministri borghesi al governo comunista. Che voleva dire alla dittatura del proletariato, un assurdo che purtroppo s'era già visto in Ungheria.

La variabile ucronica è la seguente. Fin dal 1919 Lenin, che nella confusione programmatica generale è l'unico in oggettiva sintonia con la Sinistra "italiana", invece di insistere sulla strada frontista analizza a fondo il percorso di quest'ultima e riconosce che è vero, come dice Bordiga, che i comunisti sono tutti antiparlamentari. Al II Congresso pretende che le condizioni di ammissione siano semplificate, interpretate alla lettera e applicate seduta stante. Dopo di che la maggior parte dei presenti è costretta ad abbandonare il Congresso e la "questione" parlamentare viene risolta fra i soli rimasti, cioè i russi, gli italiani della Frazione Comunista e pochi altri dei partiti minori, forse qualche tedesco. Bordiga è perfettamente d'accordo con Lenin sul parlamentarismo rivoluzionario e insieme ne precisano il significato: distruzione del parlamento dall'interno (la Sinistra aveva lasciato effettivamente cadere la pregiudiziale): il primo parlamentare che sgarra è fuori dal partito e dall'Internazionale. Nessun parlamentarista resiste alla corruzione democratica e quindi sono tutti automaticamente cacciati dal partito e dall'IC. La "questione" si estingue. Le conseguenze del II Congresso dell'IC si riflettono sul III Congresso. Dal 1920 al 1921, venuto a mancare il collante dell'IC, i partiti finto-comunisti si disgregano. Si stabilisce una corsia preferenziale fra il partito bolscevico e il PCd'I, gli unici due partiti veramente comunisti. Si incomincia a discutere sul significato di centralismo organico. Viene abbandonato il sistema dei congressi democratici simil-parlamenti. Con l'artiglieria pesante della teoria si assedia quel che rimane del partito tedesco su due fronti. La tattica del fronte unico viene considerata un errore, confermato dal disastro ungherese. Si ricompongono, senza badare a "conquiste di maggioranze", i partiti degli altri paesi, dove naturalmente rimangono solo elementi comunisti. Senza avere tra i piedi rimasugli della società borghese, nel 1922 l'Internazionale Comunista accetta le Tesi di Roma e, su quella base, proclama la fusione integrale fra il Partito Comunista di Russia, il Partito Comunista Ortodosso di Germania e il Partito Comunista d'Italia. Nasce il Partito Unico Mondiale del proletariato con sede a Berlino. Incominciano immediatamente i contatti con il Partito Comunista Cinese per il suo dissolvimento entro quello mondiale. Come sottoprodotto di un tale scenario, ovviamente si tolgono dai piedi i centristi italiani, a cominciare da Gramsci che va a studiare "filosofia della storia" con Croce e Gentile. Eccetera, eccetera.

È un gioco? Può darsi. Ma immaginiamo che si ripresenti una situazione comparabile. Un conto sarà ripartire con la stessa visione del campo di battaglia e delle forze in gioco, altro sarà aver verificato quali guai può provocare la mancanza di teoria. È come se potessimo dare a Napoleone la possibilità di ripetere la battaglia di Waterloo o l'invasione della Russia cambiando strategia e tattica in base all'esperienza provata. Nel caso del II Congresso dell'IC si deducono conseguenze decisive già dall'ipotetico provvedimento drastico sulle condizioni di ammissione, la cui applicazione integrale avrebbe spazzato via quasi tutti i congressisti, provocando obbligatoriamente una reazione a catena. Se nella realtà non è successo è solo perché il politicantismo imperante contempla come naturale la firma di un documento programmatico che si ha intenzione di non rispettare. Le conseguenze di un rovesciamento di questa prassi si possono dunque immaginare: ognuno dei 21 punti, da solo, avrebbe fatto piazza pulita. Non azzardiamo ulteriori passaggi, ma nello scenario del possibile avremmo al minimo ottenuto la salvaguardia del partito mondiale. Nello svolgersi reale dei fatti, s'è salvata solo la memoria della Sinistra Comunista.

Risultati acquisiti dall'umanità

Il lettore che ci seguisse un po' stupito di fronte a un argomentare del genere si tranquillizzi: la nostra corrente suole strapazzare ogni tanto l'interlocutore per saggiarne la tenuta. In Russia e rivoluzione, tanto per fare un esempio che ci serve nel contesto, per dimostrare in quale frammento temporale si collochino l'Ottobre e le sue conseguenze, si prende il tema alla larga e, affrontando l'enigma dello spazio e del tempo, si fa una carrellata dagli atomisti ai cosmologi moderni passando da Tommaso d'Aquino e Giordano Bruno. E tutto per dire che:

"Nello spazio, le rivoluzioni possono essere infinite, per la complessità degli organismi sociali sulla Terra... e tanto più se – suggestionati dal paragone cosmico – pensiamo, come di moda, ai marziani e a tutti i... planetiani extrasolari. Nel tempo, la serie delle rivoluzioni ha principio e fine: la loro serie si pone tra il comunismo primitivo e il comunismo del nostro programma sociale".

Quindi, tra le infinite tipologie di rivoluzioni possibili nello spazio (anche virtuale, come il nostro) vi è la variante ucronica, purché plausibile. Nel tempo, cioè nella serie storica della maturità della rivoluzione stessa, quella russa si colloca fra quelle doppie, a periodizzazione "accavallata", come le definisce il testo citato. Nel primo caso abbiamo uno scenario con soluzioni aperte, nel secondo siamo legati a una forma data, presente in una serie finita. In altre parole la rivoluzione russa poteva essere solo doppia, ma il suo sbocco poteva essere borghese o proletario secondo infinite modalità.

Chi fondasse la propria conoscenza di quel grande evento che fu l'Ottobre esclusivamente sulla propria percezione e quella tramandata da altri, farebbe a meno di tutto questo schema e potrebbe leggere una biblioteca intera ricavandone esclusivamente ciò che i protagonisti dissero di sé stessi: avanguardia della rivoluzione mondiale, rivoluzione contro il Capitale, rivoluzione tradita, costruzione del socialismo in un solo paese, frontismo fino alla grande guerra patriottica a fianco degli imperialisti con partigianerie varie. E così via a seconda delle fonti.

Dicevamo che dallo sbocco borghese, quello realmente verificatosi, di coerentemente rivoluzionario s'è salvata solo la memoria della Sinistra. Ciò è vero ma ha bisogno di integrazione. Non c'è solo la memoria della Sinistra, c'è anche il cambiamento reale del mondo. Oggi, 2011, la serie temporale presenta solo mono-rivoluzioni, cioè comuniste e basta, non più doppie e tantomeno borghesi. L'assetto generale del capitalismo è di tipo modernissimo, con drenaggio di plusvalore relativo (macchinismo, automazione, leggerezza produttiva, liberazione irreversibile di forza-lavoro). L'attivismo praticone, quello di chi crede di poter trasformare il mondo "facendo politica" alla vecchia maniera esiste a tutt'oggi, ma solo come ideologia, di fatto la prassi politica è diventata esclusivamente parassitaria (cfr. Il cadavere ancora cammina). Chi concepisce ancora il movimento di classe e la sua direzione (partito) come un qualcosa da costruire non è che un calcinaccio residuale proveniente dalla demolizione del Muro di Berlino e di tutto ciò che esso teneva indebitamente separato. È la rivoluzione che comanda, che sceglie i suoi strumenti. Prima vi si aderisce, poi ci si dà una ragione teorica. Non a caso Marx paragona il comunismo a un demone che si può vincere solo sottomettendosi ad esso. Gli esperimenti pratici, dice, possono essere vinti con le armi, ma la teoria è invincibile ed è destinata a permeare tutto. Maneggiare idee invece che fatti è "naturale" perché, come abbiamo visto con Galileo, la nostra percezione sensoriale s'è evoluta così; ma i correttivi sono sempre più facili da adottare.

Quando opere scientifiche divulgative diventano best seller e opuscoli scientifici sono inseriti nei giornali a milioni, diffusi come volantini a prezzi stracciati, non vuol dire che stiamo diventando tutti scienziati coscienti, ma che il paradigma è cambiato e l'industria può farne oggetto di marketing e vendere in massa merci conseguenti. Tutto ciò sarà allo stato non cosciente fin che si vuole, ma han fatto il loro tempo le correnti revisioniste che credono sia possibile un cambiamento ottenibile con delle chiacchiere in parlamento. Certo i parlamenti esistono ed esisteranno probabilmente finché esisterà la borghesia, ma persistono per mera inerzia da quando hanno ricevuto la spinta iniziale con la caduta della Bastiglia. Al contrario, il "movimento reale che distrugge lo stato di cose presente" vive di un moto proprio che si rinforza nel tempo e che bisogna capire. La teoria che unisce il movimento oggettivo alla sua comprensione soggettiva è il pre-requisito primario che rende possibile l'applicazione della "volontà sociale", cioè il rovesciamento della prassi. L'opera di distruzione dell'esistente va quindi assecondata nello stesso tempo in cui si afferma la teoria per il futuro, cioè il progetto cosciente del futuro stesso.

Una parte dell'umanità, che sia comunista o no, sta arrivando alla conclusione che così non si può più vivere. Il partito storico si configura come l'insieme di questa umanità. Sarebbe insensato pensare che la dottrina della rivoluzione proletaria, scaturita per effetto della rivoluzione borghese, possa estinguersi. In realtà si sta rafforzando. Non si contano più le capitolazioni ideologiche della borghesia di fronte alla nostra teoria. Incominciano persino delle ammissioni esplicite sull'attualità dei risultati di Marx (tanto "il comunismo è morto", no? Red Terror Doctor col suo barbone non fa più paura a nessuno). A parte questo, il fenomeno di gran lunga più interessante è lo spostamento materiale verso la realizzazione di un cervello sociale "di massa". Eravamo l'unica corrente al mondo a considerare importante il fenomeno e a studiarlo (anche in via sperimentale), estendendo gli accenni di Marx; e adesso non solo tutti ne parlano ma non possono fare a meno di farlo perché è in corso lo sviluppo di un super-organismo sociale. La sua evoluzione è sotto gli occhi di tutti, sta diffondendo neuroni e sinapsi, procedendo ancora secondo il criterio di tentativi-errori-correzioni, ma ad una velocità e con una sicurezza impressionanti.

Quando si parlava di "centralismo organico" negli anni '20 del secolo scorso, lo si faceva più che altro in critica al "centralismo democratico" che era ancora un residuo della rivoluzione borghese nel partito. Ma la critica era estesa al generale principio democratico, tema affrontato programmaticamente nel 1922 sulla rivista teorica del PCd'I. L'aggettivo "organico" (che ha organi) voleva essere la negazione di "gerarchico", "piramidale". Oggi non si è più costretti ad affermare per negazione. Nel 1964, durante il lavoro preparatorio di tesi fondamentali, il centralismo organico viene riferito con molta precisione alla struttura biologica degli organismi viventi, nei quali organi differenziati concorrono alle funzioni del tutto. Nelle tesi che ne derivano (dette Tesi di Napoli) si introduce una dialettica fra il partito esistente, che sorge come antitesi a quello democratico, e il partito del futuro, che non avrà più nulla a che fare con la società borghese. Nelle tesi la base dello sviluppo è il partito storico al quale aderiscono gruppi di lavoro organizzati, ma l'attenzione è concentrata sul fatto che tali gruppi contingenti rappresentano una garanzia per il sorgere futuro del "vero partito" solo se assimilano fino in fondo il concetto di organicità (Tesi di Milano). Il compito è immane, dato che occorre impedire che "sul filo del tempo" si spezzi la continuità, nonostante la controrivoluzione, ma non ci sono soluzioni differenti. Le Tesi di Napoli dicono ancora di più: nel maturare della rivoluzione, il partito che si fa suo strumento in quanto "organo della classe proletaria" incomincia a non essere più soltanto un partito che si contrappone ad altri partiti in una battaglia per il potere, ma a rappresentare gli interessi della intera specie umana. In tal senso esso dovrà estinguersi o comunque diventare esclusivamente "organo della specie".

Un tempo discorsi del genere non solo generavano un rigetto negli ambienti politici, ma non erano neppure compresi. Oggi verifichiamo di continuo che, non appena usciti dagli ambienti luogocomunistici, vengono non solo capiti ma apprezzati, ed è ormai normale sentirsi dire "l'avevo pensato anch'io ma non sapevo come esprimerlo". La riprova può essere trovata su Internet. Si capisce che là si trova di tutto, compresa la spazzatura del mondo, ma un lavoro attento di pattugliamento rivela una vera e propria emergenza epistemologica, e in effetti non c'è più un "là" separato da noi, ci siamo dentro. Come dice Kevin Kelly incomincia a confondersi il confine fra il "nato" e il "prodotto" (tra il biologico e l'artificiale).

Da ormai 2.500 anni alcuni risultati scientifici ribaltano ciò che la nostra percezione chiama realtà. Nonostante tutto, ancora oggi continuiamo a porre la percezione immediata alla base di quella che crediamo conoscenza. In campo politico ciò succede con maggior virulenza che in tutti gli altri campi. È certo che il maturare della rivoluzione attuale sconvolgerà questo stato di cose, lo sta già sconvolgendo.

Realtà, volontà, libero arbitrio e rivoluzione

La nostra corrente, elaborando gli studi di Marx sulla successione delle forme sociali (nei Grundrisse), sottolineò l'importanza di una "dottrina" dei modi di produzione. Giunse ad affermare, a questo proposito, che non può definirsi comunista e rivoluzionario chi non si riconosca in tale dottrina. L'affermazione può sembrare esagerata ma non lo è affatto, perché in essa è racchiusa l'essenza della rivoluzione in corso verso la società comunista. Raramente a proposito di quelle pagine dei Grundrisse si leggono commenti appropriati. A Marx non interessava tracciare la storiografia del perché e del percome l'uomo abbandona uno stadio sociale senza proprietà, senza classi, senza divisione sociale del lavoro e senza Stato per piombare in una società che è l'esatto opposto e comporta, come registrato dalla Genesi, schiavitù, lavoro coatto e sofferenza. Gli interessava capire che cosa significava tutto ciò nell'arco complessivo della storia umana: la storia svolta, quella in svolgimento e soprattutto quella ancora da svolgere.

La storia del passaggio dal comunismo originario alle società divise in classi è storia rivoluzionaria. L'uomo si disumanizza certamente nel corso del perfezionamento dei rapporti classisti, fino al punto massimo raggiunto con il capitalismo, ma tale dis-umanizzazione è la premessa necessaria, rivoluzionaria, per una ri-umanizzazione a livello infinitamente più alto. Marx affronta il problema annotando i passi della storia che segnano il progressivo dissolvimento del rapporto fra l'uomo e i propri mezzi di produzione e riproduzione. Man mano che procede il dissolvimento, al grado che esso raggiunge corrispondono determinate forme sociali. Ancora nel feudalesimo il processo non è finito, vi sono tracce consistenti dell'antico rapporto originario, terre comuni, risorse condivise, interessi complementari fra classi subalterne e classe dominante. Con il capitalismo il processo di dissolvimento raggiunge il massimo, ma nel medesimo tempo incomincia ad invertirsi. La produzione, anche se aliena al produttore, è completamente socializzata. La stessa proprietà privata cede il posto ad una proprietà sociale, il capitalista diventa superfluo. La forza produttiva sociale è più che sufficiente e anzi eccessiva per fornire all'umanità ciò che le è utile. Nella sfera produttiva il grado di progettazione degli oggetti e degli eventi, cioè la ricerca del risultato voluto è altissimo, anche se a livello dell'economia e dei rapporti fra gruppi umani è quasi zero.

Per la Sinistra, l'affondare il detector in una storia di milioni di anni significa individuare una simmetria. Al processo di dissolvimento dei vecchi rapporti si contrappone un processo di ricomposizione a un livello superiore. Agli estremi vi sono il comunismo originario e il comunismo sviluppato. In mezzo la breve parentesi delle società proprietarie divise in classi. Questo schema, che abbiamo approfondito in altre occasioni (vedi ad es. n+1 nn. 27 e 28), demolisce quello borghese, basato su una "freccia del tempo" orientata, progressiva, che va dallo stadio primitivo dell'umanità animalesca, a quello evoluto dell'umanità borghese. La quale è ritenuta naturalmente eterna, in progressiva ascesa per sempre. Questa concezione della storia è condivisa dall'intero panorama luogocomunista, che concepisce il comunismo come particolare forma di governo, una super-riforma di ciò che esiste oggi. Per il luogocomunista la storia procede dal basso verso l'alto con il progresso tecnico, scientifico e sociale, attraverso un indefinito "cambiamento", ma comunque in un processo lineare. Anche la rivoluzione, sempre che ne parli ancora, la vede allo stesso modo: al posto dell'andamento catastrofico immagina una graduale preparazione fino alla "conquista delle masse" che culmina con la presa del potere. Al contrario, l'individuazione di una simmetria è una rottura del senso comune. Invece di un tempo che scorre in modo unidirezionale, percezione condivisa da miliardi di persone, la simmetria riporta il processo rivoluzionario a uno "spazio delle fasi", individuabile soltanto con l'abbandono del senso comune e con l'adozione del metodo scientifico.

Noi percepiamo lo spazio che ci circonda come un continuo. Prendiamo due fiammiferi, li leghiamo a forma di "+" e abbiamo una formalizzazione dello spazio a due dimensioni. Aggiungiamo un terzo fiammifero ponendolo ad angolo retto nell'intersezione e abbiamo descritto lo spazio a tre dimensioni. Non riusciremo a introdurre un ulteriore fiammifero che stia ad angolo retto con gli altri, allora diciamo che lo spazio ha tre dimensioni e che questa è una legge di natura. Sostituiamo i fiammiferi con un'astrazione che chiamiamo x, y, z e facciamoci uno schema mentale di spazio infinito continuo che si distende su tre dimensioni. In natura questo spazio è pieno di oggetti, ahinoi discreti. Che la natura funzioni su due piani incompatibili? Niente paura, ogni oggetto è collocato in un punto in cui passano i tre fiammiferi, pardon, le tre coordinate x, y, z. Possiamo sapere la posizione esatta di ogni oggetto, collocato in uno degli infiniti punti dello spazio. Abbiamo discretizzato lo spazio continuo? Mah, quella parolina "infiniti" riporta ai paradossi logici della scuola eleatica, ma lo schema funziona: possiamo calcolare la posizione di qualunque cosa nello spazio. Come ci muoviamo salta fuori un problema e dobbiamo aggiungere: purché resti ben inteso che lo possiamo fare solo per un punto relativo a un altro. A proposito di movimento: alcuni oggetti sono fermi, altri si muovono. Macché, gli uni sono fermi solo in relazione al pianeta su cui poggiamo i piedi, gli altri si muovono in relazione… al pianeta e a stelle e a galassie ecc. La faccenda si complica; ma, per farla breve, riusciamo a conciliare discreto e continuo, cioè riusciamo ugualmente a calcolare il moto relativo nel tempo, le accelerazioni, quindi scopriamo il concetto di massa e vediamo che essa varia con il variare dell'energia, e arriviamo a stabilire che massa ed energia, spazio e tempo non sono cose a sé stanti ma formano un tutto unico. Abbiamo appena trovato una specie di teoria dell'assoluto (che peraltro chiamiamo della relatività) e ci accorgiamo che, indagando nella struttura della materia, la nostra bella teoria del continuum va a farsi benedire: nell'infinitamente piccolo, forse proprio perché materia ed energia sono la stessa cosa, come abbiamo appena dimostrato con straordinaria efficienza a Hiroshima e Nagasaki, lo scenario è completamente diverso. Le microscopiche particelle si ribellano agli usuali calcoli del mondo macroscopico, fotoni ed elettroni si comportano come onde o particelle a seconda se li osserviamo o no, non riusciamo a conciliare posizione e movimento, e scopriamo di avere due teorie incompatibili sull'universo.

Nel processo conoscitivo che abbiamo appena riassunto, l'uomo ha dovuto man mano superare lo scoglio di soluzioni anti-intuitive. Il peso non è la massa e la gravità non è una proprietà della materia ma una deformazione dello spazio. La storia millenaria della scienza è la storia del superamento della percezione immediata, nonostante essa stessa non possa nascere da altro che dalle nostre percezioni primarie. In attesa che la conoscenza umana superi lo scoglio della nuova dicotomia fra macro e microscopico, fra continuo e discreto (probabilmente nella società futura), ci teniamo questo risultato. Come sarà possibile fare in modo che l'attività cosiddetta politica possa anche solo assomigliare a quella scientifica? Come diceva il fisico Feynman, sapere che in natura massa ed energia si equivalgono non cambia apparentemente la vita quotidiana di ognuno di noi, ma da quel momento cambia una concezione del mondo e questo alla lunga ha effetto sull'umanità, della quale noi facciamo parte.

Per sottolineare la difficoltà oggettiva di portare lo studio delle relazioni umane e fra le classi almeno al livello raggiunto dalla scienza borghese, nonostante la sua tara di fondo che è quella di essere sviluppata e adoperata sotto il segno della classe dominante e della sua ideologia, ricorreremo a un esperimento molto semplice. Nella pagina a fronte le due figure a sinistra mostrano delle parallele che appaiono deformate a causa del contesto. In quelle a destra le linee appaiono di misura diversa. Se prendessimo un righello e, in accordo col metodo sperimentale, controllassimo, vedremmo che le linee in un caso sono rette, nell'altro hanno la stessa misura. Nel contesto naturale entrano in gioco le stesse determinazioni, perciò i nostri sensi portano quasi sempre a risultati altrettanto deformati. Si potrebbe dire: "Basta saperlo e tutto è risolto". Non è proprio così. Nel caso dei disegni, lo sappiamo benissimo che è una deformazione percettiva, li abbiamo scelti apposta. Ebbene, nonostante questo, continuiamo a vedere la deformazione. Ciò che ci impedisce di percepire la realtà così com'è non è soltanto una nebbia galileiana, tolta la quale il nostro pensiero corre libero ad operare le sue astrazioni per trasformare l'osservazione in scienza. C'è qualcosa di più profondo, che Galileo non poteva supporre. È il nostro cervello che in milioni di anni, tra il cacciare, il raccogliere e l'essere cacciati, si è evoluto così; perciò ha bisogno di operare una forzatura enorme per obbligarsi ad esplorare fenomeni anti-intuitivi nascosti. Non è il cervello che si "crea" la realtà, come recita il sottotitolo del libro da cui abbiamo tratto le immagini (cfr. Qualcosa, là fuori). Cervello e realtà, si sono co-evoluti per esigenze che nell'evoluzione attuale non sono più essenziali, sono aspetti complementari della stessa realtà.

Dunque, a dispetto di qualunque teoria del libero arbitrio, non abbiamo la libertà di interpretare la natura, non possiamo fare a meno di subire una specie di costrizione dovuta alla nostra costituzione biologica. Per rompere questa costrizione occorre un cambiamento sociale, e anche così non è detto che la percezione variata si stabilizzi. Con il cristianesimo, ad esempio, l'avvento di una concezione del tempo orientato ha richiesto, per demolire l'evidenza sensibile, uno sforzo epistemologico non inferiore a quello che è occorso per accettare il dualismo onda/particella nella meccanica quantistica. Per millenni il tempo era segnato dal susseguirsi ciclico di stagioni che aveva una corrispondenza nella volta celeste, così come per millenni luce e calore erano considerati radiazione incorporea a differenza della materia (di cui tra l'altro erano fatti pure gli atomi, almeno per chi li aveva ipotizzati). Una volta che il cristianesimo si afferma (e ciò va visto in relazione a un movimento sociale che stravolge i rapporti di classe) si afferma anche la concezione del tempo orientato. Diventa normale la concezione del tempo che scorre, dalla Creazione al Giudizio Universale. Ma, alla vigilia di un'altra rivoluzione, quella borghese, i matematici del '700 ri-scombussolano le cose e fanno un passo avanti: il tempo non è né circolare né orientato, è simmetrico a un punto. Ricavando dalla meccanica di Newton una serie di osservazioni atte a formalizzare la sua teoria, essi si accorgono che in fisica il tempo non è quello percepito nella vita (cristiana) di tutti i giorni. La velocità di un corpo, diceva Newton, dipende dallo spazio percorso nell'unità di tempo, quindi abbiamo la necessità di stabilire un punto di partenza e uno di arrivo, di misurare sia lo spazio che il tempo e dividere l'uno per l'altro.

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Per le Religioni del Libro il tempo incomincia con la Genesi e tutto fila liscio: prima della creazione non c'era niente, nemmeno il problema teoria/percezione. Ma i cristiani introducono il tempo orientato che ha un punto zero cioè la nascita di Cristo. Prima e dopo, il conteggio degli anni si può esprimere con un numero preceduto dal segno + o dal segno -. Ad esempio: battaglia delle Termopili, - 480; presa della Bastiglia: + 1789. A questo punto possiamo prendere qualsiasi punto sulla linea del tempo, non solo lo zero cristiano. Ti con Zero, che è anche il titolo di un libro di Calvino, lo possiamo stabilire quando vogliamo, ad arbitrio, quando sia utile. La ripartizione prima/dopo si può generalizzare a qualunque dinamica nel tempo, e la meccanica di Newton rivela che in fisica le equazioni sono simmetriche rispetto al tempo zero, vale a dire che non permettono di distinguere fra passato e futuro. L'implicazione è piuttosto sconvolgente: in fisica ogni calcolo per la soluzione di un problema porta alla detta soluzione solo se al suo interno si opera lo scambio fra -t e +t. Siamo di nuovo di fronte a una contraddizione rispetto al senso comune, dovuta al fatto che percepiamo il tempo come un qualcosa che scorre in una direzione sola, una realtà su cui giurare. Le cose si complicano assai introducendo scoperte successive come la termodinamica; ma la simmetria rimane (Newton, tra l'altro, intuisce una decrescita universale del movimento, un processo di "congelamento" molto simile all'entropia).

Facciamo ora un piccolo sforzo di collegamento: immaginiamo di trattare l'intera storia umana secondo i criteri di simmetria. Poniamo le società di classe (poche migliaia di anni, un punto in confronto ai milioni passati e futuri) al punto zero. Avremo una "serie meno" nel passato comunista originario e una "serie più" nel futuro comunista sviluppato. Una simmetria comunista della storia della nostra specie. Non è intuitivo, ma una volta giunti alla potente dimostrazione, non è più possibile continuare nel politicantismo per così dire percettivo.

Ci dicono: ma come fate ad essere così sicuri che ci sarà una società comunista e non qualcosa d'altro? La risposta è: la società futura potrà chiamarsi non importa come, ma non potrà rappresentare una rottura di simmetria. Facciamo un esempio: inseriamo una pellicola cinematografica in un proiettore e lasciamo scorrere metà film. Abbiamo una serie di eventi, o scene, che ci conducono fino al punto in cui abbiamo fermato la proiezione. Possiamo cercare di indovinare come andrà a finire basandoci su quello che è già successo, ma non sarebbe il miglior modo per avere dei risultati. Dovremo proiettare tutto il film. E sapremo, ad esempio, chi è l'assassino. Il nostro "determinismo filmico" era limitato a causa della parziale conoscenza dell'insieme, e la previsione si basava su ipotesi. Ma adesso la pellicola è tutta svolta, ci troviamo con il finale in mano e i titoli di testa dalla parte opposta. Se proiettiamo il film al contrario, ogni cosa che succede ha una perfetta spiegazione, non solo perché l'abbiamo già vista, ma perché la meccanica della proiezione è data. Nella stessa bobina di celluloide abbiamo il +film e il -film. La simmetria è perfetta.

Il ciclo completo, simmetrico rispetto al tempo, è la rivoluzione di specie. Il comunismo è inscritto nel nostro codice genetico. La percezione che invece occorra giungervi come fosse un regime da instaurare, da costruire con materiali messi in vendita dalla società attuale, è semplicemente ridicolo. A ben vedere il termine "rivoluzione" è sinonimo di "comunismo". Citiamola ancora una volta, al completo, la famosa definizione di Marx ed Engels che è un po' il motto della nostra rivista:

"II comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente" (Ideologia tedesca).

Poche righe ma di una potenza tale da spazzar via montagne di elucubrazioni espresse in linguaggio politichese terzinternazionalista bolscevizzato. Il comunismo dunque c'è già, e opera sulla base di un capitalismo che nega sé stesso. La rivoluzione è in corso, non bisogna "farla". Qual è invece la temperatura rivoluzionaria normalmente percepita? Si dice che è bassa, prossima allo zero. Che la classe è in ritardo rispetto alla "situazione" di crisi capitalistica. Che detta situazione è favorevole ma purtroppo non c'è il partito. Che la lotta di classe è a senso unico, condotta dai capitalisti mentre i proletari sopportano un livello di schiavizzazione inaudito. Insomma, la rivoluzione avrebbe perso il treno della storia. Un rivoluzionario superficiale che s'immerga in questa atmosfera da disfatta si butta dalla finestra o come minimo va in depressione. Il rivoluzionario conseguente, invece, si mette in viaggio tranquillo: sa con certezza che la stazione del mondo, come diceva Einstein, fermerà relativisticamente a quel treno. Per ripartire completamente cambiata.

Democrazia? Non esiste.

Abbiamo parlato di percezioni in modo molto generale, ma oggi è possibile analizzare con sufficiente precisione il nostro rapporto con l'ambiente attraverso una conoscenza abbastanza approfondita del nostro apparato sensoriale. Per saperne di più rimandiamo a due libretti, due sintesi molto importanti, che abbiamo recensito sul n. 30 di questa rivista e che servono come punto di partenza per letture più impegnative. Ovviamente l'apparato di cui sopra non è modificabile individualmente. Fa parte del nostro patrimonio genetico, e abbiamo visto con le figure ingannatrici che non è neppure possibile ammaestrare quest'ultimo. Tuttavia la nostra conoscenza cambia nonostante i limiti biologici, e riusciamo a produrre astrazioni di grande potenza che ci aiutano a superarli. Vale la pena di ricordare che condividiamo con lo scimpanzé il 98,4% del patrimonio genetico e che quell'1,6% di scarto è dovuto esclusivamente alla co-evoluzione uomo-ambiente-lavoro-linguaggio, per cui la nostra esistenza come uomini è appesa alla possibilità di astrazione, mentre per il resto siamo delle "scimmie nude". Abbiamo visto che il processo evolutivo non può riguardare immediatamente la totalità di una specie: esso si afferma attraverso mutazioni che, indipendentemente dalla velocità di propagazione genetica, riguardano necessariamente un'esigua minoranza iniziale. Se per i processi evolutivi ci si affidasse a una sorta di votazione genetica, vincerebbe sempre la non-evoluzione, saremmo ancora al livello dei trilobiti, fermi a mezzo miliardo di anni fa. La democrazia in natura non esiste.

Tuttavia, uno dei principali elementi che operano contro la maturazione soggettiva dei protagonisti sulla scena della rivoluzione è proprio la democrazia. Questo fenomeno perfettamente percettivo esiste da quasi tremila anni e ovviamente è stato vissuto in vario modo a seconda delle epoche. Nella nostra, capitalistica, è inserito profondamente nell'ideologia dominante e ha assunto aspetti particolari collegandosi più che in altre epoche al modo di produzione: liberté ed égalité sono oggi termini strettamente legati al mercato (libere merci, libertà di vendere la forza-lavoro sul mercato) e al valore (il denaro è l'equivalente generale che rende confrontabili merci dalle qualità differentissime). Meno agevole classificare il termine fraternité, ma possiamo riferirlo alla coesione sociale all'interno della classe dominante, coesione dovuta a interessi politici comuni (che però la concorrenza riduce a mistificazione).

L'enorme problema della democrazia ostacola seriamente il fattore soggettivo della rivoluzione, sia per quanto riguarda i singoli, sia per quanto riguarda lo sviluppo della volontà collettiva del proletariato (poi della specie) che per noi è rappresentata dal partito. Prima dell'avvento della scrittura non sappiamo come venissero prese le decisioni. I testi che riportano memoria di fatti antichissimi e le persistenze odierne di società cosiddette primitive mostrano che entro una data società sorgeva il bisogno di decidere soltanto quando si presentavano biforcazioni, mentre nella vita di tutti i giorni una elementare divisione tecnica del lavoro era più che sufficiente. Nel caso di eventi anomali la decisione era presa con un consulto fra i responsabili dell'equilibrio sociale (capi, sciamani, matriarche) e un "senato", cioè un consiglio di anziani. I rappresentanti dell'attività sociale e quelli della memoria potevano votare o no, non lo sappiamo, ma certo raggiungevano l'accordo entro un gruppo sociale omogeneo, che non conosceva ancora la divisione sociale del lavoro e rappresentava in modo diretto l'intera società. In tutte le altre epoche, anche nell'assolutismo monarchico, permane una qualche forma di consultazione, i consiglieri del re, ecc.

Nel corso dei nostri lavori sulla prima grande transizione abbiamo sostenuto, sulla base di riscontri archeologici condivisi anche da alcuni scienziati borghesi, la tesi secondo cui il comunismo originario termina non con la preistoria ma con l'avvento di civiltà urbane anche molto sviluppate, non ancora classificabili come forme antico-classiche, nemmeno come varianti particolari. Abbiamo dunque visto che la nostra prima evoluzione è avvenuta in assenza di classi, proprietà, divisione sociale del lavoro fino a tempi relativamente recenti rispetto alla periodizzazione tradizionalmente accettata. Noi siamo ancora il prodotto di quell'epoca, quindi applichiamo inconsciamente i criteri di allora alle cose di oggi. Perciò crediamo di usare criteri di eguaglianza fra individui quando in realtà da almeno tre o quattro millenni non siamo affatto eguali, siamo divisi in classi e qualcuno possiede ciò che altri producono. Siamo di fronte a una tragica schizofrenia evolutiva, per niente "psicologica", indotta da una condizione materiale. Il comunismo è nel nostro patrimonio genetico, come qualche naturalista (cfr. Edward Wilson) sta cercando di evidenziare senza ovviamente usare questi termini; ma l'avvento di nuovi rapporti sociali ci ha costretti a stravolgere noi stessi, anche se probabilmente persistono in noi e nella società ataviche memorie del comunismo originario. La democrazia egualitaria non sarebbe altro che un ricordo degli antichi rapporti, mistificato però dall'avvento di quelli nuovi, cioè dalla formazione della proprietà privata e dallo sviluppo di una completa divisione sociale del lavoro.

In effetti, nel periodo intorno alla fine del II millennio a.C., un cambiamento sociale generalizzato si impose, e le civiltà d'Europa, del Medio Oriente e del Mediterraneo in parte collassarono, in parte si trasformarono. Vi sono segni palesi di transizione violenta, con distruzioni, incendi, saccheggi come se vi fosse stata una resistenza delle popolazioni di fronte al cambiamento. La nuova forma sociale che ne uscì fu più gerarchizzata, piramidale, con a capo un monarca in quanto esponente di una dinastia. Le forme di dipendenza personale si trasformarono in schiavitù istituzionalizzata e presero piede le prime forme di proprietà privata estesa. Come riferimento possiamo prendere la Guerra di Troia, il collasso degli Ittiti, l'espansione micenea e la cosiddetta invasione dei Dori (in realtà un fenomeno complesso di popolazioni che si muovevano sotto la spinta del cambiamento sociale che esse stesse contribuivano a realizzare).

Oltre alle evidenze archeologiche, vi sono tentativi di spiegazione sociologica, e almeno uno, piuttosto interessante, di spiegazione psicologica, dovuto a un autore assai controverso, Julian Jaynes (affrontiamo in dettaglio la sua teoria nell'articolo successivo). Naturalmente per noi è sbagliata l'interpretazione psicologica, ma questo autore, per dimostrare la propria tesi, elenca una gran mole di dati che dimostrano l'effettiva svolta avvenuta nel periodo da noi ricordato. In pratica fino ad allora l'uomo avrebbe agito sotto la spinta di pulsioni naturali, orientate da una sovrastruttura religiosa, come se il cervello avesse una struttura "bicamerale". Usando il nostro linguaggio, una parte del cervello sarebbe stata dedicata alla prassi e l'altra al rovesciamento della prassi. Tale rovesciamento sarebbe avvenuto con la percezione di un collegamento diretto fra l'individuo e la divinità, e ciò spiegherebbe tutta una letteratura mitica o storica su eroi vari che "sentono voci" in grado di guidarli al raggiungimento di uno scopo. Il crollo della mente bicamerale sarebbe avvenuto in pochi secoli, proprio verso la metà del II millennio a.C., e al suo posto sarebbe nata la "coscienza". Più che una tesi scientifica moderna questa "spiegazione" ci sembra una cosmogonia antica e l'autore ricordato ha suscitato critiche di ogni genere, prima fra tutte quella secondo la quale nessuna evoluzione biologica è possibile in pochi secoli; mentre dal punto di vista psicologico, cioè di un cambiamento di mentalità, siamo senz'altro di fronte a un'inversione fra causa ed effetto. Ciò nonostante il materiale di supporto alla tesi pur palesemente scorretta è molto interessante dal nostro punto di vista.

Questo perché nel periodo in questione è effettivamente cambiato qualcosa, e rimandiamo ai nostri articoli sulla prima grande transizione sui nn. 27 e 28 della rivista. Le popolazioni di un'area vastissima hanno probabilmente tentato di difendere le società del tardo comunismo originario e hanno dovuto abbandonare l'antica concezione unitaria della natura per adeguarsi al sorgere della proprietà, dell'ideologia di classe, dell'individualismo. La comparsa di monarchi e dinastie al posto dei basileis locali, perciò di potere conquistato e tramandato con la violenza al posto di quello organico ed "elettivo" precedente, scombussolava la tradizione. I re furono o detronizzati e sostituiti con organi collegiali oppure affiancati da organismi consultivi. In ogni caso le nuove forme di potere collegiale non potevano che essere una caricatura di quelle antiche. Atene prima dell'epoca classica fu micenea, e non si sa se conobbe un'età tardo comunistica precedente; ma il mito racconta di un re, Teseo, che unifica l'Attica. I reperti archeologici confermano le origini micenee, comunque è certo che la monarchia fu presto sostituita da un'aristocrazia proprietaria repubblicana affiancata da custodi delle leggi. L'antico assetto comunistico non poteva essere ristabilito, ma all'avvento della società antico-classica sopravvisse in forma mistificata ponendo le basi della democrazia (in tutte le comunità urbane greche vi era il bouleuterion, o geròntikon, dove si riuniva la rappresentanza cittadina; e gli storici greci descrivono già benissimo il livello di corruzione e di intrallazzo raggiunto). Questa mistificazione cangiante, che sopravvive a repubbliche, monarchie, imperi, eresie e rivoluzioni da 2.500 anni, possiede una vitalità intrinseca proprio perché ha avuto origine in una reazione allo sconvolgimento che segnò il confine fra il comunismo originario e le società divise in classi. Da comunismo mistificato al servizio della prima aristocrazia terriera a mistificazione tout court di oggi, la democrazia è una delle più tossiche fonti di percezione, è la vera religione odierna che tutto permea e che tutto addomestica, almeno fino a che resteremo nella "preistoria umana". Essa impregna la nostra coscienza con lo stesso potere dell'evoluzione biologica, e il suo superamento richiede un salto di livello più impegnativo di quello di cui fu protagonista Galileo.

Percezione, madre di tutte le rivoluzioni

Le pagine che precedono sarebbero tutte da buttar via se non terminassimo il presente lavoro con uno sforzo teso a unificare dialetticamente due aspetti apparentemente contraddittori:

1) la teoria della rivoluzione si sviluppa previo superamento delle percezioni soggettive con la conseguente possibilità di fare scienza;

2) il verificarsi della rottura rivoluzionaria (o insurrezione) in seguito al crescere del potenziale esplosivo di classe, è dovuto a percezioni soggettive (di massa) piuttosto che a razionalizzazioni scientifiche.

Come abbiamo detto all'inizio, prima ancora di incominciare ad affrontare l'argomento, ogni rivoluzione raggiunge la vittoria quando si verifica l'unità di teoria e di azione, di programma e di spontaneità istintuale. In questo senso la scienza di cui si appropria prima una corrente storica, poi l'organo formale della classe rivoluzionaria

"non è borghese, sebbene la borghesia sviluppata e conservatrice sappia presto ridurla in edizioni di classe. La scienza non è che la costruzione spontanea dei risultati della tecnica del lavoro nei suoi procedimenti più vantaggiosi, che è irreversibile in quanto nessuno riuscirà a rinunziarvi per motivi di principio e puramente ideologici. Come il lavoro associato è risorsa che passa oltre ogni frontiera, così lo è la registrazione e descrizione dei processi naturali, una volta rimossi gli ostacoli delle vecchie scuole e cenacoli teologici e non teologici per l'opera della demolizione critica, divenuta abbattimento di poteri statali" (Fiorite primavere del Capitale).

Le esplosioni sociali non sono certo dovute alla coscienza di uno scontro fra modi di produzione, né alla volontà di raggiungere un certo assetto sociale. La spinta più forte viene sempre dalla società in crisi, quando agli uomini viene materialmente impedito di conservare ciò che in passato hanno ottenuto. È stato detto nei nostri classici in tutte le salse: quando le contraddizioni diventano insanabili, la società esistente non permette più di vivere alla vecchia maniera, ma non esiste ancora all'orizzonte la nuova maniera di vivere. Ciò provoca una percezione insopportabile di insicurezza, precarietà, futuro negato, come se ci si trovasse a un bivio. È in vista di biforcazioni come queste che avviene la saldatura fra partito storico e movimento di classe, quindi lo sviluppo del partito formale che fisicamente può dirigere la tensione sociale verso sbocchi previsti e voluti.

Prima che si presentino queste biforcazioni della storia, singolarità che immettono direttamente nel futuro, i rappresentanti in carne ed ossa del partito storico possono fare ben poco, nonostante tutta la scienza individuata sulla base dei risultati già raggiunti in passato. Evidentemente non si tratta soltanto di fare dell'archeologia del partito storico, cioè di mettere in chiaro il "filo rosso" che collega le rivoluzioni o gli episodi rivoluzionari all'interno di una rivoluzione. Si tratta di rappresentare, per quanto possibile, un ponte fra generazioni, fra passato e futuro, un ponte fra la percezione della necessità di cambiamento e gli strumenti teorici e pratici che lo possono rendere attuabile. Teorici in quanto a programma, pratici in quanto inerenti allo sviluppo del partito formale nella negazione delle categorie borghesi. Per sintetizzare al massimo: né chi si occupa di scienza, né il partito della rivoluzione può limitarsi ad avere coscienza del mondo attraverso la percezione della realtà senza mediazione teorica; l'energia sociale di milioni di uomini non può trasformarsi da potenziale a cinetica se non attraverso la percezione non mediata di una realtà insopportabile.

A livello di "verifica sperimentale", per mostrare quanto sia tenace l'effetto della percezione soggettiva e quanto sia necessario un rovesciamento sociale generalizzato del fenomeno (dato che, come abbiamo visto, certe determinazioni fisiche non si possono eliminare), può essere utile l'osservazione sul campo delle molteplici forme sotto le quali si presenta il movimento politico corrente. Pur eliminando tutto ciò che fa parte della conservazione pura e semplice, l'altro grande insieme che vorrebbe rappresentare il "cambiamento", ancora oggi, anzi, più oggi che in passato, si abbarbica a ciò che non cambia per… cambiare. Da che parte potrà mai dirigersi un insieme siffatto al presentarsi di una biforcazione?

Normalmente si pensa che, di fronte a una rivoluzione che sconvolgerà l'intero pianeta, piccoli comportamenti attuali di individui o di gruppi esigui non possano influire sugli eventi. Ciò è completamente falso. René Thom con la sua formalizzazione delle catastrofi e in critica all'indeterminismo che alcuni riscontrerebbero nelle teorie della complessità e del caos, ha dimostrato che le biforcazioni sono la formalizzazione precisa di una realtà deterministica: la linea di eventi che conduce a una biforcazione non porta affatto a una indeterminazione ma, al contrario, determina lo sbocco. La vittoria della rivoluzione dipende strettamente da ciò che succede prima, e non importa che le cause scatenanti siano grandi o piccole:

"L'artificio sta nel far credere che l'evoluzione [del sistema alla biforcazione] sia effettivamente creata dalla 'fluttuazione' scatenante. Un esame sufficientemente completo della base su cui il sistema si sviluppa, permette di prevedere a priori i possibili esiti della biforcazione, che preesistono alla fluttuazione scatenante. Spetta a quest'ultima il ruolo di innescare il processo ed eventualmente di determinare, con una scelta apparentemente arbitraria, fra tutti gli esiti possibili l'ulteriore evoluzione. Ma certo non la crea" (cfr. Il determinismo).

Letture consigliate

  • Marx Karl, Engels Fiedrich, L'Ideologia tedesca, Bompiani 2011.
  • Marx Karl, Tesi su Feuerbach, Opere Complete vol. V, Editori Riuniti, 1972.
  • Marx Karl, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 2004.
  • PCInt., Partito e classe (i testi del PCd'I, del PCInt. e di n+1 sono sul nostro Web).
  • PCd'I, Partito e azione di classe.
  • PCd'I, Il pericolo opportunista e l'Internazionale.
  • PCd'I, Il principio democratico.
  • PCInt., Elementi dell'economia marxista.
  • PCInt., Origine e funzione della forma partito.
  • PCInt., Il rovesciamento della prassi.
  • PCInt., Appunti per le questioni di organizzazione.
  • PCInt., Tesi di Napoli.
  • PCInt., Tesi di Milano.
  • n+1, Per una teoria rivoluzionaria della conoscenza, n. 15-16.
  • PCInt., Lezioni delle controrivoluzioni.
  • PCInt., Il cadavere ancora cammina.
  • PCInt., Fiorite primavere del Capitale.
  • PCInt., Russia e rivoluzione.
  • n+1, Struttura frattale delle rivoluzioni, n. 26/2009.
  • n+1, La prima grande rivoluzione, n. 27/2010.
  • n+1, Stabilità strutturale e morfogenesi nelle forme sociali di transizione n. 28/2010.
  • n+1, Einstein e alcuni schemi di rovesciamento della prassi, n. 4/2001.
  • Bellone Enrico, Qualcosa, là fuori, Codice edizioni 2011.
  • Bronowski Jacob, Le origini della conoscenza e dell'immaginazione, Newton Compton, 1980.
  • Calvino Italo, Ti con Zero, Mondadori 1994.
  • Kelly Kevin, Out of control, Apogeo Urra, 1994.
  • Jaynes Julian, Il crollo della mente bicamerale, Adelphi 1984.
  • Wilson Edward, La conquista sociale della Terra, Raffaello Cortina, 2012.

Note

[1] Relazione registrata il 24 settembre 2011 a Pesaro durante uno dei consueti incontri redazionali trimestrali. Elaborata in fase di trascrizione.

Rivista n. 33