La questione sindacale
Prima parte
I molteplici problemi che solleva la questione sindacale non si prestano ad una classificazione semplicistica del tipo di quella che è stata sovente impiegata nel movimento operaio - spiccatamente in quello italiano - e che partiva da considerazioni di topografia sociale. L'analisi di un'agitazione era fatta in base alla determinazione della sua natura e se la bussola indicava che l’ago si orientava verso lo zenit politico, il partito socialista era automaticamente chiamato ad assumerne la direzione, mentre la Confederazione si limitava ad appoggiarlo; nel caso contrario il ruolo si invertiva. Questa discussione sul sesso dell'"angelo sociale", se politico od economico, ha avuto un'illustrazione tragica e comica nello stesso tempo quando, nel Settembre 1920, al momento in cui i proletari italiani avevano occupato le fabbriche, il consesso comune del Partito Socialista e della Confederazione del Lavoro mostrava che alla testa di quel movimento rivoluzionario si trovavano non i militanti che deliberano sull’idoneità dei mezzi da impiegare per rompere il nodo gordiano che lega il proletariato alla borghesia, ma i mozzorecchi che cianciano sui diritti rispettivi dei due organismi a rivendicare la "proprietà" della agitazione.
Nella lettera del 23 Febbraio 1871 diretta a F. Bolte, Marx diceva: "Naturalmente il movimento politico della classe operaia ha per scopo finale la conquista del potere politico e per questo è evidentemente necessaria una organizzazione della classe operaia che abbia un certo grado di sviluppo, che marci alla testa e si formi e rafforzi nelle stesse lotte economiche.
Ma d'altra parte ogni movimento nel quale la classe operaia si opponga in quanto classe alle classi dominanti e cerchi di piegarle con una pressione dall'esterno, è un movimento politico. Per esempio, il tentativo di strappare in una sola fabbrica od in un solo ramo d'industria, con lo sciopero ecc., una riduzione del tempo di lavoro a certi capitalisti è un movimento puramente economico; per contro un movimento per strappare la legge di otto ore ecc. è un movimento politico. Ed è così che da tutti i movimenti economici isolati degli operai sorge dovunque un movimento politico, cioè un movimento della classe per fare trionfare i suoi interessi sotto una forma generale, sotto una forma avente la forza sociale di costrizione generale. Se questi movimenti suppongono una certa organizzazione che marci in testa, essi sono, da parte loro, allo stesso titolo, dei mezzi di sviluppo di questa organizzazione. Dove la classe operaia non ha ancora raggiunto un grado sufficiente per intraprendere contro la violenza collettiva, cioè contro la violenza politica delle classi dominanti, una campagna decisiva, bisogna in ogni caso trascinarvela con un'agitazione permanente contro l'atteggiamento ostile delle classi dominanti. Nel caso contrario, essa resta un giocattolo nelle mani di queste ultime".
Abbiamo voluto riportare questa lunga citazione perché il suo insieme solamente permette di comprendere in quale senso è possibile fare una distinzione fra lotte economiche e lotte politiche. È chiaro che per Marx non può affatto trattarsi di due compartimenti separati, ma di due aspetti differenti di un processo che resta indissolubilmente unitario. Lo sciopero di una fabbrica o di una categoria (il movimento economico), se resta dissociato dalla lotta generale per imporre la legge delle otto ore, condanna la classe operaia a restare "un giocattolo nelle mani delle classi dominanti". D'altra parte questi movimenti economici che presuppongono un'organizzazione "avente la forza politica costrittiva" (il movimento politico) sono "i mezzi di sviluppo di quest'organizzazione".
È chiaro quindi che se Marx impiega i due termini di "lotta economica" e "lotta politica" lo fa proprio per provare che è impossibile sia di dissociare l'elemento politico da quello economico nelle lotte degli operai per obiettivi limitati, sia di concepire la lotta generale del proletariato altrimenti che in funzione dei suoi specifici obiettivi di carattere economico. Ne risulta che anche la classificazione corrente di "lotte parziali" e "lotta rivoluzionaria finale", se dovesse condurre ad una distinzione organica fra l'una e le altre, ripeterebbe lo stesso errore della classificazione in movimento economico e movimentò politico.
Nei due casi si tratta dunque non di una differenza scolastica che stabilirebbe delle "categorie sociali" indipendenti l'una dall'altra, ma di una dialettica di sviluppo reciproco dell'una nell'altra; e sarà l'analisi della contingenza ad imporre al proletariato di non potere oltrepassare in un dato momento quello che, per semplice comodità di espressione, è qualificato "movimento economico" o "lotta parziale".
La stessa storia del movimento sindacale conferma le considerazioni che precedono. Il suo obiettivo specifico - il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori - non può servirci di guida per la sua comprensione. In effetti il paragone fra la situazione attuale e quella degli inizi del movimento sindacale rivela da un lato un mastodontico sviluppo dell'organizzazione sindacale, dall'altro la conferma della predizione di Marx sull'ineluttabile progredire della miseria dei lavoratori nei quadri del regime capitalista. Il secolo di espansione della classe borghese nel mondo intero va di pari passo da una parte con la diminuzione della quota destinata al pagamento dei salari, dall'altra con l'aumento della quota destinata all'incedere dell'accumulazione del capitale. La correlazione esistente fra il gigantesco ingrossamento numerico delle organizzazioni sindacali e il progressivo immiserimento delle masse conferma luminosamente la considerazione che la sorte di un organismo non è funzione della quantità di massa che esso inquadra, ma della impostazione che esso dà alle lotte sociali.
Ma è su un altro piano che deve essere interpretata la storia del movimento sindacale. Su quello che rivela l'esistenza o l'inesistenza per determinati Stati capitalisti di un certo orizzonte di sviluppo. Prima del 1914, gli effettivi di circa 10 milioni di organizzati in sindacati, che ad un titolo diverso si richiamavano ai principi della lotta di classe, si ripartivano approssimativamente così: Inghilterra 4 milioni, Germania 2 milioni e mezzo, Francia 500 mila, Italia 800 mila, Belgio 200 mila, Olanda 260 mila, Stati Uniti 1.300 mila. In Russia e nelle colonie il movimento sindacale era quasi inesistente. Appare immediatamente che lo sviluppo dell'organizzazione sindacale è correlativo alle possibilità di vita e di sviluppo dello Stato capitalista, cui esso corrisponde. In altri termini la dissociazione fra l’elemento economico e politico, fra lotta parziale e lotta finale si presenta unicamente in quei paesi in cui le condizioni storiche permettono un'intensificarsi dell'accumulazione capitalista senza escludere un certo miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Rothstein, nel suo libro "Un'epoca del movimento operaio inglese" (Editions Sociales Internationales, Paris, 1929) nota che nel 1907 il salario nominale dell'operaio inglese aveva raggiunto il suo massimo ed era superiore del 18% a quello del 1879; quello reale del 49%. Si deve tenere conto che quest'evoluzione dei salari reali è stata resa possibile malgrado l'evoluzione sfavorevole delle esportazioni inglesi che soccombono progressivamente di fronte all'incedere dell'industria americana e tedesca. Scrive Rothstein (pag. 275)
"Il capitalismo inglese passa all'offensiva, attacca le organizzazioni della classe operaia, stronca gli scioperi e, dove lo può, diminuisce i salari. Si sarebbe potuto credere che, in simili circostanze, la classe operaia avrebbe perso presto le sue illusioni sugli antichi mezzi dì lotta: il sistema della scala mobile le era svantaggioso, i profitti ed i prezzi ribassavano e tutto l'apparato di conciliazione e d'arbitrato cessava di darle soddisfazione. Ma la classe operaia conserva tutta la sua calma, ed anche la sua lotta per il diritto di coalizione non la spinge a nessun atto rivoluzionario. Perché questo? Perché precisamente a partire da questo momento i prezzi degli oggetti di consumo cominciano a ribassare e ciò che la classe operaia avrebbe dovuto cercare di ottenere con altri mezzi le riviene ora in modo quasi automatico".
Rothstein, dopo aver indicato, come fattore supplementare del ribasso dei prezzi, la produzione dei succedanei, osserva (pag. 279):
"finora si spiegava la mentalità opportunista, la disposizione d'animo del proletariato inglese grazie al dominio industriale mondiale dell'Inghilterra dal quale risultava la possibilità per i capitalisti inglesi di gettare alla classe operaia i resti della loro opulenza. Ma questa spiegazione è evidentemente insufficiente perché la psicologia collaborazionista dell'operaio inglese ha preso una forma particolarmente stabile e si è accentuata proprio nel periodo in cui il monopolio commerciale-industriale inglese sul mercato mondiale volgeva al suo termine, e nel quale il capitalismo inglese diventava avarissimo. La nostra spiegazione è la sola che fornisca le ragioni capaci di dissipare quest'enigma storico estremamente interessante e che d'altronde esisteva non solamente in Inghilterra, ma, sotto forme più velate, negli altri paesi capitalisti, e prima di tutto in Germana. Il ribasso progressivo dei prezzi era il fattore che diminuiva la miseria della classe operaia, indebolendo la sua lotta contro i padroni e creando e rafforzando la politica di collaborazione e d'opportunismo con tutte le sue logiche conseguenze".
In una parola la "questione sindacale" trova nei paesi capitalisti aventi prospettive storiche di sviluppo, la possibilità di esprimersi in termini di pura tecnica economica; essa è "vertenza salariale" ed il sindacato interviene perché la "legge del salario" (ne parleremo oltre) dell'economia capitalista funzioni nel modo meno svantaggioso per i lavoratori.
Di contro all'esempio inglese sta quello russo. Qui non esistono prospettive di sviluppo per il regime, e l'arrivo della borghesia al potere non è suscettibile di modificare le condizioni della classe operaia perché il periodo di decadenza storica della borghesia è altresì il periodo della più feroce oppressione dei lavoratori, sovrattutto per quelle borghesie che arrivano ultime al traguardo della evoluzione storica. L'espressione formale, dal punto di vista organizzativo, delle lotte degli operai russi può essere la più primitiva come nel 1905, quando alla sua testa vi si trova in un primo momento un prete, le organizzazioni sindacali di classe possono esservi sconosciute, ma la lotta degli operai russi prende immediatamente un aspetto rivoluzionario, come nel 1905 e nel 1917. Una volta passata la tempesta rivoluzionaria, come nel 1906 e nel 1927, le condizioni storiche interdicono di porre la questione sindacale sotto l'aspetto di una "vertenza salariale" e impongono la simultaneità della lotta parziale e della lotta finale, del movimento economico e del movimento politico.
La situazione è analoga nelle colonie e nei paesi semi-coloniali. Se si eccettuano le colonie inglesi, dove il movimento sindacale dipende dalle stesse condizioni che assicurano la "pace sociale" nella madre patria, in tutti gli altri settori di Asia e d'Africa - come hanno luminosamente provato gli avvenimenti cinesi del 1926 - lo sviluppo del movimento sindacale è condizionato dagli stessi elementi tempestosi che abbiamo ricordato per la Russia.
Su questo punto la conclusione appare inequivocabile e ricca di insegnamenti per la situazione attuale.
Come "categorie a sé" non esistono né la questione sindacale, né la questione politica. La prima perché l'accrescersi della quota salario è condizionata unicamente dalla possibilità di un accrescimento proporzionale molto più elevato della quota destinata all'accumulazione del capitale, e, quando queste circostanze si presentano, il sindacato, poiché diventa un fattore del progredire delle forze economiche nell'ambito della società capitalista, si abilita a diventare nel contempo il bastione più valido della contro-rivoluzione quando scoppia la crisi sociale (sciopero inglese del 1926) o la crisi rivoluzionaria (sindacati tedeschi nel 1918-1923; italiani 1919-1920). La seconda perché la lotta per la distruzione del regime capitalista è inconcepibile se non prende come base le fondamenta economiche dell'antagonismo di classe.
Il processo unitario che ricollega movimento economico e politico, lotta parziale e lotta finale non può tuttavia essere inteso nel senso formale per cui si determinerebbe un collegamento fra la base iniziale e quella decisiva rivoluzionaria.
Il carattere unitario del processo risulta dalla sostanza stessa delle lotte rivendicative, esso è un tutto dove l'elemento di collegamento nel tempo (fra l'oggi reazionario ed il domani rivoluzionario) è condizionato dalla presenza del fermento rivoluzionario di classe nelle lotte rivendicative dei lavoratori.
Se è vero che questo fermento non è il prodotto della volontà degli individui ma il portato ineluttabile dell'evoluzione contraddittoria del regime capitalista, se e anche vero che possono presentarsi circostanze, come l'attuale, dove agitazioni sociali pur colossali per l'importanza numerica delle masse non sono caratterizzate dal fattore "classe" e gli scioperanti malmenano o addirittura annientano gli elementi rivoluzionari che chiamano gli operai a spezzare il cerchio di ferro che li lega a forze spiccatamente imperialiste, è altrettanto vero che lo stabilimento delle posizioni di classe dipende dalla volontà degli individui che pretendono lottare per il trionfo della rivoluzione comunista. Queste posizioni di classe risultano dalla ferrea coordinazione fra il movimento degli operai e la rottura della catene di ferro che lo lega al nemico. Queste posizioni non possono quindi affermarsi su un fronte distruttivo di quel tutto che è dominato non dal carattere sociale e proletario delle masse in movimento, ma dal carattere capitalista delle forze sociali che lo dirigono. E l'affermazione di tali posizioni è strettamente legata alla condizione di non affacciare, sia pure di sbieco, la minima realizzazione positiva.
Sì, Marx ha detto nel Manifesto:
"In tutte queste lotte (contro l'aristocrazia, frazioni della borghesia, borghesie dei paesi esteri) la borghesia si vede costrette e fare appello al proletariato, a rivendicare il suo aiuto e trascinarlo così nel movimento politico. Sicché la borghesia fornisce ai proletari i rudimenti della sua propria educazione politica, cioè le armi contro sé stessa".
Il riformismo ne ha dedotto che Marx attendeva dalla borghesia che essa offrisse il regalo della rivoluzione comunista.
I rivoluzionari comunisti hanno compreso anche il citato insegnamento di Marx perché sono convinti che tutti i tumulti sociali attuali evolvono non verso la sussistenza del regime attuale, ma verso un corso dal quale si genera contemporaneamente e l'insurrezione del proletariato e la costruzione del partito di classe del proletariato, insurrezione e partito di classe che si preparano nel faticoso lavoro di collegamento delle energie che mantengono fermamente questa divisa: per giungere al momento in cui non vi sarà più posto per nessuna forza nemica occorre distruggere l'opinione che il capitalismo possa tollerare forze nemiche nel suo seno: chi ci entra è stritolato, qualunque sia il grado, l'importanza ed il titolo dell'attuale meccanismo che salvaguarda e perpetua lo sfruttamento dei lavoratori.
A conclusione dell'esposto fatto nel 1865 al Consiglio dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, Marx propone la risoluzione seguente:
I°. - Un aumento generale del tasso dei salari determinerebbe un ribasso generale dei profitti, ma non influenzerebbe in definitiva il prezzo delle merci.
II°. - La tendenza generale della produzione capitalista non è di elevare il salario normale medio, ma di abbassarlo.
III°. - I sindacati agiscono utilmente in quanto centri di resistenza alle usurpazioni del Capitale, si rivelano in parte inefficaci in seguito all'impiego poco giudizioso che essi fanno della loro forza. Falliscono generalmente allo scopo perché si limitano ad una guerra di scaramuccia contro gli effetti del regime esistente, invece di lavorare nello stesso tempo alla sua trasformazione e di servirsi della loro forza organizzata come di una leva per l'emancipazione definitiva della classe lavoratrice, cioè l'abolizione del salariato.
Rileviamo subito che, per Marx, la parola "giudizio" aveva un senso ben differente da quello impiegato dagli impostori che, in ogni occasione, hanno insegnato ai lavoratori a spaventarsi della sorte della patria, della minaccia della occupazione, del pericolo corso dalla repubblica ecc. Per Marx il "giudizio" consiste nell'impiegare sensatamente la forza dei sindacati allo scopo bene determinato di preparare la rivoluzione comunista.
Potrebbe sembrare che esistesse una contraddizione fra il primo punto, dove è categoricamente affermato che la conseguenza dell'aumento del tasso dei salari non è l'aumento dei prezzi ma la diminuzione del tasso dei profitti, ed il secondo punto dove è affermato altrettanto categoricamente che la tendenza della produzione capitalista va verso la diminuzione dei salari.
La contraddizione sarebbe però soltanto apparente. Nel corso della polemica contro Weston (dalla quale risulta la proposta di risoluzione che abbiamo riportato) Marx combatte l'idea che l'aumento del salario si traduca in un aumento dei prezzi, attenendosi alla concezione, ribadita in tutte le sue opere, secondo la quale le leggi dell'economia capitalista provengono dalla struttura di quest'economia e non vi sono sovrapposte da ragioni extra-economiche, come sarebbe quella della fissazione di un ammontare fisso dei salari che, per la sua invariabilità, si tradurrebbe in una semplice modificazione dell'espressione monetaria del valore, nel senso cioè che una maggiore quantità di moneta ricevuta come salario corrisponderebbe ad una quantità proporzionalmente maggiore di denaro per acquistare la stessa quantità di prodotti. E Marx insiste sul fatto che l’aumento dei salari ottenuto nel settore della produzione degli oggetti di prima necessità, ripercuotendosi nell'aumento dei prezzi delle stesse merci, determinerebbe la diminuzione della loro domanda sul mercato da parte dei consumatori non operai, e creerebbe così una condizione difficile per la loro produzione. D'altra parte i capitalisti che non producono oggetti di prima necessità non potrebbero trovare un qualsiasi compenso alla diminuzione della domanda dei loro prodotti risultante dall'aumento dei prezzi, determinato a sua volta dall'elevazione dei salari.
L'aumento dei prezzi risultante dall'aumento dei salari si rivelava quindi inoperante per gli stessi capitalisti; Marx attribuiva invece la variazione dei prezzi all'evoluzione economica nel suo insieme. Di più (abbiamo mostrato che Rothstein ne da conferma per quanto concerne i prezzi in Inghilterra.) egli forniva una documentazione suggestiva del parallelismo che si era verificato in circostanze determinate fra l'aumento dei salari e la diminuzione dei prezzi, sempre però mettendo in evidenza che non vi era rapporto fra i due fenomeni.
L'ammissione della teoria del riflesso degli aumenti salariali nell'aumento dei prezzi condurrebbe difilato a negare l'ineluttabilità dello scoppio degli antagonismi della classe capitalista ed ad ammetterne anche la natura non antagonica. Infatti se esistesse un limite insormontabile dei salari, esisterebbe altresì la conferma dei carattere naturale dell'economia capitalista.
È noto che deviazioni di questo tipo non si sono limitate a Weston nel seno della Prima Internazionale, ma si presentarono anche in Lassalle, il quale, non trovando la possibilità di sfuggire alla legge di ferro che condiziona il salario, negava la lotta sindacale, e si orientava verso le cooperative di produzione civettando con Bismark il quale voleva servirsene per la sua lotta contro la frazione dei progressisti tedeschi, che sognavano un riflesso dello schema della rivoluzione francese nel loro paese. Anche Proudhon, partendo da considerazioni differenti, deviava su questo terreno fondamentale ed invece di presentare l'antagonismo fondamentale sul fronte dell'opposizione capitale-salario, si dirigeva verso antagonismi a tipo moralistico che dovevano condurre alla costruzione di un'altra società nel seno di quella borghese.
Per Marx, il prezzo delle merci risulta dalla legge della domanda e dell'offerta del mercato mentre il salario risulta dalla resistenza che possono opporre i sindacati alla tendenza specifica dell'economia capitalista ad "abbassare il salario normale medio". Si tratta quindi di due fenomeni distinti e organicamente non associabili.
La situazione attuale può offuscare la visione del problema quale lo vide Marx. In effetti il crescente intervento dello Stato nel campo della fissazione dei salari, nello stesso tempo in cui si assiste al vertiginoso aumento dei prezzi, potrebbe fare giungere alla conclusione che o le agitazioni sociali sono private in principio di ogni significato, o il capitalismo si troverebbe in condizione di poterle tranquillamente sopportare poiché il salario reale sarebbe una quantità costante quale che sia la quantità di moneta in cui esso si esprime.
La realtà è ben diversa, ed occorre non lasciarsi afferrare dall'aspetto esteriore delle cose. Per vedere pienamente confermati i punti di vista di Marx basterebbe considerare che il capitalismo avrebbe trovato la panacea contro le agitazioni sociali: gli basterebbe, di fronte ad ogni domanda di aumento di salario, accettarla e disporre una corrispondente elevazione dei prezzi. Ora, non solamente questo non si verifica, ma il capitalismo va incontro al rischio di vedere interrompersi la sorgente del suo profitto attraverso l'arresto del lavoro piuttosto che concedere gli aumenti salariali.
Indubbiamente l'intervenzionismo statale trionfante in tutti i paesi pone problemi che devono essere analizzati alla luce de nostri principi, ma essi non faranno che confermare le considerazioni che abbiamo riportato sul carattere fondamentalmente antagonico della società borghese.
Quale dei due fattori indicati nella citata risoluzione di Marx è chiamato a trionfare nel seno della società capitalista? Quello dell'aumento dei salari o l'altro dell'abbassamento costante del salario medio?
Troviamo la risposta nel III° punto della risoluzione e considerando anche che, se il primo punto solleva una eventualità (l'aumento dei salari), il secondo indica invece una tendenza (abbassamento dei salari). Ora per spezzare la tendenza dell'economia capitalista non può essere sollevata nessuna eventualità, ma una condizione ed una sola, quella contenuta nel III° punto, dove Marx parla della "abolizione definitiva del salariato".
Per concludere su questa parte del nostro esposto, ricorderemo alcuni passaggi di due articoli di Engels: l'uno intitolato "Un salario equo per un lavoro equo" (pubblicato nel 1884 in The Labour Standard di Londra); l’altro "La legge del salario" pubblicato nello stesso giornale nel 1880. Dice Engels:
"Un salario equo, nelle circostanze normali, è la somma di cui l'operaio ha bisogno per procurarsi, conformemente alle condizioni del suo ambiente e del suo paese, i mezzi che gli permettono di continuare a lavorare ed a riprodursi. Il salario reale può, a causa delle fluttuazioni dell'industria, essere talvolta al disopra, talvolta al disotto di questa media. Una giornata di lavoro equa è la durata e lo sforzo di lavoro realmente forniti ogni giorno dalla forza di lavoro dell'operaio nel suo insieme, senza ch'egli divenga incapace di fornire l'indomani la stessa quantità di lavoro".
In questa sua caratteristica la società borghese è rimasta di una coerenza inflessibile.
Dopo avere indicato che la legge del salario sovradescritta non è invariabile, e che i sindacati possono intervenire per profittare "al di fuori delle grandi crisi" del "margine nei limiti del quale i salari possono essere modificati", Engels scrive:
"Ma la legge del salario non è abolita dalla lotta dei sindacati. Al contrario non si fa allora che applicarla". E più oltre: "Dunque i sindacati non lottano contro la legge del salario".
Le posizioni di Marx ed Engels che abbiamo indicato ci pare possano essere condensate in questa formula centrale: l'antagonismo capitale-salario pone la base per la lotta diretta alla distruzione del regime capitalista, ma questa lotta è concepibile unicamente come incastramento di ognuna delle sue fasi verso lo sbocco rivoluzionario.
Nella seconda parte di quest'articolo tratteremo degli aspetti assunti dall’organizzazione sindacale, dei rapporti fra questa ed il partito e del problema dei consigli di fabbrica, così come essi si sono manifestati nelle fasi più importanti del movimento operaio.
[La seconda parte non fu mai pubblicata, ndr.]
Da "Prometeo" n. 10 del 1948. Firmato: Vercesi (Ottorino Perrone).