Il Biennio Rosso
Incontro redazionale del 23-25 settembre 2016
"La volontà non può fare le rivoluzioni né il partito può crearle, le può favorire con la sua azione cosciente, sbarrando a tempo le direzioni false in cui l'opportunismo trascina la generosa forza proletaria. La risorsa che allora la storia offriva e che il partito si lasciò sfuggire per difetto deplorevole di maturità teorica marxista, era quella di sbarrare la strada alla manovra nemica, che aprendo il flusso alle urne avrebbe scongiurato l'urto della fiumana rivoluzionaria. Se il proletariato, liberandosi dalle illusioni democratiche, avesse bruciato dietro di sé il vascello parlamentare, la lotta sarebbe finita ben altrimenti. Il partito della rivoluzione aveva il dovere di tentare questo sbocco grandioso, buttandosi di traverso [al partito della controrivoluzione]. Ma il partito, rivoluzionario non era" (Amadeo Bordiga, Storia della Sinistra, vol. I).
"La rivoluzione tanto predicata ed aspettata non era venuta, ed in certo senso si può dire che non era stata voluta. S'è avuta così la controrivoluzione senza rivoluzione, una vera e propria controrivoluzione preventiva" (Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva, 1921).
"La temperatura 'percepita' non esiste. Esiste un parametro che va correttamente sotto il nome di indice di calore o sensazione termica" (dal sito www.centrometeo.com).
Linee guida
Nel nostro incontro redazionale del 24-26 giugno 2016 avevamo esposto il risultato del nostro lavoro sulla situazione in Russia al culmine della guerra civile, quando, battute le forze del vecchio regime e consolidato con le armi il potere proletario, la rivoluzione tendeva a diffondersi contrattaccando in Polonia. E avevamo visto come la rivoluzione, vittoriosa sul campo, avesse obbligato tutti i convenuti al II Congresso dell'Internazionale a mantenere alto il livello teorico, a neutralizzare cioè il lavorio politico dei partiti che si manifestava con la tendenza al compromesso frontista. Ci è sembrato importante continuare quel lavoro, e vedremo dunque in questo articolo ciò che successe negli altri paesi d'Europa sotto l'influenza esercitata su di essi dalla Rivoluzione d'Ottobre ma in una situazione oggettivamente controrivoluzionaria (specie in Germania e in Italia) ben differente da quella rivoluzionaria esistente in Russia.
Se per analizzare il grande sommovimento europeo che va sotto il nome di "Biennio Rosso" (1919-1920) utilizziamo i criteri di Thomas Kuhn (che li applica alla scienza) dobbiamo convenire sul fatto che non si è in presenza di un fenomeno rivoluzionario. Ogni rivoluzione è un salto di paradigma rispetto alla forma sociale contro cui scaglia le sue forze. Quindi possiamo definire rivoluzionaria una data situazione solo quando è messo in discussione il vecchio paradigma. Per questa ragione diciamo che, rispetto alla forma sociale esistente, una rivoluzione, se è tale, non può che essere anti-forma, non può che abbandonare, o meglio neutralizzare e distruggere, ciò che si limita alla ri-forma.
È in un nostro testo del 1946, Tracciato d'impostazione, che si adoperano quei termini: il riformismo aveva un senso all'interno della società capitalistica nel periodo che va dal mercantilismo alla rivoluzione industriale, ma nella società d'oggi, non solo sviluppata ma decadente e senile, ha una mera funzione conservatrice. La ri-forma diventa con-forma e omologa chi la persegue alle classi e agli strumenti (prima di tutti lo stato) che difendono l'indifendibile presente.
Gli stessi concetti li possiamo trarre anche da un altro nostro testo, Attivismo, pubblicato nel 1952: il partito rivoluzionario e la rivoluzione sono elementi inscindibili, per cui non si può dire che "la situazione è rivoluzionaria, ma purtroppo manca il partito" (o che esso non è in grado di indirizzare e dirigere il movimento sociale). Il partito politico, che per la prossima rivoluzione non sarà un partito fra altri intenti a contendersi il potere ma il rappresentante della specie umana che farà il salto nel futuro, sarà l'elemento fondamentale, quello che deciderà se il paradigma potrà cambiare o no. Se il partito non c'è, latita o non è preparato, il nuovo paradigma non si impone, la situazione è irrimediabilmente controrivoluzionaria.
Nel gennaio del 1957, a proposito di situazioni rivoluzionarie o altre percepite tali anche se non lo erano, Amadeo Bordiga metteva in guardia contro le frettolose letture di parole d'ordine e contro gli abbagli che ne sarebbero potuti derivare:
"Tra venti anni la alternativa tra guerra imperialista mondiale e rivoluzione. Ma non si deve intendere (come ho scritto altre volte) che dopo la guerra verrà la rivoluzione, piano che ci ha mentito nel 1919 e nel 1945 (per chi ci credeva, non certo io; e del resto è noto che mi si accusa che nell'altro dopoguerra nemmeno ci credevo, né in Italia né in Europa). La rivoluzione verrà se la guerra sarà bloccata sul suo scatto, e capovolta, ossia se impedirà che la guerra si sviluppi".[1]
Dunque la nostra corrente non credeva possibile una rivoluzione a tempi ravvicinati dopo la Seconda Guerra mondiale, e i motivi sono abbastanza evidenti; ma il fatto di non vedere vicina la rivoluzione al tempo del Biennio Rosso va contro tutte le storiografie e le interpretazioni di quel periodo straordinario di lotte. Non sempre si può adottare la classica formula "trasformare la guerra imperialista in guerra civile". La guerra è una valvola di sfogo per il capitalismo, e se scoppia, se coinvolge il proletariato negli schieramenti, se obbliga lo stato a varare politiche speciali, allora rivela tutta la sua potenza disgregatrice dell'unità di classe. Perciò occorre fare attenzione al fattore tempo: il prima o il dopo diventano essenziali, ecco perché Bordiga teneva a sottolineare che la guerra, per potersi tramutare in rivoluzione, dev'essere bloccata al suo scatto. Dopo si impongono le partigianerie; anzi, al giorno d'oggi le guerre sono già guerre civili fra partigianerie, guerre per procura. Anche in questo caso occorre capire bene quale sia il motore di una guerra, se esso ne può fare una leva per l'anti-forma o se è passibile solo di ritocchi per una ri-forma. Evidentemente i nostri compagni di allora non ritenevano possibile il cambiamento di paradigma finché la direzione del movimento fosse rimasta in mano ai riformisti e ai massimalisti.
Quattro anni dopo, in una situazione di fermento sociale, Bordiga mette in guardia contro interpretazioni indebite sulla natura del movimento. Nell'aprile del 1961, in seguito a una discussione sulle questioni di organizzazione del partito rivoluzionario, egli scriveva in una corrispondenza alcune considerazioni contro l'organizzativismo. Il partito aumenta i propri effettivi e la propria efficienza rivoluzionaria quando aumenta la tensione sociale (Tesi di Roma), non può scambiare questo processo con il suo contrario: la tensione sociale non cresce aumentando gli effettivi con una politica attivistica:
"Anche dopo i diecimila [effettivi] basterà un piccolo esecutivo di compagni. Forse dopo i ventimila sarà il caso di convocare compagni di quando in quando da tutta Italia o Europa per un piccolo sinedrio o gruppo di contatto. Mai, me presente, si faranno discussioni per approvare o disapprovare il centro anonimo o per fare elezioni di cariche. Con questo non si perderanno occasioni storiche perché per il riordinamento della dottrina… abbiamo più tempo di quel che noi decrepiti avremo da campare. Coloro che sentono occasioni del genere nelle giornate di luglio ultime hanno il profilo storico dell'opportunista: ve ne sono ed è storicamente utile che esperimentino il loro metodo, mentre noi esperimentiamo il nostro, quello classico mio della consegna: non muovete il culo!"[2]
Bordiga si riferiva al luglio dell'anno prima, quando in occasione di un governo cui i fascisti avevano dato appoggio, c'era stata una mezza insurrezione a Genova con ripercussioni in tutto il Paese. Era il classico caso in cui un vasto movimento popolare, benché interclassista, poteva far supporre l'esistenza di una forza anti-sistemica in grado di intaccare il paradigma esistente. In effetti sembrava che gli ingredienti della protesta, la partecipazione del proletariato e la convinzione che si potesse andare oltre a manifestazioni di piazza già di per sé determinate e violente, dessero al movimento quella dinamica tipica delle insurrezioni, che maturano i propri obiettivi man mano si allargano e generalizzano. Questi ingredienti giustificavano in parte la percezione, da parte di masse apparentemente irriducibili, che si andasse ad uno scontro decisivo. Ma così non era.
Tenere d'occhio le classi fantasma
Già nel 1948, al tempo dell'attentato a Togliatti, era venuta alla luce una spinta antigovernativa che poteva far pensare a un'ondata anti-sistemica in grado di travolgere i partiti esistenti e assumere carattere insurrezionale. Tutto era ovviamente rientrato a causa dell'atteggiamento pacificatore assunto dai partiti che allora si richiamavano ancora al proletariato, ma soprattutto a causa della natura del movimento. In entrambi i casi si era infatti ben lontani dal superamento del vecchio paradigma democratico, elettorale, parlamentare, corporativo, in una parola borghese. Non era materialmente possibile che masse in movimento per obiettivi democratici, quindi in difesa dello stato, contro un banale episodio di conta numerica degli scranni su cui sedevano i parlamentari, maturassero al punto di avere come obiettivo il superamento del parlamentarismo. Non che fosse impossibile in assoluto, in fondo le rivoluzioni sono frutto di una dinamica in grado di spazzare via qualsiasi ostacolo, ma era impossibile proprio perché mancava tale dinamica. Il contesto era quello di una guerra mondiale aperta con l'adesione del proletariato ai fascismi, cioè al controllo statale della struttura economica, e chiusa con il proletariato in difesa della democrazia, in pieno accordo con una delle parti borghesi che si scontravano per il dominio imperialista del mondo. Per scalzare il paradigma dominante ci sarebbe voluto ben altro che la protesta per un leader ferito in un attentato o contro piccole alchimie parlamentari. Essenziale era il contesto materiale, non la percezione che gli attori sulla scena ne avevano.
Un altro esempio di scissione fra scenario reale e scenario percepito è nel vasto movimento iniziato nel maggio del 1968 in Francia ed esteso nei mesi successivi in buona parte del mondo. Come nei precedenti esempi, da parte nostra non avrebbe avuto senso criticare il movimento in quanto tale, ma certo non si poteva fare a meno di mettere in guardia contro il solito meccanismo di sublimazione che porta a valutazioni sbagliate, praticamente innocue in tempi di stallo (di controrivoluzione) ma addirittura letali nel caso di un contesto che permettesse l'innesco di una dinamica anti-forma. Il motore primario della "protesta" sessantottina fu il movimento studentesco e solo in un secondo tempo si verificò la partecipazione della classe proletaria. Anzi, la parola "partecipazione" non è quella che più corrisponde alla realtà fattuale, dato che il proletariato scese in lotta per rivendicazioni proprie, di carattere economico e normativo, perciò incompatibili con quelle del mondo studentesco. La lotta dei proletari si sviluppò in parallelo a quella degli studenti, che non sono una classe anche se sono "classificabili" fra i gruppi sociali, e solo episodicamente si formò una saldatura.
Già prima del Sessantotto erano stati compiuti errori di interpretazione riguardo alla composizione sociale delle classi, il più noto quello di Trotskij, che vedeva nella burocrazia staliniana una classe sostitutiva della borghesia, tesi poi sviluppata da Bruno Rizzi e James Burnham.[3] È chiaro che in un contesto caratterizzato dall'impronta data da questi strati sociali e dalla chiusura di orizzonti più vasti parlare di rivoluzione o anche di situazione rivoluzionaria è del tutto arbitrario. Le classi fantasma, come le chiamò la nostra corrente, non hanno la capacità di muoversi per forza propria ma sono costrette a oscillare fra le due grandi classi antagoniste, assorbendo reddito (valore) dall'una o dall'altra, fiancheggiando o l'una o l'altra, manifestando il proprio disagio economico e sociale col prendere a prestito teorie e metodi dall'una o dall'altra. Essendo classi sterili, non beneficiano di spinte materiali sufficienti a innescare una dinamica che superi, come abbiamo detto, le condizioni esistenti, quindi sono conservatrici per natura, tranne quando, rovinate dal Capitale, sono costrette a schierarsi con il proletariato. E anche in questo caso portano entro lo schieramento tutto il proprio bagaglio intermedista, storicamente ruffiano e tendono perciò a inchinarsi di fronte al più forte.
È arbitrario paragonare un fenomeno internazionale e di grande rilevanza storica come il Biennio Rosso a episodi su scala minore? Forse è passato un tempo sufficiente dal Sessantotto a oggi per capire che il gran parlare di rivoluzione non serve a niente se il movimento rivoluzionario (o passibile di diventarlo) non esprime una forma organizzata che sia sintesi degli eventi, in grado di dare un indirizzo alla energia sociale sprigionata.
Nei periodi rivoluzionari le classi fantasma tendono a perdere la loro omogeneità conservatrice, si scindono come nel 1789 in Francia o durante le guerre per l'unità nazionale in Italia, e in questo caso riescono a compiere il loro capolavoro politico, servire cioè contemporaneamente due padroni portatori della stessa ideologia, quella della classe al momento dominante. Purtroppo, mentre la borghesia è refrattaria a questo fenomeno in quanto classe dominante, il proletariato fatica a neutralizzarlo, influenzato com'è dall'ideologia, appunto, dominante. È chiaro che in una situazione del genere diventa essenziale il ruolo del partito rivoluzionario, l'unico antidoto contro la malattia opportunista. L'opportunismo non è un fatto contingente dovuto all'azione volontaria di uomini ma un prodotto storico-sociale che si avvale di uomini per diffondersi e radicarsi. D'altra parte neppure le dottrine rivoluzionarie si presentano alla storia come prodotto di volontà: e quindi, nei periodi rivoluzionari, la battaglia che realmente si scatena è quella tra gli agenti del vecchio modo di produzione e gli anticipatori della società nuova, entrambi rappresentati dal loro partito storico.
Lo scontro immane che avvenne in Europa nel corso di quei due anni cruciali fu precisamente una lotta fra due concezioni opposte, corrispondenti ai modi di produzione in procinto di collidere. Per questo motivo il Biennio Rosso è gravido di insegnamenti. Non si tratta di riflessioni elaborate a posteriori, studiando i libri di storia. Nel vivo dello scontro fu evidente che la nostra corrente riteneva indispensabile sgombrare il campo dagli equivoci delle classi fantasma, dal loro ri-formismo, dalla loro ambiguità di fondo che le portava a inneggiare alla dittatura del proletariato mentre castravano la lotta dei proletari chiamandoli alle urne, lavoro che aveva inciso profondamente sulla natura del Partito Socialista, strutturato per le elezioni e inadeguato per l'assalto al potere.
La rivoluzione percepita
Le nostre osservazioni sul biennio 1919-20 riguardano soprattutto l'Italia, ma solo perché trattandosi del paese capitalista più vecchio del mondo essa rappresenta il concentrato di ciò che successe nell'intera Europa. In effetti il Biennio Rosso fu un terremoto sociale che investì quasi tutti i paesi europei e gli eventi registrati in ognuno di essi sono riconducibili a una stessa matrice generale. Tuttavia vi fu un aspetto tanto importante da costituire una differenza essenziale tra l'Italia e tutti gli altri paesi.
Secondo Marx le rivoluzioni che separano un'epoca dall'altra, un modo di produzione dall'altro, si contraddistinguono per il fatto di essere capaci di criticare sé stesse e di superare con ciò sia eventuali ostacoli, sia la tendenza a conservare il paradigma passato. Nel senso che anche quando subiscono sconfitte le adoperano per balzare in avanti verso il futuro. Ad esempio, nel '48 francese, non fu la rivoluzione ad essere sconfitta ma tutta la serie di orpelli democratici che le rimasero appiccicati addosso dalle epoche precedenti. Così nella Comune di Parigi, ciò che fu sconfitto fu il suo contenuto immediato, riflesso da militanti in buona parte proudhoniani e blanquisti, mentre il grandioso tentativo di "assalto al cielo" è passato alla storia, anche come insegnamento rispetto alla condotta militare che dev'essere sintonizzata con la presa del potere e con il consolidamento di quest'ultimo. Così la controrivoluzione staliniana non riuscirà a sconfiggere storicamente l'Ottobre rosso, anzi, a distanza di decenni scomparirà certamente ogni rimasuglio di culto del Baffone, mentre risulteranno importanti i sempre validi insegnamenti della teoria e del metodo bolscevichi.
La differenza fra l'Italia e gli altri paesi sta appunto in questo, che qui alla scala storica non fu sconfitta la rivoluzione ma la mistica democratica elettoralista affossata dal fascismo. Semmai, come affermano le nostre tesi del dopoguerra, la rivoluzione ha adoperato il fascismo per sgomberare il campo da molti aspetti della società dell'epoca mercantile (storici movimenti per il suffragio universale), e dovremmo plaudire al fenomeno dell'estinzione della democrazia. Il fascismo a suo modo è un superamento dell'epoca precedente, una possibilità inedita di pianificazione economica centralizzata che ha aperto la strada al vero capitalismo di stato: che non è quello in cui lo stato controlla e dirige il Capitale ma, al contrario, quello (di oggi) in cui il Capitale dirige e controlla lo stato. Il fascismo fu necessariamente copiato da tutti i grandi paesi capitalistici. Oltre all'Italia, alla Germania e al Giappone, ricorsero al capitalismo controllato anche gli Stati Uniti, la Russia, la Spagna, il Portogallo e molti altri paesi.
Questo fenomeno della necessità di riformare il capitalismo in senso economico e sociale si manifestò a livello politico diversamente in Italia rispetto agli altri paesi. Ad esempio in Austria un grande movimento di riforma rafforzò la socialdemocrazia attraverso realizzazioni pratiche, cooperative, urbanistica, stato sociale. In Germania la socialdemocrazia partecipò direttamente alla controrivoluzione prendendosi la responsabilità della repressione violenta, compresa l'uccisione, dei proletari in armi. In Italia il comportamento della socialdemocrazia fu esattamente l'opposto. È vero che in tutti e tre i casi fu preparata la strada al fascismo in quanto realizzatore pratico delle politiche riformiste, ma la differenza del percorso è importante. La navigata socialdemocrazia austriaca si propose per quello che era, un solido bastione del riformismo che perseguiva un programma sociale esplicito. La borghesia tedesca era giovane, uscita da non molti anni dalla propria rivoluzione nazionale, peraltro condotta dall'alto, senza una partecipazione popolare in grado di radicalizzare un movimento sociale. La socialdemocrazia si presentava dunque, del tutto naturalmente, come sua ala sinistra, con un comportamento conseguente e un linguaggio non equivocabile: "Abbiamo bisogno di un cane sanguinario, non mi sottraggo davanti ad una tale responsabilità" disse Gustav Noske, Ministro della difesa, nel 1919. Benché il risultato pratico in termini di controrivoluzione fosse lo stesso, la socialdemocrazia italiana ebbe un atteggiamento diverso sia rispetto a quella austriaca, sia rispetto a quella tedesca. Non ebbe modo di realizzare programmi riformisti e fu massimalista, appoggiò a parole il movimento proletario, ne assecondò gli obiettivi e, anzi, assunse posizioni nettamente politiche di fronte a un movimento proletario ancora in bilico fra rivendicazioni economiche e finalità rivoluzionarie. Occorre superare le divisioni, essa scriveva sull'organo ufficiale del partito, per
"concentrare le forze e le energie del proletariato con tenacia e con ardore in tutte le manifestazioni per la preparazione di quello sciopero generale che le mancate rivendicazioni essenziali per la vita del popolo italiano renderà necessario e che, seguendo l'ormai fatale movimento proletario internazionale, deve avere il supremo obiettivo della dittatura del proletariato per la espropriazione economica e politica della classe dominante" (Avanti, 22 aprile 1919).
Come vedremo, la borghesia fu realmente spaventata da una situazione che appariva sotto tutti i punti di vista senza sbocco, e il proletariato credette realmente che al culmine delle manifestazioni e degli scioperi per rivendicazioni non ascoltate, non ci fosse altra via che quella insurrezionale.
Ma, al di là delle roboanti frasi scritte o pronunciate sulla dittatura del proletariato, al di là delle oscillazioni fra rivendicazioni di carattere economico e politico, la situazione reale era sempre quella di una micidiale mancanza di programma da cui discendeva inevitabilmente l'adozione di una tattica inconcludente. Non esistevano azione e organizzazione conseguenti rispetto alla percezione sottolineata da frasi che spaventavano non soltanto la borghesia ma anche i destri irriducibili del partito. Il paradigma era sempre lo stesso, la decisione non era effettivamente demandata allo scontro ma alle urne, e il PSI era strutturato per questo compito.
Percezione non è scienza
Non si trattava ovviamente di una questione di psicologia. La somma delle percezioni individuali non fa una percezione collettiva. Tuttavia la percezione che qualcosa di straordinario stava succedendo rispetto al cambiamento sociale, se pur giustificata da fatti materiali potenti non lo era però da un programma; e l'istinto di classe, che insieme al programma è il carburante di ogni salto dalla società morente a quella nascente, non era sufficiente a dare un indirizzo rivoluzionario al movimento. Anche se disorientata dalla persistenza e crescita degli scontri, la borghesia disponeva almeno della forza materiale di repressione, mentre il proletariato senza una guida non riusciva neppure a difendere le proprie condizioni di vita. L'Europa intera era in subbuglio, e l'Italia in particolar modo stava sperimentando per prima la tragedia che si generalizzerà in seguito, cioè la pressione politica di masse che erano spinte verso il socialismo ma, verificando l'impotenza dei partiti socialisti, si volgevano alla versione nazionalista del socialismo stesso. Mentre la guerra era ancora in corso, a Torino si erano verificati importanti moti insurrezionali e, a guerra appena finita, la miscela esplosiva delle rivendicazioni e della rabbia per la cosiddetta vittoria mutilata aveva infine fatto saltare gli equilibri interni del paese. Da una parte l'inflazione, il prezzo politico del pane, la miseria crescente, la disoccupazione a causa dell'impossibilità di riconvertire la produzione bellica; dall'altra i reduci, l'insubordinazione militare, la vicenda fiumana, il programma social-fascista di Sansepolcro, l'influenza enorme della Rivoluzione d'Ottobre.
Gli scontri per motivi politici dell'immediato dopoguerra furono sostituiti poco per volta da scontri per il pane e in generale contro il peggioramento delle condizioni economiche. Dal 1913 al 1918 il potere d'acquisto dei salari era crollato di quasi il 40%. Nel solo 1919, vi furono 1.800 grandi scioperi nei quali furono coinvolti due milioni di proletari. La sensazione che si dovesse arrivare a una resa dei conti di classe imponeva alle classi stesse un arroccamento sulle proprie posizioni. Perciò, nella situazione muro contro muro, si polarizzava tutta la società e cresceva l'esigenza, per la borghesia, di una soluzione. Sarebbe stato il fascismo a offrirla, ibridando nazionalismo e socialismo, ma nel 1919-20 ancora non si era esplicitata questa via d'uscita.
Intanto cresceva la violenza di stato. Intervenivano la polizia, le guardie regie, i carabinieri e infine l'esercito. Nelle piazze si sparava sempre più spesso, l'elenco dei caduti si allungava. Il "reducismo" assumeva connotati politici e penetrava nei partiti borghesi, che avevano tutto l'interesse a coltivarlo. A dispetto del corso reale degli eventi, si consolidava la percezione di un periodo rivoluzionario che attendeva "soltanto" il suo sbocco nella presa del potere. Percezione plausibile per i singoli e anche per le classi, ma micidiale per il partito che fosse chiamato a dirigere il movimento sociale. Ricordiamo lo schema di rovesciamento della prassi: il movimento reale, le lotte, lo scontro fra classi, cioè fra modi di produzione che arruolano i propri militi, prevede una dinamica di crescita della polarizzazione sociale che, al punto più alto, diventa una forza del cambiamento, inverte la tendenza e, dal dominio dell'ideologia e della prassi dominanti, consente di passare all'influenza della teoria rivoluzionaria attraverso il partito.
Se però il processo di inversione si blocca o è intralciato da spinte contrarie, viene a mancare la forza e prevale la forma, che è quella del fraseggio rivoluzionario senza reale processo rivoluzionario. Persino l'odierna enciclopedia Treccani, alla voce Biennio Rosso, si sofferma sulla realtà percepita che si autonomizza rispetto ai fatti materiali (corsivo nell'originale):
"La gravità percepita della crisi dipese anche dal progressivo intensificarsi dei disordini nelle piazze a partire dal primo semestre del 1919 fino al duro scontro nelle campagne emiliane tra la Federterra e gli agrari (primavera-estate 1920) e all’occupazione delle fabbriche dell’agosto-settembre 1920. L’insieme degli eventi contribuì a generare l’idea, desiderata da alcuni, temuta da altri, di una rivoluzione sociale ormai alle porte".
Quando mai, da Galileo in poi, vi può essere metodo scientifico quando sulla realtà materiale ha il sopravvento la percezione? Era realtà materiale il fatto che a guerra appena finita se ne stavano subendo le conseguenze; che dalla politica elettoralesca si attendeva, se non un miracolo, almeno la soddisfazione di alcune istanze economiche; che questa speranza era alimentata dal fatto che Giolitti aveva voluto l'allargamento del suffragio (1912) e che dalle elezioni del 1913 era già chiaro il balzo numerico dei partiti "di massa". Il tentativo giolittiano di integrare cattolici e socialisti nello stato liberale era stato frustrato dalla polarizzazione sociale crescente, dallo scontro fra interventisti, pacifisti e ambigui ("né aderire né sabotare"), dalla crescita del movimento operaio con le sue specifiche rivendicazioni. Tutto ciò aveva favorito il radicarsi del massimalismo parolaio e la percezione di milioni di persone ne era stata influenzata. Ciò che prima era giudicato estremismo sovversivo ora diventava "normale". E nei comizi si parlava normalmente di forti aumenti salariali, di redistribuzione delle terre, di riduzione della giornata lavorativa, di controllo operaio. Ma la contraddizione stridente, anche solo dal punto di vista riformista (e perciò anche massimalista) consisteva nel fatto che la situazione pretendeva una corrispondenza fra le parole e i fatti, mentre le aspettative rimanevano tali. La borghesia, incapace di realizzare un fronte sociale con i partiti popolari, si infognava sempre di più partecipando al peggioramento di quello che era già un marasma sociale nel quale i protagonisti continuavano imperterriti a manifestare differenze per lo più simboliche.
La grande controrivoluzione preventiva
Nel 1922 Luigi Fabbri, anarchico, pubblicò un libricino di cento pagine che definiva così il fascismo e soprattutto il clima politico che lo rese possibile. Il concetto di controrivoluzione applicato a quel periodo era condiviso dalla Sinistra che lo avrebbe ribadito in ogni valutazione successiva. Anche l'imponente libro di Pierre Broué Rivoluzione in Germania, pubblicato nel 1977, tratta lungo le sue 900 pagine di controrivoluzione più che di rivoluzione, mentre ad esempio Paul Frölich parla di rivoluzione e controrivoluzione.[4] Il termine "preventiva" è ambiguo: può essere correttamente usato se con ciò si intende la reazione naturale della borghesia alla minaccia rivoluzionaria che stava materialmente maturando; può ingenerare equivoci se s'intende invece un progetto di repressione cosciente nei confronti del proletariato. La borghesia non è così lungimirante, per questo era pericoloso dal punto di vista tattico attribuirle una capacità di attacco che non aveva[5] mentre la si negava al proletariato che invece stava attaccando su tutti i fronti ma era frastornato dalla contraddizione fra i proclami roboanti dei suoi capi e l'oggettivo freno che essi esercitavano. Luigi Fabbri è un anarchico ed espone idee compatibili con la sua militanza, ma gli va riconosciuta una lucidità che all'epoca non era da tutti. Egli individua correttamente le origini del fascismo e nega che sia sufficiente per vincerlo condurre contro di esso una mera lotta di "resistenza"; così come anticipa la sua capacità di rigenerazione nel caso in cui dovesse essere temporaneamente sconfitto:
"Il fascismo è un ramo del grande tronco statale-capitalistico, od una filiazione di esso. Combattere il fascismo lasciando indisturbato il suo perenne generatore, ed anzi illudersi di trovare in questo un difensore contro quello, significa continuare ad aver sempre sulle spalle, ogni giorno più pesanti ed oppressivi, e l’uno e l’altro. Uccidere il fascismo è possibile, sol che l’azione di difesa contro di lui, imposta dalle circostanze, non vada scompagnata dall’attacco alle sue sorgenti… Ucciderlo è necessario, e bisogna che a ciò riesca direttamente e con le sue forze il proletariato, perché se il fascismo fosse semplicemente addormentato o riassorbito dalle istituzioni attuali, esso potrebbe sempre o almeno più facilmente riprodursi".
In margine alle elezioni del 1919 la polarizzazione fra le classi si era accentuata, ma si era anche fatta più verbale che mai, condizionata com'era dalle inconseguenze dei partiti. A tutto ciò si aggiungeva l'oggettiva difficoltà a interpretare fenomeni complessi. La Russia era certo un potente richiamo, ma pochi avevano capito che lì si trattava di una rivoluzione doppia, per cui si mescolavano interpretazioni diverse a seconda che si guardasse al carattere borghese o a quello comunista. Era infatti difficile digerire una rivoluzione comunista che prendeva sulle sue spalle compiti borghesi e tentava di risolverli attraverso la dittatura del proletariato. Per i socialdemocratici l'Austria rappresentava un esempio di gradualismo modello; il successo del partito socialdemocratico alle elezioni per l'Assemblea costituente nel 1919 aveva permesso un approccio riformista meno sbracato di quello tedesco ma altrettanto ultraparlamentare e anticomunista, tanto che lo si accusava di aver avuto grosse responsabilità nel fallimento dell'insurrezione comunista a Vienna. In Ungheria la Repubblica dei Consigli era durata pochi mesi, un tempo comunque sufficiente non solo per terrorizzare l'Europa ma anche per attizzare le discussioni sull'opportunità o meno di un fronte fra socialdemocratici e comunisti. Moti sociali erano scoppiati in Bulgaria e Slovacchia; alle frontiere di molti paesi vi erano continui movimenti militari per il riassetto territoriale post-bellico. Tutto contribuiva alla tensione e non tutto era decifrabile agevolmente.
In Germania, alla fine del 1918, nacquero spontaneamente i Consigli degli operai e dei soldati. Il clima insurrezionale ebbe come conseguenza l'abdicazione dell'imperatore Guglielmo II, alla quale seguì l'instaurazione della Repubblica con il governo socialdemocratico presieduto da Ebert. Al primo congresso nazionale dei Consigli degli operai e dei soldati a Berlino (dal 16 al 21 dicembre 1918) sembrò chiaro il rapporto di forze in campo: su 489 delegati, 300 facevano parte del Partito Socialdemocratico e i rimanenti dei vari gruppi della sinistra rivoluzionaria. Dal punto di vista di coloro che prendevano come unità di misura il numero delle schede elettorali la rivoluzione era esclusa: i socialdemocratici erano in schiacciante maggioranza e ciò avrebbe permesso un avvicinarsi graduale al potere politico; i raggruppamenti di sinistra rifiutavano il riformismo, ma erano ugualmente influenzati dai numeri. Gli unici che valutarono la situazione senza badare a maggioranze e calcoli democratici furono gli spartachisti.
Fra il 4 e il 6 gennaio 1919 l'insurrezione guidata dalla Lega Spartachista contro il governo socialdemocratico vide occupate le sedi dei principali giornali, combattimenti di strada, scioperi di solidarietà in tutta la Germania. A Brema fu proclamata una Repubblica dei consigli. Tentativi insurrezionali furono fatti nella Ruhr. A Essen il consiglio operaio deliberò la "socializzazione" dell'industria carbonifera. Il governo, di cui era ministro della Guerra il già ricordato Noske, mobilitò l'esercito affiancandogli i corpi franchi controrivoluzionari. Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht furono arrestati e assassinati il 15 gennaio. Il 7 aprile fu proclamata la Repubblica dei consigli, schiacciata dopo meno di un mese. Il 13 gennaio 1920, a Berlino, fu repressa un'insurrezione. I rivoltosi lasciarono sul terreno 42 morti. In tutta la Germania, nei due anni cruciali, si armarono almeno 500.000 operai di fabbrica organizzati, non solo comunisti ma anche socialdemocratici, questi ultimi disattendendo le direttive del loro partito.[6]
La gigantesca controrivoluzione preventiva si stava dispiegando. Voluta o meno da una borghesia impaurita e confusa, ma anche determinata, stava vincendo. La fibrillazione sociale nei massimi paesi d'Europa, aggravata dalle notizie che circolavano senza troppi controlli rispetto agli avvenimenti reali,[7] aveva contribuito a radicalizzare sempre più la politica interna italiana. La confusione era tanta, ma una certezza c'era, ed era quella di una rivoluzione imminente che, partita dalla Russia, avrebbe incendiato l'Europa attraverso la Germania. La vittoria sovietica contro le armate controrivoluzionarie nella guerra civile lasciava presagire un estendersi quasi automatico della rivoluzione. L'Armata Rossa stava diventando una leggendaria forza internazionale invincibile, non solo per le popolazioni ma anche per i governi. La Francia avrebbe voluto una coalizione militare contro la Russia; l'Inghilterra premeva per il suo coinvolgimento nell'economia di mercato come antidoto alla febbre rivoluzionaria; l'Italia e la Germania erano per un riconoscimento che permettesse al tempo stesso un contenimento politico e un'apertura per gli affari; la Polonia attaccava con l'esercito in Ucraina; gli Stati Uniti auspicavano accordi bilaterali per lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo. Nessuno era indifferente né avrebbe potuto esserlo.
Del resto, come scriverà Trotskij nel maggio del 1920, il movimento materiale che spingeva masse di proletari alla rivolta "è oggi infinitamente più rivoluzionario della loro coscienza, sulla quale pesano ancora i pregiudizi del parlamentarismo e del socialismo dei conciliatori". Non per nulla la Sinistra Comunista "italiana" auspicava che si togliesse di mezzo l'illusione parlamentare al fine di liberare il campo alla rivoluzione, portando avanti a questo proposito una battaglia da alcuni (tra cui lo stesso Lenin) giudicata estrema. La critica si dimostrerà del tutto infondata. Perché, come proprio Lenin aveva ben sottolineato, se in Russia era stato relativamente facile prendere il potere ma sarebbe stato difficile conservarlo, in Occidente sarebbe successo il contrario. Era perciò più che mai indispensabile che ci si rendesse conto prima dell'assalto al potere, programmaticamente, della necessità di un rigore moltiplicato. In effetti gli eventi stavano a dimostrarlo: tutto l'armamentario borghese, dall'ideologia agli eserciti, dalla "cultura" al riformismo, era mobilitato contro la rivoluzione. Intanto da parte del PSI, un partito ormai definitivamente strutturato per l'elezionismo, e quindi per i "blocchi" che appunto servono per fare numero nelle contese a conta dei voti, si inneggiava ipocritamente alla dittatura del proletariato come sbocco inevitabile della situazione contingente.
Il banco di prova
Nel 1919 la Russia era ancora il modello di riferimento e lo rimarrà per tutto il biennio. L'Armata Rossa aveva ormai dato il ritmo alla rivoluzione in quell'immenso paese e la possibile internazionalizzazione della guerra civile impediva al partito bolscevico di allentare la tensione teorica. I sintomi di un cedimento si manifestarono però già con il Congresso di fondazione della III Internazionale che si tenne in primavera; ma gli eclatanti avvenimenti internazionali oscurarono l'affermazione della politica frontista che stava alla base di questo incontro fra partiti e gruppi del tutto incompatibili. Comunque, come avrebbe sottolineato Trotskij l'anno successivo, il movimento reale, internazionalista e robustamente influenzato dalla classe operaia, sopravanzava le "coscienze" dei singoli. Il risultato fu un periodo intenso di produzione teorica rivoluzionaria, sfociato nel II Congresso dell'Internazionale, definito dalla nostra corrente "un culmine e una svolta". Culmine per la suddetta produzione teorica e per la visione tattica fermamente internazionalista; svolta per il fatto che dopo di allora a quel livello né il partito bolscevico, né l'Internazionale ebbero la forza di ritornare.[8] Dal punto di vista dell'appoggio che il proletariato internazionale avrebbe potuto fornirle, la Russia restava oggettivamente isolata. La guerra civile contro i residui dell'assolutismo zarista era ormai vinta, anche se permanevano sacche di resistenza appoggiate dalle potenze imperialiste con armi e capitali. Sgombrato il campo dalla obbligata difesa contro il ritorno del vecchio regime, diventava necessario impostare la difesa contro l'aggressività rinnovata dei maggiori paesi imperialisti ringalluzziti dalla vittoria bellica. Era chiaro che una guerra contro la Polonia, che nel 1920 aveva attaccato e occupato regioni ben più vaste di quelle rivendicabili "etnicamente" secondo i trattati internazionali, era anche una guerra contro la Francia che appoggiava pesantemente la Polonia con capitali, armi pesanti e persino aeroplani. Così era altrettanto chiaro che le ultime battaglie contro le armate bianche erano guerre contro l'Inghilterra e tutti gli altri sponsor della controrivoluzione.
Sullo sfondo del Biennio Rosso la Russia ricordava nello stesso tempo sia la spinta internazionalista, e quindi la possibilità di esportazione della guerra civile rivoluzionaria, sia l'impotenza oggettiva del proletariato occidentale di fronte alla necessità di una saldatura al di sopra delle frontiere. Era evidente che solo un coordinamento delle forze poteva contrastare efficacemente la reazione borghese, ma non c'era un solo partito socialista o comunista europeo che volesse o potesse affrontare il problema. Non era nel DNA di tali partiti organizzarsi per la conquista del potere e tantomeno per mobilitare il proletariato in difesa della rivoluzione russa vittoriosa in vista della rivoluzione in casa propria. Perciò questa situazione ibrida, di una rivoluzione internazionalista che è costretta a rimanere in ambito locale; del proletariato occidentale che si ribella in sintonia con il "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" ma è costretto dalla tradizione socialdemocratica a non "fare come la Russia", non poteva che produrre uno stallo oggettivo nonostante le dichiarazioni soggettive sulla guerra di classe, sulla dittatura del proletariato, ecc. ecc.
Il fallimento dell'esperienza frontista ungherese non ricevette particolare attenzione da parte socialista e comunista, anche se proprio l'evidente responsabilità della socialdemocrazia rispetto al disastro avrebbe dovuto mettere in guardia contro gli sviluppi del divario fra proclami e reale impegno classista rivoluzionario. La caduta del governo dei consigli di Bela Kun e l'avvento del governo paramilitare di Horthy anticipavano, nel 1919-20, ciò che sarebbe successo in tutto il mondo nell'epoca fra le due guerre.
Il banco di prova rappresentato dal Biennio Rosso, del resto, non solo offriva numerosi esempi di incongruenza e inadeguatezza del Partito Socialista di fronte a una svolta politica, ma anche di fronte alla difesa immediata delle condizioni di vita degli operai: il vertice massimalista del partito, invece di assecondare il vasto movimento contro il carovita che durava da mesi, generalizzato e quindi tendenzialmente politico, lo lasciò all'esclusivo controllo dei sindacati, i quali, diretti anch'essi da riformisti, lo incanalarono in mille rivoli invece di elevarlo a sciopero generale di tutte le categorie, colpite allo stesso modo dalla disoccupazione e dall'erosione dei salari.
Destri, sinistri e "bravi operai"
Gli ultrariformisti del PSI erano i diretti discendenti del trasformismo italiano. Da una parte, ovviamente, escludevano la via dello scontro radicale con la borghesia fino allo sbocco insurrezionale. Con fiuto elettoralesco capivano che la situazione sarebbe stata a loro favorevole sia a causa del tentennamento massimalista, sia a causa delle mutate e promettenti regole elettorali a partire dall'estensione del suffragio. I vecchi volponi del socialismo italico sapevano benissimo che potevano contare su di una tradizione antica della politica italiana, in fondo il trasformismo parlamentare era stato inventato qui. Sapevano benissimo che non era il caso, di fronte ad un forte movimento di piazza, di presentarsi come irriducibili riformisti, parenti di quelli austriaci, tedeschi o peggio che mai francesi. Se propugnavano l'uso delle istituzioni borghesi per la difesa dei diritti proletari, non escludevano però la nascita di organismi nuovi, come in Russia, utili al passaggio graduale a una società senza classi. E qualcuno di loro non escludeva addirittura il passaggio, temporaneo e condizionato, della dittatura del proletariato. In questa versione anticipata della "via italiana al socialismo" la violenza non era esclusa, ma solo come risposta alla violenza della borghesia, che sulle piazze sparava uccidendo gli operai e i braccianti. Sicuri che i massimalisti non avrebbero mai rotto il partito per staccarsi da loro, i riformisti tiravano la corda a loro vantaggio. Persino Treves, riformista a oltranza, mentre traeva insegnamenti riformisti e gradualisti dal fallimento degli scioperi indetti in solidarietà con la Russia sovietica, aveva inneggiato alla Rivoluzione d'Ottobre. Insomma, per i riformisti il socialismo italiano era così versatile da permettere non una sola via al potere ma molte, utilizzabili simultaneamente, senza escludere a priori l'uso della forza non solo in risposta alla violenza borghese ma addirittura in attacco. Perciò, a difendere il riformismo tale e quale, senza mascherature dettate da opportunismo immediatista, rimaneva il solo Turati.[9]
I massimalisti, cioè gli aderenti alla Frazione rivoluzionaria intransigente che erano stati eletti alla direzione del partito e controllavano l'Avanti!, rappresentavano il fenomeno trasformista allo stato puro. Non nel senso che cambiassero abito politico, ma nel senso che ne indossavano due. Serrati, il quale parteciperà al II Congresso dell'Internazionale Comunista offrendo l'adesione del partito socialista a quello che avrebbe dovuto essere il partito comunista mondiale, era il portavoce di una maggioranza congressuale che se da una parte rifiutava la via elettorale al socialismo perché ciò avrebbe comportato un blocco dei socialisti con forze politiche ritenute incompatibili, dall'altra rifiutava un chiarimento interno con i riformisti che incompatibili erano di sicuro. A meno che non si approfondisse la vera natura di tutti gli schieramenti, operazione che avrebbe rivelato molta meno incompatibilità di quanto ognuno di essi sostenesse esserci. Vedremo più avanti che il problema della percezione non è un'idea peregrina ma una realtà effettuale: nel Biennio Rosso si scontravano forze che, pur provocando sparatorie e morti, tutto sommato non erano troppo diverse dal punto di vista di una anatomia condotta materialisticamente. I massimalisti dicevano di schierarsi completamente dalla parte della rivoluzione russa e ne avevano effettivamente adottato persino il linguaggio, ma l'adesione era del tutto platonica. Non avevano idea di che cosa fosse una dinamica storica che porta due modi antitetici di produzione a scontrarsi attraverso uomini e organizzazioni costretti a schierarsi per l'una o per l'altra forma sociale. Non esisteva nessuna possibilità di azione conseguente rispetto a… un programma che non c'era.
Come diavolo si sarebbe potuto agire per la rivoluzione senza abbandonare l'atteggiamento politico e la struttura adatti esclusivamente al confronto elettorale era un mistero. Così come era un mistero la difesa a oltranza dell'unità del partito, appesantito fino all'impossibilità di muoversi in una situazione fluidissima e gravida di incognite ad ogni passo (oggi parleremmo di "biforcazioni all'interno di un sistema caotico"), che richiedeva sollecite scelte non improvvisabili. L'ala riformista e l'ala sindacale che da essa derivava rappresentavano infatti non solo zavorra, come a volte si è detto, ma forze potenti che lavoravano al sabotaggio di ogni (rara) decisione in grado di avvicinare le masse allo sbocco rivoluzionario. Si esaltava l'azione, si inneggiava magari allo "sciopero generale espropriatore", ma da parte di chi meno agiva e che di fronte a scioperi assai meno che espropriatori tentennava, accampando il pretesto che gli operai non avrebbero capito o non avrebbero seguito.
In realtà gli operai capivano benissimo la necessità degli scioperi e seguivano con slancio le indicazioni di coloro che credevano loro capi responsabili e preparati. Probabilmente capivano assai meno il comportamento di una "Frazione rivoluzionaria intransigente" che si autodefiniva anche, sull'onda della rivoluzione in Russia, "Frazione comunista elezionista", che aveva iniziato a pubblicare il quindicinale Comunismo, Rivista della III Internazionale. Tutti sapevano che gli anti-elezionisti, in Italia, erano i comunisti che chiedevano di separarsi dai socialisti, ma la confusione non impediva che gli operai seguissero le indicazioni del loro partito e, mentre lottavano duramente, fossero abbagliati dall'illusione elettorale. Il massimalismo era peggiore del riformismo e del sindacalismo collaborativo. L'atteggiamento di difesa tenuto da Serrati e dalla sua corrente nei confronti di riformisti e sindacalisti era un oggettivo sbarramento nei confronti della chiarificazione necessaria in ogni rivoluzione. E purtroppo la mistificazione era contagiosa, si diffondeva nel partito, sanciva metodi che si cristallizzeranno poi lungo la storia e che ci troviamo tra i piedi anche oggi.
Come se non bastasse, all'interno del PSI s'era fatta strada un'altra di quelle concezioni che ancora oggi ammorbano l'ambiente e che rivitalizzò la corrente "culturalista" contro la quale la Sinistra aveva già lottato prima della guerra: le emanazioni del partito e del sindacato nelle fabbriche avrebbero dovuto adeguarsi al vecchio programma socialista riguardo alla "cultura" proletaria. I vari esponenti di questa corrente, in parte gli stessi di qualche anno prima, sostenevano che le difficoltà del proletariato a riconoscersi come classe e ad agire di conseguenza derivavano dalla sua scarsa "preparazione", per cui, all'interno del Partito Socialista le sezioni, e specialmente la federazione giovanile, avrebbero dovuto assumersi il compito di "preparare" gli operai alla gestione del potere. Anche dopo la guerra, in pieno marasma sociale, vi era chi ripeteva come un ritornello questo assunto curioso. Graziadei era uno di questi e non mancava di ricordare in ogni occasione quanto il proletariato fosse "arretrato" di fronte alle necessità della rivoluzione. E per rivoluzione intendeva naturalmente un mero scambio di posto fra la borghesia e il proletariato. Non c'era voluto molto tempo affinché questa specie di teoria dell'arretratezza diventasse un programma politico. Gramsci se ne era fatto portavoce, strutturando il discorso sulla necessità per l'operaio di conoscere il ciclo produttivo in modo che si potesse fare a meno dei capitalisti. Le commissioni interne avrebbero dovuto plasmarsi sul sistema di fabbrica, l'intero sindacato avrebbe dovuto trasformarsi da "scuola di guerra" a scuola tout court, dove i proletari avrebbero imparato a gestire la fabbrica come in un corso di management. Per Gramsci occorreva "dare al massimalismo un contenuto concreto, un carattere realizzatore" affinché potesse offrire al proletario una sorta di abilitazione gestionale utile alla sostituzione della classe dei capitalisti, a partire dalla conquista di "posizioni di vantaggio", dalle quali avrebbe ricavato "quel senso di dignità che noi consideriamo un elemento essenziale della sua personalità e anche della sua capacità a produrre". Può sembrare un delirio: con quello che stava succedendo in Russia, Germania, Austria, Francia, Ungheria, nella stessa Italia ecc. ecc., qui ci si trastullava con le "posizioni di vantaggio" da conquistare con i consigli operai e contadini, "gli elementi più caratteristici e più originali del movimento comunista", mentre il partito avrebbe dovuto trasformarsi in un organo tecnico "col compito principale di coordinare praticamente l'opera dei vari enti socialisti". Dignità, personalità, capacità di produrre. Il partito politico, guida nella rivoluzione, è scomparso. La classe, che per Marx poteva riconoscersi tale solo attraverso il partito, è ridotta al rango di autonoma struttura di produzione. Proudhon, soddisfatto, applaude dalla tomba.
Invece di trarre lezioni dal movimento materiale crescente, l'opportunismo di ogni risma traeva forza da esso immaginando di essere ideologicamente alla sua guida. E il movimento, generosamente, offriva energia sufficiente a coltivare tale illusione:
"Dall'inizio del 1919 in poi fu una vera ubriacatura. Ci si trovava in ogni piazza d'Italia in centomila; la stampa socialista e rivoluzionaria andava a ruba; le sottoscrizioni pei giornali sovversivi raggiungevano somme prima reputate favolose. I partiti proletari, specialmente il socialista, e le unioni di mestiere diventavano numerosissimi, pletorici. Tutti parlavano di rivoluzione; ed effettivamente la rivoluzione aveva il consenso del maggior numero, e gli stessi avversari vi si acconciavano. Le elezioni del novembre 1919, fatte su programma estremista, quadruplicarono il numero dei deputati socialisti e, sconfiggendo i partiti della guerra, portarono l'ubriacatura al delirio. Ma la rivoluzione non veniva".[10]
Astensionismo? Condizione necessaria ma non sufficiente
Della differenza fra l'astensionismo (ad esempio degli anarchici) e un programma politico che prevede l'inutilità e anzi il pericolo della partecipazione alle elezioni ha già parlato la Sinistra in molte occasioni e non è il caso qui di riprendere il discorso. Lenin, è noto, criticava l'astensionismo in quanto atteggiamento infantile di fronte a un fatto specifico – la partecipazione dei comunisti al parlamento – che non avrebbe avuto ripercussioni negative su individui e partiti a patto che essi fossero stati in grado di non farsi coinvolgere e avessero dato battaglia per la distruzione del feticcio democratico dal suo interno. La formula è impeccabile: "a patto che si vada in parlamento per distruggerlo". Il guaio è che Lenin parlava della Russia appena sfiorata dalla democrazia e non poteva capire quanto fosse verminosa la soluzione parlamentare in Occidente, dove la democrazia era ormai una vecchia meretrice rotta ad ogni espediente. E infatti la Sinistra presentava la rivoluzione come alternativa alla battaglia schedaiola, le due tattiche non si potevano sovrapporre. Insomma, o si agiva sul terreno dell'avversario per conquistare un suo strumento, oppure si abbandonava clamorosamente il metodo del confronto democratico a favore di quello rivoluzionario. In Occidente non si potevano fare compromessi: l'alternativa era secca. Tra l'altro non discendeva da una qualche specie di principio, era semplicemente un'esigenza pratica.
Non essendo una questione dai grandi risvolti teorici, l'elezionismo in sé non fu al centro delle critiche della Sinistra e nemmeno del suo programma. Il fatto è che l'elezionismo, nel programma socialista sostituiva l'insurrezione. La parte maggioritaria del partito, che comprendeva come tutto unico sia la corrente "comunista elezionista", sia quella riformista, fu dunque bombardata non tanto con una diversità di vedute sul parlamento quanto con l'artiglieria pesante di una valutazione materialistica dei fatti (che producevano posizioni e conseguenze politiche precise), con una capacità di previsione che altri non possedevano, dato che procedevano "a vista", sempre più orientati dalla percezione e sempre meno legati alla realtà. L'astensionismo passava in secondo piano: la Frazione comunista aveva fatto circolare in vista del congresso un documento in cui ribadiva la piena adesione al programma rivoluzionario marxista e dichiarava di dare battaglia in sua difesa sia contro il riformismo che contro l'anarchismo sindacalista, due facce della deviazione dal programma in grado di attaccarlo dall'interno, come del resto era evidente proprio nel corso di eventi così eclatanti.
Si ribadiva inoltre una considerazione di estrema importanza: per essere in regola con la rivoluzione occorreva non solo prevederne lo sbocco in una nuova società, ma sapere quale sarebbe stato l'intero percorso per giungervi, compatibilmente con i problemi dovuti al differente sviluppo delle aree geostoriche del mondo. Occorreva dunque una lucidità che mancava a chi, folgorato dalla percezione di un cambiamento che non capiva, non sapeva far altro che ripetere "bisogna fare come la Russia", "dittatura del proletariato ed "espropriare i padroni".
Riformismo (destro o massimalista che fosse) e anarchia erano entrambi inadeguati di fronte ai problemi posti dalla dinamica delle rivoluzioni. Su questo terreno, ragionando col senno di poi, diciamo che i partiti del proletariato e della borghesia non corrispondevano più a ciò che erano nella grandiosa struttura del marxismo di mezzo secolo prima. Chi si poneva alla guida del proletariato aveva bellamente fatto a meno della struttura teorica; ma anche chi rappresentava la borghesia non si accorgeva che questa classe aveva fatto a meno di rivoluzionare continuamente il proprio modo di produrre (Il Manifesto). Finita la guerra, era diventata immediatamente visibile la faccia reale del capitalismo giunto alla sua fase imperialista: il capitale finanziario non era più quello descritto da Hobson e Hilferding, cioè capitale che raggruppava altro capitale per alimentare il sistema del credito al quale l'industria attingeva; era invece in mano ai profittatori di guerra, agli speculatori, ai truffatori. Non era una questione di moralismo bensì di storia di un modo di produzione che diventava sempre più vecchio e decadente, quindi corrotto nei suoi stessi meccanismi un tempo ben lubrificati e funzionanti. Se la borghesia, si dice in una articolo,[11] deve riformare continuamente il proprio sistema, per farlo ha bisogno che i partiti riformisti che si richiamano al proletariato partecipino al parlamento perché quello è l'organo legislativo, là si fanno le leggi e là serve l'aiuto.
Questa totale decadenza e questo assoluto non-funzionamento di un sistema intero non poteva che produrre nel cervello degli uomini un'esigenza acuta di cambiamento cui però non corrispondeva, come abbiamo visto, una guida per andare altrove:
"Noi affermiamo che è aperto il periodo rivoluzionario, internazionalmente considerato, perché la guerra mondiale, crisi terribile del regime borghese, ha messo il proletariato dinanzi alla formidabile antitesi storica: o democrazia borghese, ossia imperialismo e militarismo, o dittatura proletaria internazionale. È ingenuo dire che il periodo rivoluzionario in Italia non è aperto; se l'insurrezione fosse nelle vie, l'azione elettorale cadrebbe da sé. Ma noi parliamo di periodo rivoluzionario perché penetrati del dilemma: o la dittatura proletaria diviene internazionale nell'attuale fase storica, o anche la Russia tornerà sotto le catene della democrazia capitalistica. L'opera dei partiti comunisti, di coloro che vogliono seguire e salvare la Russia al tempo stesso, consiste nel preparare il proletariato dei singoli paesi all'urto contro lo stato borghese, creando in esso la consapevolezza politica e storica della necessità che il programma comunista, il processo della rivoluzione proletaria, si realizzi in tutte le sue fasi. Il fondamento di questa consapevolezza è il concetto della dittatura proletaria, a cui il proletariato deve prepararsi; e l'arma più formidabile della conservazione borghese contro di essa è la diffusione della ideologia e del metodo socialdemocratico. Convinti di questa antitesi [...] i partiti comunisti devono diffonderne la coscienza, come dicono le conclusioni di Mosca, nelle più larghe masse del proletariato. [Vi fu un tempo in cui ci si lanciava a] criticare l'ordine capitalista più che precisare la via per giungere all'ordine nuovo, comunista. Oggi che la rivoluzione iniziata ci pone sull'orlo di questo problema e ne dà una soluzione per noi classica: insurrezione per la conquista del potere politico, dittatura del proletariato — l'azione elettorale non è più un terreno di propaganda, perché il fatto della partecipazione concreta alla democrazia rappresentativa distruggerebbe ogni propaganda per la dittatura proletaria".[12]
La distruggerebbe, perché la propaganda per la dittatura del proletariato diventerebbe cosa del tutto astratta di fronte alle prove concrete date in parlamento da deputati impegnatissimi nel loro compito istituzionale. Fuori del parlamento si aggravava una situazione di subbuglio estremo. Aumentavano i morti e i feriti negli scontri e ci si scontrava perché aumentavano i morti e i feriti. Tutti erano impotenti di fronte alla contraddizione: i parlamentari… parlamentavano e i proletari morivano ammazzati dal piombo della polizia, dei carabinieri, dei soldati, della guardia regia da poco istituita. Si percepiva una situazione rivoluzionaria ma si diceva che non era ancora insurrezionale. Ciò era evidente anche alla Sinistra: se ci fosse all'orizzonte una insurrezione, diceva, non staremmo qui a disquisire su elezioni e parlamento. Ma aggiungeva una considerazione fondamentale: guai a quel partito che, prevedendo l'insurrezione, agisse in contraddizione con essa. In un periodo rivoluzionario non si può avere nello stesso tempo una tattica elettoralista e una insurrezionale di riserva. Rispetto alla conquista violenta del potere, alla dittatura proletaria di cui tanto si parlava, la tattica delle riforme graduali applicata fino a quel momento era, e si era dimostrata, fuori luogo. Il biennio cruciale non era l'apertura di un periodo storico di lotta fra classi, fra borghesia e proletariato. Un periodo del genere era aperto da decenni ed era internazionale, non italiano; semmai esso stava per chiudersi con lo scontro decisivo e questo andava preparato. Il partito doveva avere una tattica precisa per tutta la durata di tale preparazione. Nei momenti di massima tensione sociale lo sforzo supremo di contribuire allo scatto in una società nuova non può essere sminuito da comportamenti contrastanti con questa finalità.
"Mentre la borghesia si accinge a iugulare le repubbliche Sovietiche, alle elezioni si arriverà, e mentre il sacrificio e l'onore di salvare la rivoluzione resterà tutto ai proletari russi e ungheresi che senza rimpianto versano il proprio sangue, fidando in noi, noi condurremo al simposio Montecitoriale un centinaio di onorevoli eroi della incruenta pugna elettorale, nell'allegro oblio di ogni dignità e di ogni fede che danno le orge schedaiole".[13]
I soviet e il cambio di paradigma
Una infallibile cartina di tornasole per ogni organismo sociale che pretenda di rappresentare il movimento rivoluzionario che va dal capitalismo al comunismo, è la concezione dell'organizzazione che guida questo passaggio. Partito, sindacato e soviet sono al momento i tre aspetti, non ancora superati, tramite i quali la rivoluzione si interfaccia, diciamo così, con l'umanità in lotta. La Sinistra comunista ha sempre misurato i suoi avversari attraverso la loro capacità di anticipare il futuro sulla base della funzione che attribuiscono agli organismi del presente. Per elevarsi al di sopra della società presente occorre infatti sintonizzarsi sulla società del futuro. Non è in gioco solo la concezione del partito, ma anche quella del sindacato e del soviet in quanto potenzialmente influenzabili dal partito.
Qualunque società, purché in transizione di fase, produce gli organismi adatti richiesti dalla rivoluzione. Ovviamente, se si tratta di vera rivoluzione, sono organismi che rappresentano l'anti-forma e non la ri-forma, come abbiamo visto all'inizio. Al 1919 la Sinistra non aveva ancora precisato quale sarebbe dovuta essere la struttura del partito rivoluzionario per meritarsi l'appellativo di organismo anti-forma, ma aveva le idee molto chiare su cosa non sarebbe dovuta essere; il che, come negazione, valeva un'affermazione. Il partito non avrebbe dovuto basare la propria organizzazione sul principio democratico;[14] avrebbe dovuto anticipare nei suoi rapporti interni la società futura; sarebbe nato e si sarebbe sviluppato con la nascita e lo sviluppo di uno scontro epocale fra le due grandi classi del capitalismo; la sua esistenza avrebbe permesso alla classe proletaria di agire in quanto classe per sé e non solo di esistere in quanto classe in sé. L'antica diatriba sulla dittatura del proletariato, che per i comunisti era ed è sinonimo di dittatura del partito, non avrebbe più avuto senso: il partito della rivoluzione non sarà un partito fra tanti che si contendono il potere ma rappresenterà il superamento delle classi e, con la loro estinzione, si estinguerà, così come si estinguerà lo stato che è, appunto, un organo di classe.[15]
Il sindacato e il soviet sono organismi nati nel corso dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, il primo per la difesa delle condizioni immediate dei lavoratori, il secondo in un momento di transizione di fase, quando lo scontro richiede il superamento della lotta rivendicativa e si impone una soluzione politica. Il soviet non può essere, come invece affermava una corrente del socialismo non solo italiano, un agente della trasformazione economica intesa come base per la trasformazione politica. Non a caso il periodico della Sinistra Comunista, intitolato appunto Il Soviet, chiedeva provocatoriamente ai sostenitori del gramsciano Ordine Nuovo: "Prendere la fabbrica o prendere il potere?". Il soviet è un organismo politico che nasce come collegamento fra il partito e il proletariato nel corso della lotta per il potere, e non va scambiato in nessun modo per un organismo di trasformazione economica prima che detto potere sia in mano proletaria. Solo dopo diventerà una struttura capillare per la trasformazione economica. La metafora leniniana sugli organismi intermedi come "cinghia di trasmissione" tra il partito e la classe non va interpretata alla maniera anarchica, come prevaricazione da parte del partito che li "usa" per consolidare il proprio potere. E non c'entra nulla con la funzione tipica dei sindacati e peggio che mai con le commissioni interne. I primi sono almeno strumenti generali di lotta, anche se tradizionalmente suddivisi per categorie, le seconde sono invece dei semplici sub-organismi sindacali non solo di categoria ma di azienda.
Nel marasma economico e politico del Biennio Rosso era una follia aggiungere alla confusione fra riformisti-riformisti, riformisti-massimalisti, culturalisti, anarchici, arditi, dannunziani, fascisti, popolari ecc. ecc. anche una teoria pretesa comunista sulla via aziendale al potere politico. Il soviet aveva già tagliato la testa al toro: formato da soli proletari o da transfughi di altre classi, aveva superato ogni legame con l'azienda, con la lotta rivendicativa immediata, persino con il sistema privato d'industria. Il "consiglio di fabbrica" era irrimediabilmente inadeguato agli scopi della rivoluzione. Collocandosi all'interno del sistema nell'illusione di farlo evolvere, era un elemento di ri-forma invece che di anti-forma. I soviet erano molto di più che non consigli di fabbrica, e questi ultimi non si potevano confondere con i soviet. Attribuendo loro una funzione che non potevano svolgere, essi venivano incanalati da chi li dirigeva verso sbocchi anti-partito. In Germania gli spartachisti, pur conservando venature democratiche, avevano dovuto combattere concezioni consigliari secondo le quali la rivoluzione avrebbe marciato indipendentemente dalla funzione del partito o addirittura contro di esso. Su questo terreno vi era stata una saldatura automatica con la Sinistra Comunista "italiana": entrambe le correnti concordavano sul fatto che "la rivoluzione non è una questione di forma organizzativa ma di forza".[16] In Russia i soviet poterono diventare un'arma della rivoluzione solo con la loro conquista da parte del partito; cosa che non era successa in Ungheria e in Germania, con i catastrofici risultati che ne seguirono e che influenzarono la politica dei vari partiti a proposito della tattica del fronte unico.
Fiume o della confusione rivelatrice
Dato che i fatti avevano coinvolto praticamente tutte le componenti sociali, l'impresa di Fiume, che dal settembre del 1919 al dicembre del 1920 si sviluppò in parallelo al Biennio Rosso, avrebbe potuto rappresentare una fonte utile per mettere in evidenza i sintomi specifici della rivoluzione/controrivoluzione. Invece fu una ulteriore fonte di confusione. Era evidente che la borghesia aveva un controllo relativo sulla situazione sociale. L'insubordinazione militare e la commistione di elementi politici diversi, anche posti agli estremi degli schieramenti e veicolati da personaggi e gruppi di varia provenienza, dimostravano uno scivolamento progressivo dalla tensione rivoluzionaria alla normalizzazione riformista, che sarebbe arrivata con il fascismo e il suo socialismo nazionale. Le borghesie nazionali erano in crisi a livello internazionale e alcuni rappresentanti del socialismo internazionale erano infognati in diatribe nazionali a fianco degli irredentisti. Il clima che rese possibile l'impresa di Fiume andava al di là delle aspirazioni imperialistiche dell'Italia sulla Dalmazia, la cui soddisfazione era stata oggetto del trattato segreto di Londra del 1915. La Vittoria Mutilata faceva parte dello scenario sul cui sfondo non si profilava la normalizzazione promessa ma lo scontro fra nazioni e classi. Il movimento dannunziano si era sviluppato a partire da un vuoto politico derivante in parte dalle non risolte questioni post-belliche, ma in parte anche e soprattutto da un inconcludente carosello intorno alle politiche parlamentari, che comprendevano la fuorviante diatriba pro o contro l'elezionismo. D'Annunzio non era altro che il portavoce, peraltro assai debole, delle classi fantasma, delle loro paure e perciò della loro ricerca di sicurezza.
Così, mentre d'Annunzio saggiava il terreno fra gli alti gradi dell'esercito, all'interno dello schieramento socialdemocratico si incominciò ad agitare lo spettro di una dittatura militare. Ciò non era del tutto inverosimile. I soldati in missione di polizia iniziavano a dare segni di insofferenza per l'ordine di reprimere le manifestazioni ad ogni costo, mentre i reparti speciali della guardia regia e la polizia non erano sufficienti. La maggior parte dei morti era provocata dai carabinieri, ma anche su questo versante il lavoro di macelleria incominciava a produrre effetti, specialmente sulle nuove reclute arruolate con bando straordinario contro la sovversione.
Purtroppo di sovversione non era il caso di parlare. La Sinistra ebbe buon gioco nel dimostrare che la dittatura c'era già ed era propriamente di carattere militare. Ricordò gli ordini ricevuti dalle truppe in luglio: sparare per uccidere in ogni occasione di radicalizzazione dello scontro. Non erano cambiate le leggi di guerra; Nitti anzi le aveva fatte applicare alla lettera, per cui anche se fosse caduta la "vernice parlamentare della dittatura borghese", nulla sarebbe cambiato nell'azione dei rivoluzionari, mentre sul versante controrivoluzionario la caduta della maschera democratica "sarebbe stato un vantaggio per la causa della rivoluzione proletaria".
Dunque nessun piagnisteo per la violata democrazia ma risposta adeguata e organizzata. Nessun cedimento di fronte alla "minaccia fascista" ma consapevolezza della forza del proletariato contro sparuti gruppi di bastonatori e preparazione militare conseguente. Nella primavera del 1919 i neonati Fasci di combattimento avrebbero potuto essere messi in condizioni di non nuocere. Ma la preparazione esclusivamente elettorale escludeva un'ipotesi del genere. Di fronte alla complessa composizione di classe dei protagonisti dell'impresa fiumana i massimalisti tennero una posizione del tipo "Né aderire, né sabotare" già collaudata a proposito dell'entrata in guerra, mentre i riformisti, tramite Turati, adoperavano gli eventi sia contro i massimalisti che contro i comunisti, accomunandoli:
"Ogni passo che voi fate sulla via per la quale vi siete messi, è un passo che fate verso il bolscevismo [...]. Voi lavorate per esso: noi resistiamo ad esso e a voi […] perché se le opposizioni andassero al ministero, andremmo incontro non ad una crisi ministeriale, ma ad una crisi di regime, andremmo verso il bolscevismo".[17]
Ovviamente passi verso il bolscevismo non se ne vedevano proprio. Dal lato dei riformisti di destra e di sinistra, perché essi aderivano al corso del pensiero dominante anche su Fiume; dal lato dei comunisti, perché quella che chiamarono baruffa tra governativi e nazionalisti non aveva alcuna possibilità di generare svolti eclatanti nella confusa situazione. In fondo la sbandierata italianità di Fiume era solo uno scenario per il vero nodo della politica corrente: chi avrebbe vinto le elezioni e come. D'Annunzio e coloro che l'avevano seguito non erano riusciti a capirlo e, puntando su gesta eclatanti, si erano dimostrati dei volgari attivisti. Sotto le bandiere del parlamentarismo, disse la Sinistra, non esistono soluzioni estreme, in nessun ambito. Dentro ai parlamenti si finge semplicemente di scegliere per quale, fra diverse proposte legislative, occorre votare. Ma la sostanza dei provvedimenti per cui si vota proviene sempre dal campo borghese e nessun massimalista al mondo può cambiare questo meccanismo. Disobbedire a un parlamento, come stava succedendo con Fiume, significava riconoscere la validità di un parlamento diverso, o meglio preteso tale. Il problema era distruggere il parlamento e con quali mezzi giungere a tanto, ma su questo punto di lì a qualche anno sarebbero stati ben più avanti i fascisti. Intanto la polizia teneva d'occhio D'Annunzio che al solito era in fibrillazione e minacciava di intervenire con le armi. Oggi si tende a sminuire la portata del piano dannunziano, ma nel clima di allora le forze sociali dovevano fare i conti anche con esso. O almeno, da parte del Partito Socialista si sarebbe dovuto sapere e capire che cosa stava succedendo. Ecco il comunicato del prefetto di Milano al Ministero degli Interni sui movimenti di D'Annunzio:
"Ufficio Cifra n. 22563 - Da Milano li 17/10/920 Ore 16 - arrivato Ore 17 S.E. PRESIDENTE CONSIGLIO MINISTRI - N. 13209 stop In via confidenziale, da persona ben informata, sono riferite le seguenti notizie: D'Annunzio è deciso a marciare nell'interno se un moto bolscevico si effettuasse, ritenendo che in tal caso il Governo non saprebbe fronteggiare opera per debolezza e per avversione, né usare i mezzi estremi di repressione stop Egli è in ciò d'accordo con vari generali ed ex generali, con qualche sottosegretario di Stato, con molti deputati ed un piano organico deve essere già stato preparato stop D'Annunzio non è per la repubblica e resistette sempre alle suggestioni che gli vennero fatte in proposito, ma suo intervento tende anche ad ottenere abdicazione del Re in favore del Duca d'Aosta stop Anche per tale abdicazione D'Annunzio avrebbe il consenso di generali, ufficiali superiori e subalterni stop Si calcola che D'Annunzio disponga oltre che delle forze fiumane, da venti a venticinque reggimenti della Venezia Giulia, Lombardia, Veneto ed Emilia, di artiglierie, di aviatori e se marciasse all'interno essi farebbero causa con lui stop La eventualità della marcia all'interno potrebbe verificarsi assai probabilmente anche nel caso che nelle trattative del Conte Sforza con Trumbic si facessero rinuncie da parte dell'Italia stop In tale eventualità la Dalmazia verrà occupata stop Lunedì sera Mussolini, Pasella, avvocato Aversa e forse Cesana-Rossi, si recheranno a Fiume per trattare del ritorno dei bambini fiumani stop Essi profitteranno della occasione per sentire da D'Annunzio dei particolari sulla attuazione del piano stop. Prefetto Lusignoli".[18]
In ogni studio sulla storia di quel periodo c'è una più o meno lunga elencazione degli scioperi, delle lotte e delle vittime. In effetti il proletariato non si lasciava distogliere dai propri problemi e, almeno sul piano rivendicativo, dimostrava una inusitata capacità di combattimento. Su questa grande capacità, dovuta certo a un periodo rivoluzionario europeo che però stentava a trovare la propria soluzione nel momento rivoluzionario, come vedremo, si fonda il mito del Biennio Rosso.
Preparazione rivoluzionaria, antitesi della forma esistente
Nell’ottobre del 1919, in vista delle elezioni che si sarebbero svolte nel successivo novembre, si tenne l'importante Congresso di Bologna del PSI. Importante perché il suo resoconto ci rivela una somma di atteggiamenti, ognuno dei quali deriva in linea diretta dalla controrivoluzione in corso. Se l'elezionismo fosse uscito vittorioso dallo scontro e dalle elezioni, sarebbe stato "verificato" lo stato di salute del partito, a questo punto in grado – si credeva – di contrastare le forze della reazione e "autorizzato" a gettarsi ancora di più nell'elettoralismo, dato che la violenza si sarebbe resa inutile. Se fosse uscito sconfitto, l'elezionismo avrebbe potuto arginare la disfatta trincerando il partito in difesa istituzionale dello stato senza accettare la provocazione alla violenza.
La possibilità per i socialisti di andare al governo esisteva ed era presa in considerazione dalla borghesia. Alle elezioni di novembre il PSI avrebbe effettivamente conquistato 156 seggi su 508, ma la media delle spinte interne aveva prodotto in anticipo un rifiuto di quell'ipotesi, rifiuto basato sulla convinzione che la rivoluzione fosse alle porte. Bordiga era intervenuto per smascherare soprattutto i massimalisti:
"Da molti compagni ho inteso che essi vogliono fare un ultimo esperimento. Ebbene, sia. Serrati però ha detto che noi siamo fuori della realtà. Non è una obiezione nuova, compagno Serrati, che mi trovo di fronte… Fuori della realtà, ci hanno detto sempre tutti, ma la realtà poi non ha mancato di riconfermare la nostra dottrina ed il nostro metodo. Il compagno Serrati ha dato qui, con argomentazione poderosa, la dimostrazione che oggi la realtà è la rivoluzione. E se la realtà è la rivoluzione, perché noi, che solo in essa vogliamo credere, siamo, compagno Serrati, fuori dalla realtà?"
E sfruttando una distinzione di Graziadei:
"Si veda dov'è la contraddizione. Noi siamo fra due realtà, e Graziadei lo disse nella sua acuta distinzione fra periodo rivoluzionario e momento rivoluzionario. Tutti riconoscono che siamo nel periodo rivoluzionario, ma il momento non è venuto. Il momento non è venuto, ma tuttavia è per esso che bisogna provvedere. Vi sono momenti in cui la realtà si trasforma, e si è fra due realtà e questo momento, caro Serrati, è quello in cui tieni ancora un piede sull'altra riva. Vi sono dei momenti nella storia in cui i partiti, le folle, tagliano i ponti alle proprie spalle per lottare e vincere senza esitazioni".
Qui il resoconto stenografico riporta Applausi, e certamente ve ne furono di sinceri e motivati anche all'esterno della frazione comunista; ma come non osservare che l'entusiasmo per le frasi oscurava quello prodotto dalla rivoluzione materiale? Bordiga ricorse a un'immagine retorica per evocare la tragedia che stava annullando lo slancio proletario che si esprimeva ogni giorno con scioperi e manifestazioni: il gesto eroico di un Pietro Micca può avere un senso sul piano militare contingente, ma nessun esercito potrebbe mai vincere una guerra se nei suoi ranghi vi fossero soltanto dei Pietro Micca.
L'atteggiamento di Bordiga nel primo volume della Storia della Sinistra Comunista è di critica profonda, non tanto alle posizioni contingenti della socialdemocrazia italiana ma alla sua natura e struttura. Egli utilizza come traccia della riunione da cui fu poi ricavato il volume, l'opera di un autore napoletano, Raffaele Colapietra, Napoli fra dopoguerra e fascismo e glossa:
"Il Colapietra fa una sua critica del metodo della sinistra, dicendo da un lato giustamente che per essa si tende a disporre di un partito severamente selezionato che faccia da avanguardia e da stato maggiore della rivoluzione, ma dall'altro obiettando che non si chiarisce come si faccia a fare la rivoluzione. È vero: ancora oggi ammettiamo di non possedere una ricetta per farla, anzi nemmeno per costruire un tale partito; è giusto che la rivoluzione è un risultato della crisi del sistema capitalistico e 'l'importante è che questo risultato non colga impreparato il partito politico'. Sta di fatto che, nel primo dopoguerra, il partito era impreparato e dopo la seconda guerra era addirittura scomparso, o agente in senso controrivoluzionario".
Per gli ideologi dei partiti, di qualsiasi partito, è inammissibile spingersi tanto in là con l'uso del materialismo da negare la funzione della volontà, sia per quanto riguarda il "fare la rivoluzione", sia per quanto riguarda il "costruire" o peggio "creare" il partito che deve dirigerla. Se una cosa precisa ha insegnato il Biennio Rosso è però che i fatti materiali si svolgono indipendentemente dalla volontà di qualsiasi partito di qualsiasi rivoluzione, ma che il partito stesso non può e non deve farsi trovare impreparato di fronte a tali fatti. È evidentemente in gioco la sua capacità, anzi, la sua possibilità di dirigere il movimento rivoluzionario. Figuriamoci se il partito, oltre a essere impreparato, è strutturato per ben altro che per la rivoluzione. Colapietra tenta di porsi all'esterno della diatriba politica e riconosce a Bordiga la lucidità teorica nell'affrontare questo superamento dell'ideologia (anzi, del neo idealismo in quanto parte della filosofia), ma poi annaspa azzardando paragoni con Treves e addirittura Croce. È vero, dice, che la realizzazione di un "ambiente" ferocemente anticapitalista fra operai comunisti va ben al di là del semplice ingentilire il movimento operaio con il ricorso a teorie culturaliste; per cui la lotta contro la "cultura socialista"
"è un passo fondamentale verso l'identificazione tra partito e classe in cui l'humanitas tutta intera del proletariato potrà liberamente dispiegarsi a finalità rivoluzionarie [ma] tale identificazione, naturalmente, porta in sé qualcosa di meccanico, di precettistico, che evita di confrontarsi con la realtà: così dicasi per la pretesa uniformità del movimento operaio rispetto alla varietà irriducibile degli infiniti nazionalismi: una petizione di principio su cui Bordiga ragiona opportunamente in funzione anti-irredentistica ma tiene poi ferma anche oggi, sul piano mondiale, allorché il mito o il pretesto della nazione si rivela ancora così vitale da introdurre scissioni vistosissime nel campo socialista non meno che in quello capitalistico.[19]
È noto che negli anni '50 e '60 Bordiga condusse una battaglia contro l'indifferentismo di fronte alle guerre, in particolar modo quelle di liberazione nazionale. Ed è noto che proprio nel periodo che stiamo analizzando fu attentissimo di fronte alle manifestazioni del nazionalismo sociale, specie quello sfociato nella Carta del Carnaro. Dunque, e non è cosa nuova, si sostiene che la Sinistra abbia avuto le idee chiare in teoria e abbia invece sballato la propria tattica. Come affermiamo comunque da decenni, non può esservi chiarezza teorica senza chiarezza tattica. Bordiga sarà stato un uomo del'800, come dice il Colapietra, ma per noi è evidente che se si ha chiarezza nel capire la situazione si è proiettati nel futuro e non nel passato. E i socialisti ottocenteschi non avevano una teoria compatibile con ciò che stava succedendo nel Biennio rosso. Colapietra si contraddice quando riconosce a Bordiga, contro Lenin, la correttezza dell'opzione storica astensionista, mentre i socialisti ottocenteschi ovviamente erano superparlamentaristi. Addirittura rimprovera a Bordiga di non aver insistito più duramente nell'operazione purificatrice del partito, con tutte le conseguenze sul risvolto militare della rivoluzione possibile. Alla fin fine però sembra riconoscere che il disprezzo per il culturalismo socialista è in linea con le necessità pratiche della rivoluzione. La quale, aggiungiamo noi, è il prodotto di fattori umani e non di teorie filosofiche. In questo Bordiga è in linea con il Marx dell'Ideologia tedesca: non sono le frasi roboanti dei filosofi che rovesceranno il mondo ma sarà il mondo rovesciato da industria, ferrovia e telegrafo, acciaio ad innalzare il proletariato al compito rivoluzionario di becchino della vecchia società.
Scienza, rivoluzione e realtà "percepita"
Se il partito latita, diceva Bordiga, la rivoluzione langue. Oppure, nei periodi di fermento sociale, prende il sopravvento non una vera polarizzazione ma una psicologia di massa come surrogato. Gli eventi sono sempre meno dovuti a decisione di chicchessia e sempre più "automatici". Analizzeremo due esempi, verificatisi uno in un piccolo centro e uno in una grande città, a San Giovanni Rotondo e a Bologna. In entrambi i casi, i fatti si sono svolti come in una "struttura frattale" della dinamica percepita. In entrambi i casi si è scatenata una violenza insensata a causa di un simbolo, la tentata esposizione della bandiera rossa su palazzi pubblici. Ovviamente in seguito al crescere di una tensione dalle origini precise che abbiamo individuato nella lotta fra classi come lotta fra modi di produzione, cui non corrispondeva la "preparazione" del partito.
Il 14 ottobre del 1920, a San Giovanni Rotondo, una cittadina in provincia di Foggia che all'epoca aveva 11.000 abitanti, si scatena l'irrazionale. I socialisti hanno appena vinto una competizione elettorale locale contro una coalizione di popolari, liberali ed ex combattenti. Improvvisano una manifestazione con corteo diretto al municipio. Vogliono insediarsi ed esporre la bandiera rossa sull'edificio. Gli avversari sbarrano la strada gridando "Vietato l'ingresso". I socialisti protestano per questa negazione di un loro "diritto" e fanno appello al commissario di polizia. Il funzionario non risponde. Nasce un tafferuglio che finisce con 14 morti e 80 feriti. È uno dei tanti episodi che in quel periodo succedevano con regolarità, solo più eclatante per quanto riguarda morti e feriti. Ma la dinamica dei fatti nella piccola cittadina aiuta a capire quella delle grandi città, dell'intero paese e anche dell'Europa. Incominciamo dall'epilogo, cioè dai giornali usciti il giorno dopo. Il Corriere della sera ad esempi titola: "Quattordici morti nel conflitto". Sottotitolo: "I socialisti volevano inalberare sul municipio delle bandiere rosse". Molto più tardi, in Storia d’Italia nel periodo fascista, di Salvatorelli e Mira, antifascisti, si scrive: "Non mancarono negli ultimi mesi del 1920 episodi di violenza socialista contro privati e contro la forza pubblica: grave soprattutto verso la metà di ottobre, il sanguinoso conflitto scoppiato a S. Giovanni Rotondo in quel di Foggia". Che cosa capisce un lettore che non conosca i fatti? Capisce che a causa delle bandiere rosse c'è stata una sparatoria fra opposte fazioni con morti dalle due parti. In una guerra civile seria dovrebbe essere così, anche se lo scontro avviene per un simbolo. Invece, mentre i socialisti parlano e straparlano pubblicamente di dittatura del proletariato e sul campo si lamentano per i diritti violati con manifestazioni fini a sé stesse, le forze avversarie (stato e blocchi reazionari) si armano vistosamente e ammazzano. Questa che sembra a tutti gli effetti una palese asimmetria va spiegata.
A San Giovanni Rotondo era schierata una potenza repressiva esorbitante al comando di un funzionario della questura. Oltre a un battaglione di polizia vi erano 30 carabinieri e 100 soldati. Sproporzione enorme rispetto a un innocuo corteo formato da alcune centinaia di socialisti, tanto più che gli schieramenti non erano realmente in sociale antitesi fra loro ma si contrapponevano sulla base della conta dei voti presi. A fiancheggiare la forza repressiva si era schierata una parte dei manifestanti del blocco sconfitto alle elezioni: coloro che non avevano affatto accettato il responso democratico e dissentivano non con chiacchiere ma con revolver, fucili e bombe a mano.[20] Abbiamo quindi da una parte lo schieramento democratico che spara sputacchiando sul risultato della democrazia elettorale, dall'altra lo schieramento altrettanto democratico che manifesta in difesa del suddetto risultato, pacificamente, cioè lasciandosi sparare addosso senza reagire. Questo mentre, nelle occasioni ufficiali, grida a favore della Russia, della dittatura del proletariato, dell'espropriazione dei capitalisti, dello sciopero generale ecc. ecc. La borghesia percepisce che il PSI è inerme, ma percepisce ancora meglio che le masse fanno sul serio. Infatti è vero: in tutte le manifestazioni centinaia di migliaia di proletari prendono per buono il roboante fraseggio massimalista e si comportano di conseguenza, trasformando poco per volta le rivendicazioni economiche in terreno di scontro politico. Non c'è da stupirsi che la borghesia reagisca terrorizzata: se la rivoluzione è un incubo, l'assalto di masse non guidate e violente è senz'altro peggio ancora, tanto che la stessa Confindustria si chiede addirittura se non sia meglio cedere il potere agli avversari piuttosto di assistere alla rovina finale.
Spaventoso rovesciamento: di solito, in contesto di scontri sociali, il linguaggio degli attori sulla scena non è all'altezza degli eventi e si adegua mentre la situazione matura. E difatti sappiamo che non è corretto giudicare un movimento da ciò che esso dice di sé stesso. L'esempio più celebre fu quello della Comune, ma il biennio rosso non fa eccezione. Normalmente c'è uno scarto temporale fra l'azione e la percezione e, mentre la situazione nel resto dell'Europa aveva posto i partiti opportunisti alla guida del movimento operaio con parole d'ordine arretrate rispetto alla maturità insurrezionale di quest'ultimo, in Italia successe il contrario: di fronte alla maturità insurrezionale del proletariato, il partito socialdemocratico adottò un profilo barricadiero a copertura di una realtà di compromesso e di vile abbandono del campo di battaglia tutte le volte che sarebbe stato necessario gettare la propria forza a favore delle masse.
L'eccidio di San Giovanni Rotondo è un esempio del caos politico prodotto da una difettosa polarizzazione di classe. Lo scontro fra democratici che sparano e democratici che fingono di prendere addirittura il potere, sfocerà qualche anno dopo nella "resistenza", cioè nella difesa della democrazia contro il fascismo che nel frattempo si è lasciato crescere in serra. Resistenza come difesa di una parte della borghesia contro un'altra.
A Bologna, poche settimane dopo, si ripeterà in grande stile la confusione politica di San Giovanni Rotondo e le vittime risulteranno in numero inferiore solo per un caso fortuito. Già a metà ottobre, al termine di un comizio dell'anarchico Errico Malatesta e del socialista Francesco Zanardi (ex sindaco) si era formato un corteo finito in scontro armato (6 morti). Alcuni giorni dopo un gruppo di ufficiali era stato attaccato con armi da fuoco. Per rappresaglia i fascisti avevano incendiato la Camera del lavoro. Si era dunque innescata una catena di azioni e reazioni. Il 21 novembre, giorno della strage, venne issata una bandiera rossa sulla torre degli Asinelli, subito ammainata dai fascisti. I socialisti, che avevano stravinto alle elezioni, nella cerimonia d'insediamento al Comune tentarono di issare bandiere rosse sulla facciata del palazzo. I fascisti, arrivati sulla piazza per impedirlo, incominciarono a sparare contro il balcone del Comune. Da parte socialista, nella piazza, si rispose al fuoco. La guardia regia, schierata per dividere i dimostranti, sparò a sua volta; ma la scarica, invece di calmare la folla, scatenò il panico. Centinaia di persone si accalcarono davanti al portone del Comune, presidiato dalla Guardia Rossa che, scambiando la pressione della folla per un tentativo d'assalto fascista, chiuse il portone lanciando alcune bombe a mano.
"Quanti avevano armi incominciarono a sparare all'impazzata; furono gettate delle bombe e nell'interno del Comune, tra le pallottole che entravano dalle finestre infrangendo vetri e quadri, gli urli, la confusione più spaventosa, vi furon di quelli che, perduta completamente la testa, aggiunsero tragedia a tragedia sparando contro i banchi della minoranza".[21]
Secondo la versione ufficiale fu questo fatto a provocare la morte di dieci persone, tutte socialiste. Secondo altre versioni le morti furono causate da colpi provenienti dalle Guardie Rosse, dalle Guardie Regie e dai fascisti. Il bilancio finale fu di 11 morti e 58 feriti.
Commento del Corriere della Sera, rappresentante di una borghesia terrorizzata in cerca di "colpevoli" e un po' in malafede: "Domenica di sangue a Bologna per l'insediamento del Consiglio Socialista. Bombe lanciate dal Comune sulla folla - Consigliere della minoranza ucciso nell'aula… C'è un male profondo e minaccioso che tormenta la vita nazionale: ed è questa impossibilità di convivenza civile, questo preponderare delle ire, degli odii... Di chi è la colpa? Chi se non il Partito Socialista aspira oggi in Italia alla guerra civile? Chi se non il partito socialista crea e vuole questo ambiente di battaglia selvaggia?"
La borghesia si spaventò sul serio ed era ormai disposta a tutto pur di mantenere un potere che nella realtà nessuno metteva in pericolo. Non poteva essere diversamente, se leggeva i proclami del PSI che inneggiavano alla dittatura del proletariato mentre milioni di proletari scendevano in campo instancabilmente, giorno dopo giorno.
Pietro Nenni, in una raccolta critica di ricordi intitolata significativamente Il diciannovismo, ricorda che questi proclami della socialdemocrazia avevano conseguenze tremende perché i proletari vi prestavano fede e si armavano creando spontaneamente milizie rosse clandestine che nessuno era in grado di coordinare e affiancare alle masse in movimento. Persino il destrissimo d'Aragona, riformista sindacalista a capo della CGL, in un incontro sindacale internazionale dichiarava:
"Non dovranno sorprendere le notizie, tra breve, di un tentativo rivoluzionario e di spargimento di sangue. I risultati potranno non essere grandi, ma l'insurrezione è quasi inevitabile".
All'inizio di ottobre si tenne il Congresso del PSI, che si chiuse con la pubblicazione del proprio programma "concentrato". Dopo una serie di consideranda, l'ultimo dei quali richiamava di nuovo la necessità dell'espropriazione e della dittatura che apriranno le porte alla "realizzazione del comunismo", concludeva con la proposta massimalista di aderire alla III Internazionale. Nenni ammette che solo la corrente astensionista, quella che diventerà Frazione Comunista, aveva nel suo programma la presa insurrezionale del potere. Il resto del partito era profondamente fedele al metodo democratico elettorale "nonostante il frasario di moda". Sullo sfondo incombevano le elezioni.
"Le elezioni di novembre furono elezioni rosse", dice Nenni. L'Avanti uscì con il titolo a tutta pagina: "L'Italia della rivoluzione è nata". Nenni aggiunge: "E in effetti i commenti italiani e stranieri concordavano tutti nel ravvisare nel 16 novembre un presagio di rivoluzione". In Parlamento i socialisti sostennero che la grande affermazione elettorale era una adesione popolare alla repubblica dei soviet di Russia e chiesero al governo di riconoscere al più presto la nuova repubblica rossa.
Il gramscismo
Non può stupire che in una situazione ibrida come quella del Biennio Rosso prendesse forma un programma politico ibrido. Il rifiuto del riformismo classico doveva essere totale, come nel caso del programma dei comunisti che nel 1921 a Livorno avrebbero fondato il Partito Comunista d'Italia, altrimenti avrebbe preso piede una delle tante varianti del proudhonismo com'era successo altre volte nella storia.
Il fenomeno era nell'aria e Mussolini, da quell'animale politico che era, l'aveva annusato. Nel giugno del 1919, mentre esplodevano i moti contro il carovita (mercati presi d'assalto, sciopero generale, azione di pompieraggio da parte dei parlamentari e dei sindacalisti), a Dalmine veniva occupata dagli operai metallurgici una grande fabbrica. Mussolini prendeva la parola e auspicava un grande movimento sindacale legato al fascismo. Plaudeva allo sciopero, approvava le richieste degli operai, si richiamava al programma fascista di Sansepolcro e proponeva il suffragio universale, l'eliminazione del senato, una costituente repubblicana, la giornata di otto ore, l'imposta progressiva sul reddito, l'espropriazione dei ricchi "assenteisti" e la partecipazione degli operai alla conduzione delle aziende. Bordiga commenterà in seguito: è un programma non troppo dissimile da quello di altre correnti politiche, compresa quella dell'Ordine Nuovo.
Esagerazione? L'esperienza russa aveva prodotto i soviet, cioè i consigli operai. La loro funzione in Russia era stata duplice, politica ed economica. Politica, perché erano stati il fulcro su cui il partito aveva fatto leva per prendere il potere; economica, perché la loro presenza capillare aveva reso possibile, dopo la presa del potere, l'avviare il controllo della produzione. Se, come era successo in Italia, si fosse invertito il processo, cioè si fosse chiesto ai soviet di svolgere il loro compito economico prima di quello politico, il soviet sarebbe diventato una specie di organismo sindacale con il compito di guadagnare posizioni immediate all'interno della società così com'era per trasformarle in seguito in egemonia politica. La natura di una concezione del genere non era diversa in sostanza da quella del riformismo classico, con la sola differenza che al posto del parlamento c'era la fabbrica. Entrambi da conquistare dall'interno.
La frazione comunista all'interno del PSI prese posizione più volte contro questa accezione del gradualismo riformista, assimilabile politicamente alle isole di produzione liberata proudhoniane. In Russia le funzioni politiche dei soviet erano consistite nella lotta in vista della eliminazione della borghesia come classe, mentre quelle economiche non avevano ancora avuto modo di essere applicate sistematicamente. Ma il processo era chiaro: senza la conquista politica del potere non sarebbe stato possibile mettere in moto il controllo economico. L'eliminazione del potere borghese, in quanto fatto traumatico, violento e senza compromessi, ovviamente avrebbe comportato una diminuzione immediata d'intensità della lotta politica mentre il passaggio alla produzione di tipo nuovo, cioè all'economia comunista, avrebbe comportato tempi più lunghi, piani, realizzazioni tecniche, insomma, sarebbe stato graduale. Privilegiare la lotta per la conquista dell'economia invece che del potere politico significava affidare le sorti della rivoluzione ad un gradualismo non dissimile da quello riformista. Il primo tempo di ogni rivoluzione è di natura politica, il secondo tempo verrà con il cambiamento necessariamente più lento dell'intera struttura sociale. Protagonista essenziale di questa scala temporale è il partito politico, mentre le formazioni intermedie, sindacato e soviet, sono il terreno entro cui il partito lavora. Nel programma del Partito Socialista il soviet era considerato lo strumento dell'emancipazione del proletariato, mentre la funzione primaria del partito non vi compariva. Le sezioni socialiste torinesi avevano addirittura definito i consigli operai "artefici dell'economia comunista" prima ancora che fosse liquidata la questione del potere, cioè mentre la borghesia aveva ancora saldamente in mano lo stato e scatenava una violenza inaudita sugli operai. I comunisti cercarono di dare battaglia su questi temi, ma invano: il gramscismo entrò infine anche nel partito comunista nato a Livorno.
Avevano un bel dire i comunisti che non si trattava di "scegliere" la forma preferita per dirigere la rivoluzione verso il potere politico: sindacato, soviet o partito che fosse. L'influenza della fabbrica, specie in una città operaia come Torino, era micidiale; e in quel contesto sarebbe stato un errore anche privilegiare la forma partito, se non si fosse compreso che la forma partito e la sua funzione rivoluzionaria sono i derivati di una dinamica storica, per cui ogni "scelta" comporta un arbitrio di fronte al maturare materiale dei fatti. Innanzitutto il partito ha un programma che si differenzia da quello di altri partiti, mentre il sindacato, da qualunque forza sia esso guidato, non può che avere nel suo programma la difesa delle condizioni dei suoi aderenti e in genere dei lavoratori. Anche il soviet o consiglio operaio, se non è conquistato all'influenza del partito non può che svolgere compiti immediati. Il guaio del Partito Socialista non era quello di essere un partito, ma quello di essere un partito riformista, elettoralista e anche bugiardo, cioè rivoluzionario a parole e reazionario nei fatti. Il guaio degli ordinovisti non era quello di rifiutare la funzione del partito, ma quello di relegarla sullo sfondo, come una specie di principio ordinatore dei consigli di fabbrica. Questi ultimi fra l'altro non erano nemmeno soviet ma cellule sindacali d'azienda, assolutamente inadeguate nel favorire l'emancipazione proletaria e la trasformazione economica della società in senso comunista. Scrive ad esempio Angelo Tasca:
"La liberazione del proletariato si attua precisamente mediante la esplicazione della sua capacità a gestire in modo autonomo ed originale le funzioni della società da sé e per sé creata: la liberazione è nella creazione di tali organi che per ciò solo provocano la trasformazione sociale ed economica che ne costituisce il fine. Non è questa una questione di forma, ma di sostanza ed essenziale… Bordiga dà più importanza alla conquista del potere che non alla formazione dei soviet, cui riconosce per ora più una funzione 'politica' stricto sensu che non una organica di 'trasformazione economica e sociale'. Il Bordiga ritiene che il Soviet integrale sarà creato solo durante il periodo della dittatura proletaria e ciò possa dare ai Soviet le loro vere e compiute funzioni. È proprio qui, secondo noi, il punto centrale che ci deve condurre, tosto o tardi, a una nuova revisione del programma testé votato."
Bordiga risponde che i comunisti russi avevano già brillantemente definito i soviet come
"organizzazioni di stato della classe operaia… organi del potere proletario che esercitano la dittatura rivoluzionaria, il cui primo esempio fu la Comune di Parigi. I soviet sono la forma, non la causa della rivoluzione… Essi sono ben altra cosa che i consigli di fabbrica e questi non rappresentano il primo grado, il primo scalino del sistema politico soviettista".
Per gli ordinovisti i membri dei consigli di fabbrica dovevano essere gli unici veri rappresentanti sociali degli operai perché eletti direttamente sul posto di lavoro dai compagni di lavoro secondo il flusso della produzione, squadra, reparto, officina, fabbrica, ramo industriale, ecc. Questa visione aziendalistica del processo rivoluzionario e dell'organizzazione che ne conseguiva era in contrasto netto e palese con gli articoli provenienti dalla Russia e pubblicati anche sull'Ordine Nuovo. Nel periodo considerato, durante il quale a ogni piè sospinto si manifestavano le tendenze falsificatrici della socialdemocrazia, non esisteva ancora in Italia un sistema di soviet né tantomeno il partito comunista che avrebbe dovuto coordinare le attività atte alla conquista dell'influenza sui detti soviet. Era grande quindi la contraddizione fra la situazione reale e le teorizzazioni del gruppo torinese. Prima di inaugurare soviet di là a venire, era necessario un partito rivoluzionario degno di questo nome.
Il giolittismo
In una società permeata dal riformismo, che in un periodo rivoluzionario produce fenomeni come il gramscismo, l'unico interlocutore possibile al movimento di piazza è un governo che lo sappia assorbire. Giovanni Giolitti era il capo di governo adatto a superare le fibrillazioni della Confindustria e a rispondere adeguatamente a chi intendeva conquistare le fabbriche invece del potere. Il 15 giugno del 1920 difatti egli fu chiamato per la nona volta a capo dell'esecutivo. Secondo Nenni, Giolitti era il fautore di uno Stato di polizia, ma la definizione non corrisponde esattamente al personaggio e alla funzione che ebbe. Fu, per alcuni, il vero fondatore del fascismo, ma anche questa definizione è perlomeno insufficiente. A capo del governo, aveva affrontato situazioni di crisi con lucido pragmatismo. Così fece anche questa volta. Eliminò il prezzo politico del pane e introdusse una imposta progressiva sui redditi, guadagnandosi le critiche sia del proletariato che della borghesia. Aveva un senso dello stato maturato negli uffici statali a mettere ordine nella burocrazia piuttosto che nelle università, dove si stava riscoprendo Hegel grazie a filosofi come Croce. E lo stato per mantenere l'ordine deve usare autorità e forza. Il suo modello non era quindi lo stato di polizia ma la polizia di stato, cioè lo stato la cui autorità viene fatta valere. Se aveva anticipato il fascismo lo aveva fatto immaginando un contratto sociale fra le classi per applicare davvero una politica riformista. Per questo avrebbe visto volentieri i socialisti al governo, a certe condizioni (che i Turati, i Treves e i d'Aragona erano prontissimi ad accettare). Nell'aprile era esplosa la rabbia operaia a Torino, alimentata da rivendicazioni classiche contro il peggioramento delle condizioni di vita ma anche da un nuovo, strano connubio fra il rifiuto del "dispotismo borghese di fabbrica" e la responsabilità verso la fabbrica stessa in quanto "proprietà di chi vi produce". Le rivendicazioni immediate erano rimaste sullo sfondo e una non chiara "questione" politica era stata posta sul tappeto. La protesta era esplosa in seguito al licenziamento di alcuni operai che avevano spostato indietro le lancette degli orologi contro l'ora legale. Uno sciopero senza rivendicazioni materiali non s'era mai visto, l'obiettivo era sfuggente: possibile che gli operai andassero incontro a pesanti sacrifici per una rivendicazione da nulla che non avrebbe comportato alcun miglioramento economico? Non era neppure un rigurgito di quello che da un po' di tempo era un ritornello, specialmente nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova: formare i soviet.
Lo sciopero generale si era esteso da Torino a tutto il Piemonte e aveva trovato solidarietà in altre regioni. Era durato dieci giorni, durante i quali la polizia, i carabinieri e la guardia regia avevano messo in atto le proprie manovre di contenimento. Erano stati mobilitati nuovi reparti dell'esercito, ma i ferrovieri avevano bloccato i treni che trasportavano le truppe. In tutta Italia i massacri di operai si erano intensificati e alla fine il bilancio degli scioperi era stato del tutto negativo, nulla si era ottenuto. Il comitato d'agitazione aveva posto fine alla lotta. Era stata anche una clamorosa sconfitta politica, ma l'edizione torinese dell'Avanti l'aveva minimizzata, esaltando invece il programma del controllo operaio della produzione in quanto anticipazione della società comunista.
Nella Storia della Sinistra, vol. I, si dice chiaramente: esaltare l'idea che il controllo delle aziende fosse rivoluzionario era una fesseria con la quale si dimostrava di non aver capito cosa siano un sindacato e un soviet o, peggio ancora, quale sia la differenza fra i due. Lo sciopero "delle lancette" era stato importante proprio perché aveva posto gli operai di fronte ai capitalisti in quanto classi e non in quanto elementi di una trattativa contrattuale. La vacuità della "rivendicazione" escludeva le argomentazioni a favore o contro. Lo sciopero era uno scontro frontale. In tale situazione il puntare sull'esautorazione dei capitalisti per mezzo della conquista dell'azienda era come inneggiare allo sciopero espropriatore mentre si preparava esclusivamente la campagna elettorale. Troppe mine di questo genere erano disseminate sulla strada, già accidentata per conto suo, che il proletariato stava percorrendo. Giolitti, il travet dello stato, fu l'unico personaggio capace di utilizzare il campo minato e lo fece ovviamente a vantaggio della conservazione borghese. Essendo il prodotto di una società che stava producendo gli antidoti alla rivoluzione, ebbe gioco facile nel raccoglierli già bell'e pronti. Non fu Giolitti a preparare la strada al fascismo: fu il Partito socialista a dare potenti armi a Giolitti e quindi al fascismo.
Parlare a vanvera di soviet era come minare la strada dell'insurrezione. Peggio che mai scambiare i soviet con i consigli di fabbrica. Questi ultimi possono essere soltanto organismi sindacali. È vero che il sindacato è un organismo rivendicativo di soli proletari e che i comunisti vi lavorano quando si può, anche se esso è in mano a riformisti della peggior specie. Ma il consiglio di fabbrica, per sua natura, non può che essere interno al sindacato. Il soviet è invece un organismo politico: se si forma e si sviluppa in un periodo rivoluzionario ha caratteristiche grazie alle quali è possibile per i comunisti lavorarvi allo scopo di superare le rivendicazioni immediate; in situazioni non rivoluzionarie è inevitabilmente preda della democrazia rappresentativa e tende ad essere interclassista.
Il citato libro di Nenni è una critica ultrariformista al massimalismo parolaio, ma mette in luce il fenomeno del divario fra proclami e realtà. Alcune coincidenze con la critica portata avanti dalla Sinistra sono del tutto ovvie: Nenni critica il partito Socialista per la sua incapacità di varare un piano riformista e l'accusa di averlo sostituito con vuote parole; la Sinistra critica lo stesso partito perché usava vuote parole a copertura di una prassi neppure riformista ma semplicemente elettoralesca. Nenni scrive che nel 1920 era del tutto arbitrario vedere nei movimenti immediati una parvenza di programma e che il ritardo della rivoluzione nel darsi una centralizzazione di partito dava ragione ai riformisti non massimalisti, cioè ai superdestri. Ciò è vero. Ovviamente non si trattava di "ritardo" ma di un difetto strutturale del riformismo. Nenni non ne ammette l'azione frenante, controrivoluzionaria, ma ammette che il partito non era altro che una grossa macchina elettorale (la grande affermazione nelle amministrative lo comprova) assolutamente non in grado di organizzare le masse per gli obiettivi che a voce si dava. Nella confusione generale, intanto, la Confindustria attuava una serrata.
È in tale situazione che, come risposta, esplode l'occupazione delle fabbriche. Ogni opzione rivoluzionaria è cancellata, la disfatta è totale. Il proletariato, assediato da riformismo e dal sindacalismo consigliare, non è in grado di esprimere il suo partito politico, che nascerà solo nell'anno successivo, con la separazione di Livorno. Ma è tardi, il danno è fatto e non è più eliminabile.
Come abbiamo visto, chi capisce bene l'antifona è Giovanni Giolitti, esponente paradigmatico della borghesia italiota. Cresciuto alla scuola di una borghesia vecchia e decrepita, egli è capace di non battere ciglio di fronte alle parole e di basare la propria azione su di un pragmatismo del tutto esente da ideologia. Terminata l'occupazione delle fabbriche, egli fa il bilancio a partire dall'impressione che il fenomeno aveva prodotto sulle varie componenti sociali in Italia e all'estero:
"Che nell'occupazione delle fabbriche ci fosse una vera preparazione a scopo rivoluzionario […] fu poi provato dal fatto che, dopo terminata l'occupazione furono sequestrate in molte delle fabbriche occupate, ed in ogni parte del paese, oltre a parecchie migliaia di fucili e rivoltelle e bombe a mano ed armi bianche di ogni genere, circa cento tonnellate di cheddite e di nitroglicerina".
Tenendo conto del fatto che le fabbriche erano state sgomberate spontaneamente dagli operai e che presumibilmente la maggior parte del materiale era stato portato via, Giolitti ne concludeva che era stato veramente il caso di preoccuparsi. Ma le soluzioni avanzate da industriali e forze dello stato non erano state all'altezza della situazione.
"Io fui allora accusato di non avere né impedito l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai, né provveduto a cacciarli in ogni modo dopo che l'occupazione era avvenuta. Ma ammettendo anche che io fossi riuscito ad occupare le fabbriche prima degli operai, ciò che sarebbe stato per lo meno assai difficile considerata la ampiezza e universalità del movimento; mi sarei poi trovato nella assai poco comoda condizione di avere pressoché la totalità della forza pubblica di polizia, Guardie regie e Carabinieri, chiusi nelle fabbriche; senza quindi i mezzi di mantenere l'ordine fuori delle fabbriche, cioè nelle strade e nelle piazze nelle quali gli operai si sarebbero rovesciati, ed avrei in tal modo fatto precisamente il gioco dei rivoluzionari, che non avrebbero domandato niente di meglio".[22]
Terminata l'occupazione, Giolitti redasse personalmente un documento da presentare a Confindustria e sindacati. In esso si ammetteva come principio l'esigenza del sindacato, in rappresentanza dei lavoratori, di partecipare al controllo dell'industria, al miglioramento dei rapporti fra operai e industriali, all'aumento della produzione come fattore di ripresa dell'economia. Preso atto che la Confindustria in linea di principio non si opponeva, si dava il via all'esperimento. Seguivano alcune note tecniche. L'insistenza dei sindacati nel volere un controllo del rapporto fra salario e profitto non fu per niente avversata dagli industriali che anzi, vista la crisi incombente, ritenevano vantaggioso far conoscere agli operai le difficoltà in cui versava l'accumulazione capitalistica.
Il Partito popolare aveva a sua volta presentato un documento, anch'esso basato sul coinvolgimento degli operai alla vita aziendale e alla produzione, ma come partecipazione agli utili, senza la richiesta del controllo. Giolitti si oppose facendo presente che se si fosse introdotta la responsabilità della produzione, sarebbe stato necessario anche conoscere le reali condizioni dell'azienda: e quindi il controllo era d'obbligo, essendo a questo punto l'operaio una sorta di azionista. Il progetto legislativo sul controllo operaio fallì, e Giolitti, rammaricandosene, osservò:
"Il concetto del controllo degli operai nelle vicende delle industrie in cui sono occupati, non ha nulla di rivoluzionario, e non è che una estensione dei rapporti che intercedono anche attualmente fra sindacati operai ed industriali per il regolamento dei contratti di lavoro e per la determinazione della misura dei salari".[23]
Il giolittismo sarebbe stato più che sufficiente a sconfiggere, in quella situazione, le spinte rivoluzionarie degli operai. La vittoria del fascismo non fu solo un sovrappiù di controrivoluzione e violenza ma una esigenza del capitalismo per darsi un assetto sistemico tramite una grande auto-riforma.
Nel 1920 gli operai asserragliati nelle fabbriche, espulsi i dirigenti, avevano tentato un'estrema difesa delle loro condizioni. Influenzati dall'ideologia consigliare, avevano tentato di prendere in mano il ciclo produttivo e in alcuni casi il suo sbocco commerciale. Tra l'agosto e il settembre il movimento avrebbe ancora potuto avere "sviluppi grandiosi" come disse la Sinistra, se solo avesse sconfitto le tendenze controrivoluzionarie nel partito, compresa quella aziendalista. Ma questo "se" era ormai annullato da eventi che si erano succeduti velocemente:
"In un'orgia di false posizioni estremiste si confuse il generoso moto di invasione delle fabbriche con la costituzione in Italia dei Soviet, o Consigli operai; si dimenticarono le nettissime posizioni di Lenin e dei Congressi mondiali per cui i Soviet non sono organismi che possano coesistere con lo Stato tradizionale, ma sorgono in un periodo di aperta lotta per il potere e quando lo Stato vacilla, per sostituirsi ai suoi organi esecutivi e legislativi borghesi. Nella generale confusione e nella assurda collaborazione tra rivoluzionari e legalitari il moto cadde nella impotenza. Tutta la storia degli anni italiani del dopoguerra dimostra chiaramente come anche in condizioni favorevoli la lotta proletaria sia votata al fallimento quando manca il partito rivoluzionario che sia in grado di porre la questione del potere in maniera radicale; e lo dimostra la storia del fascismo".[24]
Letture consigliate
- Bordiga Amadeo, Maffi Bruno, Storia della Sinistra comunista, voll. I e II, ediz. Programma comunista.
- Bordiga Amadeo, "Divisioni e polemiche in campo proletario", Stato Operaio del 20 marzo 1924.
- Bordiga Amadeo, "Che cosa vale un'elezione", L'Unità del 16 aprile 1924.
- Bordiga Amadeo, "Nella torbida vigilia elettorale", L'Ordine Nuovo del 29 aprile 1921.
- Bordiga Amadeo, "Che cosa è il fascismo", Il Comunista, 3 febbraio 1921.
- Bordiga Amadeo, "Per la costituzione dei consigli operai in Italia", Il Soviet, 4 e 11 gennaio, 22 febbraio 1920.
- Bordiga Amadeo, "I fondamenti del comunismo rivoluzionario", Il Programma Comunista, nn. 13-14-15 del 1957
- Burnham James, La rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri.
- Fabbri Luigi, La controrivoluzione preventiva, Zero in condotta.
- Giolitti Giovanni, Memorie della mia vita, Leonardo ADV, solo su Web.
- Maione Giuseppe, Il Biennio Rosso, Il Mulino.
- Nenni Pietro, Il diciannovismo, Edizioni Avanti, 1962.
- Partito Socialista Italaino, Consiglio nazionale, 18-22 aprile 1920, Testo stenografato originale inedito, edizioni del Gallo, 1968.
- Rizzi Bruno, La burocratizzazione del mondo, Colibrì edizioni.
- Spriano Paolo, L'occupazione delle fabbriche, Einaudi.
- Treccani Enciclopedia on line, Il Biennio Rosso.
Note
[1] Amadeo Bordiga, lettera a Romeo Ceglia, 5 gennaio 1957.
[2] Amadeo Bordiga, lettera a Bruno Bibbi, 8 aprile 1961. Il Partito Comunista d'Italia, nato a Livorno nel 1921, aveva 43.000 iscritti ed era "governato" da un esecutivo di cinque compagni.
[3] Bruno Rizzi, La burocratizzazione del mondo, Colibrì edizioni; James Burnham, La rivoluzione manageriale, Bolati Boringhieri.
[4] Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva, ed. Cappelli, 1922. Ristampato da Zero in condotta, 2009. Pierre Broué, Rivoluzione in Germania, Einaudi, 1977. Paul Frölich, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, 1929, ripresentato da Pantarei nel 2001.
[5] Cfr. "Lotta di classe e offensive padronali", Battaglia Comunista n. 39 del 1949. Quella dell'offensiva padronale vi è definita come "infame teoria" perché ha un risvolto pratico: i suoi sostenitori pongono la classe proletaria sulla difensiva attraverso strumenti di conservazione sociale come il parlamento, il sindacato corporativo, la costituzione, ecc. perciò incanalano ogni episodio di lotta autonoma verso sbocchi inoffensivi.
[6] Più tardi le spinte operaie spontanee verso l'organizzazione armata anticapitalista furono in parte deviate nell'Eiserne Front (Fronte di Ferro), organismo paramilitare antinazista e anticomunista, vicino alla SPD. In un manifesto elettorale del 1932 sono raffigurate tre frecce che trafiggono i nemici della democrazia: monarchia, nazismo e comunismo.
[7] Ad esempio, la propaganda di guerra al tempo dello scontro armato fra Russia e Polonia si fece particolarmente virulenta, sia sul fronte occidentale che su quello eurasiatico. Essa attribuiva all'Armata Rossa efferatezze di tutti i generi. La ricostruzione storica ha stabilito che in realtà furono le armate bianche e polacche, di fronte all'avanzata inarrestabile della rivoluzione, ad adottare misure terroristiche estreme. Fu particolarmente feroce quella, che oggi si chiama "pulizia etnica", nei confronti non solo di coloro che si schieravano con i Rossi ma anche di coloro che, come gli ebrei, avevano la disgrazia di appartenere ad una etnia invisa a questo o quel signore della guerra. Un'altra leggenda fu quella che attribuiva all'Armata Rossa un grande reclutamento di effettivi all'estero, specialmente in Germania, compresi molti ufficiali. L'Armata Rossa aveva effettivamente inquadrato combattenti provenienti da molti paesi, ma in numero non significativo al punto di definirla Armata Internazionale. È ben vero, però, che Tukachevskij, comandante del corpo di spedizione per il contrattacco alla Polonia, auspicava giustamente un'Armata Rossa internazionalista sotto il comando del Comintern.
[8] Cfr. il nostro articolo sulla guerra russo-polacca nel n. 39 della rivista.
[9] Per i riferimenti bibliografici, cfr. Storia della Sinistra Comunista, vol. II, cap. "Verso il Congresso di Bologna", ediz. Il programma comunista.
[10] Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva cit.
[11] "In difesa del programma comunista", Avanti!, 23 settembre 1919.
[12] "In difesa del programma comunista", Avanti!, 2 settembre 1919.
[13] "O elezioni o rivoluzione", Il Soviet del 29 giugno 1919.
[14] "Il principio democratico", Rassegna comunista del 18 febbraio 1922.
[15] Cfr. Tesi di Napoli, 1965, paragrafo 11: "Secondo la linea storica noi utilizziamo non solo la conoscenza del passato e del presente della umanità, della classe capitalistica ed anche della classe proletaria, ma altresì una conoscenza diretta e sicura del futuro della società e della umanità, come è tracciata nella certezza della nostra dottrina che culmina nella società senza classi e senza Stato, che forse in un certo senso sarà una società senza partito, a meno che non si intenda come partito un organo che non lotta contro altri partiti, ma che svolge la difesa della specie umana contro i pericoli della natura fisica e dei suoi processi evolutivi".
[16] Nelle Tesi di Milano del PC Internazionale (1966), si afferma di sfuggita che quando si parla di Sinistra Comunista non ci si riferisce solo alla corrente italiana ma a un movimento esteso a livello europeo. L'affermazione è importante e nello stesso tempo curiosa, perché in realtà non esistevano forze organizzate che avessero maturato un programma anche soltanto simile a quello che sarà alla base della nascita del PCd'I a Livorno. Esistevano però spinte generalizzate anche se poco identificabili con le varie organizzazioni, tanto che l'Internazionale era intervenuta per sciogliere il proprio Ufficio per l'Europa Occidentale ad Amsterdam (maggio 1920). Si chiede Bordiga in una corrispondenza se tale decisione non fosse imputabile alle posizioni di sinistra assunte dall'organismo. Del resto la pubblicazione di L'estremismo malattia infantile del comunismo e la sua ossessiva presenza al II Congresso dell'IC dimostrano che una corrente di sinistra esisteva ben al di là dei singoli problemi sollevati.
[17] Cfr. Storia della Sinistra Comunista, vol. II, dove il periodo cruciale del Biennio Rosso è trattato in dettaglio per molte pagine sulla base dei documenti dell'epoca. Rispetto al primo volume, che anticipa lo scenario del 1919-20 e affronta le ragioni di quella che fu una vera e propria impossibilità materiale del PSI ad essere diverso da quello che fu, il secondo indulge su aspetti soggettivi, un po' come se l'opportunismo fosse un fenomeno dovuto a comportamenti ed errori umani.
[18] Archivio di n+1.
[19] Raffaele Colapietra, "Storia delle Sinistra comunista" in Rassegna di politica e storia, n. 132, ottobre 1965.
[20] Sia nel rapporto dei carabinieri, sia in quello della polizia, risulta che dalla folla partirono colpi di revolver e di fucile. Tre fucili furono sequestrati dai manifestanti ai soldati e vi furono esplosioni di bombe a mano. Dai rapporti appare evidente la passività dei socialisti e l'aggressività del blocco di destra. Nel processo tutti gli imputati furono assolti.
[21] Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva, ed. Zero in condotta.
[22] Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, Leonardo ADV (solo su Web).
[23] Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita cit.
[24] Amadeo Bordiga, "I fondamenti del comunismo rivoluzionario", Il Programma Comunista, nn. 13-14-15 del 1957.
Il Soviet, Anno III, Num. 7, Napoli 22 Febbraio 1920