Il fallimento
Se il fenomeno economico dei grandi monopoli di produzione, o trust che dir si vogliano, ci fornisce una delle migliori prove, uno dei sintomi più evidenti della catastrofe prossima del regime attuale, non meno interessante ci deve riuscire lo studio di un fenomeno politico che si svolge parallelamente a quello economico: il trust delle opinioni.
Noi abbiamo assistito in Italia agli effetti coloniali di una coalizione di questo genere, ed assistiamo ora, più presto di quanto avessimo potuto sognare, al suo fallimento vergognosamente disastroso.
Le basi della concezione rivoluzionaria riposano sul fatto che è impossibile, nella società attuale, alla più gran parte degli uomini, il formarsi una opinione politica. La formola della libertà di pensiero sarà una ironia sanguinosa fin quando mancherà alla maggioranza degli uomini la libertà di sfamarsi. E' perciò la classe degli individui ben pasciuti che può permettersi il lusso di pensare, e più ancora di far pensare gli altri a modo proprio.
La terribile difficoltà della propaganda nostra sta in questo: noi dobbiamo ottenere che gli affamati pensino.
E noi abbiamo dovuto assistere impotenti a questo fatto: le diverse oligarchie dominanti nel nostro paese che si sono strette in un fascio per resistere alla azione demolitrice del tempo, per cercare di monopolizzare ancora una volta le energie di pensiero e di azione del popolo nostro e trascinarlo indietro nel regime della ignoranza così comodo ai suoi sfruttatori.
La Chiesa Romana, rinunziando alle sue vecchie scomuniche si è alleata alle visioni imperialistiche della monarchia. I cosiddetti anticlericali non hanno esitato a riprendere il vessillo millenario dei crociati e proclamare la guerra agli infedeli. I governanti già teneri delle finanze dello Stato, così avari delle spese più necessarie alla vita civile delle nostre infelici regioni meridionali, hanno gettato tutto ad occhi chiusi nel baratro della guerra Tripolina. Tutte queste dedizioni si sono coperte con una formula: il patriottismo scusato con un solo pretesto: l'onore nazionale; pagate con lo stesso compenso: il sangue del popol nostro, dei nostri fratelli.
La volgare reclame di questo trust inaudito è stata fatta da tutte le forze di cui la coalizione borghese poteva disporre: dalle sacrestie alle logge, dai café-chantants agli uffici delle RR Questure, si è lanciata dovunque con la magnifica etichetta del nuovo rinascimento italico, la guerra tripolina.
In pochi mesi, quale disastro! La compagine si è sfasciata e la barcaccia tripolina fa acqua da ogni parte. La pretesa penetrazione armata è divenuta una guerra seria e sanguinosa; il valore dei soldati italiani è valso poco di fronte alla dura resistenza del nemico, forse anche a causa della imperizia dei capi: la Turchia che i nostri giornali da tre mesi dipingono sull'orlo della catastrofe conduce vigorosamente la guerra e non pare disposta a cedere; le ipotetiche risorse delle nuova colonia divengono sempre più irrisorie di fronte ai sacrifizi enormi che essa ci costa (ritenendo che siano stati stabilmente occupati 40 chilometri quadrati di territorio, e che la guerra sia finora costata 100 milioni, il prezzo della conquista risulta di 10 lire al metro quadrato); infine il preteso prestigio acquistato dinanzi alle potenze è sfumato completamente dopo la lezione ricevuta dalla Francia. E intorno a tutto questo seguitano a venire alla luce i gravi saccheggi dei fornitori patrioti sul denaro dello Stato.
La disfatta dei trust è un fatto compiuto. E la prova migliore ne è il frutto che i diversi fautori della guerra si cominciano a palleggiare le responsabilità.
L'armistizio accordato all'odiato Giolitti in nome della patria (leggi borsa) è stato rotto oramai dai più influenti giornali di opposizione. L'abilissimo uomo che ha tenuto testa a tante burrasche cadrà per questa guerra che forse non aveva voluta. E sarà bene. Ma il bene maggiore sarà che il popolo avrà una prova luminosa della malafede dei politicanti. Imparerà, ancora una volta, a sue spese.
E noi crediamo di non esagerare dicendo che non vi sono nazionalisti in buona fede. Sentiamo che se altri più nobili ideali non avessero sorpassato in noi quello che si chiama amor di patria, arrossiremmo di vergogna e di sdegno per quanto compiono oggi i barattieri e i ruffiani del patriottismo.
Da "L'Avanguardia" dell'11 febbraio 1912