Dichiarazione dell'imputato Bordiga al processo ai comunisti italiani
Non intendo affatto di approfittare largamente del diritto concesso ad ogni imputato di avere la parola prima della sentenza. Avrei voluto ritornare sulla confutazione dell'Accusa circa parecchi punti di fatto, ma in fondo dovrei ripetere quanto è stato già trattato largamente dal Collegio di difesa, e vi rinunzio, come tacerò su alcune altre cose che pure resterebbero da aggiungere.
Debbo solo ripetere, senza voler rifare tutta la esposizione dell'argomento che è molto complicato, la mia riserva relativa alla decifrazione dei documenti criptografici. Ripeto questa riserva perché si sta qui per stabilire un precedente che avrà un'importanza notevole per la sua portata giuridica. Non mancherà forse occasione per discutere più a fondo il delicato problema: ma io voglio ora dire soltanto che il rappresentante della Pubblica Accusa, quando ha richiamato il mio primo ragionamento, non lo ha riprodotto in modo esatto. Né io lo riprendo ora. Accenno solo che io non contesto che, quando si viene in possesso di un documento criptografico e, nello stesso tempo, il suo possessore fornisce la chiave e spiega il procedimento per la decifrazione, la spiegazione così trovata abbia carattere innegabile di autenticità. Quando però una spiegazione viene data, come nel caso nostro, partendo dal solo testo criptografico a mezzo di complicate manovre (che io so benissimo come si fanno, ma sulle quali non mi soffermo ora) senza possedere la rivelazione della chiave, io contesto che la spiegazione così ottenuta sia certamente quella autentica, perché quella spiegazione non è la sola possibile, ma si possono trovare tre, quattro, cinque spiegazioni di uno stesso documento criptografico. E dimostro che anche nel caso di trovare per più criptogrammi la stessa chiave, sussiste la possibilità della spiegazione plurima. Ho ripetuta questa mia riserva, perché mi pare che il problema giuridico che deve essere risoluto, sia molto importante e, per risolverlo, si deve necessariamente tenere conto esatto delle premesse tecniche e matematiche.
A questo proposito voglio accennare soltanto che tutta questa materia delle decifrazioni e del lavoro illegale in genere, dell'uso di recapiti segreti e di sistemi convenzionali di scrittura, più che in materia di discussione giudiziaria, è materia ed opera di polizia; ed è anzi logico che questa materia sia stata deferita a funzionari che sono venuti qui come testi ed a cui non si è voluta riconoscere la qualità di periti, in quanto dovrebbe esistere - non voglio dire una omertà, poiché la parola ripugna a me per primo - ma di una specie di tacita convenzione su una certa esclusione di colpi fra coloro che, trattando questa materia delicatissima ed... esplosiva, si combattono dalle opposte sponde. Potrei accennare all'argomento di cui si è servita l'Accusa per stabilire l'autenticità delle famose circolari Loris che parlavano di rilevazione di elementi militari, quando ha detto che si sono trovate in quattro posti diversi: poiché abbiamo trovato queste circolari in quattro posti diversi - dice l'Accusa - inviatevi con quegli stessi indirizzi convenzionali che abbiamo trovato in una certa rubrica sequestrata a Roma, è impossibile che si siano date tante coincidenze da permettere che si fabbricassero da parte di chicchessia simili circolari false. Si potrebbe sviluppare l'ipotesi fatta da Modigliani, senza bisogno di supporre che nel seno del nostro partito vi fossero degli agenti provocatori, ma pensando all'intervento della polizia ed all'errore di un nostro inviato (uno dei famosi fenicotteri!) che dovesse fare la linea Cosenza-Reggio Calabria-Messina-Palermo, e che alla stazione di Torre Annunziata, o di Caserta o di Cassino, sia caduto nelle mani della polizia ed abbia perduto un documento in cui per combinazione fossero quei quattro indirizzi. Voi comprendete che io dovrei preferire di essere condannato a vari anni di galera piuttosto che portare qui a deporre questo compagno che lavora illegalmente: una tale situazione si presenta a solo svantaggio nostro, ma nel vasto quadro del duello permanente tra l'azione rivoluzionaria e quella della polizia politica entrano tanti altri pesi ed altri momenti in cui lo schiacciante vantaggio può passare a noi. E perciò non è una omertà quella che io invoco, ma una naturale esclusione di colpi che si stabilisce, direi quasi tecnicamente, in questa materia. Se indagini basate sulla decifrazione di criptogrammi devono farsi, si rinunzi a dare loro una validità giuridica che non possono avere e si eviterà anche così di porre a nostra disposizione tutto il relativo materiale. Se la polizia ci crede, userà delle decifrazioni per procurarsi con esse prove più serie ed eviterà così di avvertirci delle regole e chiavi che ha potuto scoprire non permettendoci come ora è avvenuto di riparare opportunamente tutta la rete di comunicazione e studiare, come nel carcere abbiamo potuto fare, i nuovi sistemi che resisteranno a ulteriori suoi tentativi. Con questo noi non domandiamo, lo si vede, nessuna concessione unilaterale all'avversario.
Fatta questa riserva, anche perché credo che la sentenza che il Tribunale si accinge ad emettere considererà forse per la prima volta questo delicatissimo problema, dei documenti criptografici, non mi dilungo su altre circostanze. Una soltanto mi sia permesso ricordare; l'assunto, cioè, dell'oratore dell'Accusa che noi disponevamo dei cospicui mezzi per il finanziamento dell'asserita associazione a delinquere. Egli ha sostenuto, piuttosto di passaggio, con la sobrietà che ha distinta la sua discussione, che si trattava di mezzi superiori a quelli che occorrono per pagare degli impiegati. Come lo dimostra? Questa è una presunzione. Dove è la prova? Chi dice fino a quando quei mezzi ci dovevano bastare? Forse domani stesso verranno fuori documenti, da cui risulterà che quella somma era insufficiente alle nostre esigenze. La nostra Relazione al Congresso di Roma a cui il P. M. ha voluto attingere elementi di accusa contiene anche in una pagina l'elenco dei nostri impiegati a quell'epoca; elenco da cui appare che gli stipendi al personale erano non la sola partita di spese che noi dovevamo sopportare, ma una delle più importanti e che poteva assorbire una quota notevolissima della somma in discussione se pensiamo a un periodo anche di pochi mesi. Il rappresentante dell'accusa potrebbe dire che al momento del nostro arresto l'efficienza del nostro partito era divenuta minima, anche perché noi non avevamo più giornali: ma io gli dimostro che noi avevamo passività derivate dal periodo precedente e dovevamo estinguere debiti enormi. La sola nostra stampa aveva avuto un movimento amministrativo di milioni e milioni e ci aveva lasciato fortissime passività. Quindi non è possibile assumere che il danaro sequestrato eccedesse le ordinarie necessità del partito. E quando l'Accusa cita un documento, che è una missiva da me indirizzata a Mosca, con cui io chiedevo le poche lire necessarie per la difesa dell'organizzazione del partito; e quando poi cita un altro documento in cui noi diciamo che la cosa più importante per il partito in quel momento non è la propaganda, ma la nostra ricostituzione organizzativa interna; dovrebbe concludere che se poche lire soltanto ci bastavano per i compiti più importanti, è da escludere che per la ipotetica propaganda sediziosa si fossero allestiti mezzi cospicui? Insisto su questo argomento del danaro catturato che mi interessa quanto la mia persona e quella dei miei compagni: le sterline che sono state convertite in lire attraverso un cambio del tutto arbitrario, appartengono al nostro partito ed al nostro partito debbono essere restituite, perché servono alla sua attività che non è attività criminosa, anche se noi dovessimo essere condannati.
Per concludere devo dichiarare che dopo tutta la discussione non si è riusciti a formulare logicamente l'accusa che ci viene mossa. Domani voi ci condannerete ma non ci avrete convinti. Il rappresentante dell'Accusa ha voluto rispondere direttamente a questo proposito, alle mie argomentazioni. Ma egli ha così citato il pensiero mio formulato nel primo interrogatorio: noi non abbiamo bisogno di costituire un'associazione sediziosa per fare la propaganda, in quanto che è notorio quello che è il contenuto della nostra propaganda; ma ciò che noi abbiamo voluto costituire in segreto è stato solo il meccanismo della propaganda. Questo non è esattamente quanto io dissi. Io ho detto invece che abbiamo avuto bisogno di nascondere il meccanismo dell'organizzazione; ma sarebbe illogico che avessimo pensato a nascondere il meccanismo della propaganda, perché sarebbe inutile e sciocco creare il segreto attorno alle direttive della propaganda destinato non a pochi iniziati, ma a tutti coloro che già fanno parte del partito, anzi a tutto il pubblico di amici ed avversari, col quale il meccanismo della propaganda è destinato proprio ad entrare in contatto.
Quindi la propaganda è stata sempre pubblica; pubblico il suo meccanismo; mentre solo il meccanismo dell'organizzazione interna del Partito è stato tenuto segreto e ripeto lo sarebbe quello della eventuale preparazione insurrezionale a tempo opportuno.
Per chiarire meglio la cosa e la superfluità di un meccanismo clandestino dirò, ad esempio, che io nella mia esperienza personale di propagandista ho sempre avuta la stessa, dirò così, attrezzatura prima di divenire uno dei dirigenti del Partito, fin da quando ho cominciato ad avere un'opinione e ad avere una funzione nel movimento proletario. Anzi quando io sono diventato un dirigente del Partito, la possibilità di contatti con le masse è andata per le ben note circostanze restringendosi; ma la natura della predisposizione che mi occorreva per fare la propaganda non ha mai avuto bisogno di mutare. Chi sa mai quante volte io avrò commesso il reato di cui all'art. 247 del codice penale pel quale del resto fui altra volta processato quando non esisteva quella che dovrebbe essere la piattaforma dell'attuale associazione a delinquere, cioè il Partito Comunista! Da molti anni noi rappresentavamo la corrente di sinistra del Partito Socialista, fin da allora avevamo gli attuali principii e ci scandalizzavamo, per esempio, che vi fossero nel Partito nostro tendenze che sostenevano opinioni corrispondenti a quelle che tuttora rappresenta l'on. Modigliani ed opponevamo alla propaganda di quelle tendenze la stessa propaganda che oggi noi facciamo. Per organizzare un complotto, una cospirazione, una rivoluzione, occorreva un partito comunista indipendente, autonomo e capace di inquadrare il proletariato; ma per quel che riguardava la propaganda, fosse essa criminosa o no, non occorreva un meccanismo speciale: bastava a me anche allora il mio cervello e la mia voce e la mia penna e, per fare propaganda, io non avevo bisogno di consultare alcuno, di intendermi con alcuno, conoscendo come ogni altro gregario la piattaforma dei principii.
Il mio ragionamento, dunque, sussiste, malgrado le obiezioni del rappresentante della pubblica Accusa. Noi non abbiamo visto configurare dalla parte avversaria quello che sarebbe stato in concreto la associazione, di cui ci saremmo resi colpevoli. Abbiamo sentito fare questo ragionamento: se questa associazione esisteva, Tizio doveva farne parte. Ma questa formula non è preceduta da alcuna ipotesi che possa dar fondamento alla prima parte del sillogismo; per cui noi siamo come nella situazione di sudditi di uno Stato che abbiano le loro carte di cittadinanza in perfetta regola, gli atti di stato civile in perfetto ordine, con questo, però, che non si sa se quello Stato esiste, come e dove il suo territorio si ritrovi sulle carte geografiche o sulla superficie del pianeta. Nessuno definisce questa famosa associazione: si pretende però di definire la responsabilità di ciascuno di noi per avervi appartenuto.
Noi abbiamo acceduto a questa discussione di fatto, più che altro perché essa ci interessa, come diceva prima il compagno Tasca, da un punto di vista superiore di soddisfazione intellettuale e direi quasi accademico, da un punto di vista da cui ci si può interessare di tutto. Da questo punto di vista superiore, abbiamo contribuito ad una discussione obiettiva della causa senza farci preoccupare dall'eventualità che la vostra sentenza sia in un senso o nell'altro. La nostra posizione attuale, per la modesta portata dell'imputazione e altre note circostanze è addirittura banale; ed io non ho chiesto la parola per assumere atteggiamenti melodrammatici, per prendere la posizione del martire, per fare della réclame alle nostre persone. No. Noi non crediamo che a priori il martire abbia sempre ragione.
Infatti neghiamo che al di sopra della contesa sociale e politica possano esservi dei punti di intesa e concorde superiore valutazione; noi non ci rifugiamo in quel concetto che qualche oratore della difesa ha invocato, che viene tradizionalmente invocato in ogni processo politico: quello della storia che giudica in ultimo appello e assolve sempre il condannato per reati di pensiero politico. No, signori: è vero che la storia giudica in ultimo appello tutti i nostri atti, ma la storia potrebbe anche giudicare sfavorevolmente i giudici che assolvessero in un processo politico. Noi non accettiamo questo concetto 'che si debba, in nome di principii immanenti, assoluti, avere l'assoluzione di ogni militante politico sottoposto a giudizio.
Noi pensiamo che, se è vero ciò in cui noi crediamo con certezza di ordine scientifico, che cioè le nostre prospettive programmatiche - non in quanto siano idee uscite dalla mente di un dio, o dalla mente di un eroe, o comunque insite per cause trascendenti nella mente di uomini, ma in quanto sono forze motrici che erompono sicuramente nell'evolvere della realtà storica - rappresentano veramente il divenire della società, queste direttive debbono trionfare malgrado ogni persecuzione e condanna. Ma se fosse per avventura vero quanto assumono oggi i nostri avversari trionfanti, che cioè possiedono essi la chiave dell'avvenire e che con la sconfitta materiale noi siamo stati gettati fuori dalla conquista delle vie della storia di domani, allora noi saremmo davvero dei naufraghi illusi e nessuna posterità riscatterebbe una nostra condanna.
Ma noi sappiamo che questo non è, che la nostra dottrina è in piedi e che la nostra azione troverà le vie della rivincita; e solo per questo, non già in nome della libertà di pensiero, non in nome di questa formula democratica, borghese, che giudichiamo tanto sfavorevolmente quanto l'oratore dell'Accusa, affermiamo che una nostra condanna non impedirà la vittoria avvenire del nostro Partito.
Noi non crediamo alla funzione dei martiri, degli eroi, delle élites, di uomini di eccezione. Sentiamo di essere rappresentanti di un partito politico che è l'organo della missione storica della classe proletaria, ci sentiamo esponenti del proletariato nel conflitto incancellabile fra le opposte classi, strumenti a disposizione di questa funzione collettiva. Ci si è minacciati di volerci spezzare la schiena: noi resisteremo del nostro meglio ma non sappiamo che ne verrà: è il problema della resistenza di un utensile. Potremmo, forse, desiderare dei rapporti più comodi per le nostre persone, ma questo non ha importanza. Quello che importa è il rapporto reale di forza tra noi e gli avversari. La realtà è che in questo momento noi siamo degli sconfitti e ci troviamo in una situazione di inferiorità. Non si tratta di appoggiare su astrazioni di un vuoto liberalismo un nostro diritto ideale ad essere risparmiati: a noi basta dire senza spavalderia che liberi oggi o più tardi continueremo a lavorare per cambiare quei rapporti effettivi ora a noi sfavorevoli e per invertirli un giorno.
Da "Il processo ai comunisti italiani – 1923", Libreria editrice del PCd'I, Roma, 1924.