Ingegnerizzazione sociale

In questo numero trattiamo ancora il grande problema della socializzazione. Vedremo come questo movimento spontaneo al di sopra delle componenti sociali si possa paragonare alla razionalizzazione di un processo produttivo, di un modo di governare o di una rete logistica. Ogni società si sviluppa maturando un bisogno crescente di rendimento. In fondo le rivoluzioni sono questo: la sostituzione di una società a rendimento non più migliorabile con una a rendimento superiore. È un problema di ingegneria sociale, e si propose negli anni fra le due Guerre Mondiali a proposito di una società che aveva bisogno di essere riordinata dalle fondamenta.

La socialdemocrazia tedesca impersonò il riformismo universale che incombeva sul capitalismo come una necessità ineluttabile. Distante sia dal centralismo bolscevico che dalla "saggezza da eunuchi" dei Bernstein, Kautsky o Ströbel, Rosa Luxemburg aveva intuito che il capitalismo planetario aveva un grosso problema di accumulazione per mancanza di ossigeno, cioè di plusvalore. Non era una novità. Anche Lenin parlava del capitalismo come di un involucro che non corrispondeva più al suo contenuto, ed entrambi sapevano benissimo che Marx aveva impostato Il Capitale sull'analisi della sua crescita e della difficoltà di accumulazione derivanti nientemeno che dalla impossibilità di mantenere operante la legge del valore.

Vista dall'interno del modo di produzione capitalistico, la crisi epocale cui andava incontro la società aveva bisogno di drastiche misure per rivitalizzare il ciclo di accumulazione, e la socialdemocrazia tedesca si fece portavoce di questa esigenza. Nel 1922 uscì l'edizione definitiva di La socializzazione di E. Ströbel, tradotta in italiano l'anno successivo con cinque capitoli in meno sugli undici originari. Il libro, 200 pagine, è un classico del riformismo e tratta la questione dal punto di vista di una società cooperativistica, come da tradizione del socialismo austro-germanico. È un peccato non avere l'opera completa, ma quale fosse l'orientamento generale della socialdemocrazia del tempo si deduce facilmente dalla traduzione italiana e dal titolo dei capitoli mancanti: "L'episodio della dittatura ungherese"; "Il problema della socializzazione dopo la rivoluzione tedesca"; "L'economia a piano di Wissele-Möllendorff"; "La socializzazione nell'edilizia"; "Il socialismo delle ghilde". I sei capitoli pubblicati in italiano trattano il problema generale affrontato con uno schema che va dalle comunità comunistiche locali alla socializzazione delle miniere. Il lettore troverà, nell'articolo che segue, riferimenti abbondanti a questa traccia che è uno sviluppo della concentrata definizione utilizzata dalla nostra corrente storica: il fascismo come realizzatore dialettico delle istanze riformiste. Dall'economia a programma al controllo della rendita immobiliare, dalla nazionalizzazione delle miniere (di nuovo rendita), alle città di fondazione, dallo stato corporativo al mito del lavoro non è difficile capire che quando si parla di socialdemocrazia riformista e di fascismo si parla della stessa cosa.

Abbiamo detto che per stimolare la produzione di plusvalore il capitalismo da più di un secolo ha bisogno di una politica che definiremmo di ingegneria sociale. Ricordiamo che il termine ingegnere deriva da ingenium, persona in grado di ideare (progettare). Ingenium è anche astratta capacità mentale, oppure, se riferita a cosa, congegno. Nella lingua inglese, engineer ha le stesse origini ma in generale il riferimento è a engine, che significa macchina o motore. La massima espressione individuale della nozione di ingegnere l'abbiamo ad esempio in Leonardo da Vinci, grande progettista e sperimentatore di soluzioni.

Ingegnerizzazione è più di progettazione o realizzazione: è mettere insieme organizzazione, procedure, macchine e materiali in modo che sia fabbricato un oggetto o sia raggiunto uno scopo nel migliore dei modi possibili. L'organizzazione scientifica del lavoro che ha preso il nome da Taylor (un ingegnere) è un segmento dell'ingegnerizzazione. Se questa è ben fatta, già nel progetto si è tenuto conto dei processi (macchine, materiali, costi). È certamente possibile una ingegnerizzazione sociale, ma non è mai stata pensata nei termini di continuità fra produzione industriale e vita di specie. Non esiste, in campo borghese, una ricerca, né tantomeno una teoria, dedicata al benessere della nostra specie (e a quello del Pianeta che ci ospita) basata sull'armonizzazione dei rapporti uomo-ambiente. Non esiste uno studio del genere relativo a società antichissime che si sono succedute sulla scena storica prima che comparisse la proprietà e che, contrariamente alla nostra, avevano affrontato e risolto il problema. E in campo proletario le cose non vanno molto meglio: a parte la teoria della rivoluzione sviluppata da Marx, in gran parte purtroppo solo abbozzata, solo la Sinistra Comunista "italiana" ha sviluppato una teoria delle transizioni di fase.

Canonizzata dal linguaggio consunto di una rivoluzione fallita, la formula della rivoluzione è un assioma cui sembra non si possa sfuggire: il "materialismo storico e dialettico" prevede una struttura sociale che crolla e una sovrastruttura che viene annientata dal proletariato insorto. Così, nella storia della nostra specie, ogni rivoluzione si sarebbe affermata con una influenza reciproca fra la struttura, cioè lo sviluppo organizzativo e tecnologico, e la sovrastruttura, cioè l'assetto giuridico sociale. La classe oppressa del momento storico preso in esame si ribella all'oppressore e lo fa storicamente sparire dalla scena prendendo il suo posto.

Ma la rivoluzione del proletariato prevede uno sbocco diverso: essendo una classe particolare (tutta la società poggia sul plusvalore da essa prodotto), liberando sé stessa libererà tutta l'umanità. Non diventerà dunque nuova classe dominante al posto della borghesia, ma, estinguendo sé stessa, estinguerà tutte le classi. Se prescindiamo dall'uso che se ne è fatto, dall'imbastardimento del contenuto fino a diventare luogo comune, questo modello ha diversi pregi e almeno un difetto, che se anche fosse l'unico sarebbe gravissimo. I pregi sono riassumibili con tutti i vantaggi dei modelli che stanno alla base delle teorie, e che ci permettono di fare progetti, calcoli, previsioni sulla realtà semplificata, amplificando la possibilità di comprensione dei fenomeni e delle dinamiche. Ma, nella sua versione canonica, il modello – ecco il grave difetto – non rispetta il principio di invarianza, cioè non presenta una relazione biunivoca fra alcuni aspetti della realtà e la compressione dei dati che la rappresentano. Nei vari passaggi da una forma sociale all'altra non sempre è stata la "classe oppressa" a combattere per sé, per la propria emancipazione. E a dire il vero quasi non c'è rapporto fra la realtà delle rivoluzioni e la mappa ricostruita nel modello. È come se fra la metropolitana di Parigi e la sua mappa ci fossero differenze nei nomi delle stazioni o delle direzioni (cfr. "Fiorite primavere del Capitale").

Marx avrebbe dunque preso una cantonata di queste dimensioni? Evidentemente no: egli era perfettamente consapevole della difficoltà di trovare chiare invarianze e differenze nella successione storica. Nei suoi appunti sulla successione delle forme non capitalistiche, ora nei Grundrisse, usa il termine "dissoluzione" per le vecchie forme sostituite da quelle nuove. Non scrive ricette ma si immerge in uno studio profondo che tiene conto della sovrapposizione sfumata, dell'ambiguità e del fatto che è possibile identificare una classe come beneficiaria della rivoluzione anche se non combatte con un esercito ma con pattuglie significative. E non sempre i beneficiari sono quelli che per essa combattono o che la sostanziano con una teoria sociale. È chiaro che la rivoluzione antischiavista non l'hanno "fatta" gli schiavi, così come quella borghese non l'hanno "fatta" i borghesi, anche se questi l'hanno anticipata di mezzo secolo con le loro pubblicazioni.

La rivoluzione borghese in Europa ha sconvolto le condizioni precedenti prima con un esercito raccogliticcio e poi con la Grande Armée del poco borghese imperatore Napoleone. Dalla Bastiglia a Sant'Elena, essa ha liberato una forza immensa aprendo la strada alla rivoluzione industriale. O, dovremmo dire più correttamente, alla rivoluzione tecnologica già in corso si è affiancata, identificandosi, una rivoluzione sociale. Questa osservazione si può estendere ad altre rivoluzioni, per cui il prima, il dopo e il mentre hanno subìto uno scossone che ha rimescolato il quadro storiografico. La rivoluzione "fisica" s'è dimostrata più forte di quella teoretica e non è stato possibile per quest'ultima dirigere le forze materiali con una teoria all'altezza della situazione. Il risultato: una rivoluzione abortita, costretta a consegnare al nemico le sue proprie armi. E il nemico, riconoscente, fu all'altezza del suo compito. Distrusse il proletariato come classe per sé e, tramite il corporativismo, lo fece partecipe dell'ingegnerizzazione sociale nel frattempo maturata. Nel Capitolo VI inedito, Marx analizza l'integrazione dei lavori differenziati dei singoli operai di fabbrica che, considerati nell'insieme, costituiscono un operaio globale, ed esplora la possibilità di considerare l'intera produzione capitalistica non un insieme di merci discrete ma una sola merce continua, come del resto lo erano anche ai tempi di Marx, le case, le ferrovie, i telegrafi, ecc.

Nella dissoluzione e successione dei modi di produzione c'è un ordine, codificato da Engels e ormai accettato anche da molti borghesi, che va dal più elementare al più complesso seguendo la grandissima ripartizione:

Famiglia/proprietà/stato.

A questa ripartizione corrisponde con qualche difficoltà una suddivisione in sottogruppi, ovvero:

Comunismo primitivo/forma asiatica, schiavismo/feudalesimo/capitalismo/comunismo sviluppato.

E se facciamo la stessa operazione con il capitalismo:

Mercantilismo/manifattura/industria/finanza.

Che, politicamente parlando, diventa:

dispotismo oligarchico/monarchia/democrazia/fascismo/… comunismo

Lo schema è sicuramente incompleto, ma ci basta per notare le successive forme di controllo sociale. Per un democratico è difficile digerire la sequenza nel punto in cui la continuità con la democrazia è costituita dal fascismo. Eppure, il fascismo rivendica questa sequenza, la ritiene naturale, come hanno scritto e ripetuto gli esponenti del fascismo, quello vero, non la sua controfigura teatrale e misticheggiante. Il fascismo originario, figlio della rivoluzione/controrivoluzione, continuatore dei suoi contenuti riformisti, era pienamente consapevole della sequenza storica, tant'è vero che ha sempre manifestato un'aperta empatia, proprio nel senso etimologico del termine (mettersi nei panni altrui), con la Russia prima rivoluzionaria e poi stalinista.

Il termine "socializzazione" evoca ciò che socializzato non lo è ancora, che al momento è privato. Emerge nella travagliata storia della socialdemocrazia tedesca a cavallo dei due secoli scorsi. Usato in un contesto socialista è un termine ambiguo, come "proprietà privata" (la proprietà "priva" di qualcosa coloro che non la possiedono anche se il proprietario non è un privato ma un ente pubblico).

Abbiamo visto poc'anzi, e in "Struttura frattale delle rivoluzioni" pubblicato su questa rivista (n. 26 del 2009), che nella realtà queste suddivisioni non sono nette ma si sovrappongono, dando luogo a insiemi sfumati. E quel che più conta, sovrapposizioni e sfumature non sono facilmente classificabili, sia perché non ricalcano l'ordine cronologico, sia perché non rispettano la corrispondenza forma-contenuto. Ad esempio, la forma asiatica, che si presenta nella storia con aspetti diversi, a volte con una scansione temporale di millenni e con determinazioni addirittura opposte (civiltà dei deserti con analogie rispetto alle cosiddette civiltà idrauliche, ecc.). Oppure la forma schiavista, che viene estesa a società che schiaviste non erano ancora, come Roma repubblicana; o non lo erano più, come l'America. Oppure, ancora, la forma feudale, attribuita alle società in cui ogni classe dipende dall'altra e che però feudali non sono ancora (la Russia e l'Impero Bizantino, ad esempio); ma anche forme sociali che feudali non sono più o non sono mai state, come quella francese delle abbazie cistercensi o quella italiana medioevale, già capitalista prima dell'anno mille. Ströbel, dopo aver citato Engels e il suo considerare le rivoluzioni un fatto fisico, analizzabile con i criteri delle scienze naturali, non resiste alla tentazione di ricondurre invece i movimenti rivoluzionari a un qualcosa che si crea secondo la volontà degli uomini:

"L'uomo non può creare una cosa nuova se prima questa cosa non ha assunto contorni determinati nella sua coscienza e nella sua volontà… Senza una grande meta, senza un ideale, non si può creare una nuova forma sociale. Dalla lotta per l'ideale socialista sorgerà il socialismo, non già dalla pratica di capitalisti e finanzieri che formano cartelli e trust" (La socializzazione cit.).

Di fronte alla confusione fra epoche e forme sociali che ad esse dovrebbero corrispondere, il comunismo canonizzato, quello definito marxista-leninista, ben sistemato nelle pieghe di questa società, non batte ciglio sul fatto che le rivoluzioni non solo sono spurie, contaminate, apparentemente contraddittorie, ma non rispettano nemmeno uno dei paradigmi fondanti ancora tenuti in piedi dal lessico d'antan. Nella misura in cui i rapporti di produzione maturano, la rivoluzione proletaria diviene sempre più necessaria, come sempre più necessari diventano i rapporti di produzione che emergono dallo strato materiale, cioè dalla tecnica legata alla produzione. Il comunismo, quindi, non è il prodotto delle pensate degli umani ma un processo materiale in corso. Sentiamo la profonda differenza con Marx:

"Questo comunismo s'identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l'umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo, tra l'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della contesa tra l'esistenza e l'essenza, tra l'oggettivazione e l'autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e la specie. È la soluzione dell'enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione." (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844).

Naturalismo giunto al proprio compimento, il ciclo del succedersi delle società proprietarie e classiste si chiude. La rivoluzione proletaria non sarà tale per una questione di maggioranza o minoranza all'anagrafe delle classi ma per l'impronta che le conferirà una classe (e il suo partito). Una sola, non, come negli anni fra le guerre mondiali, due o più.

Rivista n. 47