Un mondo d'infinite relazioni
Escursione storica intorno alla teoria della mente [1]
"Penso, dunque sono […] Pervenni a conoscere che io ero una sostanza la cui intera essenza o natura consiste nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale. Di guisa che questo io, cioè l'anima, per opera della quale io sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, ed è anzi più facile a conoscere di questo; e se anche questo non fosse affatto, essa non cesserebbe di essere tutto quello che è" (René Descartes, Discorso sul metodo).
"Eccolo l'errore di Cartesio, l'abissale separazione fra corpo e mente" (Antonio Damasio, L'errore di Cartesio).
"La filosofia della mente si distingue dagli altri ambiti filosofici attuali per il fatto che tutte le sue teorie più famose e influenti sono false" (John Searle, La mente).
Per quanto il libro di Damasio sia interessante, non siamo del tutto d'accordo con la sua versione del cosiddetto errore di Cartesio. Questi fu anzi assai coerente: per lui l'anima è separata non solo dal corpo ma anche dall'ambiente in cui il corpo si muove. Nello sforzo di ricondurre la complessità ad elementi semplici fino al punto di ipotizzare l'animale-macchina, trattare l'anima come gli altri meccanismi del corpo o come gli oggetti della natura sarebbe stato un problema. Escluso che si potesse eliminare l'elemento spirituale, identificato con il proprio essere ("io, cioè l'anima"), tale elemento doveva rimanere distinto dal tutto. E siccome non poteva fare a meno di comunicare con il corpo, lo faceva attraverso un "ponte" individuato nella ghiandola pineale. A noi tutto ciò può far sorridere, ma dal punto di vista degli insiemi non faceva una grinza, l'importante era postulare che l'anima esistesse e avesse natura speciale. Una volta asserita la sua esistenza, essa non poteva essere collocata in coda al corpo "meccanico", doveva essere davanti a tutto e interloquire col tutto. Cartesio ad ogni modo è il primo filosofo che con il Metodo getta le basi per una moderna teoria della conoscenza. Il suo ricorso alle semplificazioni geometriche e al ragionamento contro le percezioni ingannatrici è contemporaneo a quello dello scienziato Galileo, ma a quel tempo non è ancora possibile (e nello stesso tempo non lo è più) la fusione tra filosofia e scienza.
Anche le religioni producono una loro logica, una volta che si siano imposte. Anselmo d'Aosta aveva sviluppato un ragionamento analogo a quello di Cartesio per provare l'esistenza di Dio. Poniamo di mettere alla prova la nostra conoscenza partendo dal dubbio: se diciamo che Dio non esiste, non lo possiamo provare; se diciamo che esiste, ciò comporta che sia perfetto, e la prima qualità della perfezione è l'esistere. Lo stesso dicasi per il libero arbitrio: se c'è il Giorno del Giudizio, una volta persa la purezza con il peccato originale l'uomo deve poter peccare. Ergo, la contraddizione fra predestinazione e volontà è risolta. La storia della filosofia, e in generale delle teorie prodotte dall'uomo, abbonda di pretese "prove ontologiche dell'esistenza di qualcosa", e a volte la percezione di quel "qualcosa" è scambiato per la realtà pura e semplice. Ad esempio: "Penso alla classe operaia, dunque essa esiste" non è né una prova né una proposizione sensata, primo, perché posso pensare in modo sbagliato; secondo e soprattutto, perché il proletariato è solo un insieme statistico della società borghese se non sviluppa il proprio organo politico (in una accezione completamente diversa rispetto a quella corrente), se non scatta dalla condizione di "classe in sé" a quella di "classe per sé", per dirla con i classici. Eppure chi tiene presente questo dato di fatto quando scende in campo per rendersi utile alla rivoluzione? Per ora l'attivismo regna sovrano.
Tutti sono convinti che il meccanicismo o riduzionismo cartesiano sia morto, anzi, il funerale è esteso anche alla meccanica newtoniana (beh, anche al comunismo, ma è un altro discorso). Tuttavia una verifica sul campo mette a dura prova questa convinzione. Paradossalmente, proprio in questi tempi di idolatria scientifica, si procede in modo dualistico come e forse più che in passato. Da una parte constatiamo enormi passi nelle realizzazioni tecnico-scientifiche, richiedenti dosi crescenti di formalizzazione della realtà, cioè della sua riduzione a elementi semplici; dall'altra vediamo il dilagare della superstizione fondamentalista, della mistica che afferma senza bisogno di dimostrazione. È il trionfo della mente sulla realtà tangibile, dell'anima che se ne sta da qualche parte, separata dal corpo e dal mondo. Ridurre la complessità a leggi semplici che spieghino più fenomeni apparentemente slegati tra loro è utile ancora oggi se l'operazione è condotta con giudizio; ma il continuare ad anteporre l'anima (o mente) al corpo e alla natura che lo circonda è deleterio, è un'arma di distruzione di massa nel campo della conoscenza. Eppure il Penso, dunque sono ha ancora la meglio sul suo rovesciamento materialistico: Sono, dunque penso.
Usciti dalla condizione animale ci siamo sentiti così orgogliosi e soddisfatti delle acquisite capacità di "pensiero", che ne abbiamo fatto la nostra religione perenne. Nel campo dell'azione Penso, dunque faccio è diventato il dogma imperante: dato che funziona per l'industria, con i suoi progetti, ecc., crediamo che funzioni anche per la società. In una società umana che utilizzasse la conoscenza acquisita per progettare sé stessa sarebbe normale, ma oggi in campo sociale, materialisticamente, continuiamo prima a fare e poi a pensare, a combinare disastri per poi correre a piazzare rattoppi. E raduniamo i rattoppatori in parlamenti (cioè sacerdoti in templi) dai quali si innalzano inni allo spirito e alla democrazia. Fortunatamente il nostro presunto isolato pensare è immerso in miliardi di altri isolati pensieri, e quindi alla fine risulta che di isolato non c'è proprio niente e che, se vogliamo raggiungere qualche risultato degno di nota, dobbiamo attivare al massimo il nostro essere sociale. Purtroppo per noi, persiste la spaccatura: siamo ideologicamente individualisti ed egoisti nonostante la prassi quotidiana ci obblighi al lavoro socializzato. Di più: crediamo nell'individualismo egoistico nonostante il nostro stesso programma biologico si sia evoluto in un sistema di relazioni, segni, linguaggi, azione e retroazione, sistema che ha dato luogo ad aree specifiche del cervello e persino a neuroni specchio che ci mettono in relazione simbiotica con il prossimo.
Paradossale cortocircuito
Stiamo parlando di un mondo di infinite relazioni, entro il quale il nostro organismo si è formato ed evoluto ricavandone comportamenti codificati. Per descrivere il comportamento di un osservato ci vuole un osservatore, ed è già una relazione. L'osservato può essere un singolo organismo vivente, oppure un organismo sociale, un sistema qualsiasi. La descrizione che chiamiamo comportamento avrà registrato in qualche modo alcuni cambiamenti di stato, all'interno dell'osservato, dovuti a perturbazioni dell'ambiente. Tali cambiamenti sono in genere di tipo omeostatico, tesi a compensare gli eventi al contorno (metto una maglia se fa freddo), ma possono essere di tipo reattivo, cioè comportare retroazioni amplificate (vado a ripolarizzare il termostato). La fonte del cambiamento di stato non è mai il nostro sistema nervoso ma l'ambiente. Quest'ultimo può essere composto, e in genere lo è, da molti individui, molti sistemi nervosi che interagiscono, che inducono reciprocamente dei cambiamenti di stato interni. Una condizione che la nostra corrente ha chiamato "polarizzazione sociale", un movimento autopoietico, cioè che si auto-realizza (H. Maturana).
La relazione fra l'ambiente e il nostro sistema nervoso è determinata dall'evoluzione e produce cambiamenti di stato interni che tendono all'equilibrio; la relazione fra l'ambiente e tutti i sistemi nervosi (e fra i sistemi nervosi stessi) è determinata dai suddetti cambiamenti di stato e tende ad amplificarsi. L'umanità sembra biologicamente destinata a una dinamica contraddittoria, a una lotta fra conservazione e rivoluzione. L'apparato sensoriale comprende infatti non solo le cellule che fanno da recettori verso il "mondo esterno", ma anche quelle che rappresentano sia l'interfaccia con il "mondo interno" sia la struttura intima di quest'ultimo, che è l'unità corpo-cervello. E tutte quante influiscono sullo stato della rete neuronale. La quale modifica a sua volta gli stati dei centri motori, del linguaggio, ecc., tutti fenomeni che servono all'organismo singolo per comunicare con gli altri organismi tramite parole, segni, comportamenti.
Questo insieme di relazioni dinamiche porta il nostro organismo a rappresentarsi in relazione con il mondo in modo duplice, a seconda delle determinazioni che lo hanno plasmato: da una parte adotta una visione materialistica elementare, per la quale esiste l'organismo pensante che recepisce attraverso i sensi "quello che c'è là fuori", una natura che evidentemente c'è anche senza l'osservatore; dall'altra una visione idealistica per la quale la realtà della natura non è altro che un'interpretazione della mente. Il cervello individuale sembra non farcela a realizzare una sintesi delle due concezioni senza provocare un cortocircuito fra le sue diversificate aree, e perciò adotta o l'una o l'altra. Il cervello collettivo è invece piuttosto refrattario a questo dualismo e lo confina nel luogo adatto, cioè nella filosofia. Per il cervello collettivo non può esserci un "fuori" e un "dentro", dato che esso risulta, come abbiamo visto, dalle infinite relazioni fra gli individui e fra questi e l'ambiente. In ogni caso la conformazione di un cervello, individuale o collettivo, non è fatta per rispondere a input e output in senso tradizionale, come fanno le macchine: queste ultime sono state progettate da noi, siamo noi che abbiamo bisogno di una interfaccia per interloquire con loro. Il cervello, il sistema nervoso, non è stato progettato da nessuno, è il prodotto di miliardi di anni di evoluzione, e quindi in un certo senso non è fatto per "acquisire informazioni dall'esterno" ma si è co-evoluto con questo "esterno", se vogliamo chiamarlo così; vive in simbiosi, registra configurazioni dell'ambiente e di sé stesso con l'ambiente, stabilendo quali sono perturbazioni e quali no, quali cambiamenti esse possono provocare nell'organismo. Per questo un computer, per quanto potente e perfezionato, non potrà mai funzionare veramente come un cervello, a meno che non faccia un salto dai chip alle biocellule, cioè diventi un cervello.
Oggi è di moda parlare e scrivere intorno alla cosiddetta mente. Non si contano le pubblicazioni sull'argomento, i cui autori provengono da ogni disciplina scientifica (si va dai filosofi agli psicologi, dai cibernetici agli etologi, dai fisici ai biologi). E si tratta di volumoni spessi quattro dita, affiancati da migliaia di articoli. Sembra quasi che il programma di lavoro sulla teoria della conoscenza, definito dalla nostra corrente negli anni '50-60 del secolo scorso (cfr. n+1 n. 15-16), abbia anticipato una esigenza generalizzata, che si sta manifestando non solo come curiosità ma come superamento di luoghi comuni, come approfondimento scientifico che ha dato luogo a una vera "rivoluzione cognitiva" (H. Gardner).
La coscienza a rigore non esiste. Se la si definisce come capacità del corpo e della mente di avere consapevolezza di sé stessi, tanto vale dire che la coscienza è la coscienza di essere coscienti. Il Dizionario critico di filosofia (André Lalande) ammette la difficoltà e, citando William Hamilton, consiglia di lasciar perdere. C'è una trappola logica: per definire la coscienza ci vorrebbe un qualcosa di esterno ad essa. Seguiamo il consiglio di Hamilton e accontentiamoci di dire che cosa la coscienza non è, almeno per i filosofi. Non è semplicemente percezione. Non è semplicemente cognizione. Non è semplicemente una condizione nervosa del nostro organismo. Marx la assimila al linguaggio che è il nostro mezzo di produzione principale:
"La coscienza è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo. Solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi, l'uomo solitario non ne avrebbe avuto necessità. […] Soltanto il pensiero consapevole si determina in parole cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si rivela all'origine della coscienza medesima. Per dirla in breve lo sviluppo della lingua e quello della coscienza procedono di pari passo" (Ideologia tedesca).
Grandioso: rete di collegamento tra uomo e uomo; coscienza come parte del cervello sociale; linguaggio e coscienza si sviluppano insieme. Che aggiungere? Individuo filosofico pensante, a cuccia.
Alle origini della "coscienza"
Era inevitabile che le scienze cognitive moderne si occupassero delle variazioni della capacità di conoscere con il procedere dell'evoluzione. In generale è condivisa la tesi secondo cui non vi è differenza sostanziale fra i meccanismi conoscitivi di un organismo microscopico dotato di sensori, un batterio, e l'uomo che si è autonominato "sapiens". Naturalmente l'organismo più evoluto dispiega una maggiore varietà di sensori e affina la metodologia del suo sistema nervoso per usarli. Se ci soffermiamo sull'uomo, possiamo constatare che dal paleolitico in poi egli non si è ulteriormente evoluto in quanto ad affinamento dei mezzi biologici per conoscere; e, come abbiamo studiato da più punti di vista, l'aumento di potenza conoscitiva lo ha ottenuto con l'ausilio di mezzi artificiali che amplificano i sensi. Ciò spiega il comportamento contraddittorio dei singoli e più ancora dei gruppi: per le sue realizzazioni tecniche l'uomo ha una grande capacità di progetto, esecuzione e controllo dei risultati; ma messo di fronte ai fatti sociali non sa che sviluppare "teorie del caos", come diceva Marx riferendosi al procedere casuale, a-scientifico, dell'economia politica. Nel caso di rapporti con i suoi simili all'interno dei gruppi, l'uomo è in una situazione ancora peggiore, dato che si verificano situazioni identiche a quelle tipiche nella vita degli altri primati. La tragedia è che egli ha perso la capacità di controllo dovuta all'istinto, alla percezione fine rispetto all'ambiente, al sistema di segni sociali che disciplinano i branchi (D. Morris).
Abbiamo visto in più occasioni con quanta efficacia Leroi-Gourhan, un autore che offre molti spunti per affinare la nostra teoria della conoscenza, dimostri come sia profondo il divario fra la evoluzione biologica dell'uomo e quella artificiale, riguardante i manufatti e le strutture che ormai ricoprono buona parte del pianeta. Nello stesso tempo anch'egli dimostra come sia contraddittorio il persistere di caratteri "animali" nel contesto della civiltà d'oggi mentre abbiamo perso le capacità e le sensibilità che un tempo avevamo. L'uomo moderno conosce "ben altro" rispetto ai nostri progenitori, ma non è capace di dire qualcosa di sensato su di essi, nemmeno basandosi sull'abbondante materiale archeologico. In fondo non conoscere le proprie origini è come non conoscere sé stesso. Perciò dice corbellerie giganti tutte le volte che tenta di decifrare la sua infanzia. È capace di guardare una pittura rupestre ed esclamare: "Oh, com'è moderna!". Di scoprire i percorsi preistorici dell'ossidiana o dell'ocra rossa e scrivere un articolo sui "mercati" di trentamila anni fa e sull'uso di "moneta" di scambio. Di scavare una sepoltura paleolitica con segni di attività funeraria (colorazione con ocra, presenza di pollini di fiori, allineamento di sassi, ecc.) e non resistere alla tentazione di proclamare al mondo che l'uomo è sempre stato religioso. Ma che razza di teoria della conoscenza ci si può aspettare dall'uomo borghese, se non sa fare altro che proiettare sé stesso e la propria ideologia?
In un efficacissimo libretto intitolato Le religioni della preistoria, Leroi-Gourhan ironizza finemente contro quei rozzi rappresentanti della scienza che non sono in grado di osservare con distacco ciò che la natura dispiega sotto ai loro occhi e sentono l'impulso irresistibile di dare un tocco artistico ai reperti pescando dalla fantasia. Naturalmente dimostra che nella preistoria non c'era alcuna pratica "religiosa" nell'accezione odierna e che la scoperta più importante è la differenza fra le nostre pratiche di vita e quelle dei nostri antenati, non la similitudine inventata. Noi non possiamo far altro che classificare il materiale ritrovato e ricavarne delle statistiche ragionate, dato che le regolarità (o invarianze) sono alla base della scienza. Così facendo non introduciamo elementi di conoscenza arbitrari e ci accorgiamo che l'uomo cosiddetto primitivo non solo conosceva il suo mondo meglio di quanto noi conosciamo il nostro, ma possedeva una teoria della conoscenza, quindi, per chi vuole chiamarla così, una "coscienza".
Coscienza e lavoro
Il punto da cui partire è la produzione di oggetti o la modifica dell'ambiente al fine di facilitare i processi della vita quotidiana e la loro riproduzione. Verificato che tutto ciò sia intenzionale, si procede alla classificazione e alla interpretazione. L'uomo produce oggetti da un paio di milioni di anni e ciò ha influito sulla sua evoluzione. Abbiamo affrontato altrove (n+1 n. 19, Genesi dell'uomo-industria) il nesso, già evocato da Engels, tra il lavoro e lo sviluppo del cervello. Ora ci dobbiamo occupare di che cosa succede nel cervello una volta sviluppato. Tralasciamo tutto il primo periodo nel quale la strumentazione e la modifica dell'ambiente sono insignificanti (almeno dal punto di vista della presente ricerca) e focalizziamoci sul paleolitico superiore, che va da 40.000 a 12.000 anni fa. Si tratta del periodo in cui si estingue l'uomo di Neanderthal mentre la nostra specie si diffonde in Europa. Questo periodo ci ha trasmesso in forma di reperti archeologici solo una minima parte della sua produzione o industria. Una buona parte dei manufatti utili alla vita quotidiana era fatta di materiale organico e s'è dissolta. Si sono conservati gli oggetti in pietra lavorata, quelli in osso, le impronte di piedi, le tracce di capanne e focolari, le figure rupestri, le inumazioni.
Facciamo una sintetica rassegna sull'informazione che siamo in grado di ricavare da questi risultati intenzionali dell'attività umana. La pietra lavorata (asce, bulini, raschiatoi, coltelli, ecc.) ci permette di ricostruire a grandi linee lo scopo per cui è stata prodotta, soprattutto la caccia e la lavorazione dei suoi prodotti. Le ossa trovate in gran numero in contesti che segnalano la presenza umana testimoniano in primo luogo i residui dei pasti o della cacciagione macellata collettivamente, in secondo luogo i depositi formatisi nei millenni in seguito alla morte naturale di animali; le ossa lavorate sono invece fonte di informazione fondamentale su tutte le attività umane di quell'epoca: gli arpioni e gli ami evocano la pesca, le punte di lancia e i propulsori la caccia, gli aghi l'esistenza di indumenti. I monili, i flauti, le statuette steatopigie, le scapole con tacche indicanti forme di conteggio ci fanno pensare a forme di simbolismo e di astrazione. Le impronte fossili di piedi umani sono in genere isolate e forniscono poca informazione; quelle di capanne con focolare e segni di lavorazioni varie ci danno invece la possibilità di estrarre molti dati (anche nelle grotte sono state trovate tracce di attività simili). Le rappresentazioni rupestri, bellissime e ottenute con tecniche raffinate, offrono una grande quantità di informazione su sé stesse ma, paradossalmente, meno sui loro scopi di quanta ne ricaviamo invece da un modestissimo raschiatoio di selce. Infine le inumazioni: alcune sepolture neandertaliane del paleolitico medio, quindi molto antiche, sembra fossero intenzionali, ma il sapiens-sapiens ha incominciato a seppellire i morti con segni evidenti di cerimoniale funebre solo nel paleolitico superiore, grosso modo al tempo delle più antiche figure rupestri.
Certamente l'attività intenzionale per la produzione e riproduzione della specie inizia ben prima della comparsa dell'homo sapiens, ma è solo nell'ultima fase del paleolitico, con la co-evoluzione degli strumenti, del cervello e del prodotto, che si completa il rapporto uomo-industria, e quindi si presenta, per il paleoantropologo di oggi, il problema della nascita della coscienza. L'iconografia moderna ha rappresentato per decenni neandertaliani animaleschi e nostri antenati sapiens-sapiens appena un po' meno caricaturali, uomini e donne nudi dal volto selvaggio intenti alla caccia o alle faccende domestiche. Stupidaggini: indossavano vestiti decorati, portavano monili ed erano fieri come lo erano gli indiani delle praterie d'America prima che diventassero preda degenere per i primi fotografi. Solo da pochi anni si sta correggendo il tiro sul "cavernicolo". Era inevitabile che l'ideologia dell'uomo borghese, che secondo uno stereotipo da lui stesso creato è l'unico esemplare dotato di intelligenza e coscienza, lasciasse un po' di posto ai dati materiali. La vasta documentazione disponibile sugli strumenti di lavoro paleolitici, cioè sui mezzi di produzione (compresa quella che oggi chiamiamo "arte"), dimostra che non è un problema di "coscienza", ma di relazione fra cervello, strumento e manufatto, intendendo con quest'ultimo termine anche la modifica dell'ambiente. Il tutto memorizzato, riproducibile, tramandabile di generazione in generazione. Non nasce nel presunto selvaggio paleolitico un'anima, bensì la capacità di progettare la propria esistenza, un'evoluzione che getterà le basi della scienza da una parte, della speculazione filosofica dall'altra. Sarà quest'ultima, millenni dopo, a immaginarsi il pensiero/anima separato dal corpo e dall'ambiente: l'uomo paleolitico non ci pensava affatto. Non si sa se le varie testimonianze che egli ci ha lasciato, le tracce di attività speculativa, come simboli, conteggi, cerimonie, rappresentino un inizio consapevole di scienza, di religione oppure di filosofia. Di sicuro la statistica ci pone di fronte a una complessa simbologia che si ripete a moduli costanti fino a configurare un sistema ben strutturato di significati. Se è così, le attività umane, i loro prodotti e il riflesso di tutto questo nel cervello, non erano settori separati della vita sociale: prima che avvenisse la separazione dovuta alla divisione sociale del lavoro, cioè prima delle classi, non c'era ragione di separare ciò che dall'unitario substrato materiale era riflesso. Leroi-Gourhan fa un'osservazione di importanza capitale per la teoria della conoscenza: noi siamo il prodotto di una scienza sviluppatasi in Europa e diventata mondiale, il nostro razionalismo ha comportato una separazione totale fra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, fra la conoscenza e l'ignoto. L'uomo paleolitico non si poneva di fronte al mondo con una visione del genere. Per lui la natura era unitaria, nel senso che il conosciuto e il mistero ne facevano parte allo stesso titolo, non cercava di violare l'ignoto, lo prendeva così com'era. Il Cielo e la Terra non erano ancora separati. Più tardi, nel neolitico, cioè a partire da 12.000 anni fa all'incirca, sorgono indubbiamente forme di culto insieme con una più netta divisione tecnica del lavoro (la divisione sociale e la religione vera e propria arriveranno alla soglia della società antico-classica).
La coscienza prima e dopo Omero
La ricerca del momento in cui avvenne la separazione tra la vita materiale e la sua interpretazione ideologica è presente nel lavoro di Marx ed Engels, e può essere interessante indagare ulteriormente ponendosi sulle loro tracce. Marx focalizza la propria attenzione sul generale succedersi delle forme economico-sociali; Engels, nel corso del lavoro sulla Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, si sofferma in particolare sulla Grecia antica, analizzando il passaggio dalla società gentilizia alla proprietà e al dominio di classe tramite lo stato. Per quell'area geostorica il passaggio avviene fra il XII e l'VIII secolo a.C. Si tratta dell'età che troviamo descritta nei poemi omerici, la stessa che la filologia tenta di sistemare dal punto di vista cronologico (il contesto dell'Iliade è miceneo, ma la descrizione dello scudo di Achille mostra una società più tarda, con denaro, diritto, agricoltura intensiva, ecc.). Gli scarti temporali omerici sono ben conosciuti e gli scavi archeologici hanno fornito alcune conferme dei dati contenuti nei poemi e viceversa. Engels, sulla base delle informazioni di cui disponeva, mostra che nell'Iliade gli eserciti achei riflettono ancora la forma gentilizia, quindi pre-classica. Tale interpretazione è acquisita, anche perché nel frattempo la decifrazione della scrittura micenea, un greco arcaico, ha permesso una conoscenza maggiore.
Molto probabilmente oggi chiamiamo "Omero" un'opera collettiva composta nel tempo, comunque non entreremo nel dibattito plurisecolare sulla "questione omerica". Di fatto, storia o mito, l'Iliade e l'Odissea sono opere che descrivono l'epoca in cui sono state immaginate e poi, molto più tardi, scritte. Esse sono assai utili alla nostra ricerca sulle origini di una teoria della conoscenza. Abbiamo già citato un autore, Julian Jaynes, che utilizziamo esclusivamente per un saggio in cui sviluppa una teoria del passaggio storico dalla percezione oggettiva del mondo a una soggettiva: Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza. Ci interessa ovviamente l'argomento, mentre ci interessa assai meno la teoria psicologica esposta nel libro. Crediamo che possa servire ai nostri scopi la mole dei dati raccolti per sostenere la teoria stessa. In sintesi, i poemi omerici sarebbero stati composti oralmente in una fase di transizione, la Guerra di Troia in essi raccontata sarebbe uno degli episodi della transizione stessa e la trasposizione scritta risalirebbe a non prima dell'VIII-VII secolo a.C.
Nei poemi, come aveva già notato Gian Battista Vico, compaiono linguaggi e stili diversi ma soprattutto ricorrono termini che cambiano significato a seconda del contesto. Il cambiamento si fa più evidente specialmente passando dall'Iliade all'Odissea, e molti filologi sostengono che questa è la prova sia della differenza cronologica fra i due poemi, sia del cambiamento di mano. La differenza di linguaggio e di ambiente storico è uno degli argomenti della disfida sulla questione omerica. Lo scrittore e acuto lettore di storia antica Robert Graves sosteneva che l'Odissea fosse stata scritta almeno 150 anni dopo l'Iliade e che l'autrice fosse una donna (da questa osservazione ricavò un romanzo). Noi non possiamo far altro che leggere le varie motivazioni e trarne delle conseguenze alla luce della nostra dottrina. Presupponiamo perciò che a proposito dell'Odissea abbiano ragione i sostenitori della tesi "separatista" soprattutto per tre motivi:
1) il contesto produttivo è più maturo che nell'Iliade;
2) il linguaggio è più soggettivo, introspettivo;
3) la figura femminile perde la sua grandezza tragica e diventa più umana, mentre l'ambiente diventa più magico che divino.
Jaynes appoggia la sua teoria su quattro variazioni del significato dei termini ricorrenti, cui abbiamo accennato, riferendoli a fasi diverse:
1) significato nella fase oggettiva in cui l'uomo, in simbiosi con la natura e con gli dei (molto umanizzati), non ha ancora la possibilità di riferire a sé stesso fenomeni ed eventi;
2) significato nella fase in cui l'uomo esprime fenomeni ed eventi attraverso reazioni di organi del proprio corpo;
3) significato nella fase detta soggettiva, nella quale l'uomo è capace di introspezione rispetto a fenomeni ed eventi, crea metafore ed è consapevole di avere una "mente";
4) significato nella fase detta sintetica, nella quale l'uomo completa la concezione del "sé" cosciente e percepisce il mondo esterno come separato dal proprio corpo (e, aggiungiamo, può così teorizzare il libero arbitrio).
Iliade e Odissea rappresenterebbero dunque due momenti, un prima e un dopo rispetto all'avvento della coscienza. Gli eroi sbarcati davanti a Troia, esponenti di una società basata sulla gens, austeri e un po' incomprensibili con la nostra mentalità, si muovono in un mondo completamente oggettivo, sono individuati con qualità poste accanto al nome, elencano azioni, oggetti e persone in modo neutro. L'Odissea è invece un "viaggio allucinante", onirico, magico, una continua scoperta dell'Io. Ovviamente è impossibile che un tale cambiamento, se riconosciuto come plausibile, sia avvenuto in mezzo secolo come affermano i filologi datando i due testi scritti, o anche in un secolo e mezzo come ipotizza Graves. Le composizioni orali devono risalire a epoche molto più distanti fra loro. Jaynes scrive che sono stati portati alla luce reperti archeologici che attestano consacrazioni a Odisseo databili a poco dopo il 1.000 a.C. ; e competizioni agonistiche in onore di Odisseo sarebbero avvenute nel IX secolo a.C. Se davvero ci sono queste prove archeologiche, l'Iliade deve raccontare un tempo più antico, risalire all'epoca degli ultimi palazzi di Micene, Pilo, Tirinto, cioè intorno al XII secolo a.C.
Aggiungiamo, a proposito di prove archeologiche, che sono state trovate le città dei basileis dell'Iliade: Micene per Agamennone, Pilo per Nestore, Sparta per Menelao e Troia per Priamo, ma niente sull'isoletta di Odisseo, basileus di Itaca, l'unico ambiente invece descritto nei minimi particolari. Ciò fa supporre il passaggio dalla realtà mitizzata nel racconto, al racconto puro e semplice, all'invenzione letteraria. Qualunque sia la versione esatta dell'avvento della coscienza, e tenendo conto che la versione psico-evolutiva alla Jaynes non è soddisfacente, ci troviamo comunque di fronte a un periodo di drastico cambiamento. La nascita e lo sviluppo di un nuovo linguaggio scritto ne è un indice sicuro, dato che il linguaggio è un mezzo di produzione; così come è significativo il collasso del mondo che precede la società antico-classica.
Il paradiso perduto
L'ideologia borghese ha un tronco principale ma mostra anche una serie di fughe laterali che rappresentano ramificazioni robuste. Domina l'asservimento al Capitale, per quanto ciò si manifesti con sfaccettature diversificate. Ad esempio sopravvive in forma mistificata tutto ciò che del passato può essere trasformato in merce. Questo ramo nostalgico trova le proprie auto-giustificazioni persino in un apparente rifiuto delle categorie capitalistiche. È noto che le pratiche di consumo collegate alla corrente New age producono un fatturato superiore a quello delle maggiori multinazionali, e d'altra parte ha buon successo tutto un ambiente esoterico, dietrologico, focalizzato sul mistero, che non è legato direttamente al guadagno ma che rappresenta un robusto ramo collaterale dell'ideologia. Lo stesso dicasi per la ramificazione primitivistica, che perlomeno ha la dignità di radicale rifiuto, cioè negazione soggettiva delle categorie capitalistiche. Bisognerebbe chiedersi il perché di questa proliferazione dell'irrazionale esoterico. Tutti siamo un prodotto evolutivo anche se, per quanto riguarda il sentire sociale, siamo soprattutto un prodotto dell'ambiente in cui siamo immersi. L'irrazionale odierno e le forme di nostalgia verso un tempo che fu potrebbero essere residui di un passato remoto, comprovati indirettamente da studi come quelli di Leroi-Gourhan, di Desmond Morris e dello stesso Julian Jaynes, che se ne occupa invece in maniera diretta. Le neuroscienze offrono già risposte a domande del genere, più convincenti di quelle a base psicologica. Il modello computazionale di Daniel Dennett e Steven Pinker o la teoria innatista del linguaggio di Noam Chomsky, per quanto sotto tiro per alcune scivolate nel materialismo volgare, possono offrire una parziale risposta. Le future neuroscienze saranno più indicate a darci una risposta più che la psicologia, la sociologia o la mistica.
Il tema del primitivismo l'abbiamo affrontato più volte e dovremo riprendere i vari semilavorati per pubblicarli in forma completa. Sarà una interessante panoramica sull'ideologia borghese che si ribella a sé stessa vagheggiando un antico splendore dell'umanità, perduto con l'avvento della società macchinizzata. Questa concezione è di casa fra componenti sociali diversissime, cui si possono affibbiare etichette sia di destra che di sinistra. Tanto per fare degli esempi molto noti, i lavori di Julius Evola, John Zerzan, Massimo Fini, del Green Anarchy Collective o di Theodore Kaczynski sono indubbiamente un frutto della disumanità capitalistica, e una reazione ad essa è giusto che non abbia etichetta. Potremmo senza troppa fatica fare una selezione mirata di frasi trovate negli scritti di costoro per costruire una critica al capitalismo con le carte in regola persino dal punto di vista marxiano. Ma si tratterebbe appunto di mere frasi. Per la negazione effettiva di questa società disumana non è sufficiente percepire un disagio ed elencare le condizioni in cui tale disagio si forma confrontandole con ciò che è stato (o s'immagina sia stato). Occorre una teoria che permetta di fare il confronto fra il presente e un futuro possibile quanto necessario, nel senso di deterministicamente certo.
Se, come abbiamo visto, il cervello funziona in base a stimoli esterni, a processi interni di elaborazione in unità con il corpo, a memorizzazione genetica che fissa le mutazioni, ecc. il bisogno di "paradiso perduto" può essere collegato a un qualche residuo del passato impresso nella nostra struttura mentale. La mistica che va sotto il nome di New Age in fondo non è altro che una estrema difesa contro un ambiente ostile: una fuga nel comunismo del passato che ha una sua simmetria in una fuga nel comunismo del futuro, quello "voluto" dall'attivista che non vede la necessità di sintonizzarsi con il marxiano "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente". L'ingenua (forse) corrente che si è data un nome che si richiama all'Età dell'Acquario (New Age = Nuova Età) è uno sprazzo di rifiuto del mortifero capitalismo, potrebbe essere un luddismo attuale e infatti già trascende in Decrescita, Reddito di cittadinanza, Lotta al signoraggio, Movimento dei Neosemplici contro il consumismo, ecc. Tutte ramificazioni strettamente innestate nel troncaccio capitalistico, ma certo indice perlomeno di quella "realtà problematica", che abbiamo studiato con Marx.
È plausibile sostenere che le distorsioni cui siamo soggetti a causa dei fenomeni legati alla percezione siano il prodotto di una realtà come quella che stiamo studiando dal punto di vista di una teoria della conoscenza? E se sì, tali distorsioni non sono anche il prodotto di processi che un tempo erano innati e oggi sono andati perduti o perlomeno sono stati accantonati in aree del cervello che non utilizziamo più? Chi per malattia o per assunzione di sostanze psicotrope esce dalla dimensione "normale" della vita quotidiana vede, ode e prova cose che gli altri non percepiscono. Si tratta di una creazione della mente o di depositi profondi dai quali il cervello attinge in occasioni particolari o in caso di patologie? Se così fosse, anche gli archetipi di Jung troverebbero una spiegazione meno psico-idealistica e più fisica.
Se noi abbiamo un olfatto ridicolo rispetto a quello del cane, una vista che ci tradisce già da bambini, un udito che taglia gran parte delle frequenze agli estremi della scala sonora, è perché abbiamo neutralizzato gli organi recettori che svolgono quelle funzioni. Può darsi che in condizioni particolari salti questa neutralizzazione e che alcune persone recuperino la facoltà di ricevere molta più informazione del normale. Ma certo in questo caso si relativizza alquanto la normalità, per cui è molto facile che chi sente voci, vede presenze o si sente minacciato pur essendo tranquillo a casa propria e non nella savana, finisca in una clinica con provvedimento coatto. Questa soluzione, che nella società capitalistica è normale, non è certo l'unica. Nelle società a-classiste il "matto" o non esisteva o era trattato in ben altro modo. Rappresentando semplicemente un "tipo" fra altri, si inseriva come tessera particolare nel mosaico sociale. Al giorno d'oggi il "fuori di testa" è una persona che non riesce a gestire la massa di informazioni e sensazioni che gli piombano addosso caoticamente, quindi va in crisi; ma l'uomo preistorico e forse quello proto-antico ci riuscivano magari benissimo. Il neandertaliano aveva un cervello più voluminoso del nostro, probabilmente per poter gestire una quantità enorme di informazione proveniente da sensi sviluppatissimi in ambiente ostile.
Nel libro di Jaynes c'è un capitolo sulla schizofrenia, messa in relazione con la formazione della coscienza. La schizofrenia presenta dei caratteri molto interessanti e difficilmente spiegabili. Le cause sono ancora oggetto di discussione, anche se l'ipotesi di cause multiple (genetiche, ambientali, traumatiche, ecc.) è per lo più condivisa. Jaynes respinge l'ipotesi di una "causa" e, a sostegno della propria teoria sul crollo della mente bicamerale, sostiene che il comportamento schizofrenico non è altro che l'emergenza scomposta di un residuo antico. Lo schizofrenico, contrariamente a quanto normalmente si crede, non ha una personalità sdoppiata, anche se presenta sintomi che inducono a pensarlo. Nei casi più gravi, il paziente ode voci che provengono dall'interno del suo corpo, ha l'impressione che gli leggano nel pensiero, oppure che qualcuno trami per fargli del male. In queste condizioni è portato ad essere sempre teso, vigile, diffidente. Il caso delle voci è frequente: esse possono essere descrittive, dialoganti, allarmanti, imperative. A volte si accompagnano ad allucinazioni visive, per cui alcune situazioni, se spostate dal contesto odierno, potrebbero effettivamente far parte di qualche mito antico, dove entità divine si pongono in comunicazione diretta, parlano, appaiono, facilitano o impediscono eventi. Ora, se la schizofrenia fosse una malattia collegata alla sfera esclusivamente psichica, o fosse anche di carattere ereditario, essa si manifesterebbe con una differenziazione vistosa dei sintomi, una casistica infinita, mentre tutti gli schizofrenici presentano pochissimi caratteri differenziati, tanto che i test per individuarla consistono in una decina di domande elementari.
La schizofrenia è ovviamente una patologia gravissima, che tocca a diversi livelli circa l'1% delle popolazioni occidentali. Ma proprio a "diversi livelli" tracce della stessa sintomatologia sono ovunque. Alcuni neuroscienziati (scuola di Palo Alto) sostengono che interviene un rapporto schizofrenico ogni qualvolta si verifica un intoppo a livello di normale comunicazione fra soggetti, specie nella famiglia. Ciò vuol dire che cause scatenanti fanno emergere qualcosa che c'è già. Sembra ragionevole, e infatti lo schizofrenico ha sempre un problema di linguaggio. Egli non ha una semplice difficoltà di comunicazione: il suo problema è a monte, dove risiede quel qualcosa, che lui però non riesce, o non riesce più, a esprimere. Forse anche lo schizofrenico, rifiutando il mondo in cui vive, cerca il suo paradiso perduto, solo che non ha più gli strumenti per dirlo.
La rivoluzione della memoria
Nel mondo delle infinite relazioni, il linguaggio è ovviamente essenziale per tutti gli esseri viventi. Abbiamo visto che per Marx ed Engels il linguaggio e la coscienza nascono insieme. È il linguaggio che, essendo condiviso dagli uomini che ne hanno bisogno nella loro vita materiale, riduce la coscienza da idea a realtà pratica. Il linguaggio è una qualità del cervello sociale. L'animale è in relazione semplicemente biologica con l'altro animale, perciò il suo linguaggio si riduce a segni elementari, non gli occorre una gran "coscienza" (per alcuni non la possiede affatto). Ne consegue che quest'ultima, se vogliamo continuare a chiamarla così, è un prodotto squisitamente sociale, non esisteva prima che l'uomo ne avesse necessità, non è un'anima che, dalla Genesi in poi, si appiccica addosso agli uomini. Del resto, sembra che questa famigerata entità non comparisse nelle opere filosofiche della prima antichità classica.
Se il linguaggio è coscienza, nell'accezione di Marx ed Engels, una volta che quest'ultima aderisce ad un modo di produzione con classe dominante, stato e ideologia di classe, si autonomizza, proprio come fa oggi il Capitale, e adopera il linguaggio (cioè sé stessa in grado di comunicare) per trasmetterne le esigenze. Il linguaggio è relazione, ma è anche trasmissione. Nasce, appoggiamoci su Engels, quando la produzione si fa sociale, per cui gli uomini, avendo problemi condivisi, "hanno qualcosa da dirsi". Con il linguaggio è possibile tramandare istruzioni su operazioni complesse a chi non le conosce. Non si tratta soltanto di interrelazione fra due individui ma di insegnamento a un terzo, un quarto, un ennesimo. Nella stessa direzione viene trasmesso qualcosa di più che semplice informazione: fluisce anche ideologia. Le idee della classe dominante sono favorite nel diventare le idee dominanti, è un circolo vizioso che si autoalimenta. Con l'avanzare dalla preistoria alle successive forme economico-sociali e con l'avvento del linguaggio scritto, questo fluire diventa scuola. Gli individui trovano sempre più difficile rompere con la conoscenza percettiva dopo che alle determinazioni materiali dovute alla nostra costituzione biologica (vedi articolo precedente) si aggiunge il macigno dell'insegnamento che perpetua l'esistente. Eppure l'insegnamento è stato uno dei motori dello sviluppo delle civiltà, e prima ancora ha permesso un salto nel corso dell'evoluzione. Nelle società cosiddette primitive la conoscenza è tramandata dagli anziani ai bambini, mentre gli altri membri della comunità sono impegnati nella caccia, nella raccolta o nel disbrigo delle attività quotidiane. Ma nel paleolitico, almeno fino a 30.000 anni fa, la speranza di vita era così breve, circa trent'anni, che non permetteva la coesistenza in vita di tre generazioni.
Secondo l'autrice di un articolo comparso su Scientific American (Rachel Caspari), l'aumento della durata media della vita permise per la prima volta la coesistenza di nonni e nipoti, con conseguenze importanti per l'evoluzione. L'anziano, infatti, è depositario di conoscenze trasmissibili, tecniche di caccia, riconoscimento delle piante, fabbricazione di strumenti, genealogia della tribù e rapporti con altri gruppi umani, ecc.
Così, anche attraverso una specie di "teoria del nonno" siamo giunti a una unità contraddittoria fra conservazione e reazione: gli anziani trasmettono una conoscenza del passato, e in questo rappresentano la conservazione, ma codificano e trasmettono anche una quantità di informazione che prima non veniva accumulata, per cui diventa inevitabile il salto qualitativo, rivoluzionario. L'ipotesi dell'autrice in questione ha conseguenze che stranamente non vengono sviluppate: con un rapporto diretto fra nonni e nipoti, è evidente che la trasmissione di informazione deve prima o poi assumere una struttura diversa rispetto al periodo in cui i nonni non c'erano e i bambini imparavano mediante informazione diffusa in modo casuale, o perlomeno non strutturato. Con la trasmissione univoca dell'anziano, il discorso diventa più organico, fluisce da un argomento all'altro probabilmente in forma di storie, allena una memoria robusta per ricordarle e produce una dizione musicale per facilitare la memorizzazione.
Omero e ciò che egli rappresenta affondano le proprie radici nella primordiale memorizzazione e trasmissione per via orale della conoscenza, un compito immane. Quello che ci è rimasto dell'Iliade, che tradotto e stampato in prosa è un libro di circa 400 pagine, racconta in versi cantati solo 50 giorni – sette settimane, l'ira di Achille – della Guerra di Troia, che invece durò dieci anni. Possiamo ipotizzare che l'Odissea sia un frammento analogo. Entrambi i poemi erano dunque molto più estesi di quanto un individuo potesse agevolmente ricordare e ogni aedo itinerante ne cantava una porzione accompagnandosi con la cetra. Che cosa trasmetteva l'Iliade cantata, quindi con inflessioni di voce sulle parole chiave che variavano di significato a seconda del contesto? Non lo possiamo sapere, ma certamente più di quanto possa oggi trasmettere a noi. Ogni aedo si muoveva di città in città recitando la porzione memorizzata, e così l'intero poema diventava patrimonio di tutti attraverso un cervello collettivo di aedi. Lo stesso facevano i teatranti (una recita poteva durare un'intera giornata con agonismo tra autori) e probabilmente, molto più tardi, i primi filosofi. Come parte della vita quotidiana, statue, bassorilievi, affreschi e ceramica dipinta, erano ovunque a trasmettere conoscenza (l'arte come la intendiamo oggi non esisteva affatto). Tre secoli dopo il tempo di Omero, un nuovo modo di produzione si consolidava sovrapponendo aspetti antichi e nuovi del cervello sociale. La coscienza non s'era ancora imposta, e perciò non c'era nemmeno l'anima, fino a quel momento concepita come semplice soffio vitale che abbandonava il corpo al momento della morte. Ma eccola comparire un secolo dopo, con la generalizzazione della proprietà, della schiavitù, del denaro e della filosofia. L'anima è introdotta da Socrate e da allora siamo sdoppiati anche filosoficamente.
Errore di Cartesio?
Arriviamo a chiudere il cerchio là dove avevamo incominciato. Duemila anni dopo Socrate, Cartesio è considerato uno dei fondatori della filosofia moderna. Egli mantiene separata l'anima dal corpo e dalla natura. Lo fa in modo strano: chiama l'anima (o la coscienza, o la mente) "natura intelligente distinta da quella corporea", ma considera tale dualismo un difetto, per cui chiama in causa la potenza di Dio a garanzia della non-contraddizione. Dio del quale naturalmente ha prima "ontologicamente" provato l'esistenza, come Anselmo d'Aosta, aggiungendo un paragone con la compiutezza della geometria. Leibniz critica Cartesio per questo suo disinvolto utilizzo di un dio che serve solo a far quadrare i conti: "Come se Dio non si proponesse alcuno scopo né alcun bene quando agisce". È un'accusa velata di ateismo; e in effetti il dio cartesiano non incide sulla natura, alla quale il filosofo ha tolto ogni finalità. Nonostante tutte le professioni di fede, il dio cartesiano è come quello di Laplace: la scienza della natura non ha bisogno di quella ipotesi. Leibniz non sarà l'unico a suggerire l'ateismo di Cartesio, e in effetti anche sul tema dell'anima-coscienza quest'ultimo sfiora l'eresia:
"L'anima razionale non può in nessun modo essere tratta dalla potenza della materia, ma deve essere creata appositamente, e non basta che sia collocata nel corpo umano come il pilota nella nave ma è necessario che sia congiunta ad esso e unita più strettamente perché ne risulti così un uomo vero" (Discorso sul metodo).
È implicita qui una critica a Sant'Agostino, che chiama l'anima "nocchiero del corpo", ma non in difesa di San Paolo, per il quale anima e corpo sono inscindibili (ancora oggi questa formula è nel catechismo ufficiale). La congiunzione invocata da Cartesio non è l'unione di Paolo, altrimenti non si capirebbe l'espediente della ghiandola pineale, concepita come una specie di ricetrasmittente che permette la comunicazione fra entità separate. Nella teoria della conoscenza di Cartesio il mondo materiale è decisamente deterministico. Tutti gli organismi viventi sono governati dalla fisica, né più né meno al pari della materia inanimata, con la differenza che al corpo dell'uomo corrisponde un'anima, o coscienza, o mente, ma inesorabilmente situata altrove rispetto al corpo. Se dal sistema cartesiano togliamo il dio perfetto che scioglie la contraddizione, rimane una conoscenza senza corpo che "per esistere non ha bisogno di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale". L'altrove della coscienza non può che essere il cervello sociale, ma non lo si poteva ancora scoprire, lo si poteva solo intuire. Cartesio era un cattolico praticante, aveva ad esempio partecipato all'assedio di La Rochelle nella guerra contro gli ugonotti; ma condivideva le eresie di Galileo. Poiché la sua massima aspirazione era quella di lavorare tranquillo per tramandare i risultati delle sue ricerche, non appena sentì il fiato dell'Inquisizione sul collo (aveva avuto notizia del primo processo a Galileo, quello del 1916, terminato con un'ammonizione) se ne andò in Olanda (1629) dove per i filosofi l'aria era più respirabile, ma dove, comunque, fu infastidito dai preti protestanti. Si trasferì infine a Stoccolma, ospite della regina di Svezia. Morì di polmonite. Il sospetto che la sua ortodossia cattolica fosse solo una copertura di sostanziali eresie è più vivo che mai. Leggendolo, sembra sincero, ma ciò non toglie che la sua filosofia razionalistica sia stata una mina potente per far saltare la scolastica medioevale e rinascimentale.
Sembra quasi che l'anima/coscienza di Cartesio non sia un ente specifico dell'individuo ma qualcosa di più, quasi che non ci trovassimo di fronte a un semplice dualismo fra anima e corpo. Come mai egli ha bisogno di specificare che "se anche il corpo non esistesse affatto, l'anima non cesserebbe di essere tutto quello che è"? Il suo linguaggio, diretto, semplice, pretende di essere preso alla lettera. Allora che cosa può essere questa entità, questa anima così speciale che rimane sé stessa anche facendo a meno del corpo individuale? È chiaro che abbiamo in mente un'ipotesi, e la chiave per renderla plausibile la troviamo forse nel sesto capitolo del Metodo. Nel quale Cartesio sostiene che la filosofia speculativa insegnata ai suoi tempi (la scolastica), poteva essere sostituita da un'altra che fosse scienza pratica, in grado di migliorare la vita dell'uomo. Seguono gli esempi. Ciò è coerente con un'altra affermazione: gli scienziati devono collaborare a seconda delle proprie conoscenze e inclinazioni per il comune progresso, in un ciclo continuo in cui ognuno incomincia dove l'altro ha terminato; per cui, riunendo le vite di molti, si ottiene un risultato superiore a quello che otterrebbe ciascuno. Ludovico Geymonat mette in guardia rispetto alla corrente interpretazione del razionalismo cartesiano: le verità teoretiche raggiunte con tale metodo sono per Cartesio strumenti pratici per l'azione che trasforma il mondo. Il cartesianesimo sarebbe allora una teoria della conoscenza che tende a razionalizzare l'apprendimento, ma solo allo scopo di gettare le fondamenta di un "superiore volontarismo". Non crediamo che volontarismo sia il termine più adatto. Progetto andrebbe meglio e il nostro rovesciamento della prassi sarebbe perfetto.
A questo punto anima, mente, coscienza è (sono) tutto ciò che rappresenta accumulo di conoscenza collettiva (il ciclo continuo della scienza) che si può trasmettere al corpo in quanto strumento esecutore. Il dualismo, la contraddizione, persistono, ma non sono più fra anima e corpo, discorso accessorio, bensì fra individuo e specie, percezione soggettiva e realtà conoscibile. È ovvio che questo lo diciamo noi; agli albori della rivoluzione borghese Cartesio non lo poteva dire. Ma non è Cartesio che compie un "errore", è Damasio che analizza da neurologo una espressione dello scontro fra due forme sociali, una morente e l'altra nascente.
Letture consigliate
- Anonimo, L'Epopea di Gilgamesh, Adelphi 1986.
- Anonimi, La Bibbia, traduzione di G. Deodati (1607), Depositi di sacre scritture 1903.
- Bateson Gregory, Mente e natura, Adelphi 1984.
- Bailey James, Il postpensiero, Garzanti 1998.
- Codino Fausto, La questione omerica, Editori Riuniti 1976.
- Damasio Antonio, L'errore di Cartesio, Adelphi 1995.
- Dennet Daniel, La mente, che cosa è, Laterza 2009.
- Descartes René, Discorso sul metodo, Editori Riuniti 1978.
- Gardner Howard, La nuova scienza della mente, Feltrinelli 1985.
- Geymonat Ludovico, Cartesio, Storia del pensiero filos. e scient. II, Garzanti 1977.
- Jaynes Julian, Il crollo della mente bicamerale e l'orig. della cosc., Adelphi 1984.
- Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Op. compl. vol. 14 Editori riuniti, 1963.
- Leroi-Gourhan André, Il gesto e la parola, Einaudi 1977; Le religioni della preistoria, Adelphi 1993.
- Licata Ignazio, La logica aperta della mente, Codice 2008.
- Maturana Humberto, Varela Francisco, L'albero della conoscenza, Garzanti 1999.
- Morris Desmond, La scimmia nuda, Bompiani 2003.
- Omero, Iliade, ediz. in prosa, Garzanti 2007; Odissea, ediz. in prosa, Garzanti 2008.
- Pinker Steven, Come funziona la mente, Mondadori 2000.
- Rose Steven, La fabbrica della memoria, Garzanti 1994.
- Scott Alwyn, Scale verso la mente, Boringhieri, 1998.
- Searle John, La mente, Raffaello Cortina, 2005.
Note
[1] Il testo è uno sviluppo della riunione di lavoro (integrazioni, domande, risposte, ecc.) apertasi dopo la relazione pubblicata nelle pagine precedenti.