Il "punto di vista"
I compagni mi scuseranno se ritorno ancora sull'argomento della coltura già tanto discusso sull'Avanguardia e sull'Unità di Firenze che ha voluto aprirci cortesemente le sue colonne. Mi sembra che occorra ancora porre correttamente i termini della vasta questione e che sarebbe anche desiderabile che quelli che sostenevano al congresso la tesi culturista la difendessero un po' più anche sull'Avanguardia.
Il Salvemini ha circoscritta la nostra tesi in questi termini: "Lo studio e la coltura dei problemi tecnici distruggono la fede nel socialismo, ergo, non bisogna studiare". Al che egli risponde che nella fede che si disgrega sotto gli urti di un'opera critica di coltura non può essere che una fede di sacrestani cristallizzata in poche formulette metafisiche che vagano fuori della realtà, e che invece la vera fede, che è desiderio di agire e di saper agire, non può che essere rafforzata da una salda coltura di problemi reali.
Questa logica osservazione non coglie però il senso esatto del nostro pensiero che è un poco più complesso e che io qui mi sforzerò di rendere chiaro.
Noi non condanniamo la coltura in se stessa ma – come ben dice Tasca – abbiamo delle profonde diffidenze verso l'opera di coltura nel campo socialista.
Diffidenze che noi sviluppiamo nel campo teorico basandoci sulle nostre convinzioni marxiste e nel campo pratico, discutendo non solo gli effetti ma anche la possibilità di funzionamento di un movimento di coltura.
Vorremo qui sviluppare per ora la prima parte che è la più importante.
La causa delle grandi rivoluzioni sociali, che sostituivano una classe ad un'altra nel dominio delle società umane, era forse la propaganda e la diffusione di un sistema di idee che tendessero a dimostrare l'utilità di quella trasformazione? Era in altri termini l'opinione di uomini che determinava un cambiamento nell'assetto sociale? No, senza dubbio. Voler ammettere quel principio significa non riconoscere alcun valore alla critica completa fattane dal materialismo storico che è la base teorica del socialismo.
In realtà le grandi crisi sociali sono causate da profondi mutamenti avvenuti nelle forme di produzione con cui non possono più conciliarsi gli ordinamenti politici e sociali. Nel periodo in cui una crisi si avvicina, anche la classe che ne trarrà vantaggio non può averne esatta coscienza, ma agisce per affrettarla sotto la pressione necessaria delle cose.
I sanculotti – ed anche i loro capi – che si agitavano nelle vie di Parigi non avrebbero certo saputo dire che lavoravano per sostituire l'egemonia del capitale industriale a quella del capitale fondiario, e forse non avrebbero saputo definire esattamente neanche il lato politico della rivoluzione, ossia la sostituzione della repubblica democratica alla monarchia feudale.
La coltura di queste questioni si volgarizzò dopo che quei fatti si erano realizzati.
Le opinioni umane sono dunque il riflesso e non la causa delle condizioni economiche dell'ambiente. La propaganda quindi di un'idea che non abbia rapporto alcuno colle necessità economiche di una classe è destinata a rimanere sterile e sogno di utopisti. La nostra propaganda rivoluzionaria ha invece lo scopo di ridestare ciò che esiste sempre allo stato latente nella coscienza dei lavoratori: il sentimento di solidarietà con i compagni di sfruttamento, che si risolve nella necessità di abolire la minoranza sfruttatrice, come rimedio estremo alla propria miseria individuale simultanea e parallela a quella dei compagni. Così nasce il socialismo, perché se esso dovesse aspettare la diffusione della coltura socialista per svilupparsi certo non si svilupperebbe mai, perché riuscirebbe assai più facile alla borghesia la diffusione – con mezzi altrimenti efficaci – di una coltura conservatrice.
L'opinione politica di un individuo, proletario o borghese, è un fatto intellettuale, colturale? No, e lo dimostriamo subito, nel nostro ingenuo empirismo anti-metafisico, col fatto che individui di opposte opinioni possono discutere per anni senza convincersi l'un l'altro. La causa è che essi partono da diversi "punti di vista".
Ecco un fenomeno su cui richiamiamo l'attenzione: "il punto di vista". Noi sosteniamo che esso non è un fatto intellettuale, filosofico, ma è invece un fatto sentimentale, ambientale su cui qualunque critica teorica non trova presa. E' difficile convincere i ricchi alle teorie socialiste, anche quando sono d'accordo colle premesse teoriche del materialismo storico, per esempio. Perché l'opinione deriva dall'ambiente in cui si vive. In politica non si è scientifici, ma metafisici, aprioristi, dogmatici. Non si è cercatori di verità, ma avvocati di un partito preso.
Non vogliamo qui alludere alla mala fede dei politicanti, che è un luogo comune che ha fatto il suo tempo. Ognuno nell'azione politica rappresenta le tendenze di un ambiente che lo domina e si sovrappone alle sue.
Se noi dunque vogliamo diffondere la politica dell'ambiente proletario, ossia la lotta di classe, dobbiamo sforzarci di condurre i lavoratori e i compagni al "punto di vista" della lotta di classe. Ecco che questa è un'opera sentimentale e non si svolge nel terreno della convinzione astratta, filosofica.
Per avere dei buoni socialisti occorre fare in modo che non escano mai da "quel punto di vista". Ecco che allora potranno affrontare i problemi pratici dell'azione senza commettere errori.
Venendo ora alla crisi del partito socialista, porremo la sua causa dall'essere molti compagni usciti dal giusto punto di vista e alcuni se ne andarono, nientemeno, per le vie nuove del socialismo! Perché, dunque, uscirono dal punto di vista proletario? Per deficienza di coltura? Eh no, perdio, quando hanno deviato più gravemente proprio i più colti!
Secondo noi ne sono usciti per l'eccesso di tecnicismo, di specializzazione, che costringendoli ad imbeversi, come dice Salvemini, di coltura, li ha sottomessi a poco a poco all'influenza dell'intellettualismo borghese, spostando lentamente quello che doveva restare – settariamente! – fermo: il loro "punto di vista".
L'errore fondamentale del riformismo è la confusione del mezzo col fine. La stessa passione di raggiungere il fine con la massima perfezione del mezzo ha a poco a poco spostata l'attenzione di chi "studiava per sapere e potere agire".
Al termine della sua opera intellettuale il mezzo – la riforma – era diventato fine, e se per maneggiare quell'arma, attuare quella riforma, occorreva rinnegare il principio da cui era partito, ciò è disgraziatamente fatto... e lo scalone del Quirinale ha sostituito, come "punto di vista" la piazza proletaria!
La coltura – specialmente scolastica, ma anche di altro genere – risponde meglio alla diffusione, voluta dalle classi dominanti, del pregiudizio conservatore, anziché a quella delle verità rivoluzionarie. Attraverso un processo complicato di istruzione nel campo proletario, quanti avanzi del rancido intellettualismo borghese riuscirebbero ad invadere sottilmente le coscienze degli operai. Non concludete, prof. Salvemini, che noi vogliamo gli operai ignoranti per averli socialisti. Noi neghiamo solo che si debba togliere il diritto di essere socialisti ai proletari ignoranti. Noi siamo convinti che il desiderio di essere utili ai compagni di dolore spingerà molti di essi ad istruirsi, in modo forse disordinato, ma senza pericolo di uscire più da "quel punto di vista" che dev'essere la guida luminosa della loro azione.
Noi non vogliamo assumere la responsabilità – noi giovani socialisti intellettuali, venuti dalla borghesia – di insegnare loro il socialismo. Il pregiudizio borghese è incrostato tenacemente nei nostri cervelli, ove si nasconde senza che forse noi riusciamo a distruggerlo in tutto, e non ci dà il diritto di parlare in nome di una pretesa coltura a chi soffre i crampi della fame.
Opera di sentimento, non di coltura.
La coltura della lotta di classe si forma in modo non artificiale. Lasciamola svolgere normalmente, senza inquinarla con correnti intellettuali che, volere o no, vengono pur sempre dalla borghesia.
Non perdiamo tanto tempo, amico Tasca, dietro alle fantasie revisioniste. Delle divagazioni, più o meno stipendiate, dei filosofi borghesi, chi se ne frega?
Pensiamo a diffondere la fiamma dell'idea rivoluzionaria. Non dobbiamo evangelizzare, ma soltanto accendere, e quando sarà il tempo l'incendio scoppierà.
Da "L'Avanguardia" del 15 dicembre 1912. Firmato: Amadeo Bordiga.