In Libano una battaglia della grande guerra medio-orientale
La Sinistra Comunista "italiana" definì "rivoluzione fino in fondo" la formazione della nazione ebraica, in quanto essa avveniva nel contesto di una "tabula rasa sociale", cioè impiantando capitalismo puro in un'area geografica dove non era mai esistito neppure il feudalesimo e quindi non era stato necessario lottare contro i suoi residui. Al momento della formazione del suo Stato, nel 1948, la borghesia ebraica conquistò con il terrore (e con l'appoggio degli Stati Uniti) buona parte del territorio. Sei paesi arabi contrattaccarono con i loro eserciti regolari riconoscendo di fatto, con un atto di guerra, l'esistenza di uno stato nemico. Del resto L'URSS aveva riconosciuto Israele, e avrebbe rotto le relazioni diplomatiche solo all'inizio degli anni '50, mentre l'ONU già nel 1947 aveva dato l'indicazione di "costruire" due nazioni distinte tramite la ripartizione del territorio. Ma una nazione c'era, l'altra no e non si poteva semplicemente "creare"; infatti, se vi erano determinazioni millenarie per l'unità della comunità borghese ebraica, vi erano determinazioni altrettanto millenarie per il separatismo tribale arabo. Gli imperialisti di Washington riuscirono a far leva sull'unità ebraica, gli imperialisti di Mosca non riuscirono ad evitare il separatismo arabo. I primi sono ancora sulla piazza, feroci come non mai, i secondi per ora non hanno influenza sulla zona e alcuni loro ex alleati arabi sono passati al nemico. Nel frattempo la guerra aveva provocato l'espulsione di 900.000 palestinesi e l'annessione, da parte della Giordania, dell'80% del territorio indicato come palestinese sotto il mandato britannico. Questa è la premessa per analizzare ogni avvenimento successivo nell'area, mentre purtroppo c'è l'abitudine di adottare, secondo i casi, il punto di vista di uno dei due paesi imperialisti che mezzo secolo fa misuravano la loro potenza nel Medio Oriente.
Le tesi più o meno ufficiali presentate dai diretti interessati (Israele, Stati Uniti, Autorità Palestinese e paesi arabi) per spiegare la guerra in corso in Libano e a Gaza riflettono il tentativo di nascondere un'impotenza che nessuno è disposto ad ammettere di fronte a una situazione da vicolo cieco. Il meccanismo automatico della guerra perenne sembra avere il sopravvento su qualsiasi velleità di giungere a una soluzione, sia essa negoziata, sia essa militare. Se, come s'è visto, il nocciolo della questione non va ricercato negli interessi immediati delle nazioni oggi in guerra ma nella formazione anomala della nazione ebraica entro il contesto di scontri interimperialistici, sembrerebbe assurdo riprendere le vecchie motivazioni della guerra fredda per spiegare la situazione odierna, in cui l'URSS non esiste più e gli USA sono affaccendati, a sentire i neocons, nientemeno che in un ridisegno del mondo. Nel contesto delineato nacque dunque una "questione palestinese" che già era completamente slegata dagli interessi reali sia degli arabi che degli ebrei; oggi non può che essere peggio. Plasmata per mezzo secolo sulla feroce politica estera di USA e URSS, la situazione di oggi ne è la conseguenza: non sarà possibile risolvere due "questioni nazionali" entro un solo territorio rivendicato se non verranno messe in discussione le premesse. Persino dal punto di vista delle borghesie locali non ha più senso il sopravvivere di una politica che fu suggerita ai grandi paesi imperialisti mezzo secolo fa e che oggi è mantenuta inalterata come se non fosse trascorsa un'intera epoca. In teoria, Israele, i Palestinesi e alcune forze islamiche suscitate dal conflitto potrebbero uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciati soltanto smettendo di essere partigiani di qualche potenza, globale o locale; ma l'imperialismo non è certo il regno della libertà di scelta in politica estera, e mai come oggi "neutralità" è stata parola vuota.
Per la "questione palestinese" non si prospettano che due possibili soluzioni, assai classiche e storicamente prese entrambe in considerazione dal movimento comunista: o la rivoluzione proletaria (nella specifica area geostorica quella borghese c'è già stata, come abbiamo visto, ed ha avuto segno israeliano) che permetta l'accorpamento delle nazionalità in una fase di transizione (ovviamente per eliminare il problema nazionale alla radice), o una guerra totale che ridisegni l'intera mappa del Medio Oriente e raggiunga lo stesso scopo con l'imposizione dall'alto. Il morente Sharon sembra avesse accarezzato, quand'era generale dell'esercito e con l'appoggio di elementi dei servizi segreti francesi e britannici, un'idea del genere (idea non ufficiale, ma conosciuta ovunque sotto lo slogan "La Giordania è Palestina", con riferimento all'annessione della Transgiordania nel 1948). Non abbiamo nessuna remora nell'affermare che il regalare la Giordania ai palestinesi sarebbe stata una soluzione più rivoluzionaria che non la palude sanguinosa che invece si è realizzata. Il guaio è che anche l'ambiente sedicente rivoluzionario ha semplicemente ereditato e utilizzato i sottoprodotti politici dello schieramento ex sovietico, nella migliore tradizione del partigianismo: optando per lo scontro nazionale, s'è dimostrato partigiano, senza alcun riguardo per le sofferenze di popolazioni destinate in tal modo al macello perenne.
Il fatto che gli Stati Uniti abbiano utilizzato Israele fin dall'immediato dopoguerra per scalzare la Francia e l'Inghilterra dall'area, e che l'URSS abbia cercato partigianerie dalla parte araba, sfruttando il nazionalismo nasseriano, ha complicato enormemente la situazione delle popolazioni che si sono trovate ad essere pedine di un gioco altrui, senza avere alcuna forza per essere protagonisti. Ebrei ed Arabi si sono trovati coinvolti da allora in una guerra cronica, che si svolge non tanto fra i diretti antagonisti quanto sul piano degli interessi internazionali dei vari paesi che stanno combattendosi con proxy wars, guerre per procura. La guerra ha sempre una complessa preparazione ed è sciocco mettersi a disquisire su chi sia, al momento x, l'aggressore e l'aggredito; serve solo a darsi una giustificazione per mettersi magari al servizio dell'uno o dell'altro. Nelle guerre per procura è ancora più sciocco, perché più complesso è il gioco della compellenza, cioè del farsi aggredire come sosteneva il lupo contro l'agnello. Non ha alcuna importanza se hanno sparato prima i gruppi terroristici sionisti o le pseudo-nazioni arabe disegnate dall'imperialismo tramite il suo strumento inglese. Stando a come si è sviluppata e incancrenita la situazione, sono assolutamente reali, dal punto di vista degli interessati, sia il bisogno di "sicurezza" tanto sbandierato dai sionisti, sia il bisogno di una terra in cui la nazione palestinese possa formarsi a sua volta. Ma sono bisogni contrapposti e inconciliabili se si manifestano sulla stessa terra.
Se dal punto di vista rivoluzionario comunista ogni soluzione esula da obiettivi nazionalistici, per la maggior parte di chi vive in quell'area non è così, e il diritto a una patria è sentito come bisogno primario, che scatena odio e violenza per essere soddisfatto. Ma, come in tutti i casi in cui si scontra diritto contro diritto, finisce per decidere la forza. Naturalmente vince chi di forza ne ha di più, in questo caso il blocco israelo-americano contro il popolo arabo, sparpagliato in Stati che non corrispondono alle nazioni contenute e quasi tutti oggi alleati degli Stati Uniti. Ovviamente in una situazione di guerra permanente la vita di quella nazione che riesca a formarsi e a vincere, è appesa ad un filo. Ed essa diventa, come Israele, un paese fittizio, senza un'economia vera, mantenuto dai dollari, una specie di mercenario permanente al soldo del paese imperialista che tira i fili, con metà della sua popolazione sotto le armi e l'altra metà richiamabile in ogni momento.
La teoria di uno spazio di sicurezza permanente nel sud del Libano fu fatta propria dai neoconservatori americani dell'Institute for Advanced Strategic and Political Studies. Negli anni '80, al tempo dell'occupazione militare israeliana di quell'area, durata ben 22 anni, essi elaborarono un documento, presentato all'allora premier Netanyahu, in cui si spiegava con particolare chiarezza come Israele avesse assoluta necessità di "rendere sicuro il confine settentrionale", cosa che si sarebbe ottenuta non solo occupando militarmente un'area di interdizione, ma eliminando le infrastrutture siriane in Libano e affermando il principio che il territorio di Damasco non è inviolabile. Come del resto non furono inviolabili le alture siriane del Golan oggi occupate e praticamente annesse. Si arrivava a ipotizzare anche la creazione di un "asse naturale" strategico fra Turchia, Israele, Giordania e Iraq (i neocons avevano da anni un piano per l'invasione poi realizzata), che ridisegnasse la mappa del Medio Oriente a scapito della Siria (e oggi anche dell'Iran). Quel pasticcio non era certo all'altezza del piano limitato ma realistico del Sharon generale, tant'è vero che il Sharon capo di governo imboccò un'altra strada, ritirandosi unilateralmente dal Sud del Libano occupato per anni, sgombrando le colonie ebraiche di Gaza, spingendo alla formazione di un nuovo partito di unità nazionale contro l'inconcludenza laburista e il fanatismo fondamentalista.
È in una situazione come questa che scoppia la solita scintilla in grado di rimettere tutto in discussione. Per di più essa scoppia mentre Hamas e Fatah, le principali forze politiche palestinesi rivali tra loro, raggiungono un accordo in cui si prevede il riconoscimento implicito di Israele. Sta di fatto che Rabin e Sharon, non certo dei pacifisti, avevano gettato le basi per un partito ebraico trasversale che facesse della guerra un mezzo per risolvere problemi e appianare il futuro, mentre sembra vincere il partito anonimo della guerra per sé stessa. Infatti, adesso che quel partito è nato e si sta facendo le ossa con il nome di Kadima (Avanti), ecco che non troppo stranamente sorgono forze che affossano i vecchi, robusti battilocchi a favore di balbettanti quanto servizievoli perpetuatori di guerra. Come risultato, lo stato ebraico ha ora tre fronti (Libano, Gaza e Cisgiordania); e una guerra del genere - i militari lo sanno bene - non può essere vinta, anzi, logora più chi la scatena e attacca che non chi la subisce e si difende. Se la Siria e l'Iran decidessero di incrementare il loro appoggio a Hezbollah e ai palestinesi, l'escalation sarebbe inevitabile. Ma Israele può solo impegnarsi in guerre-lampo e in azioni di polizia, non in campagne durevoli di controllo militare del territorio su più fronti (i 22 anni di occupazione del Libano meridionale riguardavano una sottile striscia di territorio lungo la frontiera). L'attacco preventivo di fronte al pericolo di un'estensione della guerra diventa una mossa obbligata, da manuale militare, ma lo stesso attacco può ritorcersi contro chi lo scatena nel caso in cui sia stato provocato a bella posta, come una trappola.
Si possono fare diverse ipotesi sulla "sproporzionata" azione militare israeliana. La guerra attuale potrebbe essere un disegno di destabilizzazione voluto dagli Stati Uniti e dai fondamentalisti oltranzisti ebraici legati ai 240 miliardi di dollari (val. 2001) ricevuti da Israele negli ultimi trent'anni, ma potrebbe anche essere una campagna iniziata dal mondo arabo (e islamico in generale) per impegnare su più fronti sia gli americani che gli israeliani, che rimarrebbero a corto di truppe per operazioni più vaste di quelle in corso. Non a caso si è subito formato un partito dell'ONU, questa volta con il consenso americano, per inviare truppe di interdizione che non siano né israeliane né americane. E comunque sempre più apertamente anche gli "alleati" mostrano insofferenza verso l'amico americano, non lesinandogli coltellate alla schiena. Ecco che la sequenza di truppe ritirate dall'Iraq potebbe essere l'anticamera di un loro ridislocamento nell'area libano-palestinese e, nel tempo, non sempre passivamente al servizio di Washington.
I missili di Hezbollah non spaventano realmente il robusto apparato militare israeliano. Ma stanno cadendo a migliaia sulle città e sui villaggi di confine danneggiando non tanto le strutture urbane quanto lo svolgimento della vita normale. Sono di fabbricazione russa, cinese e iraniana, cosa che dovrebbe permetterne la tracciabilità e quindi la provenienza sul mercato delle armi, insieme ai capitali necessari per acquistarli. Soprattutto non si tratta più delle vecchie Katiuscia e dei casalinghi Kassam, ma di armi più potenti e meno primitive. Per ora non se ne parla ma, anche se è improbabile che si trovi lo Stato "canaglia" – vero o presunto – che fornisce l'artiglieria, è certo che troppi paesi incominciano ad averne abbastanza del truculento ma inconcludente unilateralismo americano. Il contesto è dei più classici: al momento tutti giurano amicizia agli Stati Uniti e s'inchinano alla loro residua potenza; ma sotto sotto, dall'Afghanistan al Sudamerica passando per il Medio Oriente, stanno volando le prime bordate di un'altra artiglieria, meno rumorosa, ma forse più efficace, se non altro perché la guerra per procura sta forse evolvendo in guerra più diretta, fra nemici veri, USA, Europa, Russia, Cina...
28 luglio 2006