Genova, o delle ambiguità
"Tutte le classi che finora si sono conquistate il potere hanno cercato di assicurarsi la posizione già acquisita nella loro esistenza, assoggettando l'intera società alle condizioni del loro profitto. I proletari possono conquistare a sé le forze produttive della società soltanto abolendo il sistema di appropriazione che le caratterizza, e perciò il complesso dei sistemi di appropriazione finora esistiti. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza e tutte le garanzie private esistite finora" (Marx, Manifesto).
Ci sono dei passi di Marx, come quello citato in apertura, che troppo spesso vengono dimenticati o accantonati opportunisticamente dai "marxisti". Per i proletari distruggere tutte le sicurezze e le garanzie private (tutte, quindi comprese le proprie) è ben diverso che muoversi per rivendicarne il mantenimento o addirittura per chiederne di nuove. Mentre a Seattle il pragmatismo americano rendeva chiaro e univoco il messaggio della piccola borghesia e dell'aristocrazia operaia, un'ambiguità di fondo ha invece permeato il movimento che si è riversato sulle piazze di Genova. Dall'America protezionista e bigotta veniva il messaggio moralista del "lottiamo per voi", rivolto ai poveri del mondo che fanno concorrenza sleale e prestano gli schiavi bambini alla Nike; dall'Europa filosofa e inconcludente veniva quello del solito ricatto puttano che già abbiamo sentito nel post '68 e '77: se non ci ascoltate andrà sempre peggio e il "popolo" si rivolterà. Ambigua la piazza, ambiguo lo Stato, che reprime invece di cooptare nella riforma di questo sistema chi non aspetta altro e non perde occasione di mostrare quanto è moderato, rispettoso delle istituzioni, disposto al dialogo fino alla nausea, grintoso da teatrino dei simboli.
Storico problema della tattica: fuori o dentro il sistema
E' fatale: ogni movimento che non preveda nel suo programma il superamento del sistema attuale finisce per collaborare al tentativo di tenerlo in piedi. Quando si affermerà un movimento con la precisa visione del divenire della società futura, sarà per ciò stesso inserito di fatto nella dinamica distruttiva nei confronti delle barriere che non la lasciano emergere, e non dialogherà affatto, e non avrà simboli, ma obiettivi concreti. La lotta "simbolica", cioè fine a sé stessa, contro le semplici emanazioni del sistema - ad altissimo livello come i governi degli otto paesi più potenti del mondo o al livello bassissimo della manovalanza sbirresca - ha lo stesso senso del "mettete dei fiori nei vostri cannoni" di quarant’anni fa: dopo un paio di generazioni, altre otto presidenze militariste americane e un bel po' di guerre guerreggiate siamo ancora lì…
Ogni movimento ri-formista mostra una doppiezza schizofrenica quando si atteggia a nemico della forma che vorrebbe migliorare. Un movimento rivoluzionario sarebbe invece assolutamente anti-formista, non "dialogherebbe disubbidendo" con governi e polizie, pure apparenze esteriori al servizio della forma che si accingerebbe ad abbattere. Meno che mai lo farebbe nel momento in cui esse sono massimamente preparate e armate per affrontare lo scontro. Il dialogante dice di non volere lo scontro, ma vi si prepara minuziosamente – per difendersi, è ovvio; e quando poi lo scontro avviene per inevitabile determinismo, non riesce ad evitare l'ulteriore recita della somma indignazione per il prevedibilissimo massacro, anzi si immedesima a fondo nella parte, denunciando la violenza che, ovviamente, si è abbattuta più intensa su chi non vi era preparato.
L'anti-imperialismo frasaiolo come quello che s'è visto in piazza a Genova ha riproposto il problema della contraddizione tra obiettivi di lotta condivisibili da tutti, quindi per loro natura interclassisti, e il rigore richiesto ai comunisti. Questi ultimi ovviamente promuovono qualsiasi movimento contro lo stato di cose presente e vi partecipano attivamente. Ma è possibile stabilire con precisione, nei momenti in cui le classi non si muovono su fronti contrapposti ma confusi, quali siano i confini fra le manifestazioni in difesa dell'ordine esistente e quelle contro di esso?
E’ lo stesso problema che dovettero porsi i militanti rivoluzionari in situazioni ben più gravi: per esempio quando si trattò di capire che cosa fosse realmente la guerra di Spagna e se si dovesse partecipare alla guerra civile; quando si trattò di decidere se combattere nei ranghi del partigianesimo filo-angloamericano e anti-tedesco; oppure se partecipare alle manifestazioni che sancivano l'integrazione corporativistica dei sindacati nell'economia e nella politica nazionali; se fossero sensate per dei comunisti le manifestazioni anti-imperialistiche sotto il segno della colomba staliniana di Picasso; se lo stesso pacifismo democratoide anni '50 non fosse che una bandiera del partigianesimo pro-russo, persistente dopo la guerra e questa volta a favore di uno solo degli imperialismi vincitori, ecc. ecc.
Sono problemi ricorrenti e, in anni più vicini a noi, ci siamo trovati ad affrontarli quando si sono manifestati sotto varia forma, anche se a livelli infimi rispetto a quelli dei tempi ricordati: il movimento degli studenti, delle donne, per il referendum, per l'aborto, per l'occupazione delle case, persino la trasformazione della CGIL in "sindacato di tutti i cittadini" erano tutte manifestazioni di interclassismo, anche se spesso cresciute sulla base di un malessere sociale concreto, tangibile.
La giusta preoccupazione dei rivoluzionari è quella di non essere indifferenti di fronte a fatti che sono comunque l'indice di importanti contraddizioni del capitalismo e possono rivelarsi come potenziali mine per sconquassare la società. Da questo punto di vista, ciò che distingue i comunisti e caratterizza il loro anti-indifferentismo non è però il "giudizio" su movimenti sociali generalizzati e neppure il tipo di partecipazione, ma la comprensione della loro origine materiale e soprattutto delle conseguenze storiche del loro agire.
I fini che i comunisti si pongono e il percorso necessario per giungervi, al quale normalmente si dà il nome di "tattica", sono inscindibili, e la tattica non può essere scelta ad arbitrio. La buona tattica definisce realisticamente gli strumenti e i percorsi possibili che portano al fine, quelli che perlomeno evitano la disfatta assicurata (lo dicemmo per i "fronti unici" degli anni '20). Questo è un ulteriore terreno di verifica secondo il criterio accennato all'inizio: oltre al programma e al linguaggio, ogni movimento sociale mostra sempre chiaramente nei fatti se esso è coinvolto in un incontro di classe invece che in uno scontro; e, nel caso di scontro, se il medesimo è sterile o è portatore di insegnamenti ed esperienza, se è una semplice rivolta o se è un episodio della rivoluzione che avanza verso l'esito finale.
Deterministica accumulazione di caotica energia sociale
La violenza che si è scatenata a Genova ha raggiunto un livello difficilmente registrabile nelle cronache delle manifestazioni di questi anni. E solo degli azzeccagarbugli della politica volgare possono ignorare, o ancor peggio negare, che la piazza ha catalizzato e fatto esplodere un'autentica violenza sociale, per ora generica, indirizzata verso un obiettivo qualsiasi, ma con radici profonde in un malessere crescente, angosciante, esplosivo. Se essa si è manifestata in tutta evidenza soprattutto da parte dello Stato, limitarsi all'indignazione episodica contro lo sbirro, momento per momento, pietra per pietra, randellata per randellata, lacrimogeno per lacrimogeno, fino allo sparo del carabiniere, è un insulto al materialismo. La spiegazione puramente militare fornita dallo Stato e ripresa dai media è razionale ma insufficiente. Se blindare una metropoli e spaccare preventivamente e sistematicamente teste e costole può evitare le sparatorie che in passato provocarono decine di morti, occorre ricordare che quando c'è scontro, ci sono sempre campi avversi, e quando essi si trovano apertamente faccia a faccia è perché la piazza diventa un attrattore sociale.
La violenza dei Black blocster e quella scatenata successivamente dalla polizia alla sede del GSF e al concentramento di Bolzaneto, per esempio, esce dalla logica dello scontro a caldo: la violenza anarchicheggiante è un embrionale rifiuto del luogo comune politico, e si esprime in energia cinetica e disordine contro l'ordine esistente; quella di stato è paura atavica della piazza, e scende attraverso i nervi della borghesia scatenandosi ciecamente per mezzo dei suoi muscoli, anche se con l'aspetto del branco isolato di poliziotti sadici che attaccano il ragazzo inerme. Ma ci sarà pure un motivo se ogni singolo poliziotto che si dà al massacro lo fa nell'ignorante presunzione che ogni manifestante incazzato sia comunista.
La borghesia ha portavoce diversi, ma come classe parla una lingua unica. Per ogni suo Berlusconi che spara sciocchezze sui comunisti ha meno vistose ma sensibili terminazioni nervose che la rendono ben consapevole di avere un avversario temibile, anche se questo al momento non è in piazza per i suoi propri interessi, come classe per sé. Ogni singolo borghese potrà non essere in grado di assimilare la lezione marxista dal punto di vista razionale, ma è certo che la borghesia come classe ha un'esperienza storica di prim'ordine sulle forme di dominio. Mentre le altre classi dominanti della storia ne hanno utilizzato una sola, la borghesia le ha sperimentate tutte, monarchia, repubblica, democrazia, fascismo, teocrazia, liberismo, capitalismo statale, satrapia orientale, ecc. Ciò le fornisce, se non conoscenza dei processi rivoluzionari, sicuramente istinto e paura sufficiente per reprimere qualsiasi cosa possa assomigliare a un rifiuto generalizzato della sua società, meglio ancora, per prevenirla.
Migliaia fra i giovani che hanno partecipato alle manifestazioni da Seattle in poi non sapranno forse cosa sono esattamente il G8, la WTO, il FMI e la Banca Mondiale, ma sanno benissimo che lavoro hanno se lo hanno, quanta parte della loro vita dev'essere devoluta ad altri, quanto viene loro in tasca e quanto sia precaria ogni occupazione in un mondo nel quale la globalizzazione dei mercati significa anche e soprattutto globalizzazione della forza-lavoro a basso prezzo. Trattati come schiavi moderni, carichi di rabbia sacrosanta per l'insensatezza della vita che sono costretti a condurre, infuriati e nello stesso tempo impotenti di fronte alla miseria del mondo, generosamente disposti anche allo scontro, essi vanno al macello in simulacri di guerriglia fine a sé stessa contro una polizia mondiale che conosce perfettamente forze e comportamenti degli "organizzatori". Forse ripetono per sentito dire vaneggianti luoghi comuni sull'economia imperialista e sulle multinazionali assassine, ma avvertono istintivamente che le sorti di miliardi di persone sono davvero appese a un filo, e che dipendono dalla direzione presa da ricorrenti ondate di capitali. Seguono parole d'ordine contingenti nella forma e antiche nella sostanza, cadono nella trappola del pacifismo sociale e dell'interclassismo, si mescolano a preti e politicanti, spesso praticano con convinzione forme di solidarietà effimera e individuale, ma si portano dentro contraddizioni esplosive che la piazza fa esplodere. E sono pronti a battersi, con entusiasmo degno di miglior causa.
A Genova si è formata dunque una massa critica di molecole sociali - per loro numero e natura - in un miscuglio assai fluido che non è riuscito a trovare un indirizzo. L'ambiguità delle forze in campo, in bilico fra la violenza e il pacifismo, ha provocato una situazione al confine dell'equilibrio. Troppi manifestanti e troppi sbirri si sono trovati fuori controllo. Non certo solo per colpa dei capi, ma per le interazioni spontanee che si innescano sempre in casi simili. I manifestanti erano scoordinati al massimo un po' per le solite manìe anarcoidi ma soprattutto per l'azione preventiva dovuta alla compartimentazione del territorio da parte della polizia; la polizia era fin troppo coordinata in massa per essere in grado di affrontare la mobilità delle poche centinaia di fracassatori di proprietà determinati nei loro obiettivi specifici e si è buttata nel mucchio.
La bestiale violenza poliziesca, il sangue, le fiamme, le barricate, l'odio (che sfocerà in nuovi episodi del resto già annunciati), tutto ciò che rappresenta materia di cui si è impadronita in diretta la società dello spettacolo ha coperto qualunque altra considerazione. Ma rispetto alla violenza programmata che sarà necessaria agli Stati per incanalare gli effetti futuri della globalizzazione Genova è ancora niente. Per questo essi si preparano.
Non possono invece essere pronti i popoli di Seattle. Con regolarità, in ogni occasione, si sono visti scendere in piazza senza la minima possibilità di darsi precisi programmi, segno che sono anche lontani dall’essere consapevoli delle determinazioni materiali che li hanno generati e perciò dei fini limitati che un movimento del genere dovrebbe porsi e raggiungere, cioè riforme pacifiche e democratiche del sistema di controllo mondiale. Anzi, più che riforma di tale sistema, la sua fondazione, dato che la tanto paventata globalizzazione prevaricatrice è fuori controllo.
Dunque, l'eterogeneo fronte anti-globalista è già la conseguenza, anche se non troppo coerente, di una situazione internazionale di crisi che produce effetti macroscopici sulle popolazioni del mondo (sviluppato e no), mentre le borghesie nazionali sono ancora ferme alla ricerca di un accordo politico e di un comportamento coordinato di fronte al problema. Quando parliamo di crisi in tale contesto non ci riferiamo ai cicli economici classici, bensì all'emergenza di fenomeni che si dimostrano troppo veloci per gli esecutivi delle varie borghesie nazionali, le quali non riescono a prendere decisioni istantanee. Così i governi sono irrimediabilmente in ritardo rispetto alla dinamica reale della società, la quale si avvia verso una crisi sistemica di proporzioni mai viste. E' di fronte a queste contraddizioni che si forma il cocktail esplosivo tra la necessità di un controllo mondiale e il suo rifiuto.
I no global sono più globalizzati dei globalizzatori, che non riescono a marciare al passo della globalizzazione. Oltre al bisticcio di termini che ne vien fuori, c'è anche una gran confusione di ruoli: i no global non possono far altro che invocare generici "diritti" dei popoli, gli Stati globalizzatori non possono far altro che riunirsi a ripetizione nel tentativo continuamente frustrato di mettere in piedi un controllo mondiale; sennonché i diritti dei popoli contro le fameliche multinazionali, dal punto di vista interclassista dei no global, sarebbero meglio garantiti da un esecutivo capitalistico efficiente e mondiale (cioè una forma avanzata di fascismo, il quale storicamente è nient'altro che riformismo realizzato), mentre il controllo mondiale cozzerebbe senza ombra di dubbio contro gli interessi particolari degli Stati globalizzatori. Ogni borghesia, da che esiste il capitalsimo, è sempre legata ad interessi nazionali, quindi locali. Anti-globalizzatori e globalizzatori sono immersi in una contraddizione mortale perché militano entrambi nelcampo sbagliato, dovrebbero scambiarsi i ruoli.
Nella confusione fra diritti, interessi e forza, non è strano che quest'ultima finisca per prendere il sopravvento in un'esplosione immediata. L'inaudita violenza di Genova trova così una spiegazione migliore nella dinamica del sistema globale che non nei comportamenti, e soprattutto nelle dichiarazioni, dei protagonisti, in bilico tutti fra diritto e forza in ripetuti confronti locali. Ne scaturiscono anche aneddoti curiosi: gente a cui piacevano un sacco i romantici cortei armati s'è messa a rimbrottare gli sfasciatutto del momento, ricevendone in cambio possenti randellate proletarie; per converso, solitamente miti cristianucci si son dovuti cimentare con la violenza, un po' per non farsi fare a pezzi dai robocop impazziti, un po' perché il già poco realistico precetto dell'altra guancia a Genova era un'astrazione alquanto superata dalla prassi. La febbre sociale mondiale è alta, quindi, anche se non ancora abbastanza per un salto di qualità.
Ideologia di conservazione
Lottare idealisticamente contro la globalizzazione e i suoi effetti, che sono forme specifiche di gestione dello sviluppo della forza produttiva sociale, è reazionario. Neanche il vecchio luddismo, pur essendo ancora una reazione difensiva e di retroguardia dovuta agli effetti dello sviluppo capitalistico, era così arretrato; esso, nonostante tutto, era una genuina espressione di classe e conteneva in sé la forza per il suo proprio superamento verso forme di lotta superiori e universali. Al contrario, il nuovo movimentismo, abbracciando il disagio interclassista, non può soddisfare le istanze di tutte le sue componenti; esso può ottenere il suo massimo risultato non su obiettivi universali ma sulle miserie che al suo interno sono raggiungibili sul piano di un minimo comun denominatore e, all'esterno, attraverso compromessi a catena con il presunto avversario.
Le diatribe sulle forme e gli obiettivi, la pratica stalinista che offre garanzie democratiche e pacifiste ma poi per metà paventa e per metà minaccia le escalation di violenza da parte di gruppi che potrebbero sfuggire al controllo, la corsa alla moralistica ricerca del "colpevole" rispetto alla vetrina rotta o al morto, persino la rivoltante gara alla delazione da parte dei solerti partecipanti "che non c'entrano con la violenza", sono da mettere in conto alla scuola borghese e piccolo-borghese dalla quale i leader di questa poltiglia sociale traggono i loro programmi.
Nessuno può essere indifferente di fronte alle profonde ragioni materiali che spingono in piazza il magma no global, ma nel medesimo tempo occorre capire che questo movimento non è affatto contro le condizioni esistenti e soprattutto non mette in minima discussione i moderni rapporti di produzione, cioè di proprietà. Anzi, nel suo lessico c'è addirittura il richiamo ad un ritorno a quelli antichi, alla salvaguardia di prerogative locali (spesso tribali) già demolite dalla globalizzazione del capitalismo, che non è certo un fenomeno recente e che anzi mette in discussione l'esistenza stessa di questo modo di produzione, come Marx sottolineava nell'articolo Commercio britannico (cfr. il nostro commento sul n. 1 della rivista). Il capitalismo riesce a controllare molto bene il flusso delle operazioni nel ciclo produttivo interno alle fabbriche, ma è impotente di fronte all'anarchia del mercato, specie da quando questo si è totalmente finanziarizzato e internazionalizzato. E' ovvio che senta particolarmente il problema e cerchi di darsi degli organismi in grado di esportare l'efficienza di fabbrica verso il mondo esterno per eliminarne l'anarchia. Ma così facendo genera di continuo forze antagoniste che negano la sua natura privata.
Gli antiglobalizzatori sono estranei a problemi del genere. Ma è solo se si guarda alla dinamica complessiva del Capitale che si riesce a capire dove può portare un movimento sociale, anche se lo si volesse influenzare e portare sulla strada di classe, come dicono alcuni; velleità ben più assurda delle profferte senili di Fidel Castro. Ogni contraddizione sociale prodotta dallo sviluppo della forza produttiva della società provoca reazioni che possono dialetticamente essere rivoluzionarie o conservatrici a seconda della loro dinamica in contesti diversi. Per esempio, la sollevazione dei feudali di fronte al capitalismo erompente che sfociò nella Rivoluzione Francese era prodotta da ragioni materiali rivoluzionarie, ma il movimento in sé stesso, prima che la rivoluzione spazzasse via i vecchi rapporti, era reazionario. Allo stesso modo, le prime manifestazioni di massa della Rivoluzione Russa erano del tutto legate alla vecchia società morente, con tanto di icone, preti, preghiere allo zar e partecipazione di tutte le classi, specie quelle antiche, rovinate dal capitalismo avanzante.
Oggi, in piazza, entrano in agitazione soprattutto gli strati che hanno qualcosa da perdere dalla globalizzazione del capitalismo. Anche il proletariato occidentale ha qualcosa da perdere in confronto a quello dei paesi meno sviluppati, che hanno masse immense in grado di premere su tutti i confini del mondo senza che vi sia sbarramento o legge in grado di fermarle. Ma, in Occidente, persino chi non ha effettivamente nulla da perdere si sente minacciato dalla concorrenza delle masse affamate. Per questa ragione si forma il mostruoso fronte unico ideologico che va dalla Chiesa cattolica a frange del proletariato. Per questa ragione scaturisce, come sempre in simili occasioni, l'antico impulso anarchico di spezzare il connubio di classe con l'azione dimostrativa, esemplare, eclatante. Nell'epoca della televisione questo cocktail è micidiale.
Vi è un metodo infallibile per sapere se un movimento politico odierno è davvero rivoluzionario e anti-sistema come afferma di essere: basta chiedersi a quale rivoluzione si riferiscono i suoi obiettivi, con quale linguaggio essi sono descritti. Alcune componenti del movimento riunitosi a Genova si dichiarano apertamente entro il sistema, riformiste, altre si pongono in alternativa; ma per la quasi totalità non c'è bisogno di leggere tra le righe, è lampante che la parola d'ordine è: liberté, egalité, fraternité, condita con l'inseparabile pace e, soprattutto, democrazia. In più, bestialità delle bestialità, anche democrazia di mercato. L'uniformità è impressionante, un lavaggio del cervello di dimensioni gigantesche, una vera e propria omologazione orwelliana all'ideologia dominante.
I testi della rivoluzione borghese del XVIII secolo, persino le sue canzoni come la Marsigliese, la Carmagnola, il Ça Ira, erano universi avanzati, distruzione di vecchi rapporti, vera intelligenza sociale; al loro confronto i proclami e gli scritti della maggior parte dei sinistri moderni suonano come la più dolciastra delle canzonette. A Genova è sceso quindi in piazza un movimento più arretrato, non diciamo della globalizzazione, che è un processo oggettivamente rivoluzionario al di là delle classi, non diciamo della classe borghese rivoluzionaria di 250 anni fa, illuminista e sovvertitrice, ma addirittura del liberalismo all'acqua di rose dei Mazzini e dei Ledru-Rollin.
Un movimento sociale degno di questo nome non scaturisce, è ovvio, dal nulla, e – come abbiamo già sottolineato - va analizzato sulla base delle sue determinanti materiali. Dal punto di vista politico è qualcosa di diverso dalla massa degli individui che lo formano: esso si definisce dal programma che adotta e dal quale è guidato. Meglio ancora sarebbe rovesciare la questione, poiché non sono i movimenti ad adottare un programma ma sono i programmi a darsi gambe, braccia e cervelli per far "muovere" la società (Marx: il comunismo è un demone, e per liberarsi di lui non c'è altro da fare che assoggettarvisi). Quando c'è scontro fra classi contrapposte non ci sono problemi, l'indirizzo è dato dallo stesso fatto materiale, ma quando classi diverse subiscono una spinta materiale e scendono in piazza insieme, allora è il programma a stabilire quali sono trascinanti e quali sono trascinate, a definire il confine tra l'oggettivo sostegno all'ordine esistente e la sua demolizione, o perlomeno la sua critica positiva. Nevvero, cari "comunisti" trascinati? Eppure il Lenin che citate tanto ve l'ha mostrata la strada, quando addirittura nei soviet, organismi uniclassisti che oggi ce li sognamo, i bolscevichi erano ferocemente critici quando vigeva il programma altrui, diventando propugnatori della parola d'ordine "tutto il potere ai soviet" quando questi furono conquistati dal programma rivoluzionario.
Il movimento no global non ha e non propugna un programma condiviso da tutte le sue componenti, ma basta leggere la gran mole di materiale ideologico che produce per capire quale programma l'abbia conquistato e lo informi. Tutto in esso è plasmato dalla politica consueta, fatta di principii morali, di lotta all'ingiustizia, di rivendicazione dei "diritti fondamentali", di salvaguardia della "persona", ecc. Tutto l'armamentario suddetto, che si presume dedotto dai diritti universali dell'uomo, dovrebbe semplicemente essere rispettato da nuovi governi ad alto contenuto di valori morali, mentre invece quelli esistenti sono permeati di egoismo, sono prevaricatori e calpestatori di diritti altrui.
Manca completamente ogni comprensione del fatto che il Capitale può tollerare l'esistenza soltanto di ciò che permette la sua valorizzazione e che quindi la "politica" degli uomini dev'essere conseguente. Tutti gli organismi statali e sovranazionali possono tutt’al più diventare più efficienti nel loro compito. In un certo senso la coerenza ci sarebbe: in fondo il popolo di Seattle chiede un controllo dei controllori, cioè una globalizzazione più razionale. Qualcuno se ne sta accorgendo e infatti prende le distanze: non siamo contro la globalizzazione, dice, ma contro questa globalizzazione. Lo dice non a caso la Chiesa, organizzazione centralizzata, internazionale e globalizzata come poche.
Ripetiamo, con Marx, che quando una controrivoluzione va fino in fondo non può far altro che preparare le condizioni per una rivoluzione ancor più radicale. Dopo le barricate del 1848 la storia stava già buttando fra il pattume tutto l'armamentario democratico precedente; per far emergere il partito della rivoluzione, doveva spazzare via il partito della politica corrente. Oggi abbiamo bisogno di una pulizia ancor più radicale, di una sconfitta del pattume interclassista e pacifista ancor più profonda e definitiva. A Genova i cortei erano pieni di ragazzi che non possono essere già tutti bacati dalla politica dei padri e dei nonni, avranno occasione di trovare strade migliori perché il futuro non è roseo per milioni e milioni di loro. E sarebbe anche ora di finirla con il piagnisteo sulla disfatta del movimento operaio, sulla sua assenza dalla scena, con le frasi da negromanti sul suo radioso risorgere. Non è sconfitta la rivoluzione, sono sconfitti i rifiuti che l'ultimo tentativo ha prodotto, ed è bene che il movimento operaio non vada a Genova. Lo stalinismo, rappresentante ufficiale di questi rifiuti, sarà pure cadavere, ma le cause materiali della sua esistenza non sono ancora sparite, può risorgere sotto altre sembianze. La sua sconfitta sarà definitiva solo con la comparsa di un movimento rivoluzionario che ne estirpi le radici.
Lebbra dell'illegalismo bastardo
Forse è utile un collegamento col passato per sottolineare quanto sia difficile mettersi in sintonia col futuro. Nel clima surriscaldato precedente le elezioni del 1953, le sinistre bersagliavano la Democrazia Cristiana perché aveva tentato di manipolare la legge elettorale a proprio vantaggio. Era accusata di sfruttare sfacciatamente la vittoria degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale e l'anticomunismo maccartista. Il suo successo in effetti poggiava più sulla politica estera degli Stati Uniti che non sulla sua tradizione storica di partito. Le portaerei americane erano dove sono oggi; la "Celere" picchiava più di oggi, con i moschetti afferrati per la canna, e quando li imbracciava per il verso giusto mirava ad altezza d'uomo perché aveva l'ordine di uccidere. I partiti sedicenti marxisti, legati a filo doppio con il vincitore russo, inscenavano manifestazioni in difesa della democrazia locale violata, incuranti di che cosa fosse in realtà la democrazia nell'URSS. Per tali partiti la colpa di tutte le illibertà italiche andava attribuita al potente alleato del giorno prima, con il quale avevano partecipato al macello mondiale (dopo aver completato il massacro dei comunisti in Russia), elevando a quasi-religione nazionale la loro partigianeria imperialistica. Proprio in base ai "valori della resistenza" minacciavano una sollevazione popolare nel caso si fosse osato manipolare il risultato numerico dei voti (e un saggio l'avevano già offerto dopo l'attentato a Togliatti).
In quell'occasione fu pubblicato, da parte del Partito Comunista Internazionale, l'articolo Lebbra dell'illegalismo bastardo, da cui riproduciamo il passo che segue, notando che la sinistra no global d'oggi, dal punto di vista dell'arretratezza e della mistificazione, è ancora peggio dei togliattiani di allora: "Nelle file proletarie il novantanove per cento delle forze sta coi partiti che si dicono pronti all'elettorato costituzionale, ma non escludono il ricorso alla forza nel caso di 'violata democrazia'. Solo forse l'un per cento sta sul terreno di principio dell'uso della forza e non della legalità per arrivare al potere: questi gruppi non minacciano nulla per due ragioni. Primo: sono molto lontani dal rapporto di forze che faccia pensare di dare fastidio alle portaerei e alla Celere motorizzata. Secondo: se a tale rapporto si fosse vicini, sarebbe da supremi fessi mettersi a minacciare prima di dare addosso.
Noi definiamo come illegalismo bastardo quello che si definisce in tre facce. Programma teorico e agitatorio di democrazia e legalità istituzionale. Predisposizione di gruppi per l'azione armata (fin che ci si vuol credere: in fondo si tratta di rigurgiti dell'illegalismo borghese antifascista, l'illegalismo liberale storico è altra cosa). Periodica minaccia di passaggio dal legalismo all'illegalismo.
Questa minaccia diviene ancora più banale quando, come nelle ultime manifestazioni, essa si riferisce non alla forza del partito ma ad uno spontaneo insorgere del popolo! La rivoluzione per dispetto! Nulla ormai li separa dalla minaccia che quel tale marito fece alla moglie, se ancora lo avesse tradito. Noi non insorgeremo, ma il popolo insorgerà contro di voi, se! I 'se' sono ineffabili uno più dell'altro. Se violerete la vostra costituzione! Se rivelerete coi fatti che la vostra democrazia non è che una porcata! Se aggiogherete la vostra Patria allo Straniero! Se farete la guerra contro lo Stato russo, che non la vuol fare contro di voi, che non la vuol fare contro nessuno, che non vuole che nel vostro paese nessuna classe e nessun partito prendano le armi per buttarvi a gambe per aria!
O la storia segue finalità di patria, di nazione, di razza, o segue finalità di classe. Se a questo si crede, non occorre stupirsi che le classi borghesi di paesi diversi si sorreggano tra loro, e quando il proletariato interno le minaccia, chiamino lo straniero. Peggio che uno straniero di classe, questo non può essere per noi. Quel che frega non è che gli americani siano qui come americani, ma come borghesi. Quel che frega è che sono venti volte più forti dei borghesi locali. E allora che razza di ragionamento è questo: se restate voi soli borghesi italiani, staremo quieti e consentiremo che gli operai siano sfruttati senza assalirvi: appena sarete ventun volte più forti, vi assaliremo?"
Andare oltre al risorgente Sessantotto
Fin dai primi anni '60 era stato utilizzata la frase "contestare il sistema" per definire l'azione di piazza dei giovani occidentali. I vecchi comunisti, e anche gli incalliti stalinisti, sorridevano, essendo abituati a dire "abbattere il sistema". La contestazione divenne normale. I manifestanti furono chiamati "contestatori". Erano gli anni in cui si leggeva Marcuse, il cui celebre saggio concludeva con il concetto di Grande Rifiuto. Masse di uomini sfruttati, perseguitati e schiacciati si ribellavano effettivamente in tutto il mondo. Il filosofo scriveva nel '64: "La loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco, e così facendo mostra che il gioco è truccato". Eccessivo, com'è eccessivo tutto ciò che i filosofi adottano per sostenere un'idea. Ma molti giovani si sentivano parte di quel movimento mondiale, che in effetti era il residuo dei rivoluzionari sconvolgimenti dovuti all'agonia del colonialismo. "Volevano" essere rivoluzionari anche loro, nelle cittadelle del capitalismo sviluppato. E venne il '68.
Il "rifiuto del sistema" in realtà non era tale. Il movimento dei giovani non proletari chiedeva diritti all'interno del sistema, anche se coloriva di espressioni truculente il suo linguaggio. Il "marxista" Marcuse aveva dimenticato un assioma fondamentale di Marx: "Una rivolta industriale può essere parziale fin che si vuole, ciònondimeno racchiude un'anima universale; la rivolta politica può essere universale fin che si vuole, ciònondimeno essa cela sotto il suo aspetto più colossale uno spirito angusto". Le rivendicazioni delle classi che si pongono all'interno del sistema sono sempre "politiche", e la loro meschinità si rivela con il fatto che tendono a soddisfare questioni di reddito o, meglio, di redistribuzione del valore, il quale, è bene ricordarlo, è tutto prodotto da una sola classe.
Quindi la contestazione (che vuol dire "con testimonianza") non è affatto rifiuto, è negazione della legittimità di una situazione, cosa che rende implicito il fatto che la si vorrebbe più legittima. Essa pretende, proprio come il movimento riunito a Genova, di entrare nel merito, di avviare un confronto, cioè di infognarsi in una discussione sulla legittimità e sulla giustizia delle scelte altrui. Nessuno pretende che quel movimento sia comunista, ma non sarebbe male che smettessero di chiamarsi comunisti molti di quelli che vi partecipano. Il comunismo si impone come movimento positivo negando i caratteri di questa società, non certo migliorandoli.
Certo, anche il '68 pretendeva di negare questa società, eccome. Non c'era niente di più anti-capitalista e soprattutto anti-imperialista. Ma i suoi bersagli erano gli uomini e i governi, non il capitalismo in sé, dato che c'era un po' di confusione sulle cose da abbattere e soprattutto sulle condizioni storiche necessarie, sull'attrezzatura teorica e organizzativa, sul come viene meno la forza dell'avversario, su quali forze devono necessariamente scendere in campo e su quale programma deve dittare materialmente al di sopra di tutti gli altri. Un programma che è movimento materiale verso il nuovo, non lo strillo di qualche ometto che si trova un megafono in mano e qualche frase fatta nella testa. Anche Lenin aveva avuto qualche problema a far digerire il fatto che, a differenza di quel che pensava il rinnegato Kautsky, l’imperialismo non è una politica degli Stati, è la struttura materiale del capitalismo moderno. Si può cantare "buttiamo a mare le basi americane", ottimo, ma per favore si dia anche qualche modesta indicazione sul come affrontare la Sesta Flotta, i Marines, l'Air Force e tutto il sistema materiale che sta intorno ad essi.
Nel 1924 la Sinistra Comunista "italiana" analizzò le caratteristiche piccolo-borghesi e studentesche del movimento dannunziano. Quasi ogni cosa detta allora può essere ripetuta oggi, tenendo presente che il movimento odierno è più arretrato del '68 e della dannunziana Carta di Carnaro.
"Dobbiamo premettere subito", diceva la Sinistra, "che non ogni critica del capitalismo borghese è socialismo, anche quando ne assuma il nome. I lati criticabili del capitalismo sono tanto evidenti, che esso è stato condannato dai più svariati punti di vista, dando luogo alle più opposte dottrine, molte delle quali sono in antitesi con quella del socialismo moderno classista. Ad esempio, una critica degli orrori prodotti dal regime industriale consisteva nell'invocare il ritorno all'assetto pre-borghese".
Da questo punto di vista riteniamo che le esplosioni sociali verificatesi negli Stati Uniti da Watts a Los Angeles siano state più importanti e significative, abbiano mosso critica radicale al sistema meglio delle manifestazioni no global, anche se qualcuno asserisce che siamo di fronte a un nuovo fenomeno politico mondiale di rivolta e di rifiuto. No, le rivoluzioni, le controrivoluzioni, e anche il '68, ci insegnano che ben altro si deve mettere in moto. Oggi viene usato il termine "disobbedienza civile". Sarebbe democraticamente e pacificamente perfetto, dato che evoca tranquillità e galateo. Lo sarebbe, se non usurpasse però una parola d'ordine del passato, di importanza incomparabile nei fatti più che nel significato immediato: il rifiuto della guerra del Viet Nam da parte dei 50.000 giovani americani che diedero vita ad una formidabile ondata disfattista organizzata e furono incarcerati o costretti ad andare all'estero.
L'attuale movimento no global, variopinto, interclassista e pacifista, consuma energia a vuoto in teatrini senza speranza, piazze "a tema", fantocci, cartelli, creatività diffusa persino nei goffi scimmiottamenti in gommapiuma dell'attrezzatura antisommossa della polizia. Anche buone prove di organizzazione telematica, se sono fini a sé stesse, risultano sterili nel tempo che intercorre tra un'occasione e l'altra, occasione peraltro scelta dall'avversario a suo arbitrio. Si richiamano confusamente i giovani alla necessità del cambiamento, ma li si scarica di fronte alla capacità repressiva dello Stato senza che abbiano la possibilità di valutare questa dissipazione inutile di energia. Li si mette di fronte al fatto che si è innescato un fatto nuovo, l'organizzazione telematica, la mobilità internazionalista, la determinazione alla lotta, ma non gli si permette di afferrare fino in fondo che si tratta di una realtà enormemente più importante di ogni marcia multicolore e di ogni indignazione moralistica contro le "ingiustizie". Una realtà specificamente prodotta proprio dalle necessità di globalizzazione dell'informazione e dei movimenti di capitali contro cui si "contesta".
Tutto ciò mette in evidenza il contrasto fra la potenza organizzativa rappresentata dalla rete di comunicazione moderna e l'impotenza moralista piccolo-borghese del pacifismo, delle chiese missionarie e militanti, che pure fanno un uso massiccio di tali strumenti. La militanza suscitata da categorie prive di significato empirico come il Bene e il Male può riempire le piazze e Internet, ma non cambia una virgola nei rapporti sociali esistenti. Siamo di fronte a un tragico paradosso: la globalizzazione e i suoi mezzi, lo stesso internazionalismo che le non-classi – altrimenti localiste – esprimono in modo intermittente, sarebbero di per sé caratteristico patrimonio proletario. L'esemplare sciopero dei lavoratori della UPS negli Stati Uniti ha dimostrato l'eccellenza di tali mezzi per la lotta, l'universalità del loro utilizzo. Ma non si sono viste per ora pattuglie missionarie ONG, no profit, equo-solidali e agro-protezioniste accorgersi che esistono le classi. Ancor di meno si son viste masse operaie organizzarsi internazionalmente via Internet e varcare i confini per grandi scioperi e scontri.
Qualcuno potrebbe chiedersi se un movimento come quello in questione ha la possibilità o meno di superare nel corso degli eventi la propria natura e i propri obiettivi; se, come dice Marx, ha la possibilità di criticare sé stesso nel corso degli eventi e trascendere a forme e obiettivi più elevati. La risposta oggi è no, un no secco e deciso. La ragione è persino ovvia: ogni movimento sociale interclassista, in una determinata epoca o situazione, riceve l'impronta politica dalla classe che ha maggior peso specifico al suo interno, indipendentemente dal numero dei suoi elementi. Dalla classe, cioè, che ha maggior interesse nel difendere le condizioni raggiunte o a volerne stabilire di nuove. Anche questo fatto non è nuovo: nella Rivoluzione Francese, la classe che stava per prendere il potere aveva come alleati il proletariato, la piccola borghesia e il variegato popolo minuto urbano, rovinato dalla crisi. Furono tutte queste forze a combattere, sul campo i borghesi quasi non c'erano. Nell'Ottobre russo il proletariato era una piccola minoranza della popolazione e quello specificamente comunista numericamente inferiore anche alle forze rivoluzionarie antizariste, ma rappresentò la parte decisiva. Perciò, per quanto ogni tensione sociale sia importante per i comunisti, l'unica situazione che essi ritengono fondamentale rispetto al fine che perseguono è quella in cui la classe proletaria dà la sua impronta e trascina gli avvenimenti verso obiettivi incompatibili con quelli di tutte le altre classi e non-classi. E' a questa prova che si vedono i militanti della rivoluzione.
Affinché si polarizzino le spinte sociali occorre una situazione molto diversa da quella di oggi. Solo allora anche movimenti confusi, contraddittori e non prettamente classisti possono indirizzarsi verso la rottura dell'ordine esistente; ma oggi sono assenti troppi fra i fattori che permetterebbero di definire polarizzata la situazione sociale, anche se localmente esplodono episodi imponenti come quelli di Genova.
In primo luogo non esiste una organizzazione di classe, né dal punto di vista degli interessi immediati, né da quello degli interessi finali. Proprio per questo il movimento contestatario generico non è stato in grado di superare, in più di trent'anni, le sue contraddizioni. I suoi risultati sono identici alle sue premesse, nulla è cambiato. Esso è condannato non solo al gioco della manifestazione e contro-manifestazione, ma, proprio come hanno notato ormai in molti, a farsi trascinare in ridicole discussioni sulle zone gialle o rosse, bolsamente inorgogliti dal contatto con il potente avversario, come se non si fosse ad una farsa ma ad una replica del tragico trattato di Brest-Litovsk; e a finire, specie col senno di poi, in diatribe sui buoni e cattivi, sulle pretese che la polizia non sia una polizia, a lamentarsi perché fa male ricevere manganellate e proiettili.
Triviali partigianerie
A fianco di questa politica interclassista nasce, come da copione, un altrettanto interclassista schieramento partigianesco. La mobilitazione di Genova era preventivamente indirizzata anche contro la frazione "di destra" della borghesia italiana e quindi oggettivamente a sostegno di quella "di sinistra". Ora che i destri sono al governo, gli strascichi genovesi sono stati utilizzati dalle due frazioni in modo diretto, e varie componenti del movimento si sono prestate alla lotta fra borghesi. Echi internazionali l'hanno amplificata, e persino la Turchia ne ha approfittato, protestando contro il pestaggio di suoi cittadini, vendicandosi così delle remore al suo ingresso nell'Unione Europea per via dei "diritti civili". In questo modo anche l'unico elemento positivo, l'esuberante rabbia giovanile, finisce per essere convogliata e utilizzata nella lurida politica corrente.
Mancava poco che partecipassero alle manifestazioni di Genova anche i DS, quelli che hanno preparato il G8 dopo gli ultra-pubblicizzati pellegrinaggi americani dei loro dirigenti. Nell'atmosfera frontista anti-berlusconiana quasi tutti hanno dimenticato che, se i sinistri fossero stati al governo, avrebbero probabilmente picchiato ancora più sodo. E' infatti noto l'odio poliziesco degli ex stalinisti verso tutto ciò che è "più a sinistra" di loro. Il vecchio governo Berlusconi fu fatto cadere con piazzate "antifasciste" dove vi fu un largo utilizzo dei sindacati con il pretesto dei tagli al sistema pensionistico; ma poi fu di sinistra il governo realizzatore delle "stangate" a raffica e del taglio drastico sulla previdenza.
Quello attuale di destra è bell’e impacchettato su due fronti. Il fronte dell'industria che conta l'ha già ridotto al rispetto delle buone famiglie – ex nemiche – dell'italico padronato e delle sue scalate economiche, l'ha già convertito ad un super-atlantismo che neppure l'odiata DC se lo sognava, l'ha già fatto diventare globalista e internazionalista, alla faccia dei localismi bossiani e dei nazionalismi fineschi. Il fronte parlamentare gli ha già dato un saggio con l'ultimatum di Violante: attenti a non sgarrare o ricorreremo alla piazza. Berlusconi ha fatto subito sapere che la piazza la riempirà il suo partito. Per ogni evenienza, dall'altra parte c'è in riserva l'artiglieria pesante sindacale: il gentile Cofferati – che piacerebbe tanto a Scalfari e alla buona borghesia liberale come capo dei DS – ha perso l'abituale aplomb e ha fatto sapere che la CGIL è disponibile. Anche contro coloro che nel suo stesso partito "hanno rimosso i fondamentali del riformismo, facendone una lettura caricaturale". Guerra tra frazioni ed entro le frazioni. Non manca l'appoggio di bande partigiane.
Governo e borghesia italici non sono comunque interlocutori autonomi, né nei giochi interni, né sul fronte dei grandi della Terra che si son dati il nome di G8. L'Italia è una specie di pontile, meglio, una portaerei fissa gettata sul Mediterraneo fra Atlantico, Africa, Europa e Medio Oriente, e la sua posizione strategica è troppo importante per essere lasciata alla gestione di un governo locale, che abbia cioè una sua politica interna e soprattutto estera. L'Italia, paese mediterraneo, ha perso la guerra e perciò deve paradossalmente far parte dello schieramento Nord Atlantico, voluto dai vincitori per controllare l'Europa. Ma economicamente fa parte di quest'ultima, che sta faticosamente cercando di emanciparsi dalla potenza del dollaro senza riuscire ad essere una vera federazione. L'importanza strategica dell'Italia non è quindi solo militare, è anche dovuta alla funzione economica e politica che può svolgere in Europa. Non è un mistero per nessuno che ogni tentativo di varare una politica estera indipendente rispetto agli Stati Uniti è finito male per i governanti italiani (Craxi e il PSI con Sigonella, Andreotti e la DC con l'apertura "araba"). Bande partigiane interne, per forza nazione partigiana del potente imperialismo americano.
A Genova erano attivi tutti i servizi segreti, tutti gli uffici della diplomazia occulta e tutti gli addetti ai vari traffici dei paesi partecipanti al G8. Al di là di dietrologie inutili, è certo che ad ogni summit costoro lavorano ben più dei capi di stato, buoni tutt'al più per accontentare gli operatori della televisione e i fotografi. Tutte le volte che ci scappa il morto, da Kennedy a Carlo Giuliani, in contesti dove sono sul tappeto enormi interessi convergenti, giova ripetere che è da idioti cercare la "colpa" nell'individuo che aveva il dito sul grilletto in quel momento.
Quello che è successo a Genova e dopo non è dovuto né al Black bloc, né a qualche poliziotto fuori di testa, né al governo né all'opposizione; tutte queste componenti sono state – e continuano ad essere – ingranaggi di un meccanismo complesso in funzione fin dal '45 (e anche prima), cioè da quando in Italia si è incominciato a fingere che ci fossero governi, partiti, sindacati e giornali "indipendenti" o comunque "nazionali". A Genova sembravano protagonisti il popolo di Seattle e la polizia, ma qui non siamo in America: i protagonisti veri non si vedevano, si vedeva unicamente lo sfondo su cui essi agivano, non solo quel giorno, bensì da più di mezzo secolo.
Scriveva il Partito Comunista Internazionale a proposito della neutralità italiana: "Essendo lo Stato italiano oggi non un soggetto, ma un oggetto del problema, la tesi politica della neutralità – che non è mai stata una tesi proletaria – non si pone nemmeno come tesi nazionale [...] Per la soluzione di così ardente problema non contano nulla i pareri e i voti del parlamento italiano e nemmeno le azioni nella piazza secondo ruffianesche regie" ("Neutralità", Prometeo, 1949).
Considerazioni sul campo
L'abbondanza di episodi gratuitamente brutali, anche a freddo, sotto le telecamere di tutto il mondo, dimostra qualche vuoto di professionalità poliziesca. Una certa dose di italico individualismo creativo non è mancata, compresi i kit antisommossa personalizzati. I poliziotti, al solito "motivati" da una selezione e preparazione classista, si sono scatenati; i carabinieri, che dovrebbero essere abituati ad affrontare la piazza con metodo militare, sembravano poliziotti; i finanzieri, evidentemente poco esperti, si sono gettati nella mischia copiando.
A parte il tocco artistico, se finora è stata controllata la politica italiana, non lo è stata da meno la piazza genovese. L'esperienza delle manifestazioni precedenti è stata messa a frutto a Genova non certo per sola iniziativa delle polizie nostrane, i cui difetti di incomunicabilità sono noti. Comunque sia, i comportamenti specifici dicono abbastanza poco, a parte lo spettacolo mediatico. Era ufficiale la presenza attiva di consiglieri della CIA e dell'FBI, perciò, a differenza che nel passato, le tre polizie nostrane hanno tenuto la piazza con un piano militare semplice ed efficiente, anche se adesso i responsabili, di fronte agli inquirenti, si giustificano dicendo che non erano preparati alla guerriglia e che sono stati mandati allo sbaraglio.
Figuriamoci. A Seattle c'erano 10.000 fra poliziotti e uomini della guardia nazionale e 50.000 manifestanti, un rapporto di 1 a 5; a Göteborg 8.000 poliziotti per 25.000 manifestanti, un rapporto di 1 a 3; a Genova 18.000 poliziotti per 250.000 manifestanti, un rapporto di 1 a 14: con forze relativamente limitate rispetto alla situazione da controllare, i poliziotti nostrani hanno tutto sommato raggiunto gli obiettivi immediati che si prefiggevano i loro comandi. Tramite espedienti elementari e l'utilizzo della topografia particolare della città sono riusciti ad evitare la formazione di masse d'urto incontrollabili. Ciò che i media non potevano mostrare è stato probabilmente più significativo di tutto il folclore fotogenico dei pestaggi e degli incendi: i percorsi obbligati predisposti da giorni con i container e modificati a sorpresa la notte prima delle manifestazioni; le strette vie di fuga presidiabili con forze limitate; la pressione anche psicologica ottenuta con l'avanzata di falangi impenetrabili, a volte disposte teatralmente a testuggine; le evidenti trappole mobili che si muovevano lentamente per attirare i "violenti" fuori dalla massa; l'utilizzo di gas a distanza in quantità industriale, lanciati anche dagli elicotteri e dai natanti che pattugliavano la costa; i repentini e violentissimi attacchi per disperdere le grosse concentrazioni ed evitare così che fossero utilizzate come rifugio dai gruppi più attivi; l'utilizzo di piccole unità di blindati e furgoni protetti per far consumare inutilmente le "munizioni" ai manifestanti; il ponderato disinteresse nei confronti di pochi smasher che avrebbero richiesto forze sproporzionate per evitare danni tutto sommato ben sfruttabili propagandisticamente.
A questo proposito è bene precisare che gli infiltrati e i provocatori ci sono sempre stati, ma la delatoria isteria di massa contro l'archetipo Black bloc scatenata su Internet è una novità interessante. Sembrerebbe il risultato di un riuscito lavaggio dei cervelli serviziosegretista, se non sapessimo che la maggior parte degli pseudorivoluzionari nostrani è abbastanza corrotta dal demopacifismo da prestarsi con bovina spontaneità.
Naturalmente, criticando dal punto di vista di un anticapitalismo senza compromessi il comportamento e il programma sia degli effettivi arruolati nell'esercito no global che dei sinistri rimorchiati per l'occasione, sappiamo bene che fra tutti i sei miliardi di abitanti del pianeta ce ne sono ben pochi d'accordo con noi. Ma sappiamo che ogni rivoluzione agisce sull'andamento materiale delle cose indipendentemente da ciò che ne pensa ogni individuo. Il metodo marxista ci mette in grado di vedere in anticipo le potenzialità rivoluzionarie di ogni movimento, se ci sono, e le valutazioni al riguardo non possono che basarsi sulla reale demolizione dei rapporti presenti da parte delle forze che entrano in lotta.
Il movimento di cui stiamo trattando non ha queste potenzialità. Non trascende sé stesso, anzi, si cristallizza, si professionalizza, si organizza dietro squallidissimi capi per la sua propria sopravvivenza, fino al prossimo convegno globalizzatore, fino alle prossime trattative sulle zone gialle o rosse, fino alla prossima collaborazione con lo Stato, cui vengono consegnati filmati, fotografie, testimonianze, attraverso i tribunali cui le strutture del movimento si sono appellate. E anche questo risibile ricorso a uno dei peggiori strumenti borghesi è significativo. Così il movimento stesso diventa parte integrante dell'apparato capitalistico, agisce soltanto quando c'è la sicurezza di una controparte altrettanto spettacolare, fa leva sulla diffusione telematica dell'informazione, stravolgendo in modo volgare, democratico, pettegolo, piagnone, quello che potenzialmente è un mezzo straordinario d'organizzazione rivoluzionaria.
Omologazione
Questa è la società della mercificazione massima. Le grandi organizzazioni internazionali, IMF, WTO, World Bank, G8, EU, ecc. hanno estremo bisogno di presenza, immagine, pubblicità e audience come una qualsiasi azienda sul mercato, per via dei giganteschi fondi sociali che assorbono, plusvalore che i proletari producono sudando e che i governi devono ripartire nella società. Questi organismi potrebbero benissimo, razionalmente, fare i loro convegni tramite teleconferenze, da luoghi appartati, lussuosi quanto vogliono e lontani tra di loro, senza fisicamente radunare migliaia di uomini tra partecipanti, famiglie, guardie del corpo, giornalisti ed eserciti di sbirri. Senza sollecitare morbosamente la piazza. E quindi risparmiando sui budget degli Stati. Ma non possono, così come non può essere venduto un qualunque dentifricio senza la pubblicità, perché sono parte integrante di tutto il sistema che li ha prodotti. Perciò, mentre per una teleconferenza, tecnicamente più razionale, non si muoverebbe un pennivendolo, per un convegno in località amene e facilmente raggiungibili dai "popoli" contestatori, si muovono eserciti di giornalisti, con audience mondiale assicurata. Non è azzardato prevedere che presto, molto presto, i rappresentanti del popolo contestatore saranno cooptati al massimo livello mondiale: non è possibile lasciare il governo del mondo a pochi organismi avulsi dal contesto sociale. Parola di Prodi, Ruggiero e, nientemeno, di Kissinger. L'America non può governare da sola un mondo troppo complicato. I potenziali candidati stanno già sgomitando per essere nel mazzo. Come una nuova ondata di sessantottini. Come già avevamo notato in passato: tutti i salmi attivistici finiscono nella gloria elettorale. E, a conferma, ognuno può divertirsi a scovare nomi di ex extraparlamentari in ogni parlamento, anche tra gli attuali capi di stato.
Siamo dissacranti? Siamo cinici? L'importante, in guerra, è non fare mai favori all'avversario. Nel '68 l'immaginazione doveva andare al potere invece della classe rivoluzionaria e si è visto com'è andata a finire: invece di immaginazione abbiamo infinite squallide repliche di luoghi comuni. Oggi, aggregati come il Genoa Social Forum, Lilliput, Tute bianche, Attac ecc. non se lo sognano neanche più di parlare di potere e corrono dietro alle decisioni degli uffici di pubbliche relazioni dei grandi organismi internazionali. Eppure attirano anche parte di quel milieu "comunista" che, almeno a parole, propugna truculente prese del potere. Così l'Economist, organo del capitalismo mondiale, dopo Göteborg poteva scrivere un articolo intitolato: Più pomodori, per favore. Sottotitolo: Perché i manifestanti fanno il gioco del capitalismo globale (23 giugno). Gli organismi internazionali, compreso il G8 che organismo non è, hanno bisogno delle manifestazioni, devono assolutamente cooptare il movimento – parte nello spettacolo di piazza e parte al tavolo con i "grandi" – per poter diventare ciò che non sono ancora, un supergoverno mondializzato, un esecutivo blindato con l'ONU a far da parlamento. Non è bello farsi prendere per il culo a questo modo, ma tant'è.
Dialettico maturare del piano mondiale
Con la vittoria del pragmatismo filosofico borghese oggi è di moda definirsi concreti, realisti, pratici. Così la borghesia – che se ne frega di essere filosofa – risulta essere l'unica classe che adopera la scienza, non solo per la produzione. E i presunti avversari della borghesia, per essere immediatamente pratici, rinunciano all'utilizzo di quella base teorica che sarebbe in grado di dare risultati nel tempo proprio sul piano del realismo, della concretezza e della praticità. Nessuna agitazione legata all'idea, quindi fine a sé stessa, può essere lavoro pratico per la rivoluzione. Nel primo capitolo dell'Ideologia tedesca Marx ed Engels demoliscono "realisticamente" la concezione filosofica della società fino a quel momento imperante, e scavano a fondo sulle origini materiali del divenire sociale, fatto non di pensiero ma di industria, macchine a vapore, telai automatici, sfruttamento, ferrovie, telegrafo, classi differenziate. Noi dobbiamo chiederci, altrettanto realisticamente, di che cosa sia fatto oggi il divenire sociale, che cos'è che muove la cosiddetta globalizzazione e i suoi oppositori, che cosa faccia marciare questi ultimi, spesso rappresentanti di opposte tendenze politiche, contraddittoriamente, confusamente, spesso ipocritamente, sotto la stessa bandiera.
Questo realismo scientifico, basato sulle leggi dello sviluppo sociale e della metamorfosi storica, porta Marx ed Engels a precisare, nel Manifesto, che i comunisti "sostengono ovunque tutti i movimenti rivoluzionari contro le situazioni sociali e politiche presenti", e che in questi movimenti essi "sollevano la questione della proprietà, qualunque sia il grado di sviluppo che questa ha potuto raggiungere". Nel 1848 sollevare il problema della proprietà significava, da parte comunista, appoggiare la sua completa emancipazione dalle vecchie forme sociali, quindi appoggiare i movimenti democratici in tutti i paesi, soprattutto in una Germania che era alla vigilia della rivoluzione borghese.
Da che cosa può emanciparsi ulteriormente, oggi, la proprietà capitalistica? La rivoluzione borghese è compiuta da tempo in tutti i paesi del mondo. La proprietà è in tutto il mondo pienamente capitalistica e anche se vi sono aree immense di miseria esse non corrispondono nel modo più assoluto al persistere di vecchi modi di produzione. La cosiddetta globalizzazione non è altro che il prendere atto, da parte del Capitale, che il movimento storico dell'affermarsi della proprietà capitalistica è compiuto per sempre. E’ il frutto della necessità, dialetticamente rivoluzionaria, di un controllo mondiale per la produzione e la distribuzione, controllo che si va estendendo dalla singola industria multinazionale all'insieme del mondo.
Ogni cosiddetta multinazionale è in grado di intervenire localmente e di influenzare anche l'economia e il governo di un paese, come facevano un tempo le varie compagnie delle Indie, ma, per quanto grande e ramificata nel mondo, non è in grado di modificare il caotico muoversi dei capitali sui mercati internazionali, che sono di massa e potenza complessiva immensamente superiore alle sue risorse. La globalizzazione si ritorce contro i singoli capitali, compresi quelli delle multinazionali, che vengono tendenzialmente disciplinati ad interessi superiori, globali, appunto. Ciò vale a maggior ragione per ogni paese preso a sé. Che, già asservito alle esigenze dei mercati, perde così ogni indipendenza economica e, con essa, ogni autonomia politica. Si prospetta insomma un tentativo di piano mondiale. Questo tipo di fenomeno, che anticipa in negativo ciò che sarà compito della rivoluzione futura realizzare in positivo, non è per nulla sconosciuto al marxismo. Le opere di Marx e di Engels sono costellate di esempi sulle potenzialità anticipate ma negate; Lenin noterà: il capitalismo moderno è un involucro che non corrisponde più al suo contenuto.
Se questa non è la frase vuota di un pazzo, significa che il contenuto, tolto l'involucro soffocante, può già vivere di vita propria. All'interno degli Stati la rivoluzione ha lavorato per decenni a consolidare parlamenti democratici, non certo per tramandarli alla società futura; essi erano l'ambiente in cui si selezionavano forze per la costituzione di forti esecutivi in grado di prendere decisioni rapide. Da Luigi Bonaparte in poi, gli esecuitivi si sono innalzati sui parlamenti rendendoli inutili serbatoi di chiacchiere.
Il fascismo li aveva spazzati via dimostrando che la democrazia, formale e ideologica, non aveva più senso storico, anche se la borghesia continua a ricorrervi come buon tessuto per il proverbiale involucro. Non è un caso che fra le due guerre mondiali ad un certo punto tutto il mondo fosse sotto il governo di esecutivi forti, in grado di controllare l'economia secondo piani centrali più o meno totalitari. Il mondo intero, non un esperimento isolato.
Oggi il dibattito sulla globalizzazione è un effetto della necessità urgente di controllare il capitalismo mondiale, e i tentativi di giungere a schemi pratici d'intervento non sono affatto uno scherzo. Naturalmente i paesi più forti tendono a tenere le redini, ma è marxisticamente dimostrabile che i paesi deboli traggono più vantaggio da questo controllo che da una situazione incontrollata. Persino gli Stati Uniti hanno bisogno di controllo, ma non c'è chi possa effettuarlo. Oggi sembra che tutto dipenda da Greenspan e dalla Federal Reserve, la banca centrale americana. Ma sarebbe ridicolo pensare che i capitali internazionali siano mossi da un uomo. Non è possibile, nemmeno dall'ufficio più potente del mondo. In realtà sono i capitali internazionali che muovono Greeenspan e il suo staff. Ebbene, quei capitali si muoverebbero molto meglio se l'ufficio di Greenspan non fosse nella Federal reserve ma in un contesto internazionale. Questo contesto non c'è. Ma proviamo a immaginare che ci sia, che sia controllato, ovviamente, dagli Stati Uniti (che sono l'unica potenza in grado di farlo) e che abbia un potere d'intervento, da solo, pari a quello di tutti gli sparsi organismi. E' quello che vorrebbero raggiungere i Grandi della Terra quando si riuniscono senza concludere nulla per via delle spinte nazionali che ognuno rappresenta. Sarebbero da licenziare tutti, per boicottaggio contro la globalizzazione, ma nessuno è più in alto di loro per farlo.
Ora immaginiamo invece che l'involucro vada al diavolo e che il contenuto esploda in tutta la potenza liberata dell'energia sociale. Potrebbero andare in pensione per sempre gli esecutivi nazionali e sarebbe possibile un nuovo organismo tecnico per mettere un po' d'ordine nel mondo ex capitalistico. Possibile, perché già nei fatti. Non un "governo" mondiale, ma un ente coordinatore, espresso da una rete organica di relazioni nuove, che indirizzano l'energia sociale verso una distribuzione più razionale sull'intero pianeta. Nel movimento attuale, di globalizzazione e anti-globalizzazione, ciò che si deve vedere è il lavorìo della società per giungere comunque ad un risultato del genere, perché il Capitale, principale fabbricatore di armi puntate contro sé stesso, di questo risultato ha bisogno nonostante l'ottusità delle borghesie nazionali e dei loro governi. Cause ed effetti si mescolano in una dinamica che produce già contraddizioni sociali gravi, come dimostrano tutte le Seattle che ci sono state e ci saranno ancora.
Letture consigliate
- K. Marx, Commercio britannico, con il nostro commento Il prezzo della supremazia, pubblicati entrambi sul n. 1 della rivista.
- Globalizzazione, Anche in opuscolo, Quaderni Internazionalisti.
- Donchisciottismo; La febbre di Seattle; entrambi nel n. 1 della rivista.
- Farina, festa e forca, Quaderni Internazionalisti (contiene l'articolo citato "Lebbra dell'illegalismo bastardo").
- Bussole impazzite, Quaderni Internazionalisti (contiene l'articolo citato "Neutralità").
- "I sedici giorni più belli – Lo sciopero significativo della UPS", n+1 n. 3, marzo 2001
Una selezione di documenti significativi fra quelli ricevuti e link sui fatti di Genova è disponibile su questo sito.
Più accumulazione, minor numero di borghesi. Più accumulazione, maggior numero di operai, ancor maggior numero di proletari semioccupati e disoccupati, e di peso morto di sovrappopolazione senza risorse. Più accumulazione, più ricchezza borghese, più miseria proletaria.
Il falso marxismo si compendia nella tesi che il lavoratore può conquistare posizioni utili: a) nello Stato politico con la democrazia liberale; b) nella azienda economica con aumenti di salari e rivendicazioni sindacali. E ciò parallelamente al crescere dell'accumulazione del capitale. Il falso marxismo corteggia la dottrina che l'aumentata produzione è aumento di ricchezza sociale ripartita tra "tutti". Ha tradito totalmente la legge basilare del marxismo.
Sorge da questa chiarificazione, da una parte, lo studio economico teorico della modernissima accumulazione, dall'altra una conclusione sulla strategia della lotta di classe. Abbiamo pertanto coi dati della storia di essa impreso a mostrare questo: al centro del falso marxismo e al vertice del tradimento sta la teoria della "offensiva" padronale borghese capitalistica, sia essa dipinta nel campo dello Stato o della azienda, e la sua sporca figlia, la pratica del "blocco" e del "fronte unico".
Partito Comunista Internazionale, 1949