Lo sciopero di Torino

Lo sciopero generale nel Piemonte è, come episodio della lotta proletaria, destinato a sollevare vaste discussioni e ad influire largamente sull'indirizzo e l'orientamento degli organismi proletari italiani.

Sarebbe poi inutile tacere che esso costituisce per i veri rivoluzionari una pagina assai dolorosa.

Torino - malgrado un certo curioso senso di campanilismo socialista - è stata all'avanguardia del movimento socialista italiano fin dallo scoppio della guerra.

Basti ricordare i fatti del maggio 1915 e dell'agosto 1917, e l'intensità del lavoro di organizzazione e di propaganda che, specie dopo l'armistizio e sino ad oggi, è stato meraviglioso.

Quali dunque le cause che hanno condotto ad un innegabile insuccesso il movimento torinese, fortunatamente tanto robusto da darci sicuro affidamento di sopportare la grave scossa senza restarne scompaginato?

Da Torino si accusano gli organi centrali proletari - Partito e Confederazione - che non hanno voluto estendere il movimento a tutta l'Italia: da parte dei dirigenti di tali organi si accusano i compagni di Torino che hanno preso localmente una così grave iniziativa senza un accordo preventivo cogli organismi centrali medesimi.

La spiegazione dell'accaduto è molto complessa.

Un movimento come quello di Torino non sorge per capriccio di pochi uomini: il suo approssimarsi è nelle cose: gli uomini della direzione del Partito avevano il dovere di accorgersi della sua imminenza e provvedere in tempo.

L'assenteismo degli organi centrali è certo colpa ben più grave delle mosse fatte dai torinesi nelle tragiche circostanze in cui si sono trovati, cercando per altra via di ottenere moti di solidarietà ponendosi a contatto diretto sia con organismi e uomini che seguono le direttive del partito, sia con altri che ne sono al di fuori.

Gravi errori di metodo ci sono stati da parte del movimento torinese e dei suoi dirigenti, e noi lo diciamo chiaramente, pur esprimendo tutta la nostra simpatia a quei compagni che hanno valorosamente lottato attraversando forti ore angosciose.

Tale dissenso lo abbiamo del resto espresso più volte, ed anche non molto tempo fa a Torino, perfino nei riguardi del gruppo che seguiva il nostro indirizzo astensionista.

Lo sciopero di Torino è derivato dall'iniziativa della costituzione dei Consigli di fabbrica, e la lotta si è svolta sulla questione di "principio" del controllo degli operai sulla produzione.

Abbiamo detto più volte come tali questioni ci parevano malamente poste dal gruppo dirigente che ne aveva iniziata la propaganda tra il proletariato torinese, principalmente a mezzo dell' Ordine Nuovo.

Il controllo operaio sulla produzione non è concepibile che quando il potere è passato nelle mani del proletariato. In ogni modo, in quanto tale controllo viene esercitato dai Consigli di azienda, esso non può costituire la questione centrale del processo comunista. Lo Stato borghese potrà forse ammetterlo a titolo di manovra riformista, come una lustra che paralizzi a fondo l'azione del proletariato. Lo Stato comunista lo considererà come uno dei fattori dell'esercizio delle aziende, subordinatamente all'interesse generale della classe produttrice e della rivoluzione, rappresentato dagli organi centrali, economici e politici, del regime soviettista.

A Torino si è sopravvalutato eccessivamente il problema del controllo, intendendolo come una conquista diretta che il proletariato, col nuovo tipo di organizzazione per azienda, può strappare alla classe industriale, realizzando cosí un postulato economico comunista, compiendo una tappa rivoluzionaria anche prima della conquista politica del potere, di cui è il Partito l'organo specifico.

Questa sopravvalutazione, che a noi sembrò una infatuazione, aveva le sue radici in una situazione economica speciale: il maggior grado di sviluppo capitalistico dell'industrialismo torinese e la netta ed aspra posizione della lotta di classe. Ciò faceva in realtà sentire agli operai torinesi il bisogno di fare dei passi decisivi nel campo sociale, l'insofferenza del regime di arbitrio padronale nella fabbrica.

Questa situazione, e la legge della minor resistenza al loro sforzo, hanno condotto i compagni dirigenti il movimento politico comunista di Torino su di una via errata: a fare la questione del potere nella fabbrica anziché la questione del potere politico centrale.

Compito dei comunisti è utilizzare anche la tendenza proletaria alla conquista del controllo, dirigendola contro il bersaglio centrale, il potere di Stato del capitalismo.

L'azione contro questo bersaglio non può essere che nazionale, generale.

Se la necessità di andare subito oltre il sistema della proprietà capitalistica è più sentita in una zona che altrove, sono gli organi politici centrali del proletariato che devono trovare la soluzione di tale problema, accelerando la preparazione nelle altre zone ed ottenendo che in quella più impaziente si eviti la falsa mossa di iniziative locali e premature destinate all'insuccesso.

Tutto ciò è mancato e doveva mancare, se manca il partito che segua i problemi della rivoluzione, se il Partito socialista è impelagato nella pratica riformista, soffocato dalla menzogna della unità e dalle preoccupazioni elettorali.

Un altro torto dei compagni torinesi, che hanno visto per effetto del loro metodo precipitare le situazioni, è di non essere stati prima con quelli che volevano spezzata l'unità e messe da parte le degenerazioni elettorali e corporativiste.

Le esuberanza della loro iniziativa hanno condotto ad un insuccesso le masse, ma al tempo stesso il materiale di esperienza accumulato è tale, da essere un utile contributo alla azione ulteriore.

Ancora una volta il proletariato imparerà, dai suoi errori, la via travagliata della sua vittoria immancabile.

Da "Il Soviet" del 2 maggio 1920.

Archivio storico 1911-1920