L'unità proletaria
Una delle interessanti "lettere parigine" all' "Avanti!" apparsa nel numero del 28 luglio, dopo essersi occupata dei rapporti fra il Partito Socialista e la C.G. del Lavoro francese, conchiudeva con queste significative parole: il feticismo della unità proletaria soffoca la libertà di critica socialista.
E' una osservazione piena di verità che ha grande valore anche per i socialisti italiani. Infatti l'argomento dei rapporti fra il partito e le organizzazioni economiche è all'ordine del giorno nelle riunioni e nella stampa socialista, ma la conclusione di tutte le discussioni è sempre la stessa formula: l'unità proletaria. Le formule in generale significano poco e spesso servono a celare il desiderio di non affrontare seriamente e profondamente il problema e non sostenerne una soluzione meno vaga e meno ambigua.
Quando si è impreparati a vagliare una questione allora si adotta una di queste espressioni che vorrebbero condensare tutto un sistema di vedute, ma che in realtà non significano niente. Così nel caso dell'unificazione delle forze ferroviarie, dopo il fallimento dell'accordo, una parte e l'altra non fanno che accusarsi a vicenda di aver tradito l'unità proletaria. E, se ci si consente un esempio di natura diversa, durante la prima guerra balcanica, quei socialisti che sono ancora teneri al principio di nazionalità, non sapendo se condannare o approvare la guerra concludevano dichiarandosi fautori della "formula": i Balcani ai popoli balcanici!
Oggi si può vedere quale magnifico risultato abbia dato l'applicazione di quella formula, che era l'aspirazione di tutta la democrazia europea, e degli entusiasti, più o meno sangiorgiani, della "cacciata del turco dall'Europa"...
Come il Partito Socialista francese si lascia oggi sfuggire l'occasione di sorprendere l'organizzazione sindacalista in pieno fallimento delle sue vantate finalità rivoluzionarie, così mutatis mutandis sembra a noi che i socialisti italiani, per paura di intaccare la fragile unità, siano troppo teneri verso il corporativismo di cui è pervasa la nostra C.G. del Lavoro. Che i socialisti debbano favorire lo sviluppo e l'ascensione del movimento di resistenza, il quale non può essere florido e robusto se non riunisce nei suoi quadri un numero sempre maggiore di organizzati, nessuno lo pone in dubbio. Ma nel favorire lo sviluppo delle organizzazioni economiche, noi socialisti non dobbiamo considerarle come fine a se stesse, bensì come mezzi per la propaganda e la futura realizzazione del socialismo. Ecco perché il nostro punto di vista non può coincidere con quello dei dirigenti e degli organizzatori del movimento operaio, i quali (anche i sindacalisti, del resto) vedono il sindacato come fine ultimo, si preoccupano solo del suo sviluppo e quindi anche della sua conservazione, e non sono disposti a comprometterla in lotte che trascendano gli obiettivi immediati o di categoria. Per quanto ci si possa opporre che quasi tutti gli organizzatori e i capi della C.G. del Lavoro sono socialisti, noi crediamo che questo sia più che altro un pericolo per il partito, che quei compagni lasciano in seconda linea quando sostengono l' indipendenza che l' "Avanti!" lamentava qualche tempo addietro.
Il male è appunto di seguitare a trincerarsi dietro ad una formula e non denunziare coraggiosamente un male così grave. Possiamo noi fingere di dimenticare che le organizzazioni operaie riportano trionfalmente quei deputati che il partito ha espulso dalle sue file, che la C.G. del Lavoro non fa che esaltare le "benemerenze" di quei valentuomini verso il proletariato dimenticando che il loro atteggiamento politico di transazione, se ha ottenuto qualche vantaggio isolato e limitato a qualche regione o a qualche categoria di lavoratori, ha però compromessa tutta la compagine di classe del proletariato italiano? Queste possono sembrare frasi ai riformisti e agli entusiasti dell'operaismo, che misurano i risultati della... lotta di classe dalle statistiche del regio ufficio del Lavoro e si credono in regime quasi socialista quando verificano il caso - raro - che i bilanci delle cooperative risultano attivi. Ma i socialisti, e specialmente la maggioranza del partito devono ricordare che il voto di Reggio Emilia rappresentava non il linciaggio di alcuni uomini, ma la critica ad un metodo incoraggiato e voluto da tutti quelli che hanno dato al proletariato italiano un'anima riformistica e grettamente egoistica.
Bissolati e compagni sono stati spinti per le scale del Quirinale dalle esigenze delle organizzazioni operaie mal preparate alla vera lotta di classe. Sentivano il proletariato dietro di sé, e sono rimasti meravigliati quando il Partito li ha sconfessati. Per non togliere ogni valore a quella sconfessione il partito oggi avrebbe il dovere di ritornare alla propaganda tra le masse per ridare loro una coscienza socialista. Dovrebbe reagire alla indipendenza accampata dalla massima organizzazione proletaria, e difendere risolutamente non solo il metodo intransigente dell'azione politica del proletariato, ma anche una tattica più socialista e meno corporativa nell'organizzazione economica. Altrimenti il nostro atteggiamento rivoluzionario resterà campato in aria, mancherà delle sue logiche basi.
Noi non facciamo una questione di appoggio elettorale, ma di coscienza proletaria. Non ci preoccupiamo affatto che manchino ai candidati del Partito i voti delle organizzazioni; anzi, vorremmo che il partito rifiutasse di dividerli con i socialisti di Sua Maestà, e si ritracciasse da sé la strada sul terreno sindacale, senza tacite acquiescenze all'indirizzo anti-rivoluzionario dominante nella C.G. de Lavoro. Certo non diciamo che il partito debba mettersi contro la famosa unità, ma vogliamo che la frazione rivoluzionaria non lasci livragare sotto questa formula il suo pensiero nei riguardi dell'organizzazione, che dovrebbe essere recisamente estraneo così alla concezione sindacalista come a quella riformista oggi dominante nella Confederazione.
Una unità che significhi vincolo a subire in silenzio tutte le oscillazioni della tattica confederale e l'eclettismo politico della Confederazione, che significhi rinunzia alla libertà di critica di fronte al movimento sindacale, una unità che significhi obbligo a non fare passi nell'azione e nella propaganda se non quando si è ben certi di non lacerare la tenue ragnatela delle cooperative e delle corporazioni operaie, una unità così fatta non ci pare un programma sistematico ma solo una espressione ambigua ed equivoca, che i socialisti rivoluzionari dovrebbero sviscerare e chiarire prima di accettarla ad occhi chiusi.
Dall' "Avanti!" del 1 agosto 1913