Il miraggio della riforma agraria in Italia

Un equivoco fondamentale sta in tutto quanto si scrive e dice a fine politico sulla trasformazione agraria, sia quando viene presentata come una rivoluzione parallela a quella borghese o a quella operaia, sia quando viene avanzata come una riforma nel quadro di vigenti ordinamenti.

Le rivoluzioni spezzano antichi rapporti di proprietà e di diritto che impedivano a forze produttive già presenti, con premesse tecniche già sviluppate, di muoversi nella loro organizzazione. Riforme possiamo chiamare in un grande senso storico le radicali misure successive che un recente potere rivoluzionario attua per rendere praticamente possibile questo trapasso tecnico, ma nel senso comune ed attuale sono le rabberciature promesse di continuo per smussare e nascondere contraddizioni, conflitti ed inceppamenti di un sistema vivente da tempo nel quadro conformista suo proprio.

In agricoltura come in ogni altro settore economico va distinto tra proprietà ed azienda, comunque e da qualunque angolo visuale voglia dipingersi un programma innovatore. La proprietà è un fatto di diritto, tutelato dallo Stato, sistema di imposizioni sovrapposto alle cose sociali. L'azienda e il suo funzionamento sono un fatto di organizzazione produttiva, determinato alla base dalle condizioni e possibilità tecniche.

Il feudalesimo spazzato via dalle grandi rivoluzioni agrarie non era una rete di organizzazione aziendale, non disponeva e gestiva tecnicamente la produzione rurale, la sfruttava soltanto prelevando tangenti dovute dai contadini che provvedevano a tutti gli elementi della produzione, lavoro, strumenti, materie prime e così via. I feudi erano grandi e anche immensi, le aziende piccolissime in quanto tenute da famiglie rurali, medie in quanto messe su dai primi contadini possidenti, i primi borghesi della terra, anche essi allora classe oppressa.

La rivoluzione, che fu in alcuni paesi solo una grande riforma, affrontò alla base il problema giuridico spazzando via il diritto del signore a prelevare quelle tangenti. Nulla mutò nella tecnica organizzazione dell'azienda in quanto ad essa nessun apporto organizzativo dava il signore, che nulla sapeva e praticava di agronomia, di commercio, e se aveva compiti personali erano militari, di corte o di magistratura.

Cominciò una evoluzione e in dati paesi una serie di riforme della tecnica di esercizio, non in quanto la piccola proprietà si smosse molto dai metodi culturali secolari, ma in quanto il capitale apportato sulla terra permise il formarsi della nuova proprietà borghese e su più vaste aree si ordinarono aziende medie e grandi condotte da affittaioli capitalisti possessori di scorte e macchine, e in dati casi dagli stessi proprietari gestori disponenti al tempo stesso della terra e del capitale mobile.

Come grande fatto rivoluzionario lo scrollo dalle spalle dei rurali del peso feudale avvenne di un colpo solo nella Francia del 1789 e nella Russia del 1917, accompagnando nel primo caso la rivoluzione dei capitalisti, nel secondo quella degli operai. Da quel punto di partenza lo svolgimento dell'ordinamento agricolo avvenne in modo diverso e sotto l'influenza di diverse forze, e particolarmente interessante è l'indagare su quello russo, le sue avanzate e i suoi ritorni. Qui ci basti ricordare che la formola giuridica rivoluzionaria fu in Francia libertà di commercio della terra, in Russia proprietà nazionale della terra e concessione in gestione ai contadini. Ma anche nel secondo caso non si impedì il sorgere di una classe di borghesi agrari ricchi e medi, e la lotta con essi ebbe alterne vicende, partite dal fatto che si dovette tollerare il libero commercio delle derrate, in misura dominante.

Un altro dato distingue i due grandi fatti storici: per la Francia produzione intensiva e alta densità di popolazione; per la Russia produzione estensiva e bassa densità. Un dato forse li assimila: armonica diffusione della popolazione rurale sulla superficie coltivata.

In Italia, come abbiamo già detto, non si ebbe una grande e simultanea liberazione da un feudale servaggio della gleba che mai fu socialmente dominante. A seconda dei dati tecnici delle varie zone tutti i tipi di azienda rurale vissero in relativa libertà, dalle piccole alle medie e grandi, da quelle fondate sulla cultura intensiva a quelle estensive e si incrociarono tutte le forme di proprietà privata, minima, media e grande, collettiva, in demani comunali e comunità rurali. Una grande battaglia per sollevare le aziende e le classi rurali dal peso di sistemi di diritto signorile non fu necessaria e non si ebbe; ove tali forme si affacciarono furono a volta a volta fronteggiate e da Comuni e da Signorie e da Monarchie e dalle stesse amministrazioni straniere.

La vicenda fu assai complessa e ci limiteremo a citare ancora l'autore, non certo marxista, il cui nome non importa, non avendo egli lavorato l'intera vita sui problemi dell'agricoltura italiana - mostrando che essi sono quelli degli agricoltori - al fine di posti politici per sé o per i suoi:

"Si hanno numerose prove storiche della continuazione del regime fondiario in Italia con la applicazione del diritto romano. E’ indubitato che a contatto di possessi retti dal diritto romano doveva esservi una vasta estensione soggetta a vincoli feudali, i cui possessori erano trattenuti dal migliorarla, perché avrebbero dovuto farne partecipi dei benefizi terzi che non vi davano alcun contributo, ed invero residui di queste servitù furono liquidati persino con legislazioni dei secoli XVIII e XIX. Però la massima parte delle terre venne prosciolta dai vincoli predetti, come [lo furono] i servi della gleba, nel periodo comunale, per cui furono possibili le grandi trasformazioni agrarie di bonifica e di irrigazione nella Valle Padana e le piantagioni nella Toscana, che appunto assunsero così largo sviluppo dal secolo XII al XV. In quel periodo si svolse e si fortificò l'istituto del consorzio fondiario, inapplicabile senza l'assoluta libertà della terra, la quale poi ora, salvo scarse eccezioni, si può dire completa in quasi tutti i paesi civili, eliminando così l'ostacolo della cointeressenza di un terzo nei soli benefici del miglioramento fondiario e culturale [lo scrittore, aperto fautore della proprietà personale del suolo, insiste sul dato che la forma feudale di privilegio dovette saltare perché impediva lo sviluppo delle forze produttive agrarie, ossia dell'investimento di capitale e lavoro in migliorie fondiarie, matura per quel tempo, e ci fornisce così un buon argomento della validità del metodo marxista]. L'applicazione del codice napoleonico consolidò questo regime in tutto il nostro paese e vi contribuì del pari l'abolizione del regime feudale nel Mezzogiorno nel 1806, in Sicilia nel 1812, e in Sardegna dal 1806 al 1838. La legislazione civile della nuova Italia affermò maggiormente codesto indirizzo col sopprimere fidecommessi e maggioraschi e poi col cercar di liquidare tutte le forme di compartecipazione ad un solo possesso. Permasero tuttavia estesi avanzi di proprietà collettive, pur prevalendo la tendenza al proscioglimento di ogni sorta di promiscuità nel dominio della terra; e l'esazione della rendita fondiaria fu resa dalla legge particolarmente privilegiata. [Tutte misure caratteristiche della rivoluzione borghese e liberale di cui i superasini rinnovano ancora le istanze e attendono gli effetti!]. Così la liberazione della proprietà fondiaria secondò particolarmente il miglioramento colturale, iniziato nel nostro paese fino dal secolo XII [senza attendere il ministro Segni e l'esperto di opposizione Grieco Ruggero, guardate che roba!] rendendo possibile la formazione di una agricoltura capitalistica [ca-pi-ta-li-sti-ca, copiato soltanto e non aggettivato da chi ha come noi la fobia del capitalismo al punto di fare l'occhietto alla feudalità signorile nelle brevi parentesi di contingentismo] da redditi elevatissimi, che un altro regime non avrebbe certamente consentito".

Speriamo di non avere scocciato col metodo storico, ma che si vuole: quando il gazzettume di ogni tinta stampa, ogni dieci righe, di baronato, di feudalità e di borghesia, poverella, e capitalismo, infelice, non arrivati a liberamente svilupparsi in questo paesaccio medioevale (magari!), i chiodi vanno battuti e ribattuti... e vediamo oggi nelle cose essenziali a che punto ne siamo.

"La ricchezza agraria proviene dalla terra che produce per la sua estensione una certa quantità di derrate aventi valori fissati dal mercato rispettivo [...]. In ciò agisce il fenomeno prevalente della sua limitazione, ed infatti ad esempio nel nostro paese, prima delle ultime annessioni [del 1918], della estensione di 287.000 chilometri quadrati erano o naturalmente improduttivi o sottratti per scopi diversi alla produzione 22.600, restandone a questa circa 264.000 ossia il 92,1%". La popolazione era in quei confini, coi dati del 1921, di oltre 37 milioni di abitanti, "ossia di 130 a chilometro quadrato di territorio e di [ben] 141 a kmq. di superficie agraria e forestale [...]. Noi abbiamo infatti una forte proporzione di zona di monte (oltre gli 800 a 1000 metri di altitudine) la quale nelle Alpi ha vaste distese occupate da nevi perpetue, e quivi e anche nell'Appennino altre dai 1500 ai 2000 e più, suscettive soltanto di magri pascoli e boschi. La zona di collina comprende del pari estesi tratti di terre franose, le pianure lembi litoranei di sabbie e dune, zone pantanose, etc. Cosicché si riduce notevolmente la parte più fruttuosa, su cui si concentra la maggior parte della nostra popolazione, con territori che alimentano 3-4-500 abitanti su un kmq., e taluni anche 700 e 800. Perciò la non rara affermazione di orecchianti dell'esservi ancora da noi estese terre incolte suscettibili di proficua colonizzazione, va accettata con assai largo beneficio d'inventario. Certamente non mancano terre mal coltivate e la produzione agraria italiana è tuttora suscettibile di aumenti. Però le cifre suesposte dimostrano come la quistione delle cosiddette ‘terre incolte’ abbia una importanza molto relativa, altrimenti non potrebbe vivere da noi una così fitta popolazione".

Anche gli orecchiantoni sanno che dal 1921 al 1949 le cifre sono mutate. Infatti su 301.000 kmq sono produttivi 278.000 ossia nello stesso rapporto del 92% circa, mentre gli abitanti sono ormai 45 milioni, e le cifre di densità sono salite a 150 e 162, ossia del 15%!

Tra i sacrifici alimentari degli anni di guerra e le pelose donazioni di derrate agrarie in tempi UNRRA ed ERP, pare evidente che la produttività agricola della scarsa polpa e del molto osso costituenti lo stivale abbia raggiunto qualche altro aumento di resa di cui era capace, allo stato della sua attrezzatura. Quanto alla popolazione, essa non si sogna di fermare il proprio aumento, che nell'anno 1948 ha passato il mezzo milione di unità, raggiungendo l'incremento relativo del 10-11-12 per mille. L'eccesso annuo dei nati sui morti passava di poco l'8 per mille al tempo delle esortazioni demografiche di Mussolini cui si attribuiscono dal bagolame odierno facoltà e potestà buone o cattive di cui fu del tutto innocente. Egli passò per colui che vietava l'emigrazione, misura che non fu che una debole ritorsione tattica di fronte ai grandi poteri capitalistici che batterono le porte sul muso ai lavoratori italiani. Comunque anche questa valvola di sicurezza non funzionò come in passato: tra il 1908 e il 1912 l'emigrazione toccò massimi di 600.000 lavoratori in un anno (20 per mille), dopo la guerra negli anni 1920-1924 riprese sui 300.000 ed oltre, per poi deprimersi fortemente; sembra che nell'ultimo anno 1948 sia ritornata a 137.000, ma in gran parte di temporanei (3 per mille).

Per quanto riguarda la parte di popolazione dedita all'agricoltura, essa è di circa il 25% secondo le statistiche del primo anteguerra (1911) e sarebbe oggi di almeno dieci milioni, ma va notato che trattasi di dieci milioni di unità produttive, con esclusione di ragazzi di meno di dieci anni, di vecchi inabili, di parte delle donne, sicché è evidente che la gran maggioranza della popolazione italiana tuttora vive dell'economia agraria. Più importante è vedere la ripartizione della popolazione agricola attiva, che dopo l'altra guerra si riteneva all'incirca la seguente: 19% proprietari - 8% fittavoli - 17% mezzadri - 56% giornalieri e braccianti. Questi costituivano dunque la maggioranza, e deve tenersi conto che la più gran parte dei proprietari, fittavoli e mezzadri sono in condizioni economiche che confinano con la nullatenenza. E' importante notare che la proporzione degli agricoli proletari puri era più forte nel Mezzogiorno che nel nord e nel centro, nelle Puglie circa il 79%, in Sicilia il 70%, in Calabria il 69%.

Questa situazione quasi originale dell'agricoltura italiana rispetto agli altri paesi d'Europa, oltre a mostrare il grave errore sociale e politico di trattarla come pre-borghese, basta a fare intendere come il problema di modifiche (minime o massime) nel dinamismo delle aziende produttive sia impostato sull'assurdo quando lo si riduce artatamente a quello di una ridistribuzione generale o eccezionale della giuridica e personale proprietà della terra.

Non è facile passeggiare per il giardinetto delle statistiche... Nelle recenti discussioni della riforma Segni e sui contratti agrari i contraddittori si sono scambiati l'accusa di non saperci leggere. Bisognerebbe sapere come si manipolano. Al tempo della battaglia del grano il ministero dell'agricoltura chiedeva agli ispettorati provinciali i dati della superficie messa a grano e del raccolto, mentre il partito comminava ai federali le cifre da raggiungere. Federale ed ispettore non avevano alcuna voglia né di rompersi la testa né di perdere la carica. In questo tutto il mondo è paese e tutti gli "uffici del piano" pasteggiano bugie. Che cosa possano valere poi le statistiche messe insieme oggi in Italia dalla disarticolata pletorica e ondeggiante pubblica amministrazione, è facile intendere. Basti pensare che siamo in regime multi-partitico, e il grado di falsità nei pubblici affari cresce come il quadrato del numero dei partiti in campo.

Cifre più recenti del Serpieri, indubbiamente fonte autorevole se si consultava prima e dopo il Risorgimento, aumentano molto il numero dei proprietari cui aggiungono una forte quota di usufruttuari enfiteuti e simili e dopo aver più o meno confermata la proporzione di fittavoli e mezzadri ribattono quella dei giornalieri e braccianti al solo 30% degli agricoli.

Se si parte dai censimenti della popolazione bisogna rifarsi a quelli fascisti che tentarono un rilevamento corporativo-sociale delle professioni e posizioni economiche. Ma non è facile leggere nelle dichiarazioni il numero dei proprietari, non è facile smistare tra quelli urbani e rurali, non è facile calcolare se per lo stesso possesso tutti i membri della famiglia del proprietario, donne e minorenni compresi, sono dichiarati agricoltori proprietari.

Se poi si risale al catasto, istituito indubbiamente con elementi esatti, si ha in mano una statistica non di individui ma di ditte. Tra queste vi sono enti morali svariatissimi, comuni, cooperative, società, e via. Restano le ditte private, ma mentre da un lato in molti casi ad un possesso ancora indiviso o di cui non è trascritta la divisione corrispondono complicate intestazioni collettive agli eredi familiari, non è assolutamente possibile sapere se un singolo possessore ha diverse proprietà in vari comuni dello Stato, in quanto le rubriche dei possessori esistono comune per comune. I comuni sono 7.800 e ognuno registra migliaia di ditte. Se si volesse formare il ruolo nazionale dei possessori di terre il lavoro sarebbe tale da poter stabilire con qualche piacevolezza di calcolo combinatorio che gli impiegati del superufficio a ciò addetto consumerebbero una percentuale sensibile del prodotto agricolo del paese. Come nella spiritosa osservazione fatta al Fanfani-case e al Tupini-case: costruirete solo i fabbricati per gli uffici dei relativi piani.

Perciò i trattatisti migliori per spiegare il senso della statistica sulla estensione dei possessi in rapporto al numero di possessori, con le relative aliquote di teste, di superficie, o di valore agrario (che si prestano al solito giochetto propagandistico: l'1% possiede il 50% della terra e via via l'80% deve dividersi appena il 20% della superficie), o simili formano specchietti di paesi immaginari. Ponete il sistema della proprietà titolare del suolo, del libero commercio della terra e della trasmissione ereditaria, e non potrete avere una distribuzione diversa da quella, o tendente irresistibilmente a riprendere quella forma se ne viene allontanata da interventi estranei, sicché quella progressione allarmante del moltissimo a pochi e pochissimo a molti, da una parte è un effetto aritmetico di prospettiva, dall'altra è la caratteristica del civile regime della terra libera in un libero paese.

La variabilissima distribuzione del possesso agrario in Italia in rapporto ai vari tipi di azienda organizzata presenta il ben noto quadro regionale, che talvolta avvicina a pochi chilometri il grande possesso estensivo alla minutissima proprietà familiare, il grande e medio podere moderno ben attrezzato alla piccola azienda di collina. La varietà della scelta da regione a regione è pacifica, se ne vuole indurre la necessità di trattare il problema tecnico regionalmente, ma, anche senza voler prendere sul serio la politica agraria contingente di oggi, si potrebbe rilevare che appunto la varietà della gamma regionale e le strane sue alternanze sono un motivo per combattere gli inconvenienti dei casi estremi con un programma unitario nazionale...

Sembrando pacifico che le tenute poderali di media estensione ed alto valore della Valle padana, con la loro fiorente zootecnia e la coltura irrigua, come i poderi un poco meno estesi dell'Italia media con prevalenza di colture arborate di alto reddito, e non poche aziende analoghe del sud e di Sicilia, si avvicinano all'optimum di resa produttiva, non resta da affrontare il solo problema del famigerato "latifondo", ma ne restano due, quello del latifondo, che non spianteranno i poveri untorelli attuali, e quello della estrema polverizzazione, della minuta proprietà inseparabile dalla minima azienda, vera malattia della nostra agricoltura, causa massima di depressione, di miseria, di conformismo sociale e politico, come di dispersione incommensurabile di penosi sforzi di lavoro.

Prima di vedere per un momento i due malanni coi loro dati reali rileviamo subito quanto sia assurdo che all'indirizzo del dominante partito democristiano per il frazionamento dei possessi, per quella stupida utopia del "tutti proprietari", con la vuota prospettiva di quotizzare ai contadini poveri le terre incolte - che sono quelle incoltivabili, e che ogni agricoltore magari analfabeta ma dotato dei rudimenti del mestiere rifiuterà anche se regalate -, l'opposizione non sa contrapporre, neppure a fini di manovra e di sabotaggio polemico, la critica ben altrimenti fondata della dispersione della terra in aziende troppo minute e ferme a metodi secolari di gestione primitiva.

Tutti proprietari: prendiamo dunque i 270.000 chilometri quadrati e ripartiamoli tra i 45 milioni di italiani. Ognuno avrà tre quinti di ettaro, uno spazio che se fosse quadrato sarebbe di poco meno che ottanta metri per ottanta. Il reticolato imbecille che il regime della libera proprietà e il rilevamento geometrico catastale segnano sulla superficie della terra, misurerà 300 metri per ogni possesso, e se si volessero porre delle chiusure anche semplici il loro costo economico si avvicinerebbe al valore reale della poca terra... E non è questo che uno dei motivi di distruzione di produttività per angustia del campo da lavorare, che curva l'uomo alla sudata servitù della zappa.

Il ragionamento non sembri assurdo, poiché la effettiva statistica dà saggi di frammentarietà anche più spinta.

La statistica della estensione media della particella catastale, ossia della zona di terreno che non solo appartiene ad una stessa ditta ma ha pari coltura e pari classe di merito, dà naturalmente superficie inferiore a quella media della partita, insieme di particelle della stessa ditta, ma dà una migliore idea della polverizzazione nel senso di gestione tecnica. Mentre noi abbiamo supposto che ogni italiano abbia 0,60 ettari, ossia 60 are, vi sono province in cui la particella media è ancora minore: Aquila e Torino 35 are, Napoli 25, Imperia 22.

Ecco quanto l'autore, che difende il regime di libero acquisto della terra ed il possesso familiare poiché "rappresenta uno stimolo efficacissimo al miglioramento della terra e della sua coltura colla massima utilizzazione del lavoro del proprietario e dei suoi familiari" e perché "determina miglior divisione della ricchezza e minor proporzione di nullatenenti e [...] quanto proviene dal piccolo coltivatore possidente, a differenza della rendita e talora anche del profitto di capitalista agrario nel grande possesso, rimane tutto in paese e concorre al miglioramento della terra e dei suoi coltivatori" - e quindi senza nessun sospetto di tendenza socialista - dice dello sminuzzamento fondiario:

"Allo sminuzzamento del possesso corrisponde quello analogo della cultura, di regola col lavoro del proprietario medesimo e dei suoi, il che così completa l'insufficienza della rendita e del profitto a costituire il minimo necessario all'esistenza [...] La classe dei minimi possessori, come in generale tutte quelle lavoratrici, ha natalità molto elevata, onde alle eredità concorre in media un maggior numero di condividenti che non nei grandi possessi, e poi la vita media di cotesti agricoli, lavoratori assidui e che non si risparmiano punto, è per necessità minore che nelle classi agiate. Sono quindi più frequenti i trapassi per eredità, le quali poi si dividono in modo che ogni erede abbia la sua quota di terra, mancando d'altra parte di regola la ricchezza mobiliare con cui nelle classi agiate si liquidano le parti di taluni coeredi [...]. Per queste ragioni il piccolo possesso tende a dividersi assai più rapidamente del grande, col grave inconveniente poi che ogni coerede pretende la sua parte di seminativo, di vigna, di uliveto etc., cosicché si formano poco alla volta appezzamenti di poche are e persino di metri quadrati, e possessi che ne comprendono diversi situati in punti molto lontani tra loro del territorio comunale. Si comprende subito quale enorme spreco di tempo, di energia, di lavoro determini tale polverizzazione. Vi è anche in tal modo una vera perdita di terreno produttivo lungo lo sviluppo delle linee di confine, la quale, a calcolarla di soli m. 0,30 di larghezza per il calpestio delle persone, qualche chiusura, od altro, rappresenta nell'appezzamento quadrato di un'ara quella del 12%, mentre per quello di un ettaro è solo dell'1,20%. Questo moltiplicarsi delle linee poi di confine accresce in egual proporzione le cause di litigi per usurpazioni, violazioni di confini, rimozioni di termini, piantagioni abusive etc., nelle quali si disperde improduttivamente gran parte degli scarsi redditi dei piccoli possessori. Non per nulla forse la Sardegna, la quale, accanto alle vaste distese di pascoli, boschi, beni comunali etc., ha pure una proprietà veramente polverizzata, è la regione più litigiosa del nostro paese".

Vi sono partite fondiarie così esigue in Sardegna, da aversi nell'anteguerra il caso di esproprio fiscale per debiti di 5 lire di tasse!

Oggi lo Stato esproprierà i nababbi?!

"L'inevitabile polverizzazione della proprietà, conseguenza dei fatti ora esaminati, può essere sfavorevole all'aumento della produzione agraria, soprattutto perché il piccolo possessore non può formarsi un congruo capitale d'esercizio per la miseria dei suoi redditi. Perciò di solito gli fa difetto bestiame da lavoro e da frutto, è vincolato alla vanga ed alla zappa, anche dove potrebbe impiegar l'aratro, è restio alla introduzione di migliori attrezzi, concimi artificiali o altri nuovi mezzi di produzione agraria, perché dapprima non ha come provvederli e poi è di regola misoneista e conservatore per deficienza di cultura. Se arriva a creare risparmi preferisce comprare, a chissà quale prezzo, qualche frustolo di terra, anziché convertirlo in capitale di esercizio".

Interrompiamo per brevità il resto del quadro, con le inevitabili indebitazioni usurarie, la miseria, l'assenza di casa, e la descrizione delle regioni poverissime, che abbiamo non solo in zone della Campania, Abruzzo e Calabria ma anche dell'Emilia e del Veneto in monte "che per la loro divisione di possesso potrebbero dirsi paesi di vera democrazia rurale". Democrazia infatti molto adatta ad essere cristiana, terreno ottimo di semina politica per il governo di oggi.

Sullo scranno dei rei dovrebbe ora sedere l'altro incolpato, il latifondo. Anzitutto va rilevato che il latifondo presenta la grande proprietà titolare ma quattro volte almeno su cinque nessuna unità aziendale o colturale, essendo smistato in piccoli affitti o piccole mezzadrie. Tutti gli stessi reati o quasi relativi alla polverizzazione gli si possono ugualmente contestare.

Ciò che non si vuole intendere è che, abolendo eventualmente la titolarità giuridica del possesso, non si viene a creare una unità colturale minore ed organizzata in appoderamenti produttivi, poiché persistono tutte le cause che al fenomeno del latifondo hanno dato origine. Si può solo ricadere in una polverizzazione che, già dannosa in terra buona, è bestiale in terra sterile e ricondurrebbe ad una condizione peggiore, e per lo più, se non si sopprime la libertà di comprare e vendere, alla ricostituzione del latifondo.

Le condizioni che hanno generato il latifondo sono complesse e non è qui il caso di approfondirle. Si parte da quelle naturali insuperabili perché dovute alla natura geologica dei terreni (ad esempio le vaste formazioni di argille eoceniche siciliane sono inadatte a colture legnose e permettono solo quella estensiva granaria; a breve distanza da queste plaghe la provincia di Messina, giacente su formazioni granitiche, e quella vulcanica di Catania, vedono prevalere colture intensive e frazionate). Influisce il predominio della malaria dovuto al disordine idraulico di pendici montane e fiumi di pianura, la rada popolazione, e le ragioni storiche più volte ricordate, per invasioni dalle coste e poca sicurezza fino a tempi non remoti. Tanto poco remoti che gli stessi liberatori e benefattori americani, appena giunti in Calabria, liquidata per ovvie ragioni di morale democratica la milizia forestale fascista, dettero una potente sventrata da preda bellica alle secolari foreste dell'Appennino calabro; e aggravarono così irreparabilmente il malanno del rovinio delle acque non regolate verso le disgraziate e infette bassure litoraniche. Corsero poi col D.D.T...

Economicamente il rapporto economico è definito dal fatto che il proprietario fondiario per lo più affida la gestione ad un affittuario capitalista speculatore, cui basta un ridotto capitale di esercizio e che sfrutta la terra attraverso una serie di subaffitti dei pascoli a pastori e dei seminativi a piccoli coltivatori, i quali per la concorrenza rinunziano a quasi tutto il profitto di impresa a favore del grande affittuario,

"non dimorano mai sul terreno coltivato, ma vi si recano anche da molto lontano quando lo richiedono le esigenze della coltura e dei raccolti, rifugiandosi in pagliai, caverne, grotte, oppure in stanzoni o sotto tettoie con le conseguenze che abbiamo già illustrate...".

Questi coltivatori sono in condizioni peggiori dei giornalieri, mentre d'altra parte non potranno mai pervenire ad organizzare, per mancanza di capitale di esercizio, una agricoltura meno estensiva.

La proposta di risolvere il problema del latifondo con le quotizzazioni forzate è vecchissima, ed ha una serie di precedenti, che giunsero fino dai primi tempi ad alcuni casi di esproprio per mancata miglioria di terre incolte. Ma quasi sempre si ebbero insuccessi e ciò soprattutto in periodi economicamente sfavorevoli. Non basta infatti espellere il proprietario negligente, cui tuttavia nell'attuale regime si paga sempre a carico del pubblico una forte indennità, ma bisognerebbe fornire ai quotisti non solo un capitale di esercizio ma un capitale impianti per opere che mancano e che supererebbe di molto per ogni quota il costo già pagato per l'esproprio. Occorre infatti prevedere e finanziare case, strade, bonifiche, acquedotti e così via, per rendere possibile il soggiorno del contadino sulla terra, e anticipare i valori di attesa della trasformazione che è a lunghissimo effetto. Un progetto Crispi si ebbe nel 1894 dopo i moti dei "fasci" siciliani; fin dal 1883 una legge per l'Agro romano aveva sancito l'odierno "rivoluzionario" principio di esproprio dei grandi terreni incolti passato poi dalle leggi Serpieri del 1924 a quella Segni di oggi. Hanno tanto osato liberali, fascisti, democristiani, ma i casi di applicazione in tanti anni si contano sulla punta delle dita.

Omettiamo una rassegna delle proposte legislative italiane ed estere tendenti a mitigare invece la polverizzazione del possesso agrario, poiché non è certo nostro obiettivo proporre una riforma di senso contrario a quella governativa, ma solo rilevare che i concretissimi e contingentisti tecnici delle opposizioni non ci hanno pensato. Convinti che la rivoluzione agraria russa sia stata una quotizzazione di proprietà titolari, non vanno più oltre del proprio naso e non sanno che chiedere di spartire terre ai contadini, anche ai braccianti, certo, anche ai braccianti, e senza equivoco, non in gestione collettiva, ma in proprietà personale, sì, in proprietà assoluta, questa è l'ultima consegna cominformista, come dai tanti articoli dell'Unità su questione agraria e problemi meridionali. Che in Russia non si sia quotizzato ed espropriato un accidente ma solo aboliti i privilegi feudali della nobiltà e del clero sollevandoli come una cappa soffocante dalle esistenti piccole aziende rurali, che in un primo momento non mutarono delimitazioni, e poi con dubbi successi si tentò di raggruppare in aziende più grandi, di Stato o cooperative; che quindi il problema storico sia tutto un altro, non dice nulla a quegli scrittori, come nulla dice loro la proporzione di monte e di piano in Russia; la densità di popolazione che è di 9 abitanti per kmq e nella Russia europea di 30 al posto dei nostri 150; il rapporto delle terre coltivate al totale che al posto del nostro 92 è del 25%, malgrado l'immensa pianura e a parte la Russia asiatica, e solo nelle terre nere ucraine sale al 60%; la pratica inesistenza della classe dei salariati agrari non fissi eccetera eccetera eccetera, e ciò perché questi signori non seguono più obiettivi massimali e di principio, ma si sono dati allo studio delle immediate concrete condizioni di vita del "popolo"... !!

Fermandoci un momento sulla proposta democristiana - facile cosa fu il profetare a spaventati grossi proprietari che nessun mal di capo avrebbero dato loro i socialcomunisti, quando anche fossero stati al ministero, ma un certo colpo lo dovevano attendere dai democristiani - la sua vuota demagogia è del tutto evidente. Toccheremo, essi dicono, una ottantina di grandi proprietà, in Italia tutta, di plurimiliardari. Le asporteremo in parte. Si trattava di fissare i massimi... Bisognava tenere conto non solo della mole della proprietà ma anche della ricchezza che rappresenta, e per far questo pare che fissino un massimo non di superficie ma di imponibile catastale, che si presume sia indice del valore del fondo. Ma a parità di superficie un grande podere modernamente condotto può valere anche 15 volte di più di un tenimento montagnoso o pascolatorio, soprattutto in virtù della attrezzatura di impianti fissi. Non sarebbe giusto espropriare cento ettari dove nulla è da migliorare al posto di 1.500 deserti o quasi. Ed allora due erano i criteri sul terreno giuridico, colpire le proprietà di più alto valore e quelle di minor gettito medio, indice di trascurata coltura. I supertecnici dovevano dunque suggerire al Segni una graduatoria degli ottanta Cresi da macello, formata da un punteggio ottenuto moltiplicando l'imponibile totale del grande possesso per la sua estensione in ettari o, il che è lo stesso, dividendo il quadrato dell'imponibile totale per l'imponibile medio. Algebra? Algebra riformista e concretista.

Ma il criterio di scelta dei pochi ricconi da fregare importa poco. La questione è che fare della terra loro tolta, sia pure in parte - nel qual caso è facile prevedere che prenderanno un buon indennizzo e si leveranno dallo stomaco lo scarto che affligge ogni grande tenimento - e come attrezzarla per renderne possibile la gestione al "libero" contadino, nella nuova democrazia rurale cristiana. Qualcuno dovrà apportare il capitale di esercizio e un capitale ancora più forte di miglioria. Questo il punto. Il contadino assegnatario singolo o collettivo non potrà farlo di certo. Lo Stato rinvierà alle solite leggi speciali, come quelle sul miglioramento fondiario, di scarsi stanziamenti, a disposizione dei soliti volponi, e d'altra parte lo Stato non è in grado di sovvenire, nonché nuovi investimenti di impianti nella terra, nemmeno la riparazione di quelli danneggiati in guerra. Il capitale internazionale e dei famosi fondi e piani americani tanto meno, poiché il criterio di base è di seguire cicli brevi - il piano Marshall si chiude ufficialmente al 1952 - e totalmente remunerativi.

Il problema si riconduce a questioni di economia generale e di politica mondiale. Il rimaneggiamento della proprietà titolare, anche se lo vedremo, nulla risolve. Le riforme agrarie si pongono come attuabili in periodi di prosperità e di offerta di capitali a tassi favorevoli e a lungo credito. Per un paese come l'Italia vi sono solo queste soluzioni. Primo. Autarchia economica, tentata dalla nostra borghesia dopo la guerra favorevole, che vincoli il capitale nazionale e lo obblighi parzialmente al miglioramento agrario. Tale eventualità, condizionata da autonomia politica, forza militare e solido potere interno, è storicamente liquidata; il fascismo ne trasse certi risultati tra cui decisivo quello della bonifica pontina, tentata tante altre volte nella storia dei Cesari e papi. Secondo. Dipendenza da un potere mondiale che abbia interesse ad una forte produzione di derrate alimentari per il popolo italiano sul mercato interno, a fini commerciali o militari. Non è il caso per l'America, che specie in vista di crisi produttive conta molto sulla pianificazione della produzione di alimenti, spostata oramai dai cicli locali di consumo diretto ad un vasto movimento mondiale fecondo di profitti speculativi quanto quello dei prodotti industriali, e che in caso di guerra lancerà bombe atomiche diffondenti scatolette ai suoi mercenari. Non è nemmeno il caso per la Russia che non avrà l'Italia nella sua sfera e non ha interessi economici ad averci paesi a forte densità di bocche, e comunque non esporta capitali ma deve importarne e gioca militarmente e politicamente a sfruttare gli investimenti del capitale di Occidente ai margini della guerra fredda. Non è nemmeno poi il caso se l'Italia sarà assoggettata ad una costellazione mondiale derivata dall'intesa dei due o tre grandi, che andranno a colonizzare traverso tutti i continenti e gli oceani piuttosto che sulle ossute costole di Ausonia.

La riforma agraria oggi in Italia si basa dunque sulla propalazione di demagogiche sciocchezze, non si solleva dal basso gioco della schermaglia politica tra i gruppi e gli interessi che, assicurandosi influenze sulle correnti popolari interne, sperano vendere bene i loro servigi a mandanti forestieri.

Il ministro Segni si vanta che fabbricherà col suo famoso "scorporo" - degno termine di bassa taumaturgia - dei grandissimi possessi un altro paio di centinaia di migliaia di piccoli proprietari, ossia di italici straccioni buoni per la parrocchia e la caserma e il dileggio di tutti i civili paesi capitalistici sulle due rive dell'Oceano. Egli fabbrica migliaia di ceri e di baionette nelle notti delle campagne italiche, come Napoleone in quelle di Parigi e Mussolini in quelle delle nostre città industriali poco demografiche, hanno preteso di fare. Ma ammesso che riesca davvero a scorporare a polverizzare e a popolare i suoi appezzamenti, come conta di regolare il processo di trapasso e raggruppamento della proprietà? Che ne farà del sacro civile moderno canone del libero commercio della terra? Controllerà il concentramento, il "ricorporamento" di essa con limiti aritmetici da verificare ogni volta che un notaio rogherà una compravendita di terre o una eredità? Il solo pensiero di una simile bardatura dovrebbe bastare a far rizzare i capelli sulla testa al più fervido fautore del "dirigismo" economico.

Credete che i socialcomunisti, pure oggi per ben altre ragioni fieri nemici dei riformatori democristiani dopo la tresca di ieri, buttino sulla faccia ai Segni l'argomento che ogni ponzamento riformistico viene a confermare che il regime capitalistico non deve essere emendato ma annientato? Ohibò! Essi gridano loro che bisogna riformare di più, scorporare di più, polverizzare di più, fecondare maggiormente la generazione dei demorurali che, togliendo effettivi alle forze rosse della lotta di classe nelle campagne, gloria della storia proletaria italiana, creerà falangi di elettori per le liste di governo, eserciti di coscritti per lo stato maggiore di America nell'Impresa di Russia.

La storia insegna che con capolavori di questo genere hanno sempre, i rinnegati, servito il nuovo padrone.

Non meno edificante della materia della riforma fondiaria è quella dei contratti agrari. Gli antifascisti di tutte le sfumature si presentarono con tremende promesse di riformismo alla presa in consegna della sciancata Italia dalle mani del fascismo, non comprendendo che i soli tentativi possibili di riformismo nel mondo di oggi sono a base politica totalitaria. Né il nazifascismo né lo stalinismo sono rivoluzioni, sono però seri riformismi ed hanno dato esempi probanti. Il riformismo della nuova Italia fa soltanto sudare i rinoceronti. Avevano promesso lo studio di tre grandi settori: riforma dello Stato, riforma industriale, riforma agraria. Maggioranza ed opposizione, in cui si è scisso il blocco comiliberazionista di allora, con impostazioni contraddittorie ed incrociantisi in tutti i sensi, e col nullismo dell'attuazione, danno prova ogni giorno della loro vuotaggine e non arrivano nemmeno nell'accapigliarsi a seguire nel campo parolaio la bussola delle posizioni sociali e politiche.

Credono verbigrazia di difendere a fine di acchiappo di voti la tesi del lavoratore e danno dentro in quella del padrone, pensano putacaso di spezzare lance per quella borghese e medioborghese e tirano sassi in piccionaia.

Il contratto di affitto agrario, per cui la tesi demagogica si batte sul semplicismo del blocco, ossia del divieto di mandare fuori l'affittuario da parte del proprietario, nasconde sotto lo stesso schema giuridico diversissimi rapporti economici e sociali. Plagiare la posizione della tesi del blocco dei fitti per le abitazioni - che, come si potrà mostrare a suo luogo, è un'altra castroneria - non significa aver dato un serio indirizzo in materia. Nel piccolo affitto si pone di fronte al proprietario fondiario, che può dal canto suo essere un grande o un medio o un piccolo proprietario, il fittavolo, che impiega oltre a un capitale minimo e inapprezzabile di esercizio il suo lavoro materiale, ed è quindi prestatore di opera, malgrado il fatto di versare moneta anziché riceverne: nel grande affitto di fronte al proprietario sta invece un capitalista imprenditore, che in aziende sviluppate impiega braccianti salariati, in possessi ad agricoltura arretrata subaffitta a piccoli coloni. Piazzare le batterie a difesa di costui anziché contro di lui è un errore spaventoso, un suicidio dei partiti operai sia pure moderati, un rinnegamento delle storiche lotte di classe dei lavoratori agricoli italiani che nei fasci di Sicilia si gettavano contro il gabellotto, versuriero, mercante di campagna, autentico e sporco borghese, e prima ancora, in Polesine, nel 1884, sorsero contro agli imprenditori al famoso grido di battaglia: la boje! - la bolle e deboto la va de fora - e sempre, come del resto anche oggi malgrado la bassezza dei capi, contro i moschetti del democratico nazionale Stato italiano.

Il capitalismo agrario italiano ha molto speculato, sia pure a danno del proprietario, borghese quanto lui, ma dalle unghie meno artigliate, sul protezionismo ai fitti agrari di una legislazione fatta senza capire un accidente. Esempio i celebri decreti Gullo che dimezzarono il canone dei cosiddetti contratti di affitto a grano. Cosa è questo contratto? Il canone di fitto al proprietario normalmente è pagato in denaro. Può essere però convenuto in derrate nel senso che il fittavolo consegna ogni anno una data - qualunque sia il prodotto lordo, e siamo perciò sempre nel caso dell'affitto e non della colonìa parziaria - quantità di una o più derrate. Per tal modo il proprietario si mette al sicuro dalle oscillazioni del valore della moneta e dello svilimento reale del suo reddito che segue al generale aumento dei prezzi, come dopo le guerre. Ma a molti proprietari non fa comodo ricevere derrate dato che, trattandosi di grande affitto, si tratterrebbe di una ingente massa di mercanzia non facile a trasporto, conservazione etc. Volendo ugualmente porsi al sicuro dai mutamenti di valore della moneta si stabilisce che il canone sarà pagato in denaro, ma in una somma non fissa, bensì corrispondente al corso dell'annata di un prodotto convenzionale - grano, risone, canapa - per lo più di quelli ufficialmente quotati con prezzi di stato, in una data quantità riferita alla estensione del fondo. Si sente dire che si è affittato a quattro quintali di grano per ettaro, ma non solo il fittavolo non consegna grano, quanto può perfino non aver coltivato e raccolto un chicco di grano, esercendo a zootecnia o a semina di altre piante. Si poteva allo stesso fine pattuire il fitto in dollari o in libbre di oro, pure essendo sicuro che non si è trovato ancora l'albero che dà questi frutti. Ebbene; dimezzando questo canone nessun contadino lavoratore guadagnò nulla, poiché per la stessa sua natura il sistema non si applica quasi mai al piccolo affitto, e incassarono milioni imprenditori agricoli molto più ricchi dei loro proprietari e talvolta proprietari essi stessi di immobili urbani e agrari immensi. Questo semplice rapporto i Soloni di oggi è da credere che ancora non l'abbiano capito.

Nel caso della mezzadria si sono da un lato spezzate tutte le lance popolaresche a favore dei mezzadri, senza tener conto che anche tra questi ve ne sono che tengono personale salariato, con figure di datori di lavoro. Per difenderli si è voluta aumentare la quota di prodotto del mezzadro. Ma i contratti di colonìa parziaria sono in Italia a tipi svariatissimi secondo le colture, con varie quote di riparto e diversi oneri di anticipazioni spese e tasse per i contraenti, sicché si è creato un peggiore guazzabuglio. Da sinistra ad un certo punto si tuonò che questa forma di contratto deve sparire perché di tipo feudale. Siamo sempre lì, al concetto che il partito proletario e socialista non sia fatto per volgere - a mezzo di carezze o di nerbate è altra questione - il capitalismo in socialismo, ma per vigilare che il capitalismo non ridiventi feudalismo. Dunque non per svergognare ma per lodare il purificato idolo capitalistico... Comunque l'argomento, falso in principio, è falso anche in fatto:

"Il contratto di mezzadria è di origine antichissima e proprio di tutti i paesi in cui imperò il diritto romano, onde è particolarmente esteso da noi e altresì nella Francia e nei Paesi Iberici...".

Si sviluppò molto dopo la liberazione dei servi della gleba e in Italia fin dal XIII secolo... Se poi la mezzadria conferisca o meno allo sviluppo tecnico agricolo e come influisca sui vari tipi di coltura è problema assai complicato; socialmente importa il punto che anche il mezzadro va visto non solo di fronte al proprietario terriero, ma in contrasto col lavoratore proletario; allora è un datore di lavoro, un borghese, un nemico; e trovi qualche altro per farsi fare le leggi a favore, che poi crede di fargliele a favore e senza volere lo frega... dopo averlo pigliato a vanvera vuoi per servo della gleba vuoi per compagno proletario.

Un altro grido all'avanzo feudale, un altro dagli all'untore, è venuto fuori quando i democristiani hanno proposto l'adeguamento dei canoni enfiteutici. Il rapporto di enfiteusi si ha quando il proprietario riceve un canone fisso perpetuo dall'esercente della terra, e non può mandarlo via né chiedere aumenti, anzi è l'enfiteuta che può riscattare pagando in moneta venti volte il canone quando lo creda. Il diritto si trasmette e si vende come quello di proprietà. Che accidenti ha a che fare col feudalesimo questo rapporto strettamente mercantile? E' vero che alcune legislazioni borghesi nascenti vollero sopprimere questa forma insieme a tante altre feudali, ma

"l'enfiteusi sorse nei tempi del basso impero dalla trasformazione graduale delle concessioni di terre pubbliche sotto forma di vectigal, cioè a perpetuità al colono con l'obbligo di coltivarle e pagare un canone, ecc. ecc... ".

Comunque questa del chiodo feudale può essere una svista storica da fobia infettiva, ma la svista più grossa è quella del riformatore che non vede che i benefizi vanno nella tasca opposta a quella che gli preme. I sinistri socialcomunisti votando contro l'aumento del canone in rapporto da uno a dieci erano convinti di fare azione a favore di una massa di contadini lavoratori che sono debitori del canone o livello verso grossi proprietari. Vi sono di questi casi, ma gli enfiteuti non sono che poche migliaia, e invero i canoni sono così bassi che in via di relativismo economico erano in effetti dei privilegiati in confronto a ogni altro tipo di amministrazione agraria, sicché il nuovo onere non è certo proibitivo. Ma nella più parte dei casi sono dei proprietari che posseggono altra terra a titolo di enfiteusi e la gestiscono in fitto o colonìa come il restante. Il basso canone enfiteutico va a comuni, enti di assistenza, o comunità religiose, che hanno visto in molti casi annullata la loro rendita dalla inflazione. Se fosse stato possibile bloccare il logico decreto del governo, la gran massa dei canoni che da quest'anno [1949] saranno pagati in più sarebbe andata nelle tasche proprio della classe dei proprietari terrieri, cui invece si vuole fare il dispetto, che si vuole mortificare e colpire come ceto retrivo e parassitario...

Questi tecnicismi, riformismi, legislativismi, che si sono tanto vantati della loro oculata lungimiranza di fronte alla nostra cieca fedeltà ai principii massimi, dimenticano un solo particolare, di avere i globi visivi dietro la nuca, per non localizzare più sgarbatamente.

Scocciano da trent'anni che si son dati a scrutare i problemi concreti, ma in tutti i casi fanno la figura di questo; non sanno ad esempio quanti grossi possessi estensivi meridionali sono sorti accumulando quote enfiteutiche comprate a basso prezzo dai poveri contadini, e quanto comodo faceva ai proprietari che il canone si pagasse ancora in lire del primo anteguerra - talvolta ancora annotato in frazioni di lira. Ogni modesto praticante di estimo agrario portava fin dai primi tempi in conto questo prevedibile adeguamento dei canoni. Tutti prodotti del civile regime della libertà della terra, tutti effetti che andranno così finché non salti il libero baraccone del capitalismo borghese.

Il gran ciarlatano di questo, dalle acque del Potomac, consacrò tutte le libertà. Una dimenticò di enunciarne, ma i suoi seguaci, allievi ed alleati ben degni la praticano con larghezza, con entusiasmo e, quel che è peggio, non poche volte con deliziosa buona fede: la libertà di fesseria.

Da "Prometeo" n. 13 del 1949

Archivio storico 1945 - 1951