27. Il Diciotto Brumaio del Partito che non c'è (1)
Premessa
Il presente lavoro è il risultato di alcune riunioni tenute prima delle elezioni del 5 aprile scorso, integrato da commenti in margine a riunioni successive sulla situazione italiana e internazionale.
In esso abbiamo cercato di mettere in evidenza, parlando della situazione italiana, alcuni temi generali che la Sinistra ha elaborato a proposito del capitalismo giunto alla sua fase suprema:
1) il capitalismo dell'epoca imperialistica sente sempre più il bisogno di parlare di liberalismo e democrazia proprio mentre attua misure contro il liberalismo e la democrazia, sia in campo economico che in campo politico;
2) l'Italia è un paese chiave, "per nostra disgrazia", non solo negli schieramenti inte-rimperialistici, ma anche dal punto di vista geostorico;
3) il fascismo è un fenomeno di totalitarismo moderno, nasce in Italia e diventa il modo comune di governare l'economia in tutto il mondo borghese;
4) ovunque l'economia di mercato è tutelata da interventi statali non meno pesanti di quelli che servono per limitarla;
5) la sovrastruttura politica che serve a tutto ciò è una democrazia "snella", cioè un Esecutivo non troppo intralciato da chiacchiere parlamentari e "disfunzioni" varie;
6) fenomeni come Gladio, Tangentopoli e Mafia sono congeniali a un certo tipo di sviluppo: vengono alla luce e sono combattuti quando ormai sono sostituiti da migliori canali di controllo sociale;
7) l'integrazione dell'economia mondiale obbliga i vari paesi a sincronizzarsi sulle misure da prendere e ciò provoca dei legami oggettivi che preludono a schieramenti di guerra, prima commerciale e poi armata;
8) nei singoli paesi il controllo della forza lavoro è la condizione essenziale per garantire le politiche economiche statali e nessun controllo può realizzarsi senza un'integrazione dei sindacati ufficiali nella politica dello Stato;
9) ciò è tanto più necessario in quanto la vera politica keynesiana si fa aumentando il numero dei salariati ma abbassando il loro salario, e le due cose, in termini di mercato, sono assolutamente in contraddizione;
10) tutto ciò che precede non autorizza nessuno che voglia coerentemente richiamarsi al marxismo a pensare che la lotta di classe possa essere tenuta sotto controllo dallo Stato per sempre.
Purtroppo alcuni problemi hanno impedito la sollecita presentazione di questo lavoro agli abituali lettori ma gli avvenimenti successivi hanno confermato le nostre considerazioni dimostrando la validità del metodo marxista anche nell'analisi dei fatti della cosiddetta attualità. Alcuni episodi che mesi addietro presentavamo solo come esigenze future del capitale italiano e del suo regime, oggi sono realizzati o comunque sono molto più evidenti.
Caos o preparazione di un aggiornato ordine mondiale?
Le evidenti difficoltà di accumulazione avevano innescato, a livello internazionale e con alcune peculiarità nei singoli paesi, dei tentativi di correzione di rotta rispetto al rigurgito di finto liberalismo economico del periodo reaganiano. Sia Reagan negli Stati Uniti che la Tatcher in Inghilterra, avevano dato un colpo durissimo alla sopravvivente economia "volgare" cercando di liberalizzare per decreto un'economia che da tempo non ne voleva sapere dell'anarchia insita nel libero mercato. Cercando di rivitalizzare per legge l'economia di mercato, l'avevano in realtà portata al tracollo definitivo. Era una conferma di altri nostri lavori condotti sulle tesi della Sinistra a proposito del capitalismo ultra maturo (vedi Quaderno n. 1 e le nostre Lettera 21 e 25).
Che cosa si poteva affermare rispetto al rapporto fra la struttura economica e la sovrastruttura politica nei vari paesi? Quale sarebbe stata la risposta dei vari governi e quale l'atteggiamento degli Stati nei confronti del proletariato, dell'economia e del controllo di entrambi? Che cosa stava succedendo in Italia in particolare?
Già l'anno scorso avevamo intravisto la necessità borghese di rispondere in qualche modo alla crisi di accumulazione che aveva portato le maggiori potenze alle politiche monetariste: collegammo a ciò la preparazione in Italia di un evidente schieramento alternativo di governo e quindi il comportamento dell'allora presidente della repubblica Cossiga.
Non ci interessavano tanto le "esternazioni" del presidente quanto l'allora confuso movimento che avveniva all'interno dei tradizionali schieramenti della borghesia, movimento che era certamente il riflesso di un fenomeno più ampio, quello che si manifestava alla scala internazionale e che aveva sconquassato i vecchi schieramenti Est - Ovest. Ci sembrava chiaro che, nel contesto travagliato dell'economia e quindi della politica internazionale, prendesse contorno, in Italia, un esperimento politico, cosciente o spontaneo che fosse. All'inizio dell'estate 1991 incominciammo, in margine alle nostre abituali riunioni, ad analizzare l'apparente caos della politica italiana che si stava muovendo verso un cambiamento istituzionale. Scherzando lo chiamammo "colpo di stato democratico".
In fondo non si trattava di far altro che applicare alla situazione attuale alcuni classici strumenti di analisi marxista (quali furono applicati ne Le lotte di classe in Francia, nel 18 Brumaio, nei lavori sul fascismo condotti dalla nostra corrente nel primo dopoguerra e nei lavori sulle Prospettive del dopoguerra che comparvero dopo il 1945 sulla rivista Prometeo), per comprendere, dati i precedenti, che ci trovavamo nuovamente di fronte a un colpo di coda della borghesia morente alla ricerca di nuove vie per conservare il suo dominio di classe, nuove vie che ormai le sono negate ma che possono prendere forme politiche ben precise nel laboratorio rappresentato da questa penisola saldata all'Europa, proiettata nel Mediterraneo e aperta a tutte le influenze, anticipatrice di soluzioni che altri portano a compimento con mezzi e conseguenza superiori.
Negavamo e neghiamo che il capitalismo possa trovare soluzioni ai suoi problemi intrinseci, come neghiamo che vi possa essere una "fase" diversa dall'attuale, o superiore, nella forma capitalistica di dominio: il "fascismo", secondo la Sinistra, è il "realizzatore dialettico delle vecchie istanze riformiste", ha perso la guerra militare, ma ha vinto quella per l'assetto politico del mondo. E questo ci basta per stabilire che il controllo dei fatti economici deve essere sempre più concentrato nei grandi stati capitalistici moderni, conseguentemente tolto dalle mani dei singoli e dei gruppi, dei piccoli stati e delle comunità isolate o più o meno federate.
Tuttavia il capitalismo tenta di superare, anche se non lo può, le sue contraddizioni nei modi che la maturità storica e lo stadio dei rapporti di classe permettono, ed è questo tentativo che provoca mutamenti politici nella sovrastruttura.
Dato che il processo di crescita della forza produttiva della società è irreversibile e che il mondo intero procede verso un'integrazione capitalistica sempre più spinta, le vecchie forme in cui si presentano le crisi e, conseguentemente, i sistemi escogitati un tempo per superarle, non tornano più, vale a dire che si restringono sempre più i margini di manovra per dominare le tendenze storiche alla crisi cronica, come già antivedeva Engels.
Forme accentrate degli esecutivi politici, corporativismo sindacale, pratiche economiche statali, concorrenza spietata sui mercati esteri, protezionismo più o meno palese, adeguamento degli schieramenti imperialistici usciti dalla guerra agli interessi costituiti durante la pace per una nuova guerra: saranno questi gli elementi ormai irrinunciabili della politica borghese.
Da anni, basandoci sulle classiche tesi della Sinistra, cerchiamo di vagliare gli avvenimenti con il metodo appena delineato. Gli avvenimenti "italiani" sono collegati a quelli internazionali con un doppio nodo: da una parte ne sono il riflesso, dall'altra, per la particolare posizione geostorica della Penisola, ne rappresentano l'anticipata soluzione.
Richiamo alla vecchia talpa
Se la prima volta i "grandi personaggi" della storia compaiono come protagonisti della tragedia del cambiamento e la seconda come rappresentanti di una farsa, se al posto dei rivoluzionari Robespierre e Danton compaiono i pavidi piccolo borghesi, se al posto della Montagna e del Terrore compare l'ibrido socialpopolare, quando si presenti per la terza, quarta o ennesima volta il gioco ricorrente dell'ergersi del potere esecutivo di fronte all'intera società, come lo dovremmo definire?
Il primo Napoleone fu l'affossatore e insieme l'esecutore testamentario della Grande Rivoluzione e, anche se fu sconfitto, il codice che portava il suo nome rimase a formare l'ossatura anagrafica della nuova società borghese nonostante la rivincita delle dinastie.
Il secondo Napoleone, che poi era Terzo, fu l'affossatore per sempre della democrazia parlamentare, ergendo il potere esecutivo e lo Stato al di sopra del potere legislativo e delle diatribe politiche rappresentative, usando smodatamente proprio quest'ultime.
La celebre nota di Marx va qui ricordata per chiarire che oltre non si può andare, ci si può solo ripetere con forme diverse e con risvolti farseschi sempre più accentuati:
"Prima [la rivoluzione] ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare per poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l'unico ostacolo per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del proprio lavoro preparatorio, l'Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia talpa!"
L'Esecutivo: decreti legge che il parlamento ratifica dopo la loro emissione; il ricorso alla "fiducia" per scavalcare la "sovranità" parlamentare; attività governative segrete che, specialmente negli Stati Uniti valgono a esautorare i veti del Congresso; il cosiddetto totalitarismo russo che lascia il passo alla democrazia di un Eltsin che si regge a forza di espedienti "illegali" e decreti a raffica, senza consultazioni parlamentari di nessun genere. Non siamo certo noi a piangere sulla tendenza storica che riduce i parlamenti a peggiorare sempre più la loro funzione di inutili "mulini a parole", come diceva Lenin.
E ancora: in quale paese di fresca libertà nazionale, una volta rotto il rapporto coloniale, si è affermata una democrazia parlamentare che non sia una semplice facciata per i traffici di innumerevoli "Società del 10 dicembre" di napoleonica memoria? I paesi che giungono per ultimi al capitalismo non debbono percorrere la storia di quelli che vi sono giunti in fasi storiche precedenti: come adottano subito modelli capitalistici ultra maturi nonostante l'arretratezza produttiva generale, cioè arrivano al capitalismo finanziario, alla produzione assistita attraverso vincoli e legami da capestro al capitale internazionale, così adottano sovrastrutture libere dal potere legislativo, parlamenti che sono al servizio di interessi oligarchici o strutture direttamente "totalitarie", altrimenti dette fasciste, per comodità di riferimento.
Luigi Bonaparte giunse alla sua replica del 18 brumaio sull'onda dei moti rivoluzionari del 1848 che gli permisero di smettere una vita di espedienti e, con abile demagogia populista, di farsi eleggere all'Assemblea costituente. Alla vigilia dell'insurrezione di giugno si era dimesso, riuscendo a non compromettersi né con gli insorti, né con i repressori, col risultato di poter uscire dalla mischia e far leva sia su strati proletari e contadini che su strati borghesi. Risultato: l'incertezza sociale gli avrebbe portato, alle elezioni del 10 dicembre 1848, cinque milioni e mezzo di voti su sette e mezzo di votanti (di qui il nome Società del 10 dicembre usato da Marx).
La rivoluzione scava le fondamenta del parlamentarismo mandando in parlamento in modo del tutto democratico gli affossatori del parlamento stesso.
Ma perché?
"La borghesia reclamava un governo forte con tanta maggior forza, e tanto più imperdonabile le sembrava il fatto che si lasciasse la Francia senza amministrazione, quanto più pareva si avvicinasse una crisi commerciale generale che avrebbe rafforzato il socialismo nelle città, come i prezzi bassi e rovinosi dei cereali lo rafforzavano nelle campagne. Il commercio diventava di giorno in giorno più fiacco e il numero delle braccia disoccupate aumentava a vista d'occhio [...] innumerevoli fabbriche erano chiuse".
Questa fu la situazione che permise al secondo Napoleone di preparare il suo colpo di stato, e Marx spiega come egli lo potesse fare per mezzo del parlamento: "[i deputati dell'opposizione] smaniavano soltanto perché egli aveva fatto uso dei suoi diritti costituzionali in modo antiparlamentare. Ma non avevano proprio essi fatto continuamente uso delle loro prerogative parlamentari in modo anticostituzionale? Essi erano dunque tenuti a muoversi strettamente entro i limiti del parlamento. E dovevano essere colpiti da quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha infierito su tutto il continente, il cretinismo parlamentare, malattia che relega coloro che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore [...]. Dopo aver distrutto con le loro mani tutte le condizioni del potere del parlamento, dopo essere stati costretti a distruggerle nella loro lotta con le altre classi, consideravano ancora le loro vittorie parlamentari come vere vittorie [...]. Se nel novembre 1849 Bonaparte si era accontentato di un ministero non parlamentare e nel gennaio 1851 di un ministero extraparlamentare, l'11 aprile si sentì abbastanza forte per formare un ministero antiparlamentare".
Su questa faccenda dell'attività antiparlamentare dei parlamentari ritorneremo in seguito, affrontando l'argomento della demolizione che si sta accanendo contro l'assetto politico tradizionale italiano attraverso ciò che di più tradizionalmente politico esiste in Italia: i partiti e la magistratura.
La strada, come vediamo, è stata aperta una volta per tutte.
I Battilocchi di tutte le risme non fanno che mettersi alla testa di movimenti reali che esistono già, di qui l'apparente loro successo: seguono avvenimenti che fingono di guidare, vere mosche cocchiere della storia.
Italia 1992
In Italia, oggi, ha fatto il suo tempo una certa sovrastruttura che andava benissimo alla borghesia fino a che il meccanismo economico non si è inceppato seriamente. Andreotti ha ragione quando rinfaccia ai suoi avversari: noi della vecchia guardia democristiana abbiamo ricostruito il Paese dalla distruzione della guerra; noi abbiamo creato milioni di posti di lavoro portando il livello di vita a quello che è; noi abbiamo costruito lo Stato sociale con i suoi ammortizzatori di classe; finché le cose andavano bene ci siete stati e non avreste fatto cose diverse da noi.
Andreotti ha torto quando non capisce o finge di non capire che i suoi attuali avversari sono suoi omologhi, che il cambio della guardia che prospettano produrrà, se avverrà, gli stessi effetti che avrebbe prodotto un governo "tradizionale" lasciato al suo posto.
Non sono gli uomini che cambiano la politica economica quando ciò sia necessario: sono le necessità dell'economia che si creano la politica economica adatta sulla quale si gettano eventuali "uomini nuovi".
Marx cita l'Economist del 29 novembre 1851: "In tutte le borse d'Europa il presidente [Napoleone III] è riconosciuto come sentinella dell'ordine". E la stessa rivista oggi deplora sommessamente (con britannico fair play, perbacco!, nei numeri del 12 e 26 settembre 1992) il rifiuto di Scalfaro ai pieni poteri economici chiesti da Amato. Il "partito dell'ordine" si fa strada e coinvolge uomini diversi in diversi partiti. Non c'è bisogno del "complotto" per giungere a politiche di regolazione sociale ed economica: è sufficiente che nelle pieghe della società maturino interessi materiali ai quali aderiscono i personaggi utili alla soluzione dei problemi che si pongono. Non importa che questi personaggi siano in contrasto o in combutta, che siano nello stesso partito o siano momentaneamente avversari: quando le cose sono mature a sufficienza gli interessi convergono, le persone abbandonano le vecchie idee e le vecchie organizzazioni per aderire a nuove suggestioni teoriche, a nuovi schieramenti, a nuovi partiti.
Non importa se le Leghe si presentano con "immagine" scadente: esse troveranno alla bisogna qualche centinaio di transfughi disposti a un make up tecnico di prim'ordine, economisti, storici, mezzibusti presentabili per le tribune televisive, professori in grado di parlare l'odiata lingua nazionale invece del federativo dialetto nordico.
D'altra parte vi sono forze che si presentano già azzimate al prossimo appuntamento con la storia italica: i popolari di Segni si sono dati appuntamento all'americana, in un tripudio di colori e di televisivi sorrisi da convention elettorale.
Non è necessario creare partiti e correnti nuove, essi sorgono spontaneamente dal sottosuolo dell'economia, trovano i loro finanziatori per strada, fanno proseliti man mano che adattano, flessibili come la pubblicità di un detersivo nei confronti del cliente-target, il loro programma alla situazione che evolve.
Il ruvido Bossi si avvicina al doppiopetto mentre l'aristocratico Segni si sposta verso il casual; il capo leghista affina il linguaggio e diluisce il separatismo, mentre il capo del partito trasversale si abbassa al bagno di folla e stringe alleanze che riciclano ex rappresentanti della piazza, vecchi tromboni ambientalisti e sessantottini incanutiti.
Come ha fatto il capo del governo, Amato, a chiedere spudoratamente pieni poteri economici per tre anni senza che succedesse il classico putiferio delle "opposizioni" tipico di pochi anni addietro? E pensare che ci sono stati dei morti operai per difendere la democrazia dalla Legge Truffa e dal Governo Tambroni. Questa volta è stato il governatore della Banca d'Italia a declinare educatamente l'invito, dato che doveva essere spalla del progetto. Il presidente della Repubblica ha ratificato il rifiuto. Prova generale e sondaggio delle reazioni, certo, ma anche inutilità pratica di giungere a tanto. A che servono i poteri speciali quando comunque ciò che deve passare passerà?
Il popolo non avverte il cambiamento, se esso può avvenire gradualmente, e comunque non si tratta di vero cambiamento se si riscrive qualche riga della costituzione e se per andare in parlamento bisognerà sottostare a qualche nuova regola elettorale. Il processo in corso tende a regolarizzare una situazione già operante, cioè a rinfrescare quelle che Marx chiama cause antagonistiche alla caduta del saggio di profitto e che con la crisi di accumulazione che stiamo vivendo diventano sempre meno efficaci, non contingentemente, ma storicamente.
Il proletariato non è in fase di attacco e quindi non occorre manifestare un aperto terrore, si possono evitare armi e camicie nere o qualche altro orpello che faccia da divisa a una eventuale guardia bianca.
Occorre adeguare la situazione politica a quella economica, chiudere i periodi della ricostruzione postbellica, del boom economico e del tentativo reaganiano di deregulation cui si era accompagnato il relativo periodo del plusvalore distribuito a piene mani, del cosiddetto parassitismo, delle mafie e dell'incastellatura elettorale di un sistema a suo modo stabile e ben lubrificato, aderente alle teorie postkeynesiane dell'equilibrio monetarista.
Una sovrastruttura non muore mai prima che sia cambiata profondamente la ragione materiale per cui è nata.
Oltre il cretinismo parlamentare
Scriveva la nostra corrente a proposito dell'avvento del fascismo al potere nel 1922: "Abbiamo semplicemente assistito alla legalizzazione di uno stato di fatto che era ormai connaturato al regime, saldo ed accettato da tutti i gruppi della borghesia italiana [...]. Il disaccordo fra i vari gruppi borghesi verteva non già sulla necessità di raggiungere questo risultato, ma sui modi di conseguirlo" (S.E. Mussolini governa l'Italia, in Rassegna Comunista, 31 ottobre 1922). E ancora: "Non siamo dei metafisici ma dei dialettici: nel fascismo e nella generale controffensiva borghese odierna non vediamo un mutamento di rotta della politica dello Stato italiano, ma la continuazione naturale del metodo applicato prima e dopo la guerra dalla 'democrazia'. Non crederemo alla antitesi tra democrazia e fascismo più di quello che abbiamo creduto alla antitesi tra democrazia e militarismo. Non faremo miglior credito, in questa seconda situazione, al naturale manutengolo della democrazia: il riformismo socialdemocratico".
"La caduta della repubblica parlamentare contiene in germe il trionfo della rivoluzione proletaria", dice Marx a proposito del colpo di stato di Luigi Bonaparte, anche se, nell'immediato, si vede il trionfo di Bonaparte sulla repubblica parlamentare.
Mussolini trionfava sulla "democrazia" senza colpo di stato e tramite i meccanismi democratici, ma sanciva in seguito la scomparsa anche formale del parlamentarismo. Morto il parlamento e tuttavia ridipinta con i colori democratici la sovrastruttura del dominio borghese, non poteva che risorgere il solo cretinismo senza aggettivi.
Mentre i partiti politici passavano attraverso la fase costituente e la successiva fase di stabilizzazione che li vedeva in gara per prostituirsi a una o all'altra delle due grandi potenze uscite vincitrici dalla guerra, la sovrastruttura non parlamentare, quella che conta nel mantenimento del potere borghese, si perpetuava nel nuovo regime senza discostarsi troppo dal "modello Mussolini".
Magistratura, polizia, esercito e burocrazia continuarono tranquillamente a ispirarsi ai principii passati, cambiando pelle solo attraverso un lento ricambio generazionale e comunque mantenendo sempre l'ideologia e la struttura ereditate.
L'economia fu improntata a un intervento massiccio dello Stato attraverso le istituzioni ex fasciste (IRI, AGIP, INA, IMI ecc.) e l'indirizzo dei dollari inviati con il Piano Marshall in piani di ricostruzione e di sviluppo, specialmente al Sud, con la Cassa per il Mezzogiorno (1950).
L'italiano medio dovette sorbirsi da una parte la martellante campagna democristiano-atlantica contro il pericolo "rosso", dall'altra l'asfissiante difesa della democrazia e dei "valori" della Resistenza, il tutto corredato da maratone di chiacchiere parlamentari e battaglie di stampa che passarono attraverso la Legge Truffa e il Giro d'Italia, il governo Tambroni e la spiaggia di Torvaianica, in una frenetica corsa al rincoglionimento delle masse mai vista nella storia.
Tuttavia la democrazia funzionava. Negli anni '50 la crescita del Prodotto Lordo fu in media del 10% all'anno, il patto del lavoro non fu rotto che sporadicamente, gli operai erano al limite della sussistenza e i disoccupati raggiungevano la bella cifra di due milioni. All'inizio degli anni '60 le trappole a quattro ruote della Fiat incominciavano a far piovere sui giornali un numero di morti per incidenti stradali finalmente da paese civile e sviluppato.
Perché ricordare questi sprazzi di Italian Graffiti?
Perché la fase attuale del tentativo di rinnovamento istituzionale in Italia ha le sue radici in quella storia, si nutre degli stessi ingredienti, in bilico fra nostalgia e ripudio, ma sempre sulla base dell'eredità fascista mascherata di volta in volta sotto sembianze "reazionarie" o "progressiste".
Sembrava di ritornare agli anni '50 quando l'anno scorso si scatenarono i dibattiti intorno alle "esternazioni" del presidente della repubblica Cossiga. Sembravano riaccesi gli spiriti caldi, attizzati dalle campagne di stampa, come quando Coppi e Bartali finivano in figurina a colori accanto ai santini e alle rispettive tessere di partito nei portafogli vuoti degli italiani. Cossiga ha ragione, Cossiga dice fesserie. Cossiga è un fascista, Cossiga è un difensore della democrazia popolare.
Fenomeno voluto o spontaneo, si era messa in moto la macchina del cretinismo sempre meno parlamentare, sempre più giornalistico e televisivo, alimentato dai canali degli interessi che prima o poi convergono verso obiettivi unici e fanno scaturire gli "uomini nuovi", i partiti della salvezza, magari aiutati a nascere da potenti levatrici con assegni a svariate cifre e servizi occulti come ne hanno le sovrastrutture statali di tutto il pianeta borghese.
Per fare accettare il cane bisogna far correre il lupo, dice il proverbio. La prima fase della destabilizzazione (come la chiamano i veri destabilizzatori) aveva la faccia di Cossiga, evocante le reminiscenze in bianco e nero di "Gladio", banda segreta atlantica, contrapposta a quella altrettanto segreta e folcloristica "partigiana", entrambe con gli Sten sottoterra e qualche caricatore che non sarebbe bastato neanche a tirare ai barattoli. Chissà se l'hanno studiata o è frutto di spontaneo disporsi di eventi.
Come non ricordare, guardando le foto delle cassette di "Gladio" estratte dai carabinieri da sotto terra oggi, le foto di quarant'anni fa, quando nei solai venivano trovate armi e munizioni "in perfetto stato di efficienza" e regolarmente avvolte in fogli unti dell'Unità, residui della garibaldata del '48?
Cossiga, il piccone e la toga
Sembra tutto coincidere così perfettamente che diventa quasi impossibile non immaginare che vi sia una regia dietro agli avvenimenti. Ma non è questo l'essenziale.
Cossiga incomincia la sua carriera di picconatore in tono sommesso, ricordando cose ovvie ma che non venivano, per convenienza o altro, sollevate da nessuno.
Una nota sulla magistratura, una sull'esercito, un commento costituzionale, uno giuridico. Dopo anni di silenzio che gli era costata anche una presenza non lusinghiera nella satira nazionale, Cossiga si attira i commenti ammirati di alcuni personaggi che contano, tra cui Scalfari, direttore de La Repubblica, futuro acerrimo nemico.
Il ruolo primario dell'allora presidente della Repubblica consistette nel mettere in risalto, attraverso i mezzi potenti che la sua carica gli permetteva, tutti i luoghi comuni della sclerosi politica cui lo Stato italiano era giunto dopo quasi mezzo secolo di "sistema" democristiano. Tale tipo di regime non è da noi naturalmente inteso come espressione di governo di un partito, la Democrazia Cristiana, la quale, come del resto avrebbero fatto tutti i partiti al suo posto, ha cercato con tutti i mezzi di mantenersi al "potere", cioè di mantenere una maggioranza parlamentare in grado di gestire la complessa rete di interessi del più vecchio capitalismo del mondo. Cossiga era l'interprete di tutti i luoghi comuni del regime vigente e, mettendoli in piazza e in televisione con la sua critica o la sua particolare visione di ogni particolare, contribuiva a spegnerne la residua vitalità.
Non era certo così potente l'uomo Cossiga, bensì il movimento materiale che egli impersonava, la necessità del cambiamento di regime. E siccome i fatti materiali prendono sempre il sopravvento sulle idee, era inevitabile che si producesse un fenomeno di inversione tra le parole e i fatti.
Nella sua opera di demolizione Cossiga aveva alcuni punti fermi che rappresentavano i pilastri del regime attorno cui agire di piccone. I pilastri avrebbero dovuto rimanere l'ossatura portante, il piccone avrebbe dovuto demolire le strutture politiche stratificate negli anni, il resto sarebbe venuto da sé, con l'appello alle forze sane della nazione, tra un notiziario e un cabaret televisivo, tra un'intervista e un appello alla Nazione.
I pilastri erano la Patria, il Popolo, ovviamente Dio e Famiglia, l'Esercito e la Magistratura.
Non appena il presidente si appellava alla Patria essa gli volgeva le spalle: nata dall'epopea della Resistenza secondo definizione canonica, essa si dimostrava invece il risultato di un pasticcio di piccole beghe e di ridicoli giochi a guardie e ladri tra difensori della libertà atlantica e difensori della democrazia antiatlantica. Gli Eterni Valori risultavano, anziché elevati a simbolo di slancio oltre il regime esistente, un pastrocchio politico militare, utile più a spillare quattrini alle patologie anticomunistiche americane che a tirare colpi di spingarda ai rossi eversori.
La salvezza cercata nel Popolo Sovrano doveva accontentarsi di essere trovata in un salvataggio di squallori affaristici e piccolo-borghesi, riabilitazioni curiose che andavano dal gran massone Gelli al terrorista sociologo Curcio, misurando l'indice di gradimento con la sonda Auditel verso il popolo reale, quello che guarda la televisione, plaudente ogni qual volta l'indice del presidente veniva scosso in segno di disapprovazione verso il nemico di turno. E più il popolo veniva favorevolmente sondato, più i rappresentanti del regime reale, i capitalisti e i loro portavoce dei giornali, si scostavano da Cossiga e dal popolo, rivendicando a sé le soluzioni ormai mature, che il popolo non capiva ma che per il suo bene bisognava adottare. La democrazia è fatta anche di questo.
Naturalmente Dio e Famiglia non possono mancare nello strumentario dei rinnovatori dei regimi, ma, anche qui, il popolo democristiano optava per altre soluzioni, vale a dire per quella sorta di reazionarismo moderno che è l'integralismo di tutti i colori, scostandosi dal presidente e avvicinandosi vieppiù a Comunione e Liberazione. Bisogna riconoscere che la Chiesa Cattolica in tutte le sue espressioni ha buona capacità storica di previsione: in quei frangenti slittava via da Andreotti, pur non essendo questi ancora in pericolo di carriera.
L'Esercito, rappresentante il nocciolo duro della conservazione, si esprimeva attraverso la sua élite poliziesca, i Carabinieri. L'Arma, nei secoli fedele, non abbandonava Cossiga, anzi, blandita, rispondeva generosamente spedendo alti ufficiali a controllare che nelle assise della libera Magistratura non si avverassero incresciose discrepanze costituzionali. Unico caso di aderenza fra l'opera "demolitoria" di Cossiga e le istituzioni dello Stato, le forze armate confessavano di non essere utili al cambiamento della realtà italiana: il rinnovamento necessario all'accumulazione del capitale doveva avvenire senza sciabole e mostrine. Siamo un paese davvero maturo.
Infine la Magistratura: il caso più clamoroso sul versante dell'inversione degli effetti. Di fronte alla blandizie presidenziale il governo della Giustizia si dimostrò refrattario. Il presidente attaccò "sugli scottanti problemi dell'autogoverno dei magistrati". La Magistratura, stufa della pagliacciata preliminare, strappò di mano il piccone al suo stesso Capo e iniziò a demolire davvero.
L'epopea-farsa di Cossiga, cui il giornale La Repubblica dedicò persino una rubrica fissa intitolata Cossigheide, fu la cartina di tornasole con cui la borghesia esplorò il terreno per la manovra da imporre alla società. È molto probabile che non vi sia stata nessuna intenzionale pianificazione della manovra stessa. Vi sono forze sufficienti, di fronte alle necessità dell'accumulazione, che all'occasione si polarizzano spontaneamente per raggiungere determinati obiettivi. Può darsi che queste forze siano state aiutate durante il percorso da elementi o da gruppi di una o dell'altra frazione borghese, o addirittura da corpi segreti dello Stato, come per esempio suggerisce il capo del PSI Craxi; il risultato non cambia.
La chiave fu comunque trovata nella Magistratura che agì prima in sordina, poi a valanga.
Farina, Festa e Forca
La recita di Cossiga trovava porte aperte solo sul passato, e non erano scene edificanti da poter utilizzare per l'avvenire in pericolo del capitale italiano. Spontaneamente o meno, per brancolamenti successivi più che per strada tracciata da una previsione razionale, lo scenario si è delineato via via più chiaro: demolire la vecchia stratificazione politica e sociale incrostatasi sull'economia del paese e sostituirla con qualcos'altro. Ma con che cosa? E quale programma per il nuovo regime?
Con la Patria, ma non quella di Vittorio Veneto o della Resistenza (fine del triviale "nuovo risorgimento"), bensì quella proiettata nell'Europa degli schieramenti nuovi, senza Muro di Berlino e senza Patto di Varsavia, quindi, per riflesso, con un Patto Atlantico svuotato delle sue funzioni primarie.
Con il Popolo, ma non quello cattolico levantino, quello degli artisti dell'accaparramento di plusvalore proveniente dai pochi per il mantenimento dei molti, delle poche fabbriche e dei cinque milioni di "ditte". Un popolo calvinista che maturi una morale del lavoro, che giunga a un decente rapporto di occupati rispetto alla popolazione totale, che sappia sfruttare i giovani e i vecchi oltre a, naturalmente, i nuovi arrivati d'oltre frontiera (con ordine e disciplina).
Con Dio e Famiglia, ma riformati anch'essi rispetto al modello Cossiga. Un Dio personalizzato e moderno, cantato con accompagnamento non più di organo ma di sintetizzatore, popolare quanto basta per interessarsi anche alla classe operaia e alle masse di affamati del Terzo o Quarto Mondo cui concedere teologie che facciano sperare anche nella prospettiva terrena e non soltanto nell'al di là. Famiglia, con figli che vadano presto a costituire forza lavoro senza passare per un troppo prolungato parcheggio scolastico sottraendo così preziosi contributi all'INPS, oberata da otto milioni di pensioni. O, in mancanza di Dio, una Famiglia alternativa, che sappia sopportare i colpi cui il capitale la sottopone per superarla come istituto sacro, cioè che rimanga famiglia anche di fatto, perché allo Stato non importa nulla se tutto è sotto controllo tranne l'anima, che comunque non paga le tasse.
Patria, Popolo, Dio e Famiglia in versione allineata ai tempi; con una buona economia, basata su una sana ed abbondante estorsione di plusvalore dal lavoro produttivo e quindi una ripresa dell'accumulazione oggi in stato comatoso, si avrebbero i primi due elementi della trilogia proverbiale per definire l'essenza dello Stato: Farina e Festa. Occorre però far agire nell'immediato la versione pacifica della Forca, terzo elemento, per ottenere un inquadramento sociale che permetta lo sconvolgimento della sclerosi attuale.
Esercito, Polizia e Magistratura sono le componenti della repressione dello Stato per il mantenimento della situazione esistente.
Il fascismo fu anche utilizzo di queste tre componenti, cui si dovette addirittura aggiungere una Guardia Bianca di supporto. La borghesia con il fascismo dovette però rispondere al pericolo incombente rappresentato dalla rivoluzione proletaria, vittoriosa in Russia e capace di estendersi ad altri paesi, nei quali lo scontro di classe era violentissimo, come in Italia.
Nel secondo dopoguerra l'utilizzo della repressione contro il proletariato fu innanzitutto di carattere preventivo, tranne sporadiche occasioni in cui lo Stato comunque fece vedere la sua forza attraverso le armi. Soprattutto la controrivoluzione si manifestava, e tuttora si manifesta, attraverso il controllo dei partiti e i sindacati opportunisti, perfettamente integrati con le esigenze di salvaguardia dello stato di cose esistente.
La demolizione del vecchio regime, quindi, non può oggi accompagnarsi con l'armamentario che necessita quando vi sia pericolo di insurrezione delle masse contro tutte le frazioni borghesi. L'armamentario che necessita oggi, deve essere coerente con il tipo di lotta in corso, che è quello tra due frazioni della borghesia. La chiacchiera parlamentare, ridotta a puro cretinismo, essendo il parlamento esautorato delle sue funzioni da un secolo almeno, non può essere funzionale al cambiamento.
È ovvio che i meno propensi a cambiare sono i beneficiari della situazione che si dovrebbe cambiare, e i parlamentari, specie quelli legati ai partiti di governo, sono quelli che più beneficiano dell'intrallazzo generale. È altrettanto ovvio che, se questo regime ha potuto basarsi sulla distribuzione del plusvalore per durare così a lungo, ciò stesso provoca una grande inerzia che rende impossibile il cambiamento per esclusiva via elettorale.
Ecco quindi perché la Magistratura, una delle tre componenti della Forca, essendo assente la lotta di classe aperta e quindi il pericolo esterno alla classe dominante, ed essendo comunque il cambiamento necessario per non soccombere nei confronti degli aggressivi capitalismi concorrenti, diventa l'ago della bilancia della società, lo strumento principale per la lotta all'interno della borghesia.
Cossiga (o meglio, la corrente che rappresentava) cercò di delegittimare l'autogoverno della Magistratura quando si rese conto che non poteva utilizzarla per la sua concezione del cambiamento. Da quel momento il piccone cambiò di mano e la demolizione incominciò seriamente. Come altre volte, il programma per il futuro assetto dello Stato borghese non solo non passò dal parlamento, ma neppure dalle segreterie dei partiti di governo e dalle lobby a loro collegate. I centri veri dell'economia, non potendo più sopportare il sistema politico che essi stessi avevano creato per il periodo precedente, trovano ora altri canali che poco a poco si mettono a disposizione del nuovo disegno economico e politico e che non tarderanno a trovare clamorose convergenze.
Rapporti economici del tardo capitalismo
L'eredità fascista della gestione economica permise all'Italia (ma anche alla Germania e al Giappone) di impostare la ricostruzione postbellica con un piano centrale che, per quanto circondato dal ridicolo dei singoli personaggi politici che frequentavano il parlamento in rappresentanza delle esigenze del capitale, fu improntato a una notevole coerenza.
Come già affermato più volte dalla nostra corrente, il capitalismo italiano non è affatto arretrato.
La centralizzazione del capitale è un fatto compiuto a partire dalla Prima Guerra Mondiale e nel secondo dopoguerra, terminata la ricostruzione, cioè superato il periodo contingente del riassetto economico, lo Stato, tramite l'IRI, imposta un vasto programma di sviluppo in tutti i settori. La logistica del capitale privato risulta così interamente in mani pubbliche, come si conviene a un capitalismo maturo, in linea con i maggiori paesi imperialistici.
A partire dal 1949 la siderurgia, la cantieristica, la meccanica, l'elettricità, le comunicazioni, i trasporti, la petrolchimica e la radio sono controllate dallo Stato, anche se in alcuni di questi settori la proprietà privata entra ancora nominalmente. Le grandi banche di interesse nazionale, battezzate nel loro ruolo dal fascismo, sono anch'esse interamente controllate dallo Stato che quindi controlla il credito oltre che la politica monetaria tramite la banca centrale.
Gli uomini che coordinano il capitalismo di stato non sono per nulla dei rappresentanti del "parassitismo" insito nel modo di produzione borghese: i Sinigaglia nel mondo dell'acciaio e i Mattei in quello degli idrocarburi, come tanti altri manager di stato sono perfettamente all'altezza dei loro omologhi internazionali nel ruolo ricordato da Engels di "funzionari stipendiati dal capitale".
Nel Congresso di Napoli del 1954 la Democrazia Cristiana, con Fanfani alla direzione del partito, abbandona definitivamente la sua struttura affidata ai notabili più o meno mafiosi: si trattava di quel tessuto sociale in stretto contatto con l'altra riva dell'Atlantico (dal Congresso di Washington al penitenziario di Sing Sing), servito sia a preparare lo sbarco alleato che a fornire uomini per la "Repubblica nata dalla Resistenza".
Abbandonata per gradi la struttura dei notabili, anche se non del tutto per ovvii motivi di conservazione, il partito democristiano si integrò perfettamente, come qualsiasi altro partito di governo, nella struttura dell'industria pubblica, creando legami diretti fra le imprese pubbliche e i vari enti preposti al flusso dei capitali statali.
Tra imprese direttamente statali, partecipazioni, possibilità di gestire il credito agevolato per lo sviluppo, enti di previdenza, fondi per l'agricoltura e Cassa per il Mezzogiorno, nacque così quel "sistema democristiano" praticamente imbattibile sul piano elettorale e che fece vedere i sorci verdi ai concorrenti socialcomunisti, smaniosi di sostituirsi al monopolio "pretesco".
I preti non c'entravano se non per l'influenza indiretta che in Italia ha la Chiesa Cattolica; tutt'al più la religione era un valido supporto propagandistico, qualche volta economico, ma nel senso che la Chiesa muoveva e muove ingenti capitali per conto proprio difendendone il rendimento, non nel senso che il partito democristiano fosse un'emanazione del Vaticano.
La Democrazia Cristiana diventa il partito interclassista per eccellenza sfruttando le possibilità storiche messe a sua disposizione dai nuovi schieramenti usciti dalla guerra. Lungi dall'essere il partito servo di qualcuno, la DC conquista un'ampia autonomia, ovviamente giocata all'interno dell'atlantismo perché così conviene.
La Democrazia Cristiana impersona, come partito dell'intera borghesia sopra le sue particolari frazioni, la gestione dei capitali che, come dice Marx, "rimangono liberi nella società". Non è più l'epoca dei grandi capitali concentrati nelle mani di pochi capitalisti. Dall'invenzione della ferrovia in poi, dalla prima grande espansione del credito moderno incominciata in Inghilterra, gli investimenti produttivi richiedono una quantità tale di denaro che solo rastrellandolo presso l'intera società è possibile trovarne a sufficienza. Il "capitalismo diffuso" non è un'invenzione di Cefis o di Schimberni, due campioni del funzionariato capitalistico che rende superflua la classe borghese: è nell'essenza dello sviluppo del capitalismo verso la sua forma imperialistica. C'è in Marx e in Lenin.
Il capitale disperso nella società ha un'origine ben precisa e rappresenta una delle contraddizioni massime del capitalismo: sempre più plusvalore viene prodotto da sempre meno lavoratori produttivi, e ciò permette a sempre più persone di appropriarsene con occupazioni la cui natura non ha nulla a che fare con la soddisfazione dei bisogni umani. In una società, come quella capitalistica, dove si producono anche i beni di consumo senza che vi sia un rapporto con l'esistenza umana, l'accrescimento del plusvalore non fa che disumanizzare sempre più i rapporti sociali.
Il parassitismo del modo di produzione borghese non trae affatto origine dalle relazioni morali tra gli individui.
Non si torna indietro
Nel decennio a cavallo tra gli anni '50 e '60 l'intervento statale si fa massiccio per mantenere l'alto tasso di sviluppo. Viene costruita la fabbrica di automobili Alfa Romeo ad Arese (seguita da una al Sud), vero tempio dello spreco di plusvalore; viene costruita la rete autostradale intorno alla colonna vertebrale dell'Autosole; viene costruito il secondo polo siderurgico gigante a Taranto (il primo era Cornigliano); vengono soprattutto internazionalizzate le esperienze interne, operando collegamenti con paesi di tutto il mondo, specie quelli che possono garantire l'interscambio manufatti contro materie prime.
La Democrazia Cristiana diventa di fatto l'integrazione politica del sistema economico, rappresenta da sola l'esecutivo di tutta la sovrastruttura capitalistica, il tramite attraverso cui vengono eliminate le contraddizioni politiche fra democrazia e fascismo.
Ciò spiega il coriaceo resistere a ogni attacco della cosiddetta opposizione, come spiega l'impossibilità del ricambio democratico, tipico invece del mondo anglosassone. Non esiste un'opposizione in grado di gestire altrettanto efficacemente un politica keynesiana a dosi così massicce, le più pesanti di tutto il mondo industrializzato.
Ciò spiega anche come il "sistema democristiano" sia impossibile da scalzare sul solo piano elettorale. Chiunque avesse avuto la possibilità di ottenere la maggioranza non avrebbe potuto far altro che adattarsi al sistema, accontentandosi di darsi una riverniciata del tutto esteriore.
La dannazione elettorale di un PCI che si offre come partito di governo e tenta tutti i compromessi pur di giungere a un esecutivo "nazionale" trova la sua spiegazione nei fatti accennati: qualunque forza che voglia e che possa rappresentare gli interessi nazionali attraverso il governo, deve adottare il "sistema democristiano", autodistruggersi come entità differenziata, annichilire il suo programma autonomo.
Non è un caso che il periodo aureo della DC sia il periodo di maggior splendore della sua "sinistra" storica interna guidata da Fanfani, la corrente che edificò lo "Stato sociale" che oggi le opposizioni dicono si voglia distruggere.
Il vertice democristiano presso l'industria pubblica, i Mattei, i Cefis, i Petrilli, i Saraceno, i Girotti ecc., era rappresentato da figure ibride, veri militanti politici del capitalismo, formati all'Università Cattolica di Milano attorno all'economista Francesco Vito, cresciuti con l'orecchio alle predicazioni di Dossetti e rappresentanti fisici della continuità con la "tecnocrazia" fascista, per nulla buffonesca come si voleva far credere.
Tale vertice con il suo entourage si era installato nei posti chiave distribuendo i posti ai livelli inferiori ai fedelissimi. I suoi rappresentanti avevano una notevole mobilità fra i vari enti, ma la stabilità era garantita dalla rete di rapporti che avevano saputo costruire. D'altra parte il controllo era facilitato dal fatto che il cumulo contemporaneo delle cariche in enti diversi riduceva il numero di persone necessarie per ricoprirle. Tutto questo ben oliato sistema rendeva il parlamento del tutto superfluo, come la classe capitalistica stessa, perché l'esecutivo, praticamente monopartitico e raggruppato nelle mani di poche persone, poteva contare su canali assolutamente univoci per far giungere le direttive all'economia.
Come si vede siamo ben lontani dalla rozzezza di un Luigi Bonaparte; la rozza facciata della Democrazia Cristiana è ben servita da parafulmine per la rozzezza delle opposizioni parolaie, ma dietro la facciata si muoveva una democrazia blindata con un motore che girava come un orologio.
Non appena grattiamo la superficie della sovrastruttura italiana, scompare la vena fumettistica e compare la natura del capitalismo moderno. Dietro Fanfani, Andreotti e l'eterno gruppo di ritratti che ricordiamo da quando eravamo bambini, spuntano i nomi di Keynes, il capostipite, ma anche dei moderni teorizzatori dell'economia mista che affondano le loro radici nel New Deal, Shumpeter, Pollock, Galbraith, la scuola "istituzionalista" americana ecc.
L'ideologia del cosiddetto neocapitalismo è stata analizzata dalla sociologia americana e, anche se ce la siamo trovata tra i piedi come prodotto d'importazione per via della solita esterofilia italica, è nata qui, dietro la non eclatante silhouette di Fanfani e di Andreotti, esponenti dialetticamente separati dello stesso movimento materiale; ha preso piede nel partito degli anni '50 e si è adattata all'oggi, passando attraverso il sindacalismo cattolico e il nuovo integralismo religioso.
L'economia mista di stampo keynesiano è ben raffigurata in un intervento di Mattei (1962):
"Questi ultimi quindici anni ci hanno insegnato come l'impresa pubblica industriale, pur adeguandosi perfettamente alle esigenze di una gestione economica, possa e debba anche agire per imprimere una spinta al processo di sviluppo nelle zone e nei settori che l'iniziativa privata ha trascurato, e per stabilire condizioni di concorrenza là dove il gioco di interessi privati erige barriere a difesa di "riserve di caccia".
Politica di piano, stimolo economico e fattore di mitigazione alle tendenze monopolistiche dei privati. Detto in altri termini: tentativo di superamento dell'anarchia della produzione capitalistica, fleboclisi di capitale fresco all'economia privata non più in grado di funzionare autonomamente, salvaguardia della concorrenza, ergo, del libero mercato contro sé stesso.
Di qui non si torna indietro, la difesa del liberalismo economico non può essere affidata ad Agnelli, Debenedetti, Gardini o Berlusconi, ma allo Stato. Le privatizzazioni non scalfiscono minimamente l'economia mista. Le misure economiche adottate dal governo attuale sarebbero contro la logica storica se non fossero del tutto transitorie; esse servono unicamente per prendere la rincorsa verso una nuova (essi sperano) fase keynesiana, controllata da un esecutivo in grado di imporre a tutti, capitalisti e proletari, lo Stato corporativo.
La parola definitiva su questi argomenti l'aveva pronunciata per i democristiani e per i loro futuri eventuali successori Pasquale Saraceno al convegno DC di S. Pellegrino nel 1961: l'accumulazione capitalistica si può salvare solo sostenendo le possibilità di accumulazione; esse si salvano introducendo dei correttivi che attutiscano gli squilibri portati dagli automatismi di mercato; l'economia mista non sopprime il libero mercato ma a volte lo salva contro sé stesso; quei testoni di capitalisti privati devono capire che sono loro i primi beneficiari (oh se lo capiscono!); tutto ciò significa riconoscere il primato della politica sull'economia.
Il primato della politica sull'economia significa controllo dei fattori economici e sociali, antitesi delle "libertà" democratiche, esigenza di un governo accentratore e dispotico.
La crisi e il salto
La popolazione attiva nella maggior parte dei paesi industrializzati varia tra il 45 e il 50% della popolazione totale. In Italia nel 1960 era circa il 43% e nel 1975 il 36%, mentre oggi è il 41%. Ma, mentre gli occupati totali nell'industria erano nel 1975 il 14,5% della popolazione, nel 1991 erano meno del 12% e i soli lavoratori dipendenti erano rispettivamente il 12,5% e il 9% della popolazione totale.
Si restringe enormemente nel tempo il lavoro produttivo di merce concreta (umanamente utile o no) e si gonfia a dismisura il lavoro improduttivo o produttivo di merce il cui valore d'uso è semplicemente il tentativo di vendere e far circolare altre merci o di solleticare le fantasie corrotte dal capitale.
Bisogna anche tener conto del fatto che all'interno delle cifre attribuite all'industria vi sono altri servizi, che non compaiono nelle statistiche e che senza sbagliare di molto, possiamo far ammontare alla metà almeno dell'intera attività "industriale".
Ne risulta che il 5% della popolazione totale produce materialmente qualcosa, mentre il restante 95% o fornisce la logistica a quei pochi che producono, o si dedica alle varie droghe sociali, o non fa nulla .
Le cifre sono tratte dall'ultima Relazione generale sulla situazione economica del Paese pubblicata ogni anno dai ministeri del Bilancio e del Tesoro. Per quanto esse possano essere modificabili, l'ordine di grandezza del rapporto fra lavoro produttivo e improduttivo è evidente, anche se non facciamo qui disquisizioni esatte sulla formazione del valore.
L'Italia, pur non avendo una struttura industriale e finanziaria paragonabile come imponenza a quella di alcuni suoi concorrenti, ha tuttavia una lunga storia di capitalismo alle spalle che, con un "rendimento" all'incirca medio del sistema, ha però un'elevatissima estorsione di plusvalore concentrata su alcuni punti e quindi un'elevatissima capacità di distribuire questo plusvalore alla restante popolazione.
L'esistenza del cosiddetto parassitismo ha la sua ragione materiale nella possibilità di far giungere ai parassiti del plusvalore per vivere e, bisogna dire, in Italia non vivono malaccio.
La fortuna politica del "sistema democristiano" con tutti i suoi corollari è l'equilibrio che si ottiene con il controllo e l'indirizzo dei flussi di plusvalore verso l'intera società dei beneficiari: individui votanti e costituenti un enorme cuscinetto sociale tra la borghesia vera e propria e il proletariato.
La crisi di questo sistema ben equilibrato, su cui si sono abbarbicate le varie clientele partitiche, ha la sua origine nel generale abbassamento del tasso di accumulazione che per estrema semplificazione, riconduciamo alla classica osservazione di Marx: sempre più plusvalore viene estorto a sempre meno uomini, ma non si può alla fine estorcere a un uomo solo il plusvalore che si estorceva a cento.
Cambia, aumentando, la composizione organica del capitale, cioè il prevalere del macchinismo sull'uomo, e aumenta inesorabilmente la sovrappopolazione relativa. Pochi uomini sono sufficienti a produrre tutto ciò che occorre, gli altri sono in sovrappiù e finiscono nell'area dei senza-riserve.
Non appena la crisi colpisce, si interrompe il flusso di plusvalore verso i beneficiari "non produttivi" e il sistema richiede un riaggiustamento generale. Viene colpito il proletariato, ma nello stesso tempo gli ammortizzatori sociali devono impedire una ribellione generalizzata contro la borghesia.
350.000 prepensionamenti in dieci anni, centinaia di milioni di ore di cassa integrazione, il mantenimento fittizio dell'occupazione attraverso mille forme di sovvenzione all'industria, lavori pubblici inutili, devono essere pagati, come si suol dire, dall'intera collettività.
La parola d'ordine "paghino i ricchi" è solo demagogia stupida: abbiamo dimostrato che, se si dividesse equamente il reddito nazionale, non cambierebbe qualitativamente il livello di vita dei proletari. Qui vale la legge dei grandi numeri: solo investendo il risparmio di milioni di persone cui si potesse garantire un reddito in eccesso rispetto ai consumi si potrebbero apportare dei correttivi economici in grado di dire qualcosa di veramente "nuovo". Invece "pagano" per primi coloro che risultano in "esubero", come recita il lessico corrente, rispetto alla valorizzazione del capitale e addio risparmi moltiplicati per milioni di persone. Sono in esubero per primi i proletari che non rientrano nei piani ricorrenti di ristrutturazione, detentori di conoscenze obsolete, addetti ai servizi interni dell'industria gonfiatisi nei periodi di ascesa, doppioni risultanti dalla concentrazione industriale.
Ma diventa ridondante anche l'immenso cuscinetto sociale rappresentato dalle mezze classi, chiamate a collaborare con la borghesia nei periodi aurei e stroncate senza tanti complimenti nei periodi critici.
Lo Stato borghese moderno ha sviluppato la capacità di utilizzare il plusvalore per la sua propria stabilità politica, ma non ha la capacità di mantenere una elevata estorsione di plusvalore che sia indipendente dagli alti e bassi dovuti ai rapporti obbligati con i suoi concorrenti. Il suo intervento garantisce per un certo tempo livelli di investimento sufficienti all'accumulazione, ma il protrarsi della necessità dell'intervento stesso in presenza di crisi cronica ingigantisce il debito pubblico fino a livelli insopportabili.
A un certo punto occorre bloccare il circolo vizioso e stabilire un controllo severo sui flussi finanziari, cioè sull'intera società, visto che siamo in epoca imperialistica, in cui la massima espressione del capitale è quella finanziaria. Ed ecco che movimenti politici e singoli individui scoprono una loro funzione per il cambiamento divenuto necessario nei fatti e incominciano disordinatamente a predicare a favore di un "salto di qualità", a scrivere libri, a proporre ricette più o meno coerenti, ad aggregarsi intorno a tavole rotonde, convegni e sigle elettorali.
È il momento in cui gli egoismi particolari scivolano verso accorate tesi universali e, al contrario, propositi fino a quel momento universali scendono a compromessi con la difesa di particolari egoismi.
L'unità europea, astrazione politica universaleggiante voluta dalle maggioranze al governo da mezzo secolo, si squaglia di fronte all'esigenza di salvare lo statu quo dei partiti che l'hanno vagheggiata e l'arroccamento è intorno a meschine, campanilistiche poltrone ministeriali che si portano appresso altrettanto campanilistici interessi: l'appalto al paese natìo, la difesa di un privilegio, la rete degli scambi tra voti e favori.
Sul versante opposto la grettezza bottegaia si ripulisce del linguaggio da osteria e, abbandonando campanile, aia e dialetto si proietta verso la nemesi storica, contro la grande borghesia colpevole di tentata strage verso le mezze classi, per un'Europa federale pura, quale gli stessi europeisti non l'hanno mai immaginata.
E il sindacato, anch'esso precipitato in questa schizofrenia da fine millennio, vede le frange un tempo integraliste rivoluzionarie acquattarsi dietro sigle corporative, mentre i super corporativi veri, quelli della CGIL tricolore, si lanciano sui palchi della democrazia operaia riscoperta, a sciorinare tesi sul Nuovo Sindacato, senza correnti, retto dal basso, al di sopra di ideologie e di categorie, autentica fucina di organismi eletti dagli operai e non più nominati dai vertici.
Quando la patria è in pericolo, la voce del partito dell'ordine si fa irresistibile alle orecchie di ogni opportunismo.