Intervento stenografato di Ottorino Perrone sulla tattica aventiniana e sul Comitato d'intesa al III Congresso del PCd'I - II seduta
[Si tratta evidentemente di un canovaccio che riproduce il "parlato", non più controllato dall'autore; lo pubblichiamo così com'è, senza modifiche tranne un minimo di revisione della punteggiatura e l'eliminazione di qualche ripetizione].
Il compagno Bordiga ha trattato a lungo tutte le questioni generali, cosicché non rimane che tornare brevemente su qualche punto particolare risultato dalla discussione e sulle questioni che Bordiga non ha avuto tempo di sviluppare nel suo magistrale discorso.
Circa la costruzione e lo sviluppo della nostra Internazionale Comunista, abbiamo ripetute volte sentito dire dai massimalisti che l'Internazionale rappresenta uno strumento dello Stato russo, il quale se ne serve per i suoi fini di espansione e difesa dall'Occidente. I nostri centristi hanno un concetto che - per quanto diverso da quello massimalista - non risponde affatto ai criteri che dovrebbero guidare l'azione per una effettiva realizzazione del Partito Comunista Mondiale. Pensano, i nostri centristi, che il partito russo, avendo condotto il proletariato alla vittoria, sia immunizzato contro ogni pericolo e che basti quindi una comparazione meccanica delle situazioni che essi attraversano con quelle attraversate dal partito russo per dedurne i procedimenti tattici da adottare. Non discuto ora del giustissimo e fondamentale rilievo fatto da Bordiga sulla diversità delle condizioni in cui si svolge oggi la lotta rivoluzionaria nell'Occidente nei confronti delle posizioni delle classi nella Russia, dove il proletariato si è impadronito del potere politico prima che la borghesia riuscisse ad instaurare un'epoca di proprio dominio politico. Voglio solo rilevare che il marxismo, e cioè la teoria della lotta rivoluzionaria, non consiste affatto in una accumulazione di meriti verso il proletariato, ma nella giusta soluzione tattica da applicare ad un processo reale della lotta di classe. I criteri, troppe volte ripetuti da Bordiga a questo proposito, appaiono ancora oggi i meglio rispondenti per trovare una effettiva soluzione a questo problema generale della tattica.
Occorre consolidare le esperienze del proletariato, dacché rappresentano la più completa conferma della teoria marxista, ma non in regole tattiche le quali siano solo una norma per i troppi leninisti di oggi che giungono a disprezzare Lenin e il leninismo fino a farne una teoria che consenta le acrobazie politiche cui si dilettano i dirigenti attuali del nostro partito.
Per noi, il processo di costruzione e di sviluppo della Internazionale Comunista si spiega come il prodotto dialettico delle esperienze del proletariato di tutti i paesi e del rigenerarsi della dottrina marxista, rigenerazione dovuta particolarmente al Partito russo e in ispecie al suo capo, Lenin. Bordiga ha già dimostrato che, per il movimento proletario, la teoria "ordinovista" consisteva, appunto, nel divulgare a posteriori le esperienze russe, ma non è riuscita mai (proprio perché si tratta di una teoria non marxista) ad approfondire seriamente il sostanziale metodo marxista e bolscevico per risolvere e talvolta anticipare le soluzioni da dare alla lotta proletaria. L'esposizione fatta da Bordiga sulle vicende italiane della guerra, della scissione, della lotta armata e dei problemi dei "Consigli", ha questo grande valore per il nostro partito: la corrente che egli ha rappresentato da circa quindici anni in Italia costituisce un reale contributo alle esperienze internazionali, apportate dal proletariato italiano come sezione dell'Internazionale Comunista. Essa risalta in contrasto con i centristi ed in modo particolare col diverso giudizio dato alla scissione di Livorno. Questa rappresenta per i centristi una applicazione delle esperienze russe alla situazione italiana, mentre per noi essa rappresenta una confluenza spontanea delle lotte proletarie italiane verso l'unico sbocco che ha portato alla costruzione dell'Internazionale, che ha riposto nella sua giusta e completa luce una applicazione del metodo marxista allo studio e alla soluzione dei problemi generali e tattici del movimento proletario.
La differenza fra noi e i centristi sulla questione del contributo da portare all'effettivo progresso della nostra Internazionale, ha un risalto particolare nella documentazione fatta da Bordiga, il quale ha dimostrato che per i problemi capitali dell'azione proletaria (la guerra, la scissione, ecc.) gli attuali maestri di bolscevizzazione sono stati in contrasto con quella corrente del movimento italiano che, in quegli avvenimenti, suggeriva le soluzioni veramente bolsceviche, le quali se non erano il facile risultato dell'esame superficiale delle esperienze russe, erano però il prodotto del ben più difficile esame delle situazioni per la giusta applicazione delle teorie marxiste.
Questo dissenso, oltre ad avere una grande importanza per le questioni internazionali, ha anche il suo riflesso nella esperienza sulla quale siamo chiamati a giudicare in modo particolare, cioè sull'azione svolta dal nostro partito in occasione del periodo Matteotti.
Bordiga ha detto che è di importanza grandissima, per il nostro partito, il conoscere quello che nel campo tattico si deve fare, ma che è di altrettanta importanza il conoscere quello che in tale dominio il partito non deve fare. Questa "teoria dei limiti" è stata combattuta in altra occasione e anche qui, dalla corrente qualificata di destra del partito; essa è stata definita antileninista. Io affermo per certo che la fatica di trovare nei testi di Lenin una effettiva confutazione del pensiero di Bordiga, è fatica veramente sprecata. Lenin ha sempre sottolineato che la soluzione dei problemi di tattica consiste nella applicazione della teoria marxista alle situazioni concrete, applicazione che deve essere attuata tenendo sempre presente che nessuna concessione di principio deve essere fatta. Questo "nessuna concessione" significa appunto che ogni tattica che dia la illusione di successi momentanei a prezzo di abbandonare i limiti dei nostri principii, è destinata, presto o tardi, a gravi conseguenze per il proletariato.
Una applicazione concreta di questi limiti si ha appunto nella questione dell'apprezzamento da dare alle classi medie, ai loro rapporti con il proletariato e con il suo movimento di liberazione. È fondamentale, nella teoria marxista e leninista, che le classi medie non possono apportare alcuna soluzione propria al problema generale del potere. I rapporti di classe, nell'epoca di dominio politico borghese, debbono sempre essere esaminati dal punto di vista del duello fra le classi protagoniste: proletariato e borghesia. Le classi intermedie, sulla cui specificazione non mi intrattengo, si spostano verso il proletariato o la borghesia a seconda dei rapporti di forza fra le due classi principali; esse non contribuiscono al modificarsi delle situazioni in modo spontaneo ed autonomo, ma si accodano, si sentono attratte verso la classe che domina o che - in dati momenti - tende a prendere una situazione di predominio. L'abbandono, sia pure con il fine di riprendere successivamente una posizione di indipendenza, della piattaforma di classe proletaria, per aderire al movimento (che talvolta assume forme clamorose) delle classi medie, ha gravi conseguenze per il nostro partito e costituisce uno di quei limiti che ci auguriamo siano imposti all'azione dei leninisti alla moda.
I nostri centristi, in merito alla tattica ed alla necessità per il partito che essa si adatti alle situazioni, hanno insistito particolarmente su questo aspetto del problema: adattarsi alle situazioni senza però compromettere l'autonomia e l'indipendenza del partito. Questa posizione, stile V Congresso, ha trovato un grande sviluppo nella teoria del fronte unico rimessa a nuovo,
Per noi l'autonomia del nostro partito non è cosa formale, non è il risultato della abilità o della astuzia dei dirigenti comunisti, neppure se essi si credono preservati da contaminazioni per avere molte volte discusso di comunismo. L'autonomia del partito è per noi possibile alla sola condizione che essa risponda alla autonomia della classe proletaria nella lotta contro la borghesia, ed alla condizione assoluta che, in questa lotta, la direzione effettiva spetti al proletariato, il quale trova un concorso nelle classi medie, ma assumendosi esso il compito di risolvere le principali rivendicazione incompatibili con il mantenimento del regime capitalistico.
Inoltre a questa autonomia bisogna badare con la massima attenzione, particolarmente nei momenti in cui appare che una momentanea rinuncia potrebbe darci dei grandi successi. Questo perché, allorquando tentiamo di riprendere una posizione di indipendenza, è allora che diventa particolarmente difficile, nello stesso momento in cui risulta chiaro che quell'apparente successo non è stato in realtà che un successo borghese, conseguito sia pure attraverso un apparente intervento clamoroso delle classi medie. In conclusione, l'autonomia del partito è il prodotto dialettico conseguito dalla giusta e preventiva soluzione rivoluzionaria che il partito dà all'azione del proletariato.
Un esempio varrà a chiarire la nostra critica e la importante conseguenza che ne deriva per il nostro partito. Nell'ottobre o nel novembre 1923, alle prime avvisaglie elettorali, mentre i partiti delle classi medie sostenevano la necessità dell'astensione per la lotta contro il fascismo e, naturalmente, adombravano l'astensionismo con argomento di una pretesa fedeltà al proletariato ed alla sua liberazione, il partito comunista interveniva con un tempestivo comunicato dell'Esecutivo per la partecipazione attiva alla lotta elettorale. Questo comunicato suscitò l'indignazione di riformisti, massimalisti e, nell'interno del nostro partito, l'opposizione di elementi della destra. Noi crediamo che il partito abbia giustamente interpretato in quel momento la sostanza dell'effettiva tattica rivoluzionaria del proletariato. Come conseguenza di questa tattica del partito si ebbero, dopo una relativa incertezza della massa, spiegabilissima per la compressione fascista, un intervento attivo di tutti i compagni nella lotta elettorale ed un notevole consenso del proletariato.
Non tocco la questione del successivo contegno del partito con le liste dell'Unità Proletaria, affatto consigliabile per il partito, e mi limito a rilevare, per i centristi che in buona o mala fede hanno falsificato il dissenso con Lenin sulla questione dell'astensionismo, che in quell'occasione fu pubblicato un articolo di Bordiga in cui egli si dichiarava nettamente favorevole alle elezioni, e per le stesse ragioni rivoluzionarie che gli consigliarono le note tesi astensioniste all'epoca del baccanale liberaloide di Nitti.
In conclusione, all'epoca della lotta elettorale, il nostro partito non fece alcuna concessione alle pretese astensioniste dei partiti della media borghesia e si mantenne rigidamente sulla linea classista rivoluzionaria del proletariato, riuscendo così ad accelerare il processo di ripresa proletaria che ebbe una manifestazione evidente in occasione del periodo Matteotti.
E veniamo ora alla tattica seguita dal partito verso l'Aventino, da cui si vede chiaramente che un diverso comportamento del partito, il quale ha dimenticato i "limiti" dell'azione proletaria, ha avuto per conseguenza una grave confusione ideologica nell'interno del partito stesso e lo smarrimento effettivo dell'autonomia comunista.
L'analisi della situazione determinatasi subito dopo l'uccisione di Matteotti apparirebbe concorde fra noi e i centristi in quanto, contro l'interpretazione socialdemocratica sulla semplice crescente emozione per il delitto, i comunisti ritennero trattarsi di una ripresa della lotta di classe del proletariato contro la borghesia, ripresa di cui le elezioni erano state una prima espressione, sebbene meno evidente e decisa.
Ho detto che l'analisi "apparirebbe'' concorde, mentre di fatto ciò non era, come dimostra la relazione Gramsci al Comitato Centrale, in cui predominano le note sulla situazione democratica e sulla disorganizzazione del proletariato, con il maggior risalto ad una certa ripresa delle classi medie contro l'influenza ed il soggiogamento al fascismo.
Stabilita una corretta analisi comunista, vediamo quale doveva essere la tattica del partito fin dal primo momento della maggiore indecisione del fascismo, e quale fu invece la linea seguita. A nostro parere il partito doveva tracciare immediatamente la linea classista rivoluzionaria del proletariato, denunciando come contraria agli interessi proletari la tattica dell'Aventino.
Questa - che proseguiva nella stessa tattica astensionista prospettata alle elezioni politiche - disertando l'aula parlamentare, prospettò all'epoca una intensa ripresa proletaria, un obiettivo chiassoso per attrarvi l'attenzione delle classi lavoratrici, il che equivaleva a stornare le masse dai loro postulati classisti e dalla azione che ne seguiva con l'ingombro della famosa questione morale.
I nostri centristi hanno dovuto infine riconoscere pubblicamente nelle opposizioni le indispensabili alleate del fascismo, nel senso che tutta la loro azione mirava ad impedire che il proletariato approfittasse della incertezza interna borghese al fine di ristabilire alcune delle perdute posizioni contro la borghesia. I centristi affermano però ancora oggi che, per quanto convinti fin dal principio che le opposizioni borghesi svolgevano una attività puramente borghese, era indispensabile per il partito disertare l'aula parlamentare e partecipare alle prime riunioni dell'Aventino per non perdere il contatto con le masse la cui maggioranza schiacciante era per le opposizioni. Rileviamo anzitutto in linea di fatto che l'Esecutivo del partito, il quale era in condizione di seguire direttamente gli avvenimenti politici ancora prima di conoscere l'orientamento delle masse, dettò il noto atteggiamento che noi combattiamo. E qui si pone bene la critica svolta sempre dalla sinistra contro l'equivoca tattica della conquista della maggioranza, tattica che, pur tenendo conto dell'irrefutabile postulato marxista sulla necessità della lotta delle masse e sulla insufficienza dell'azione di reparti marcianti all'offensiva isolatamente dal proletariato, lascia tuttavia la strada aperta a pericolosi opportunismi.
In concreto, l'Esecutivo del partito, prima ancora delle masse e del partito, ebbe di fronte la situazione culminata nell'uscita delle opposizioni dal parlamento. Allora gli elementi marxisti, per giudicare la tattica del partito, non potevano essere che quelli classisti, stabilito che l'Aventino rispondeva direttamente ai fini di classe della borghesia. La quale, per scansare il pericolo proletario, rimetteva in linea la chiassosa attività scandalistica delle classi medie. L'Esecutivo del partito doveva pronunciare immediatamente l'autonomia del partito e della classe proletaria, distinguersi nettamente dalle opposizioni, restando nel parlamento con una dichiarazione di energico attacco al fascismo ed alla socialdemocrazia. In quei momenti, oltre la propaganda dell'azione di classe, restava a noi il dovere dì forzare la situazione nell'interno della Confederazione Generale del Lavoro e di far leva sui movimenti che si delineavano sia fra il proletariato che fra i contadini.
Se questo il partito avesse fatto, le conseguenze ne sarebbero risultate evidenti: il giorno dopo del delitto, gli iscritti al partito e le schiere proletarie a noi più vicine, invece di diventare propagandisti per l'Aventino, sia pure con riserve e condizioni, avrebbero rappresentato l'elemento chiarificatore e rivoluzionario che prende simultanea posizione contro il fascismo e contro le opposizioni; che non vuole lasciare alla borghesia il compito di sostituire l'uno all'altro metodo della dominazione di classe; che si assume il compito di guidare le masse alla lotta contro il fascismo rifiutando ogni qualsiasi impostazione democratica sul dilemma democrazia-fascismo; che indirizza invece tutta l'azione sul dilemma dittatura proletaria-dittatura borghese, sia essa fascista o democratica. In questa esperienza concreta si sente tutta la insufficienza della tattica della conquista della maggioranza intesa secondo l'edizione ufficiale; se ne vedono i pericoli opportunisti, mentre si scorge chiaramente che, nelle specifiche situazioni, il partito ed i suoi apparati dirigenti hanno il dovere non di esaminare da quale parte stia il proletariato (il che formalmente è impossibile) ma di guardare per giudicare subito i fenomeni di classe, per stabilire la direttiva comunista [che sarebbe certamente accettata dal] proletariato il quale, anche nell'episodio Matteotti, ha dimostrato di avere maggiore coscienza non solo dei molti socialdemocratici ma anche delle sfere dirigenti del nostro partito.
Come conseguenza dell'errato atteggiamento del partito si è avuto, per confessione degli stessi dirigenti, che la massa dei nostri iscritti ha manifestato una certa opposizione contro la successiva tattica allorquando si abbandonò finalmente l'Aventino. Questa nostra certezza come si spiega? Innanzi tutto rileviamo che in occasione delle elezioni si ebbe - come abbiamo detto - un inverso processo: dopo le prime esitazioni il partito accettò entusiasticamente la tattica partecipazionistica, che era la tattica dell'autonomia e dell'indipendenza del proletariato, mentre nell'episodio Matteotti, smarritasi per colpa dei dirigenti l'autonomia del partito nel momento in cui era invece più indispensabile mantenerla, la massa tardò a disporsi sulla direttiva nettamente proletaria. Ciò dimostra che l'autonomia del partito non è mai il risultato della discutibilissima abilità dei capi, ma è la conseguenza logica dell'autonomia di classe del partito. Una volta entrati nell'Aventino, fin quando là si restava ed anche dopo per qualche periodo, la nostra indipendenza era effettivamente compromessa.
L'errore del corpo dirigente del nostro partito fu grave. Nei momenti della crisi, e di una crisi grave come quella Matteotti, la borghesia pone in azione dei potenti diversivi per ostacolare nel proletariato la visione dei problemi di classe e particolarmente di quelli ultimativi. Chi agita questi diversivi nel campo proletario è la socialdemocrazia riformista e massimalista; dobbiamo però riscontrare che, sia pure in diversa misura, sono stati per qualche tempo propagati nel partito e nel proletariato dai nostri dirigenti responsabili.
I nostri centristi vorrebbero rappresentarci come il non plus ultra della abilità tattica leninista la partecipazione all'Aventino con il solo proposito di fare delle proposte, la non accettazione delle quali determinerebbe uno spostamento delle masse influenzate dalle opposizioni. Dobbiamo rilevare questo strano modo di concepire il lavoro rivoluzionario fra le masse. Si pretenderebbe che, mentre il panorama politico è dominato ad esempio dal contrasto fra i1 fascismo e le opposizioni che disertano il Parlamento, le grandi masse devono attribuire una grandissima importanza alle particolari ragioni, per le quali il Partito Comunista aderisce, sia pure temporaneamente, alle opposizioni. Per noi il problema è molto diverso e consiste in una energica presa di posizione anche contro lo stesso Aventino. Nessuno può negare che nelle giornate di giugno le masse italiane hanno visto preminente ed esclusivo il contrasto fra fascismo e opposizioni appunto perché il nostro partito, con la permanenza nel parlamento e con il lavoro rivoluzionario conseguente, non pose in modo aperto e deciso il vero contrasto di classe ed il dilemma fra dittatura borghese e dittatura proletaria.
Ma se formalmente il partito nostro uscì dalle opposizioni nel giugno, sostanzialmente esso vi rimase fino al novembre e cioè fino alla dichiarazione di Repossi in parlamento. Difatti, dopo la relazione Gramsci dell'agosto, dominata da fallaci previsioni, nei mesi di settembre ed ottobre non è stata resa pubblica nessuna chiara impostazione del problema del reingresso nel Parlamento. L'Unità pubblicava articoli di fondo discordanti e, nell'ultimo periodo precedente alla riapertura del Parlamento, istituì nella rubrica proletaria una serie di quesiti, pubblicando indifferentemente lettere pro e contro il ritorno del gruppo parlamentare nell'aula di Montecitorio.
Le opposizioni erano contro il ritorno e il nostro partito - per l'apparente timore di perdere il contatto con le masse, ma sostanzialmente perché non restava sulla base di classe dato che accettava la piattaforma dei partiti e delle classi medie - ondeggiava tra le opposte tesi. Ai centristi, che ci rimproverano di dimenticare le masse, dobbiamo ricordare che la rottura definitiva con le opposizioni, e cioè il ritorno del gruppo in Parlamento con la dichiarazione di Repossi, è stata conosciuta dal partito e dalle masse per mezzo dei giornali che pubblicavano il resoconto parlamentare. Era intervenuta prima la famosa proposta dell'Antiparlamento, che ancora non sappiamo a quali tesi tattiche dell'Internazionale può essere riferita, trattandosi di una proposta di fronte unico a partiti dichiaratamente antiproletari, come i popolari ecc. sulla questione del potere e dello stato.
Finora nessuna tesi dei nostri congressi internazionali aveva autorizzato simili deviazioni gravissime verso l'opportunismo.
A proposito del ritorno nel Parlamento, abbiamo avuta un'altra prova della giustezza della nostra posizione, che attribuisce al Partito il compito di prestabilire la direttiva tattica sulla base della ideologia marxista, sicuri che su questa direttiva il proletariato si conformerà entusiasticamente. E difatti nessuno potrà contestare il successo ottenuto dalla dichiarazione Repossi che dovrebbe consigliare i centristi ad avere una maggiore fiducia nel proletariato.
Se in tutto il periodo Matteotti il partito avesse tenuta una ben diversa posizione scindendo fin dal primo momento ogni responsabilità dall'Aventino, esso avrebbe potuto meglio utilizzare il malcontento delle masse contro il nullismo aventiniano, nello stesso momento in cui avrebbe reso possibile al partito di spostare notevolmente in avanti la sua capacità rivoluzionaria, accresciuta da una esperienza importante vissuta al lume delle precedenti esperienze rivoluzionarie e delle nostre dottrine comuniste.
In altre occasioni, e cioè nella discussione sulla questione sindacale, diremo il nostro pensiero sulla questione dei Comitati operai e contadini.
Voglio ora accennare alla "grande manovra" Miglioli. Le esperienze proletarie passano determinando nelle schiere dirigenti delle rettificazioni che sono tali anche quando si presentano sotto la veste seducente di lezioni dalle quali si è appreso, ma le stesse esperienze passano per le masse nel senso che le spostano o tendono a spostarle verso l'unico partito di classe e cioè verso il partito nostro. Nel Cremonese, uno di questi processi si era verificato, allorquando l'onorevole Miglioli, per mantenere il suo prestigio fra le masse, annoverò fra gli uomini politici da frequentare anche gli esponenti responsabili del nostro partito. Non ricorderò qui tutti gli episodi della manovra comunista verso Miglioli, rileverò solamente che in una situazione a noi favorevole e in presenza di una radicalizzazione delle masse in generale, non siamo riusciti a progredire di un passo nella nostra organizzazione comunista ed abbiamo anzi ostacolato - naturalmente senza volerlo - l'entrata nel nostro partito dei migliori elementi i quali, dopo le tremende esperienze toccate al proletariato italiano, sentivano che per difendere gli interessi di classe non vi era che il nostro partito. La manovra verso Miglioli ha avuto per conseguenza che un discutibilissimo successo si raggiungeva verso la persona del capo, mentre alla base nessun reale spostamento si otteneva fra le masse, ove si spargeva l'impressione che non valeva la pena di abbandonare Miglioli in quanto egli stesso si avvicinava al partito comunista.
Posso qui comunicare che, per quante volte il partito abbia tentato di convocare convegni nel cremonese, per quanto molte volte ci si sia posto il problema di applicare praticamente il famoso patto stipulato a Milano per l'entrata nella Confederazione Generale del Lavoro, non un Comitato misto a tale scopo siamo riusciti a far sorgere nelle campagne cremonesi. Se qui si volesse dire che il lavoro alla base è mancato per incapacità dell'organizzazione locale, mi si permetta di ricordare che gli interventi contro la sinistra non sono mai mancati da parte dell'Esecutivo del partito e che valeva davvero la pena di perdere meno tempo nelle grandi manovre dall'alto per curare direttamente un importante processo determinatosi in mezzo alle masse cremonesi dalle grandi esperienze del proletariato italiano.
E vengo ora a parlare del Comitato d'Intesa.
Il V Congresso dell'Internazionale si era chiuso con l'accettazione della nota formula della partecipazione della Sinistra a tutto il lavoro di base, senza la sua partecipazione alla Centrale del Partito. Sarebbe difficile portare qui un solo esempio per dimostrare che nel lavoro di base non siano state rispettate le direttive della Centrale, sia nel lavoro di direzione delle federazioni, sia nella attività svolta da funzionari di sinistra. Invece i nostri centristi concepirono subito un piano di spostamento del partito sulla base di una discussione ideologica, ma sull'altra di una curiosa questione morale la quale aveva per iscopo di ottenere con poco sforzo, i risultati desiderati.
Infatti, subito dopo il V Congresso, i congressi federali, invece di portare la formula decisa dal V di stabilire una concorde attività pratica, si portò la questione morale del rifiuto - in momenti difficili - a partecipare al lavoro della Centrale e su questa base non era difficile strappare ai compagni voti per la entrata di Bordiga nella Centrale. Lungi dall'esaminare il dissenso nella sua sostanza, per convincere i compagni che le idee di Bordiga erano da rigettare, si richiamava l'attenzione loro sul fatto che tutti hanno gli stessi doveri e che perciò Bordiga doveva entrare nella Centrale. Viene fatto di rispondere indignati a questo sistema deleterio, instaurato nell'interno del nostro partito: i dissensi sul modo di condurre la lotta rivoluzionaria vengono passati in seconda linea, mentre si pone in prima luce il dovere del comunista Bordiga. A proposito di questo dovere, mi sia acconsentito di affermare che nessuno dei centristi sarebbe in grado di affermare che non solamente il contrasto ideologico, ma una viltà personale avrebbe consigliato a Bordiga di restare fuori della Centrale.
Ottenuto qualche voto per l'entrata di Bordiga nella Centrale che - dato il suo ascendente personale - si otteneva con la tattica, allora di moda, della maggiore ostentazione dei complimenti al suo indirizzo, si è interrotta questa tattica dopo il congresso federale di Napoli, ma se ne è adottata un'altra della stessa natura. Dopo un articolo di Humbert-Droz, capitato all'improvviso e di netta ostilità contro Bordiga e la Sinistra in occasione della mancata partecipazione di Bordiga all'Esecutivo Allargato, si è montata contro di lui la più oscena campagna con il risultato di annebbiare ancora di più la difficile elaborazione comunista nel partito, mentre però alcuni elementi, impressionati dalla presunta colpa dì Bordiga, si decidevano a condannare le direttive della Sinistra. Un comunista avrebbe dovuto ragionare così: Bordiga sbaglia, sia colpito; ma discutiamo le sue idee.
Nel merito della questione della presunta colpa di Bordiga, voglio ricordare che un'apposita dichiarazione sua non fu pubblicata con lo specioso pretesto che conteneva delle frasi offensive. Dico specioso pretesto, perché i nostri centristi hanno avuto l'inabilità di rendere pubbliche proprio quelle frasi del comunicato per le quali si sottraeva al suo naturale giudice, cioè al partito, la dichiarazione. Dopo la lettera contro Bordiga per l'Allargato, si ha il defenestramento di due importanti Comitati federali di Sinistra, regolarmente eletti dai rispettivi Congressi provinciali: Napoli e Milano. Per il primo si dice trattarsi del fatto che Bordiga non poteva restare alla direzione di una modesta Federazione quando aveva rifiutato di entrare nella Centrale. Per il secondo si prende il pretesto della dimostrazione fatta in occasione della conferenza Bordiga al Castello Sforzesco. Senza entrare nel merito della questione, affermo che solamente un nuovo congresso provinciale avrebbe potuto ratificare il provvedimento dell'Esecutivo, invece di congressi non si è più parlato e la direzione federale venne assunta di fatto da un commissario straordinario dell'Esecutivo, il quale ha tenuta la direzione fino al nostro Congresso nazionale.
E così arriviamo finalmente al Comitato d'Intesa. Un gruppo di compagni, dopo che erano note le deliberazioni dell'Allargato e della Centrale italiana per il Congresso, costituisce un Comitato che si pone in relazione con l'Esecutivo facendo ad esso delle proposte per la regolazione della discussione. Si è fatto gran clamore sulla circostanza che la lettera all'Esecutivo giungeva dopo che era stata trasmessa una famosissima circolare, di cui si sono vivisezionate perfino le virgole, al fine di trovarvi il grave attentato frazionista.
L'Esecutivo del partito non aspettava migliore occasione per proseguire nel suo piano per una ulteriore modificazione delle posizioni nell'interno del partito. Il Comitato d'Intesa è una frazione, mobilitiamo tutto il partito contro la frazione, la scissione, l'Internazionale di Napoli; formuliamo la teoria delle "coincidenze obiettive" per dimostrare che la sinistra italiana è sulla stessa linea dei massimalisti italiani, di Levi, di Frossard, che essa sinistra è contro il partito e favorisce la penetrazione di agenti provocatori.
Come corollari di questa impostazione generale, i provvedimenti preventivi: nessuna libertà agli accusati di difendersi sull'Unità; circolari ai segretari interregionali che avevano il compito di convocare senza indugio i comitati federali, sottoporre loro l'ordine del giorno e defenestrare tutti quelli che non giuravano sulla santa crociata contro la offensiva della sinistra. Dopo un mese circa di questa campagna intervenne l'ordine dell'Esecutivo dell'Internazionale, cui la sinistra si sottopose. E questo dispiacque vivamente ai nostri centristi, i quali presero tutte le misure perché il partito non giudicasse bene dalle prove di disciplina date alla disposizione dell'Internazionale. La silenziosa rassegnazione dimostrata dai compagni di sinistra all'oscura campagna a nulla valeva, come nulla valeva la dichiarazione di scioglimento del Comitato d'Intesa: si pubblicò il nostro documento nella miglior forma scenica, per impressionare i compagni, mentre già subito si diceva che di fatto la frazione restava e che perciò la vigilanza non era mai eccessiva sulla attività dei sinistri.
Compagni che cosa è rimasto di questo famoso Comitato d'Intesa? Esso, sorto con fini puramente congressuali, era il comitato di una frazione? Intendiamoci anche sul significato della frazione. A mio parere essa o costituisce un raggruppamento a fini opportunistici di compagni che vogliono dare la scalata al potere, o costituisce un raggruppamento di compagni i quali intendono di non poter oltre sottostare alla disciplina del partito per ragioni tattiche e programmatiche. Scartiamo la prima ipotesi perché nessuno ce la ha attribuita ed anche perché essa trova la sua logica soluzione nelle misure disciplinari a carico dei responsabili. Nell'altro caso, la frazione è concepibile solamente come una presa di posizione nel partito e nel proletariato su determinati punti programmatici e tattici, in contrasto con le direttive stesse del partito. Non può quindi trattarsi di un movimento segreto, clandestino, ma di una chiara ed aperta presa di posizione da rendere nota non solamente ai dirigenti, ma anche a tutto il partito e al proletariato.
Ora il Comitato d'Intesa prendeva posizione su che cosa? Su nulla. Esso chiedeva solamente che la Centrale accettasse alcune proposte per disciplinare e rendere più utile la discussione. Secondo il sistema proprio della burocrazia, il nostro Esecutivo passò in ultima linea la questione delle proposta del Comitato, che non furono accettate, e si sbizzarrì nel regalare tutte le opinioni frazionistiche e scissionistiche ai compagni di sinistra, al fine di mobilitare il partito contro di essi. Poco male se anche il partito, a pregiudizio del discredito verso alcuni compagni, avesse fatto dei passi avanti. Ma il risultato, dal punto di vista rivoluzionario, è stato completamente negativo: la discussione ha languito in un contraddittorio fra pochi compagni sull'Unità ed alla base in interminabili monologhi dei dirigenti centristi cui difficilmente potevano opporsi gli operai comunisti.
Ma i nostri centristi avevano paura anche degli scritti di sinistra, la più parte dei quali, oltre alla presentazione scenica sull'Unità, erano preceduti da premesse e seguiti da postille che ne falsavano il significato e talvolta allarmavano i compagni sul contenuto degli articoli.
Così si è giunti alla votazione, ove si è raggiunto il colmo con la disposizione che attribuisce al Centro i voti degli assenti. Se tenete presente che questi hanno rappresentato delle forte percentuali in molte località, che essi non possono essere ritenuti - in generale - fra i migliori compagni e se considerate infine che il partito ha triplicato i suoi effettivi nel secondo semestre del 1924, giungerete ad una efficientissima valutazione dei risultati che vi vengono presentati.
Concludendo con i sistemi che vi ho denunciati, si è preteso modificare le opinioni del partito, il quale in altra consultazione, nel maggio 1924, dava la sua grande maggioranza alla sinistra, sia pure solamente attraverso i voti dei comitati federali e senza una precedente e vasta discussione. Per noi le opinioni che cerchiamo di esprimere, non sono che il risultato di lunghe esperienze rivoluzionarie del proletariato italiano, esperienze le quali resisteranno a tutta la campagna scandalistica manovrata dai nostri dirigenti.
Prima di chiudere voglio accennare alla questione personale del compagno Bordiga. Nelle tesi presentate al partito nel maggio 1924, gli attuali compagni del Centro, dando vita alla corrente centrista, scrivevano ad un dipresso così: Bordiga è il capo della rivoluzione italiana. Oggi essi hanno cambiato parere, mentre noi restiamo dello stesso avviso, ma non per considerazioni meramente personalistiche. Molti compagni centristi amano ridurre tutto il problema della sinistra al problema Bordiga. È certo che Bordiga rappresenta fra noi - per le doti eccezionali del suo ingegno - il compagno che meglio formula le opinioni della sinistra, ma egli capeggerà questa corrente alla sola condizione che essa metta a profitto le opinioni che egli ha tante volte espresso, il suo ingegno, la sua volontà, il suo spirito di sacrificio. Se domani egli dovesse comunque cambiare parere, il problema della sinistra rimarrà integro e diventerà più difficile, per il proletariato italiano, l'elaborazione delle sue esperienze rivoluzionarie, ma se Bordiga sarà travolto il proletariato farà lo stesso le sue battaglie. In questo senso solamente si può concepire l'apporto di Bordiga alla nostra corrente: tutte le altre formulazioni risentono troppo della necessità di ottenere successi tra i compagni sia pure passando dalle lodi sperticate che vi ho ricordato, ai villani ed ingiusti attacchi di questi ultimi tempi, che sono il prodotto del fatto che Bordiga non ha cambiato parere.
Si è molto parlato delle frazioni. Bordiga vi ha posto il problema dal punto dì vista teorico ed anche pratico; io voglio solo dirvi che se i centristi si propongono di regalare al proletariato italiano la tattica esperimentata nel 1923 in Germania ove i comunisti trassero tutte le conseguenze dalla loro tattica generale e finirono in un governo borghese, noi della sinistra non una, ma cento frazioni costituiremmo, e siamo certi che la stragrande maggioranza del partito sarà decisamente con noi.
Da APC, 382/156-159
La Sinistra Comunista e il Comitato d'Intesa
Quaderni di n+1.
Un volume utile per meditare sui ricorrenti collassi politici di fronte alle situazioni sfavorevoli nella storia.