La chiave delle diffamazioni del bolscevismo
L'esame e la critica di quanto è stato scritto sulla Russia da taluni membri della malaugurata missione italiana è argomento interessante di cui speriamo aver l'agio di occuparci ampiamente, addentrandoci nel pelago delle porcherie e delle fesserie scritte dal Nofri, dal Pozzani, dal Colombino, e via. Ci ha intanto colpiti uno scritto del deputato-organizzatore-giornalista-pensatore Giuseppe Bianchi pubblicato in Battaglie sindacali e che costituisce la conclusione – accidenti alle premesse! – di un suo studio o relazione sui sindacati in Russia; scritto in cui si rintracciano indizi evidenti del modo con cui i nostri avversari foggiano i loro giudizi e le loro critiche a quanto accade in Russia, lavorando su due elementi principali: l'ignoranza più o meno simulata del programma che i comunisti si proponevano in Russia come si propongono altrove, e delle direttive che lo ispirano; e l'inconciliabile avversione a questo programma, mascherata sotto i rimpianti ipocriti per il preteso suo fallimento – aggiungendone spesso poi un terzo… che non guasta, nella sfacciata falsificazione di dati di fatto.
Lasciamo da parte una elegante trovata cerebrale del Bianchi, di volteggiare cioè tra la esposizione dei suoi propri giudizi e quella ironica dei giudizi borghesi, con agili stilismi da cui sorge il dubbio tra i pensieri che egli dà per suoi e quelli che nella stessa infilacciata sottintende attribuire ad altri, in modo ad esempio da far chiedere al lettore ingenuo se, oltre alle parole: "La maledizione della civiltà si abbatte contro la barbarie asiatica", siano una esercitazione retorica anche quelle precedenti: "la dittatura del proletariato è una finzione, è la dittatura di un partito; sul partito dominano pochi uomini", in cui evidentemente chi scrive ha accortamente ficcato le sue personali insinuazioni.
Quello che è interessante rilevare è il modo di esporre pretesi insuccessi sostanziali della rivoluzione attraverso affermazioni che falsamente vengono presentate come il programma che i bolscevichi tendevano a realizzare; vecchio gioco in cui puri borghesi hanno maggiori attenuanti dei santoni della destra socialista, in quanto, la ignoranza dei primi essendo maggiore di quella dei secondi, può esservi una dose maggiore di buona fede.
Udite, ad esempio: "Il regime dei soviet è un regime d'eccezione. Non realizza l'eguaglianza politica, fa un trattamento di inferiorità ai contadini di fronte ai proletari urbani...". Quando e dove ha il Bianchi trovato scritto dai comunisti marxisti che la forma statale che il proletariato istituisce quando conquista il potere sia basata su un principio di eguaglianza politica? Non è questa una formula squisitamente borghese, di cui allegrissimamente noi ci ridiamo e risolutamente ci freghiamo? Meraviglia del Bianchi e di qualche altro meno di lui cerebrale? Ed allora nostro paziente richiamo all'indirizzo del pensiero comunista in proposito: l'eguaglianza politica, finché esiste il sistema della economia privata, è illusoria finzione borghese, e ad essa si giungerà solo come conseguenza di una eguaglianza economica, ultimo risultato del processo rivoluzionario; se pure lo stesso uso di questa parola eguaglianza non è il cattivo impiego di un brutto prestito che ci ha fatto la terminologia democratica, e non è preferibile dire: che il potere, il dominio, la dittatura del proletariato condurranno alla eliminazione dello sfruttamento economico e di ogni forma di dominazione politica. Cosicché, dovendovi essere disuguaglianza politica finché vi sarà funzione politica, ossia potere statale, la frase eguaglianza politica è una bestialità dal punto di vista marxista, e non ha mai figurato nei programmi da applicare al regime rivoluzionario russo, che al Bianchi piace di chiamare di eccezione forse perché per i suoi pari la regola è... la controrivoluzione. Logico dunque che, mentre la borghesia non ha affatto diritti politici nel regime soviettista, il semiproletariato rurale ne abbia meno del proletariato urbano, classe dirigente della rivoluzione. Dunque nessuna infrazione ai principi, nessun fallimento dei programmi dei comunisti, ma solo sconvolgimento dei vani utopismi giuridici che si celebrano sotto la scatola cranica del Bianchi.
Quando questi cita il menscevico Dan, secondo il quale la "costituzione soviettista è uno Stato ideale", per dire che "nella applicazione è stata deformata", dimostra solo di aver citato un suo degno correligionario e collega di impotenza alla comprensione. I marxisti non si sognano di tracciare lo Stato ideale, bisogna che lasciano con piacere ai Campanella e ai Moro; dell'ideale ne fanno a meno altrettanto volentieri, ma se proprio dovessero indicare il loro ideale, intendendo per esso l'ultima loro finalità, direbbero che lo Stato ideale è il Non-Stato, e spiegherebbero che la costituzione e la legislazione soviettiste non sono che il mezzo dinamico per determinare la soppressione della necessità di uno Stato, e mai più la formulazione di astratte tesi giuridiche costituzionali per le quali non v'è posto nel loro pensiero. E che queste non siano nostre asserzioni, ma comune pensiero dei comunisti, il Bianchi, se ancora ne dubita, o se ancora gli accomoda spargerne il dubbio fra quelli a cui deve ammannire le sue elucubrazioni, si metta d'accordo con quanto è detto nella prefazione alla prima raccolta delle leggi dello Stato dei Soviet – e ricorriamo a caso al primo dei cento documenti che suffragano i nostri asserti – in cui è detto:
"Il governo proletario costruisce i suoi codici e così pure tutte le sue leggi dialetticamente, li costruisce in modo tale che ogni giorno della loro esistenza abolisca la necessità della esistenza stessa, poiché lo Stato pone come fine delle sue leggi il rendere inutile le leggi", ecc.
Vuole il Bianchi la citazione? Comunismo, n. 18, anno I. Rilegga, gli farà bene... o gli farà male.
Altro saggio del metodo con cui si stabilisce il preteso fallimento del bolscevismo. "Per i bolscevichi i trapassi alla deformazione dei proclamati principi sono subitanei. Nell'ordine economico la conclamata eguaglianza pel tramite della gestione diretta della produzione e la parità delle condizioni materiali si risolve in un ritorno ai sistemi capitalistici di direzione dell'industria". Fermiamoci qui, ché siamo già dinanzi ad una carretta di improntitudini. O chi scrive è troppo bugiardo, o è troppo bestia; in ogni modo la misura è varcata. Siamo di nuovo dinanzi al famoso principio dell'uguaglianza, e ci pare di ritornare alle più volgari polemiche spicciole con la idiozia borghese nelle critiche al socialismo. Questo non ha principi metafisici, da quando non è più sciocca utopia, ma indirizzo dialettico. Ossia, le sue affermazioni e le sue tesi mostrano il legame di fatti storici che si susseguono e sì determinano, senza affibbiarsi etichette immanenti di categorie astratte come l'uguaglianza, la giustizia, la libertà e simili figurazioni dell'onanismo cerebrale avversario. Risultato, e non certo immediato, della conquista del potere proletario è, in tutti i programmi comunisti, la distruzione dello sfruttamento capitalistico e la costruzione del nuovo ingranaggio economico, che gradualmente parificherà le condizioni materiali degli uomini, senza farsi di questo un fine assoluto, una regola religiosa. E che intende il Bianchi con le oscure parole "gestione diretta della produzione"? S'egli intende la gestione della singola fabbrica da parte della locale maestranza, od anche del singolo ramo di industria da parte della relativa organizzazione professionale, non cita il programma dei comunisti, ma quello dei sindacalisti con cui continuamente amoreggia – e ciò dovrebbe un po' ammonire questi ultimi. E che cosa è il ritorno ai "sistemi capitalistici di direzione delle industrie"? Per intenderlo bisogna andare poco più innanzi, dove il Bianchi riferisce che secondo Kamenev gli operai debbono comprendere che per produrre si deve ritornare al vecchio sistema disciplinare della produzione borghese, ossia alla direzione unipersonale.
Per poco che questo punto si chiarisca, si vedrà che non esiste il fatto che preme al Bianchi di porre in evidenza; ossia la deformazione di un indirizzo che fosse nel programma dei comunisti, il rinculo da realizzazioni rivoluzionarie già raggiunte, ma anzi si tratta della sempre maggiore chiarificazione ed applicazione dei criteri comunisti, la cui contrapposizione a quelli borghesi è spesso, anzi sarà fatalmente nel processo di tutte le rivoluzioni, intesa in principio in un modo volgare ed esteriore, alla Bianchi, insomma. La tendenza alla gestione della fabbrica da parte del rispettivo consiglio degli operai divenuto arbitro di essa al posto del capitalista è stata un fatto importantissimo e spontaneo della rivoluzione russa, ma non una applicazione del programma comunista. Secondo questo, la sostituzione della gestione capitalistica con quella comunistica è intesa in modo assai più profondo. Mentre nella fabbrica in regime borghese esiste una disciplina all'arbitrio del padrone, ossia ai fini del profitto privato, nel regime comunista la gestione deve essere ispirata agli interessi non dei soli operai della fabbrica, ma di tutta la collettività proletaria. La nomina della direzione delle fabbriche deve dunque venire direttamente dal centro, ispirato alla più vasta comprensione degli interessi generali della classe proletaria e della vittoria della rivoluzione. Il potere centrale è infatti basato sull'ingranaggio della rappresentanza di tutti i lavoratori, e questi esercitano attraverso questo ciclo la loro gestione della produzione come di tutta l'economia sociale. Si può dunque dire formalmente agli operai che essi nella fabbrica, come prima obbedivano al rappresentante del capitalista, devono obbedire alla disciplina dello Stato proletario, ma questo, lungi da essere un ritorno a norme borghesi superate di slancio, è un grande passo innanzi: proprio il sistema di gestione autonoma delle aziende sarebbe infatti un sistema semiborghese, poiché l'azienda amministrata nell'interesse del solo proprio personale funzionerebbe all'esterno come un'azienda privata, ossia come nel meccanismo borghese. Quello comunista è tanto più avanzato in quanto sintetizza la economia della produzione in rapporto al nuovo apparato centralizzato di distribuzione, e tecnicamente utilizza esperienze e studi collettivi fatti con grandi mezzi superando le forme borghesi del segreto di fabbrica e della concorrenza.
E questo non contraddice l'affermazione dell'Ordine nuovo che il sessanta per cento delle officine sono dirette da operai, poiché questi operai sono passati attraverso l'ingranaggio della nuova economia, si sono formati e dirigono le officine a cui sono stati destinati in rappresentanza e per mandato dei competenti organi centrali, che sì prefiggono la razionale utilizzazione delle competenze tecniche.
Nel progresso della economia russa verso la sempre maggiore centralizzazione sta la sicura dimostrazione che essa procede senza arrestarsi e senza ripiegare sulla via delle realizzazioni comuniste, che i piccoli borghesi alla Bianchi, cui si intrugliano nel cervello viltà riformistiche e fisime anarchiche, scambiano... per la via opposta, solo perché è infatti opposta a quella che essi battono e che conduce all'amplesso con la borghesia attraverso la apparente e divertente intransigenza di negazioni impostate a rovescio.
Ancora: nell'esporre i trapassi subitanei alle deformazioni, le continue transazioni dei principi con le necessità, il Bianchi spiffera queste asserzioni: "Risorge la burocrazia. Ripullula la speculazione. Il libero commercio riprende la sua funzione. Si hanno sollevazioni in massa", ecc. Lo sforzo tendenzioso è sempre quello: dì far credere che ci sia stato un momento della rivoluzione in cui tutto ciò fosse stato soppresso, od anche i bolscevichi ne avessero vantata la soppressione. Mentre invece, secondo una esposizione onesta dei fatti e della storia della rivoluzione, l'azione dello stato soviettista e del partito comunista si è svolta e si svolge con sicuro successo nel ridurre e nell'eliminare quei necessari fenomeni del trapasso tra i due regimi. Tanto che di sollevazioni non si ha più caso, e la soppressione della speculazione, la lotta contro la burocrazia - non la vecchia, che è stata spezzata, ma certi inevitabili difetti della nuova - sono magnificamente avviate. Quella contraddizione, dunque, non c'è; quella deformazione è un'abile panzana, costruita ponendo la realtà in rapporto non a quanto il programma comunista contempla come realizzazione immediata dopo il rovesciamento del potere borghese, ma a quegli ultimi risultati dello sviluppo rivoluzionario di cui i comunisti hanno sempre indicata la gradualità di conseguimento, mentre è vecchia risorsa avversaria far credere che i comunisti si figurassero di arrivarci subito.
Il Bianchi cita anche frasi dei compagni comunisti russi che calzano perfettamente con quanto abbiamo esposto, come quando riferisce che Kamenev gli ha dichiarato che "i maggiorenti bolscevichi non pensarono mai che il socialismo si potesse attuare cambiando forma e sostanza alla vita economica del paese in pochi giorni". E non vede il Bianchi come in queste parole sia la decisiva demolizione di tutte le sue frottole sulle rinunzie, le deformazioni e i fallimenti del primo programma dei bolscevichi? Ed è meraviglioso come dopo queste e altre due o tre citazioni perfettamente corrispondenti l'autore si permetta di dire che "nei capitoli precedenti si può vedere che le cose più gravi ed impressionanti sono dette non da chi scrive ma dagli scrittori bolscevichi"!!!
È questo il meccanismo sofistico col quale si conduce sfacciatamente la turpe campagna di diffamazione antirussa, in cui si sono specializzati alcuni cialtroni della socialdemocrazia italiana: la più rivoltante di tutte.
Fonte | Il Comunista n. 10 del 3 novembre 1921 | ||
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