Il proletariato e la Seconda Guerra Mondiale
II 1° settembre 1939, dopo un decennio di continue crisi politiche, economiche, sociali, scoppiava la seconda guerra imperialista, dal cui duro lunghissimo calvario il proletariato mondiale, nonostante ogni suo sforzo è uscito polverizzato come classe rivoluzionaria e aggiogato con pesanti catene al carro degli imperialismi.
La critica scientifica del marxismo ha posto assai bene in luce che l'involversi disgregativo della società capitalista (contrasto insanabile fra le forze produttive e rapporti di produzione) caratterizzato, oltre che dalle continue lotte degli strati sociali antagonisti, dai conflitti e dagli urti formidabili che la sfrenata concorrenza capitalistica per la conquista dei mercati di smercio e di sfruttamento, il vorticoso moto accentratore dei mezzi di produzione ed il loro elefantiaco sviluppo, hanno prima attuato su scala nazionale ed ora, nell'epoca dei grandi blocchi super-statali, tragicamente pongono su scala intercontinentale. Studiando tale antitesi sorge marxisticamente la previsione dell'ineluttabilità di un terzo conflitto mondiale se il proletariato non tornerà ad avere piena coscienza dei suoi interessi e del compito rivoluzionario che la storia gli ha affidato. Soltanto una decisa azione di classe potrà infatti deviare il vorticoso fiume del divenire storico verso una opposta foce.
Sono trascorsi non più di due anni dalla formale cessazione delle ostilità e già profondi contrasti tra i vincitori lasciano prevedere nuovi spaventosi urti di carattere militare. Già si assiste alla mobilitazione ideologica dei popoli, già si sbandierano nuove sante crociate in nome di mille falsi ideali "democratici" o "socialisti". Alla classe operaia si presenta ancora una volta la possibilità di salvare sé stessa da una spaventosa conflagrazione e dal capitalismo, nella misura in cui, avvantaggiata dalle recenti esperienze storiche, tornerà a scendere apertamente in lizza per la costruzione dei suoi organismi internazionali di lotta e contro la marea montante della reazione. Se queste prospettive risultassero fallaci, se la polverizzazione e l'assopimento del proletariato permettessero al capitalismo "democratico" o (non ridete) "socialista" di scatenare un nuovo conflitto, assisteremo invece ad uno spaventoso dissanguamento delle classi lavoratrici ed a una più feroce oppressione elevata sulla schiena degli operai dalla ferocia padronale. Tutto questo è già avvenuto nella guerra del 39-45. Noi vogliamo ora, a distanza di otto anni, ricordarlo agli operai.
Nei primi mesi del 1938, in Spagna la "resistenza" al falangismo dava gli ultimi guizzi. Che cosa ha rappresentato per i proletari la lezione spagnuola? Nel 1936 l'acuta crisi economica che travagliava la Spagna fin dal I° dopoguerra e che si era venuta acutizzando dopo il 1931, sfociava in sommovimenti e in disordinate rivolte degli operai iberici, decisi istintivamente a spazzare via in maniera radicale la classe sfruttatrice. Le forze sociali di guida del proletariato erano rappresentate, oltre che dai tradizionali partiti stalinista e socialdemocratico, da forti raggruppamenti anarco-sindacalisti appoggiati da una numerosa organizzazione sindacale. Conquistata una formale libertà di azione, le masse operaie e contadine guidate dalle formazioni anarchiche iniziavano un caotico processo di collettivizzazione delle grandi e piccole aziende, dei servizi pubblici e dell'agricoltura. Era un procedere spontaneo ed entusiasta, guidato in modo del tutto inadeguato da elementi politicamente ribelli e quindi privi di solide e chiare vedute politiche.
La borsa fu chiusa e l'edificio saccheggiato ma tutto l'apparato burocratico venne lasciato in piedi, il potere politico reso vacante, gli organi borghesi accantonati ma non distrutti. Poche settimane dopo i partiti politici di "sinistra" e di destra, pedine più o meno legate agli imperialismi stranieri o senza una chiara fisionomia di classe, approfittando della mancanza di una solida organizzazione rivoluzionaria strozzavano il moto operaio appena nascente e confuso, irreggimentavano le masse nell'alveo di una guerra che, abbandonate le forme (appena delineate) e l'essenza della lotta civile, veniva tramutandosi in contesa imperialistica mentre il paese diveniva il primo "banco di prova" degli opposti capitalismi per saggiarvi le loro forze e i loro mezzi bellici. L'esperienza di Spagna ha chiaramente provato l'impossibilità di una guida anarchica capace di condurre il proletariato alla completa vittoria di classe. In realtà l'anarchismo è frutto della ribellione istintiva del corpo sociale causata dai disagi brutalmente materiali che creano insofferenza e violenza cieca contro ogni ostacolo. Nella rivolta anarchica predomina una forma rudimentale di coscienza negativa tendente semplicemente ad abbattere senza scelta di mezzi, procedendo contro tutto e tutti, non considerando le proprie possibilità, non risparmiando colpi a ciò che forse potrebbe giovare, lasciando quello che andrebbe radicalmente distrutto. Così in Spagna gli anarchici non indirizzarono minimamente il proletariato verso la conquista del potere politico e la distruzione dei gangli di difesa borghese, accontentandosi di smantellarne le più appariscenti soprastrutture e procedendo caoticamente alla collettivizzazione. I più "radicali" negatori dello Stato si dimostrarono in realtà i suoi più strenui ed ingenui difensori, disinteressandosene e trascurando prima, coadiuvando poi al suo rafforzamento, tramite i... "ministri libertari". Tale atteggiamento permise alle sinistre socialiste e staliniste di conquistare il potere, di intralciare o soffocare ogni ritorno alla vera lotta di classe trascurando o prendendo posizione sfavorevole verso i tentativi collettivistici in atto. Chi studia la legislazione di carattere economico posta in vigore dal governo repubblicano durante la guerra civile, noterà con stupore la completa assenza di ogni radicale provvedimento sociale in favore delle classi lavoratrici, carenza alla quale si aggiungeva l'aperto sabotaggio della vecchia burocrazia statale, padrona come non mai.
A questo governo tipicamente borghese davano il loro condizionato appoggio i "comunisti" spagnoli. Fernandez, segretario del PC di Spagna, così si esprime sul programma che avrebbe difeso:
"II blocco democratico antifascista dovrà radunare intorno a sé tutti i sinceri repubblicani di ogni fede religiosa e politica (...) Noi comunisti siamo decisamente contrari alle collettivizzazioni poiché crediamo sinceramente che la proprietà privata industriale debba avere possibilità di nuovi sviluppi. Non si pone ancora il problema del socialismo bensì della vittoria della democrazia".
Gli operai iberici non combattevano per i loro interessi, per il socialismo: la democrazia borghese e il regime della proprietà privata e dello sfruttamento dovevano essere salvati.
Né poteva essere altrimenti. Fin dal '35 il VII congresso dell'Internazionale aveva lanciato la parola del blocco indiscriminato antifascista. Le prime dure esperienze furono riservate alla Spagna. L'unione con gli strati borghesi, socialdemocratici e perfino cattolici tramutò nel giro di pochi giorni la lotta di classe in urto internazionale ed a causa di ciò il proletariato si trovò impotente a contrastare il fascismo. Tragica fu in quegli anni la carenza di un partito rivoluzionario, centinaia di migliaia di operai caddero in una guerra che non era la loro, illusi, traditi anche quando inutile si dimostrava ogni resistenza ed il popolo era restìo a continuare la sterile lotta; sacrificato e spinto a combattere con la forza dagli stalinisti (Madrid 38) poiché lo Stato russo era ancora per il blocco antifascista, anche se privo di senso e di speranza.
II patto russo-tedesco scoppiava improvviso sull'orizzonte politico internazionale. In Francia, in Polonia, in Inghilterra, i socialdemocratici perseverarono nella loro posizione sciovinista e guerrafondaia di "Unione sacra" con il capitalismo per la salvezza della Patria. Il vecchio Blum continuò a predicare e a benedire la crociata antitotalitaria, il laburismo appoggiò il governo conservatore, mentre il socialismo polacco si legava strettamente al regime reazionario dei "colonnelli". Ed i partiti stalinisti? Il brusco e cinico cambiamento di fronte dell'URSS impose loro una "capriola" tattica delle più sorprendenti. In soffitta il blocco antifascista e la guerra al fascismo. In Polonia il proletariato "comunista" non si opponeva all'avanzata tedesco-russa, in Francia la situazione per lo stalinismo è delle più critiche. Tutta la sua campagna nazionalista, tendente ad avvicinarsi alla destra radicale e guerrafondaia, crolla come un castello di carta, il partito è costretto a vivere nella semilegalità, e l'illogicità, la non chiarezza, il carattere controrivoluzionario della sua linea politica provocano non solo le dimissioni in massa di molti militanti, ma anche il completo disorientamento della classe operaia che, non guidata, confusa, non si oppone minimamente allo scatenamento della guerra. Così da una parte i regimi fascisti e dall'altra le borghesie democratiche ed i partiti operai giuocano il medesimo ruolo di becchini del proletariato condotto supinamente al macello.
Maurice Thorez il 21 novembre 1938 ad una riunione del Comitato Centrale del PCF affermava:
"I dittatori di Roma e di Berlino vogliono isolare la nostra Patria per annientarla. Coloro che gridano 'piuttosto la rivoluzione che la guerra...' oppure 'sciopero generale e non mobilitazione generale' sono completamente al di fuori del marxismo. Nelle presenti condizioni di minaccia hitleriana queste frasi rappresentano un crimine contro la classe operaia... Di quale impudenza sono armati i trotskisti spioni che pretendono di far riecheggiare la parola d'ordine di Liebknecht 'il nemico è nel nostro paese'! Noi dobbiamo denunciare come appoggio diretto al fascismo le calunnie contro l'Unione Sovietica e la menzognera affermazione trotskista che tutti gli imperialismi si equivalgono ponendo così sullo stesso piano la dittatura fascista e le democrazie occidentali amanti della pace".
Il nazionalista Thorez ed il PCF avevano nei mesi seguenti assunto posizioni via via più decise riecheggiando perfino i concetti di "Unione sacra" e della vecchia révanche fin de siecle.
Di punto in bianco tutto questo armamentario ideologico crollò in pezzi. Il PCF scoprì (alfine) che la guerra non era altro che una lotta imperialistica e lanciò i suoi anatemi contro le "democrazie occidentali". Thorez edizione 1939 smentì di fatto tutte le sue precedenti affermazioni coprendosi così di ridicolo e di vergogna. E fu portato ad agire formalmente su un piano assai vicino a quello dei... "trotskisti spioni".
Il governo Daladier verso il quale spesso erano andate le speranze dello stalinismo, rispose con le persecuzioni più feroci. Pochi mesi dopo il proletariato francese, stanco dei continui tradimenti perpetrati ai suoi danni dai partiti "operai" rifiutò di battersi e, causa la mancanza di una forte guida rivoluzionaria, si acquetò in una passività sconcertante o diede vita a moti spontanei e slegati. La Francia venne facilmente occupata dalle divisioni tedesche.
L'esempio francese ha dimostrato ancora una volta che se il proletariato rifiuta di battersi per la propria "Patria" la borghesia crolla senza opporre resistenza alcuna ai colpi esterni... I grandi industriali, le caste terriere, i generali "depositari dell'onore militare" della III Repubblica, di fronte alla resistenza passiva della classe operaia si dibatterono impotenti: il guerrafondaio socialista Blum ebbe in seguito a dichiarare:
"Si attraversarono momenti orribili. Vi erano moltissimi scioperanti. Gli scioperi si estendevano da una località all'altra..."
Né questo basta. I soldati non vollero più sacrificarsi e morire sotto una disciplina spesso disumana per interessi che non erano quelli della loro classe. I disordinati moti economici non raggiunsero, naturalmente, risultati concreti, mentre la borghesia, forte del regime di dittatura militare instaurato nel paese, si affrettò ad abolire definitivamente con un tratto di penna le poche concessioni economiche strappate dagli operai durante decenni di lotte sindacali. Fu così nuovamente provato il carattere effimero delle conquiste graduali, ed il ruolo sostanzialmente antioperaio giocato dal vacuo riformismo di ogni gradazione.
Se nel paese fosse invece esistito un movimento rivoluzionario, la sua azione sarebbe stata, condotta sul terreno della più decisa ed intransigente lotta di classe all'interno contro il governo borghese prima, sulla base del disfattismo rivoluzionario e della disgregazione dell'esercito occupante poi. Quale fu invece l'atteggiamento dei partiti di "sinistra" dopo l'occupazione? Le correnti socialscioviniste continuarono blandamente nell'illegalità a predicare la lotta per la difesa nazionale in unione con l'Inghilterra, dove la "unione sacra" del laburismo e dei conservatori celebrava i suoi saturnali dopo la caduta del gabinetto di Chamberlain. Contemporaneamente si sviluppava in Francia una forte tendenza politica socialista al pacifismo più spinto e perfino alla collaborazione con il nazismo. Tale socialfascismo che faceva capo al Midi Socialiste considerava possibile la graduale "lotta" per gli interessi economici della classe operaia e per determinate riforme di struttura nell'ambito dello stato moderno totalitario. Era codesta la forma più... conseguente del socialriformismo il cui errore storico fu sostanzialmente quello di non avere identificato sé stesso nei movimenti riformisti del fascismo. Ed il Partito Comunista Francese? A Parigi occupata dai nazisti il PCF nel primo periodo dell'occupazione veniva tollerato dal comando tedesco, l'Humanité veniva venduta per le vie della capitale con il tacito consenso della Kommandantur presso la quale erano in corso trattative per la legalizzazione del giornale. Redattori comunisti collaboravano al settimanale France au Travail sindacalista collaborazionista.
Questa condizionata libertà dello stalinismo era dovuta sia agli stretti vincoli che allora univano l'Unione Sovietica al III Reich, sia alla linea politica del partito, che aveva abbandonato tutte le sue parole d'ordine antinaziste. In sostanza l'atteggiamento dell'Humanité di quegli anni si presentava nettamente contrario al governo Pétain da un lato; a De Gaulle, all'emigrazione, e all'imperialismo britannico dall'altro. Pochissime e blande le critiche ai regimi fascisti. "Ni Pétain, ni De Gaulle"... ma neppure disfattismo rivoluzionario in seno all'armate di Hitler, non sabotaggio della produzione, non ritorno alla lotta di classe. Il PCF assiterà assai spesso inerte alle prime deportazioni in massa di operai verso la Germania.
Parve ad alcuni che il nuovo atteggiamento "intransigente" dello stalinismo preludesse ad un sostanziale ritorno alla lotta di classe ed all'azione leninista. In realtà, per comprendere appieno la linea politica del nazionalcomunismo non si deve assolutamente prescindere da una approfondita analisi dello Stato russo cui si ispirano i partiti stalinisti del mondo. È solo convincendosi del carattere non socialista dell'Unione Sovietica e della sua conseguente posizione imperialistica che risulterà possibile non alimentare pericolose illusioni e vane speranze. D'altro canto la "tattica" di un partito non si presenta come qualcosa di empirico, di slegato e di inconseguente. In altre parole, gli atteggiamenti dello stalinismo nel 1940-41 dovevano essere analizzati, soprattutto alla luce di tutta la sua politica collaborazionistica ed era così facile giudicare come massimaliste illusorie ed antioperaie le parole d'ordine che gli avvenimenti avevano bon grè mal gré imposte. Nei Paesi Bassi la situazione si andava evolvendo nello stesso senso: assai forti si presentavano anche qui alcune correnti socialiste che difendevano un pacifismo piccolo-borghese di supina acquiescenza all'oppressione. Nei Balcani, dopo la rapida vittoria dell'Asse in Jugoslavia i comunisti non dettero vita ad alcuna azione di classe; saranno invece la bande del reazionario Michailovich ad iniziare la "lotta all'invasore" chiamando a raccolta i lavoratori in nome naturalmente, della Monarchia e del vecchio stato autocratico. Così in tutta Europa, fino al 1942, da un lato regimi fascisti irreggimentano le masse e le conducono spietatamente al macello sottoponendo operai e contadini ad un tenore di vita dei più orribili tramite i sindacati di stato ed il corporativismo, dall'altro i capitalisti "democratici" e i loro tirapiedi della Seconda Internazionale lanciano il proletariato quasi disarmato contro le divisioni corazzate naziste, mentre lo stalinismo cinicamente sacrifca durante le sue virate tattiche decine di migliaia di militanti.
Nei paesi occupati le deportazioni, i rastrellamenti si susseguivano ininterrottamente; il proletariato veniva travolto da ogni parte. Mentre la reazione imperversava sul mondo contro tutte le classi lavoratrici, nel Messico veniva assassinato dagli agenti dello stalinismo Leone Trotsky. Si volle colpire in lui una delle figure più rappresentative (anche se delle più discusse e discutibili) delle avanguardie coscienti del proletariato, che tra difficoltà immense, nonostante la passività e l'ostilità delle grandi masse, già sottoponevano al vaglio della critica marxista le terribili esperienze del conflitto.
Thorez e Duclos, gli intemerati campioni dell'antifascismo, parlavano dalla radio nazista di Stoccarda agli operai francesi mentre i loro sicari, tacitamente spalleggiati dal capitalismo mondiale, assassinavano il "provocatore" Trotsky, "spia del nazismo".
"L'assassinio e la menzogna sono le armi preferite dagli sfruttatori e dagli oppressori". Non siamo noi a dirlo, è lo stalinista Maurice Thorez, che lo ha scritto.
Mentre il continente europeo, conquistato in meno di due anni dagli eserciti nazisti, veniva inquadrandosi nell'organizzazione produttiva dello "spazio vitale" tedesco, ed il proletariato confuso ed oppresso di dibatteva fiaccamente, in Inghilterra e negli USA il movimento operaio di fronte alla cruda realtà di una nuova guerra imperialistica non trovò la forza di opporsi ai propri governi reazionari, mentre i suoi partiti ufficiali aderivano toto corde al movimento "democratico di guerra ai totalitarismi".
Tutto ciò non poteva stupire.
In realtà in Inghilterra, dopo il cartismo, fenomeno rivoluzionario di un proletariato poco numeroso (e quindi non ancora cosciente dei suoi interessi e del compito profondamente rinnovatore che la dinamica storica gli assegnava) non ebbero a sorgere o quanto meno ad assumere una notevole importanza organizzazioni rivoluzionarie. E infatti il laburismo democratico riformista tipicamente borghese affonda salde radici nel terreno sociale della nazione britannica, mentre l'esile partito comunista non vi ha mai rappresentato neppure nel periodo d'oro della III Internazionale, una forza reale.
La Gran Bretagna appartiene a quella piccola cerchia di stati che, grazie alla loro potenza economica, costituiscono i pilastri giganteschi dell'imperialismo e ai quali sono strettamente soggette le piccole nazioni a potenziale industriale poco sviluppato, spinte spietatamente dal processo storico verso il rango di terre di sfruttamento di paesi coloniali. La gigantesca ricchezza dei grandi paesi impcrialistici (ottenuta per mezzo dei monopoli e del colonialismo) permette ai capitalisti di elargire qualche briciola agli strati meno rivoluzionari della classe operaia, creando così categorie privilegiate che vengono dividendosi e differenziandosi dalla grande massa dei proletari.
Tale scissione rinforza l'opportunismo, provoca un ristagno del moto operaio, permette il consolidamento dello stato borghese, trascina larghi strati della classe sfruttata verso un fronte unico che sanzioni la politica brigantesca della propria borghesia allentando così i vincoli della solidarietà internazionale che legano i proletari di tutti i paesi. Specie nei periodi di rigoglio economico la classe sceglie a suoi capi gli agenti e le organizzazioni politiche legate a doppio filo al capitalismo imperialistico. In Inghilterra è il caso dal Labour Party che alla vigilia del passato conflitto si muoveva su un piano verbalmente sinistroide avendo in H. Lasky il suo esponente massimo. Nazionalizzazione delle banche, delle assicurazioni, dell'edilizia, di poche industrie siderurgiche, controllo ed intervento statale nel commercio estero e in parte degli scambi interni; questo il programma economico del "socialismo progressivo".
Unità (indiscriminata) della classe operaia con gli strati piccolo borghesi intellettuali e naturalmente con alcune correnti della borghesia; azione politica che tenga conto della tradizione imperiale della Gran Bretagna, tali le direttrici politiche di marcia propugnate dal Lasky e seguite da numerose correnti della socialdemocrazia inglese. Controllo e pianificazione, unione di vasti strati della popolazione su un piano comune di azione, conseguente aumento degli interventi statali; tutto ciò gabellato per azione "socialista", ma tale, vogliamo aggiungere, il programma sociale della quasi totalità delle multiformi correnti politiche nell'attuale fase critica del capitalismo. Non potrebbe essere altrimenti: il recente Sviluppo del capitalismo, raggiunta la fase "intermedia" del monopolio privato, per le interne necessità di conservazione della società borghese si avvia in tutto il mondo a grandi passi verso la completa statizzazione dei mezzi di produzione. Questo procedere alla ricerca di forme più moderne di reazione porta al parossismo i contrasti di classe imponendo ai partiti che non si pongono come obiettivo lo scardinamento del sistema sociale capitalistico, fini politici sostanzialmente identici in tutti i paesi mentre i mezzi di coercizione materiale ed ideologica atti al raggiungimento dei fini stessi possono variare a seconda dell'evolversi delle situazioni e dei rapporti di forza tra le classi nei singoli stati.
In America, in Inghilterra, in Germania, nella Russia stessa gli economisti borghesi, enunciando durante la passata guerra scopi e programmi per l'avvenire, palesavano negli opposti campi una identità di vedute veramente commovente unita ad una volontà (degna di miglior causa) di imbrigliare le masse operaie irreggimentandole nelle maglie dei nuovi complessi super statali, che sarebbero sorti dopo il conflitto. Perfino nel campo della propaganda la borghesia, sotto la spinta del divenire storico, ha creato nuove variopinte etichette di cui si servono indifferentemente fascisti e stalinisti, democratici e reazionari: vengono così progressivamente gettati a mare gli slogan sulla piena libertà individuale e rimpiazzati dalle nuove formule dello stato il quale "espressione massima del popolo" ne interpreta (a piacer suo) gli interessi e i desideri. Si intacca la libera iniziativa e si ciancia di nazionalizzazioni. Al principio di nazionalità e di stato nazionale che filosofi e poeti avevano circonfuso di una aureola di misticismo e di etica metafisica, sotto la spinta di necessità politiche imprescindibili, vengono sostituite le "teorie" dei grandi blocchi continentali (europeismo, germanesimo, americanismo).
Il binomio "dovere e lavoro" è conclamato ai quattro venti e la parola "socialismo" (la parola... naturalmente) è scritta a grosse lettere sulle bandiere degli imperialismi contrapposti.
La fiducia riposta nelle citate ricette e formule miracolistiche e nelle tradizionali organizzazioni politiche condusse anche il proletariato inglese ad una guerra spaventosa accettata con entusiasmo spesso senza limiti.
Dopo i primi rovesci in Polonia, il laburismo si stringe decisamente intorno al governo conservatore ponendosi nelle officine e nei campi alla testa del proletariato, creando in esso una psicosi guerresca senza precedenti. Né questo basta. All'atto dell'invasione tedesca in Occidente, quando cioè alla classe operaia venivano richiesti sacrifici economici e di sangue senza precedenti, il grande capitale finanziario di Londra si vide costretto ad invocare l'aiuto "socialista". Attlee e Greenwood entrarono nel ministero dell'Unione Sacra senza peraltro dirigere dicasteri chiave né subordinando minimamente la loro collaborazione a richieste di riforme strutturali nel campo industriale ed agricolo. Una tregua che si estese perfino alle agitazioni rivendicative di carattere economico venne accettata dal "socialismo" inglese. Furono infatti proprio i ministri laburisti i più feroci avversari degli scioperi minerari ed industriali che si verificarono nel paese durante il conflitto. Nessuna differenza politica dividerà durante la guerra i conservatori dai loro colleghi di sinistra, mentre identificando nel nazismo il proletariato e il popolo tedesco, il governo e i tirapiedi socialisti conclameranno la necessità dello smembramento della Germania, della distruzione dei suoi complessi industriali, dei suoi impianti marittimi, palesando involontariamente gli scopi imperialistici della seconda conflagrazione mondiale. Centinaia di operai ed organizzatori rivoluzionari furono gettati nei campi di concentramento dal governo di Sua Maestà, mentre il capitale finanziario britannico, nonostante i rudi colpi inferti dal fascismo, consolidava le sue posizioni di privilegio nei confronti della classe operaia con il prezioso aiuto delle Trade Unions i cui capi si dimostrarono i sabotatori più energici degli scioperi svolgendo un ruolo del tutto favorevole al padronato.
D'altro canto i comitati di fabbrica sorti durante il conflitto in tutto il paese, se si eccettuino rare spiegabili eccezioni, seguirono pedissequamente la politica collaborazionista di unità nazionale. Tutto questo mentre i prezzi raggiungevano indici altissimi e la crisi alimentare e l'offesa esterna sottoponevano la classe a sacrifici senza precedenti. Più di un milione di morti e feriti per stenti ed offese aeree, milioni di senza tetto, intere cittadine e quartieri operai distrutti. Questi i sacrifici sopportati dagli operai inglesi durante una guerra che non era la loro...
Negli Stati Uniti d'America dopo la rielezione alla presidenza della Repubblica avvenuta nel 1940 di F. Delano Roosevelt ed il nuovo impulso al New Deal, la politica bellicistica dei circoli finanziari ebbe il completo appoggio delle tradizionali organizzazioni sindacali statunitensi se si eccettui la corrente scissionista di J. Lewis che diede vita durante il conflitto a grandi scioperi minerari contro le proibizioni governative fatte in nome dell'Unità Nazionale e della "difesa della civiltà" pur mantenendo la lotta su un terreno esclusivamente riformistico e riconciliandosi in definitiva con il governo: Lewis fu, in sostanza, la valvola lasciata aperta all'ebollizione della massa operaia. Quanto al partito comunista, che oggi lancia fulmini all'imperialismo americano, esso si sciolse per assumere la pacifica fisionomia di una associazione di cultura e collaborare in accordo fino all'ultimo col governo di Wall Street, liquidando le timide resistenze di qualche nostalgico.
Il 20 giugno del 1941 le armate naziste traversarono il confine orientale dall'estremo Nord finlandese al Mar Nero iniziando la lotta contro la Russia.
Dopo il patto tedesco-russo (Mosca 1939: Ribbentropp-Molotoff) i rapporti tra le due potenze si erano conservati cortesi nonostante la lenta marcia verso occidente delle armate di Stalin (occupazione della Lettonia, Estonia, Lituania, di regioni strategiche finlandesi, della Bessarabia e della Bucovina Rumena) ed il III Reich aveva ricevuto dall'URSS secondo il trattato commerciale stipulato forti quantitativi di merci necessari alla sua economia duramente impegnata nella guerra. Ma gli interessi dei due mastodontici mostri statali, nonostante le profonde collusioni, non potevano alla lunga non venire in conflitto.
Per il capitalismo di stato russo erano di vitale importanza i giacimenti petroliferi della Rumenia, le miniere di Petsamo, i prodotti e le basi navali bulgare, trampolino di lancio per la marcia verso Occidente. La ferrea logica della storia assume spesso un carattere di tragica ironia. L'impero feudale-borghese degli Zar, durante la prima guerra mondiale, si battè per i medesimi obiettivi, per le stesse conquiste, che 25 anni dopo dovevano essere meta di un regime "socialista" che pur si vanta diretto erede di una rivoluzione (questa sì, veramente socialista ed operaia) affermatasi in netta antitesi con la politica brigantesca di tutte le nazioni.
Anche la Germania non aveva fatto mistero delle sue mire imperialistiche verso i Baltici e il Mar Nero avendo lo stesso Hitler esplicitamente dichiarato nel suo Mein Kampf che i giacimenti ed il suolo ucraino rappresentavano delle necessità vitali per le industrie e la superpopolazione tedesca.
I precedenti diplomatici gettano una chiara luce sulla natura del conflitto tedesco-russo. Durante l'ultimo viaggio di Molotoff a Berlino, fu palese che la Russia era pronta ad una strettissima collaborazione con le potenze dell'Asse, ed in ispecie con la Germania, se da parte tedesca si fosse acconsentito ad alcune sue fondamentali richieste.
Molotoff ebbe in quell'occasione a dichiarare:
"La Russia si sente di nuovo minacciata dalla Finlandia. Siamo decisi a non tollerare ciò. Inoltre è la Germania disposta ad acconsentire che la Russia invii truppe sovietiche in Bulgaria e in Romania, con l'esplicita garanzia che dette forze non detronizzeranno il re e non muteranno il regime interno del paese? La Russia ha bisogno di occupare importanti basi nei Dardanelli e sul Bosforo. La Germania è d'accordo?"
II brigante nazista non poteva certamente "essere d'accordo" di fronte a tali esose pretese. Le frasi di Molotoff provano di quale natura sia stata la guerra scatenata ad Oriente. L'URSS come il suo ministro degli esteri ebbe esplicita mente a dichiarare, non avrebbe per nulla mutato gli stati e i governi delle nazioni occupate... La sua non sarebbe stata una marcia rivoluzionaria, bensì imperialista.
Se una intesa fosse stata possibile, avremmo visto lo stalinismo internazionale accentuare la sua campagna di disgregazione e di tradimento tra la classe operaia in favore dell'Asse e del Tripartito! Sul piano dei conflitti imperialistici avvenne il cozzo bellico. La guerra, questa cruda necessità della società borghese, divorava altri paesi ed altri popoli.
Lo sviluppo straordinariamente rapido dell'industria sovietica durante i piani quinquennali aveva provocato un aumento vertiginoso del proletariato. Alla vigilia del 1939 la classe operaia contava nell'URSS circa 30 milioni di lavoratori industriali, ai quali dovevano aggiungersi le grandi masse agricole delle aziende collettive. Quali le condizioni di vita di questo sterminato esercito di lavoratori? La differenziazione delle paghe si presentava terrificante all'inizio della seconda guerra impcrialistica. Il salario di un operaio non qualificato era dalle 20 alle 23 volte inferiore a quello dei dirigenti delle industrie, dei più quotati tecnici delle alte gerarchie burocratiche, statali, militari e del partito. Né i profondi dislivelli vennero colmandosi durante il conflitto. Accadde invece nettamente il contrario.
Tale stato di cose fu sancito informa ufficiale dallo stesso Stalin che nel 1938 affermava:
"II segreto dell'efficienza delle industrie sta in un divario delle ricompense. Le paghe devono essere corrisposte secondo il lavoro fatto e non secondo i bisogni dal lavoratore". Ed ancora: "L'eguaglianza delle remunerazioni si presenta come un indice di reazionarismo borghese e di degenerazione capitalista".
Non è quindi strano che il professor Mitin dell'Accademia di Scienze di Mosca sintetizzi le "teorie" staliniste nella formula "il socialismo è ineguaglianza". Inoltre lo sfruttamento veramente scientifico del lavoro per mezzo dello stakanovismo, delle sanzioni economiche, del cottimo progressivo, dimostravano i reali rapporti di forza fra gli strati sociali che, dopo il 1925, si erano venuti sviluppando in quel paese.
Era naturale che la propaganda bellica della stampa, della radio, del partito riflettesse l'evoluzione dei rapporti sociali esistenti in Russia.
I motivi ideologici del conflitto riecheggiavano, sulla falsa riga delle ideologie borghesi, i concetti di "difesa della Patria", "della santa terra russa". "Le grandi tradizioni gloriose" degli Zar, dei generali, furono propinate come oppio ideologico alle masse operaie. Il "passato imperiale della Patria" venne esaltato per aumentare lo spirito nazionalista del popolo. Furono posti su di uno stesso piano i proletari tedeschi anch'essi vittime della guerra, con i grandi industriali, i banchieri, i politici nazisti. Non è perciò stupefacente che il massimo scrittore russo Ilia Ehremburg lanciasse in quegli anni la terribile parola d'ordine:
"Uccidete senza scrupoli ogni tedesco... non vi sono dei buoni tedeschi tranne quelli già uccisi".
E la "Pravda" di rincalzo:
"Uccidere senza pietà per far scomparire dalla terra fin l'ultimo rappresentante di questo popolo maledetto".
La lotta contro l'invasore fu quindi presentata come lotta razzista, tentando così di risvegliare i sentimenti di odio più profondi ed atavici. Queste furono le bandiere ideologiche di combattimento dello "stato socialista"!
Recentemente si è tentato di giustificare in vari modi tali formule propagandistiche. Vana giustificazione... Durante la rivoluzione e negli anni eroici della guerra civile, agli operai ed ai contadini di Russia furono necessarie, per lottare contro tutti gli stati capitalisti ed i nemici interni, le sole parole d'ordine rivoluzionarie ed internazionaliste. Tutto ciò, dopo una guerra perduta per la non volontà di battersi. La "Pravda" del 1917 non si compiaceva per il massacro dei proletari tedeschi in uniforme, ma così esortava i proletari russi:
"Contadini e operai soldati, basta con la guerra, fraternizzate con i vostri compagni tedeschi al di sopra delle frontiere contro tutte le borghesie".
Ma molta acqua era passata sotto i ponti della Neva dagli anni eroici della rivoluzione: dispersi i marinai di Kronstadt la rossa, disperse le guardie rosse delle officine, perseguitata e dispersa la vecchia guardia leninista, ridotta a macabro burattino impotente l'Internazionale che pur era stata una terribile arma di offesa nelle mani del proletariato. Il sostanziale abbandono del marx-leninismo non fa che sancire una nuova realtà incontrovertibile: la degenerazione della Russia stalinista. I principii leninisti non potevano e non dovevano servire per la lotta di uno stato che di socialista non aveva che il nome.
La guerra all'Est provocò, come era prevedibile, profondi mutamenti politici in tutta Europa.
In Francia l'iniziativa della Resistance, dopo la disfatta del giugno, era stata assunta dal gen. De Gaulle, cui si erano entusiasticamente affiancati i socialsciovinisti. Al movimento gaullista avevano aderito parte dei ceti medi, gli ufficiali e strati borghesi tra i più reazionari e nazionalisti. Il proletariato francese, al contrario, pur tra le mille incertezze, non riponeva alcuna speranza nell'attesa di una sedicente liberazione gaullista, mentre si faceva faticosamente strada la giusta convinzione che solo con la lotta contro tutti gli imperialismi i problemi vitali dei lavoratori sarebbero giunti ad una concreta soluzione.
Lo stesso PCF contribuì in quei mesi in maniera non indifferente alla creazione di una psicosi contraria a De Gaulle. In realtà la funzione del gaullismo era senza dubbio delle più losche ed interessate, presentandosi come il parallelo del governo Pétain-Laval della cosiddetta France Libre. I motivi che dividevano De Gaulle dalla Cagoule (fascismo francese) non vertevano su questioni di programma e di metodo, che la funzione delle due forze politiche era sostanzialmente la medesima. Soltanto le valutazioni circa i mezzi per raggiungere lo scopo si presentavano diverse. Tutto ciò riconobbe lo stesso De Gaulle che a Londra ebbe esplicitamente a dichiarare ad alcuni suoi collaboratori: "La reazione nazionale è un'ottima cosa. Ciò che rimprovero a Pétain è di essersi appoggiato alle baionette tedesche per realizzarla... Quello invece è il mezzo migliore per farla fallire...". La frase, assolutamente autentica, dimostra, se ve ne fosse bisogno, il ruolo reazionario della Resistance e del "grande democratico".
Pedina in mano agli imperialismi di Occidente, becchino del popolo francese, il "generale", nonostante ogni suo sforzo, non era riuscito a mobilitare la classe operaia nella guerra clandestina. Contro di lui lo stalinismo aveva lanciato fin dall'agosto del '40 una violenta campagna.
Due giorni prima dell'attacco tedesco all'URSS l'Humanité, in un articolo di tre colonne, si scagliava con veemenza contro De Gaulle: "Sì sente ripetere che Vichy fa ammazzare francesi per la Germania, ma che aire ài De Gaulle, del servo De Gaulle, che ha condotto al macello migliaia di nostri fratelli per la Gran Bretagna?..." e via di questo passo. Il proletariato per natura diffidente verso le caste militari, non accordò credito al generale emigrato. Furono i colpi di cannone che rimbombarono all'est a favorire la reazione gaullista in Francia, e le caste militari nel Belgio. Complici indispensabili gli stalinisti... naturalmente.
Nel giugno 41 la linea politica "internazionalista" e di "lotta di classe" dei nazionalisti si palesò come una tattica accettata burocraticamente e senza alcuna convinzione. Quarantotto ore dopo l'attacco tedesco all'URSS lo stalinismo francese lanciava, di punto in bianco, le nuove parole d'ordine imposte dall'alto che erano in stridente contraddizione con le precedenti affermazioni: "Viva l'Inghilterra..." ed ancora: "la classe operaia francese trarrà la forza dalle tradizioni gloriose della Patria per la lotta contro il popolo tedesco...". Non era forse l'Inghilterra bollata a fuoco fino a poche settimane prima, come potenza guerrafondaia ed imperialista? Non si predicava sulle colonne dell'Humanité il superamento del concetto di patria? Né questo basta:
"Gli operai e i contadini realizzeranno l'unità nazionale di tutte le forze antifasciste. L'unione di De Gaulle e dei comunisti rappresenta una vitale necessità per la vittoria della Patria".
Il becchino del popolo francese, il militarista De Gaulle fu elevato sugli scudi dai "comunisti" i cui fogli clandestini diedero contemporaneamente fiato alle trombe in onore "delle nazioni democratiche di occidente", dell'America ("culla della libertà"), degli uomini più rappresentativi di quel paese, Roosevelt e Tru-man, dei sistemi di vita sociale esistenti nell'USA ed in Inghilterra. La guerra non era stata classificata dagli stessi nazionalcomunisti come una contesa brigantesca tra imperialismi? La borghesia francese non era stata forse accusata a fondo per il suo sciovinismo?
Di punto in bianco anche questo armamentario ideologico crollò a pezzi. Venne infatti propugnato con tutte le forze un fronte unico mentre si esortava con tutti i mezzi il proletariato acorrere in soccorso di quella borghesia una volta classificata come la "più retriva e reazionaria".
Il 20 giugno del '41 De Gaulle era ancora un traditore, due giorni dopo i redattori dell'Humanité coniavano per lui il titolo di "grande democratico".
Soltanto ora, a distanza di tre anni dalla fine della guerra, lo stalinismo lancia palle di fuoco contro il gaullismo e la cagoulle poiché i due movimenti politici si battono sulle opposte trincee dell'imperialismo internazionale. I proletari coscienti di Francia e del mondo non hanno però dimenticato l'appoggio entusiasta ed incondizionato fornito a De Gaulle durante la guerra e dopo l'armistizio dalle sinistre francesi.
Conseguenza immediata della svolta stalinista fu il rincrudirsi all'estremo della guerra clandestina mentre il "paese del socialismo" (verso il quale la borghesia francese aveva guardato con apprensione via via meno acuta) fu d'un tratto elevato alle stelle perfino dalle forze cattoliche e nazionaliste. Un'orgia propagandistica ingannatrice si abbattè in quegli anni sulla Francia. Si creò una psicosi barricadiera senza precedenti, ci si battè per la democrazia, per la "Patria" e perché no? Per il "socialismo". I pochi screzi che si aprirono nelle file della Resistance furono presto sanati, ed appena ultimato il nuovo schieramento politico la lotta clandestina raggiunse il massimo della violenza.
Su quali basi, con quali intenti si svolgevano le azioni del maquis? Abbiamo fugacemente accennato ai motivi propagandistici dello stalinismo, vogliamo ora far rilevare che in quei mesi perfino le gazzette gaulliste si lasciavano trascinare dall'entusiasmo e dallo spirito dell'embrasson-nous cianciando di nazionalizzazioni e pianificazioni mentre il venerando Populaire (socialista) amava farneticare sugli "Stati Uniti d'Europa" fondati su di un socialismo... "profondamente rinnovato e rinnovatore"!! L'insipienza, l'irrazionalità di tali argomentazioni risultano evidentissime e contribuiscono a svelare il ruolo sostanzialmente anti-operaio della politica di resistance. Il maquis ha trascinato nel fango di una contesa tra stati borghesi il proletariato francese, ed è riuscito non solo a sfruttare gli stessi moti di classe quali armi nel grande macello imperialistico ma, deviandoli dal loro naturale terreno e dal loro reale obiettivo, ha concorso in maniera determinante al consolidamento del regime capitalistico. Questa duplice funzione riservata dalle borghesie occidentali alle forze clandestine fu espletata con convinzione ed ardore; duplice quindi il tradimento perpetrato dalle "estreme" verso la classe. Decine di scioperi, sintomi della vitalità rivoluzionaria delle masse lavoratrici francesi, furono tramutati in vacui e scialbi episodi di "guerra al popolo tedesco" mentre attraverso una propaganda pervertitrice il proletariato si convinse di dover combattere a fondo non per i suoi problemi più urgenti e vitali bensì per il trionfo delle Nazioni Unite. La lotta si sviluppò così su di un piano nazionalistico secondo i desideri e gli interessi della borghesia che vedeva con soddisfazione polarizzarsi il malcontento e l'istinto di classe dei lavoratori verso degli obiettivi non rivoluzionari ed a lei favorevoli.
Così in Francia, in Belgio, in Olanda e nella Scandinavia.
Il ruolo che stalinisti e socialdemocratici giocarono in favore di questa manovra reazionaria fu di primaria importanza poiché in loro riponeva fiducia la classe lavoratrìce e senza di loro il capitalismo non avrebbe potuto irreggimentare il proletariato.
In Jugoslavia i nazionalcomunisti parteciparono alla lotta clandestina subito dopo l'inizio del conflitto russo-tedesco. Recentemente (prima conferenza del Cominform) Kardeliss ha dichiarato che solo difficoltà di organizzazione pratica (e non ragioni di carattere politico internazionale) impedirono l'immediato inizio della guerra partigiana. Pur volendo trascurare la... strana coincidenza della guerra all'Est e dell'insurrezione balcanica, dobbiamo rilevare che non solo in Jugoslavia ma (come abbiamo visto) in tutti i paesi lo stalinismo, fino al giugno del '41, non intraprese azioni offensive di sorta contro la reazione nazista. La lotta si sviluppò cruenta, favorita dalle accidentalità del suolo, dalla proverbiale animosità slava, e dal vivo fermento sociale che regnava nel paese: Tito e il suo stato maggiore nonostante l'opposizione di alcune frazioni di sinistra riuscirono ad imporre la loro linea politica al partito e al Fronte di Liberazione pur vedendosi costretti dall'istinto rivoluzionario delle masse ad usare un linguaggio spesso intransigente ed a promulgare provvedimenti "radicali" rimasti però lettera morta e privi di contenuto.
Tutto questo in Europa. Oltre Atlantico, negli USA, il nazionalcomunismo desiderando provare la sua fedeltà alle Nazioni Unite, giunse perfino a sciogliere volontariamente le sue organizzazioni tramutandosi in una serafica associazione di carattere culturale:
"Noi sciogliamo il partito per un perìodo indefinito, siamo decisi a sostenere con lealtà l'attuale sistema di iniziativa privata (monopolio, capitale finanziario, ecc.) ed a non avanzare proposte che possano minacciare l'unità nazionale. Adopereremo tutta la nostra influenza per la pacificazione tra le classi sociali. Aiutiamo ed aiuteremo a frenare gli impulsi verso movimenti di sciopero tra gli operai; noi sosterremo la repubblica non desiderando un disastro bellico anche se avesse come risultato il socialismo".
Questi i difensori del proletariato americano ed internazionale: gli operai non dovevano in nessun modo conquistare il socialismo!! La borghesia di tutti i paesi poteva con tranquillità, grazie ai sabotatori stalinisti, continuare la guerra e preparare (come infatti è avvenuto) la più bieca reazione dopo il conflitto.
Perfino recentemente Browder, esponente del nazionalcomunismo in America, ha dato alle stampe un volume esaltante la politica collaborazionistica tra Stati Uniti ed Unione Sovietica e di pacificazione di classe.
Se in questi mesi i proletari di Europa e d'America sentono pesare sulle loro schiene il dominio brigantesco degli Stati Uniti, devono ricordare che complici di Wall Street furono quegli stessi stalinisti che oggi timidamente promuovono una... crociata pacifista ed... interclassista (naturalmente) contro il fascismo americano consolidatosi in tutto il mondo grazie al loro prezioso aiuto!!
Mentre in America si celebravano (auspice il nazionalcomunismo) la pacificazione, la collaborazione di classe e "l'unità nelle lotte per la civiltà", gli stessi capitalisti statunitensi rifornirono fino al 1944 Hitler di petrolio e preziose materie prime attraverso la compiacente Spagna fascista. Una volta di più fu così provata la doppiezza degli imperialismi e la vera natura del conflitto scatenato soltanto per i profitti del grande capitale.
Nel luglio '43, con un tratto di penna, la burocrazia sovietica scioglieva la III Internazionale fondata da Lenin per il rovesciamento del capitalismo in tutti i paesi. Si tentò di seppellire sotto il peso dell'Unità nazionale e della "Resistenza partigiana" le aspirazioni rivoluzionarie dei lavoratori di tutto il mondo.
In realtà il Komintern, dopo i primi rovesci seguiti alla morte di Lenin, si era tramutato nell'internazionale della sconfitta e dei tradimenti perpetrati ai danni del proletariato (Germania, Cina, Francia, Spagna). Ma decretandone la morte, la burocrazia stalinista recideva definitivamente anche l'ultimo legame formale che ancora la legava all'Ottobre.
L'Internazionale era morta avvelenata dall'opportunismo; in Italia, in Francia, in America i piccoli gruppi di Sinistra Comunista già lavoravano alla sua rinascita.
Durante gli ultimi mesi del conflitto, quando la vittoria delle democrazie poteva considerarsi acquisita, furono costituiti nei paesi "liberati" i nuovi governi della "Resistenza". Alla borghesia trionfante, una volta superati i contrasti imperialistici, urgeva far fronte con decisione agli eventuali moti rivoluzionari che la situazione di grave crisi sociale lasciava prevedere. Nel 1919 i partiti socialisti, avvelenati dall'opportunismo, tramite la loro azione di governo, si palesarono i difensori più audaci e preziosi del regime economico capitalistico e dello stato. L'esperienza del primo dopoguerra, pur sortendo un esito favorevolissimo, risentì, sotto l'incalzare degli eventi, di improvvisazioni, errori e dissonanze. Nel 1945, al contrario, la tattica della borghesia si presentò generalizzata e profondamente perfezionata. La fine della guerra trovò in piena funzione i governi di coalizione democratica di cui erano "magna pars" stalinisti e socialscio-vinisti. L'impeto delle masse fu deviato dai suoi naturali obiettivi attraverso una illusoria girandola di parole d'ordine prive di senso e di contenuto, mentre i "compagni ministri" in Italia, in Francia, in Belgio... tramite i dicasteri degli interni rinforzavano alacremente le forze armate e la polizia, reprimendo con la violenza le dimostrazioni del proletariato. In nome della "ricostruzione nazionale" e della "unità" furono boicottati con tutti i mezzi (legali ed extralegali) scioperi giganteschi.
Le masse, fuorviate da una falsa propaganda, illuse dalle schiaccianti vittorie elettorali delle "sinistre", fiduciose nel mito velenoso dello "stato socialista", permisero il rinsaldamento dei pilastri difensivi del capitalismo ed il parziale rafforzamento del suo apparato produttivo. In pieno conflitto la classe si era battuta su un terreno di sostanziale difesa della borghesia, ad armistizio concluso aveva continuato a lavorare per la ricostruzione economica e politica della società borghese. Apostoli ferventi di queste sconfitte, che incideranno profondamente sul corso storico dei prossimi anni, furono i Thorez e i Togliatti, difensori ad oltranza dell'"unità di tutte le forze di ogni fede religiosa e politica per la rinascita della Patria...".
La loro politica riformista e di graduale progresso corrispose pienamente alle reali esigenze del capitalismo, che in determinati periodi critici si vede costretto ad usare una tattica elastica di conciliazione e di concessioni parziali per avere il tempo di ricostruire (tramite i servi sciocchi delle sinistre) i suoi mezzi offensivi di coercizione.
La guerra è il fenomeno più terribile, la tara più spaventosa della società borghese; essa si presenta come il nemico irriducibile del debole e dell'indeciso, come il distruttore implacabile di stati e di imperi di lunga tradizione e di partiti, organizzazioni operaie e sindacati. Le crisi armate degli ultimi trenta anni hanno infatti provocato la morte di due internazionali.
In realtà il capitalismo genera il conflitto bellico quando si vede impossibilitato a resistere alla pressione di classe con i mezzi difensivi normalmente a disposizione. È quindi comprensibile che uno degli obiettivi di ogni contesa militare sia la polverizzazione degli organismi internazionali e nazionali di lotta del proletariato o (quanto meno) il loro pervertimento per scopi controrivoluzionari.
Soltanto una forza politica proletaria animata da una incrollabile volontà di lotta, guidata da una realistica impostazione tattica non disgiunta da una ferrea intransigenza è nelle condizioni di superare le temibili tempeste militari senza venir meno ai suoi postulati ed al suo carattere rivoluzionario. La frazione bolscevico-leninista del 1915 ce ne fornisce l'esempio classico. Non così possiamo dire della IV Internazionale trotskista.
In Francia, dopo l'occupazione nazista il primo giornale stampato alla macchia fu l'organo dei trotskisti: La Verité. Nei primi mesi della lotta, fino al giugno del 1941, il trotskysmo pur abusando di parole d'ordine illusùrie (fronte unico con lo stalinismo quando erano note le collusioni del PCF con l'occupante nazista; il governo operaio e contadino, formula trapiantata meccanicamente dal particolare ambiente sociale russo del primo 900 in un paese di grande sviluppo capitalistico e in piena contesa militare) si battè decisamente contro le deportazioni in massa degli operai francesi, ponendosi alla testa degli scioperi economici che scoppiavano continuamente nel paese. Contro l'atteggiamento collaborazionista e filotedesco dello stalinismo, La Verité rivendicò il carattere internazionalista e rivoluzionario del proletariato spiegando agli operai il loro compito di lotta classista contro tutti gli imperialismi. Ma le tare opportunistiche della IV Internazionale non tardarono però a palesarsi. La natura intermedista, confusa, indecisa della linea politica trotskista, se si presenta deleteria nei periodi di stasi sociale assume caratteri di tragico opportunismo in fasi critiche o di conflitto bellico. Il 21 giugno 1941 (attacco tedesco all'URSS) mentre si verificava un profondo rovesciamento delle posizioni staliniste, la IV Internazionale, prendendo le mosse da una errata e superficiale analisi dello Stato Russo, scivolò senza rimedio sul piano inclinato del difesismo e di una sostanziale collaborazione.
Di fronte alla nuova deviazione nazionalcomunista sorgeva la necessità di lanciare una parola d'ordine chiarificatrice alla classe operaia, adoperandosi con tutti i mezzi contro la manovra borghese tendente a trascinare il proletariato nel conflitto. La stampa trotzkysta invece esortò alla "difesa incondizionata dell'URSS" sostituendo al disfattismo rivoluzionario le nuove formule di appoggio allo stato operaio (sia pur degenerato) ed ai pretesi caratteri "socialisti" (sic!) dell'Economia russa. Mentre nei primi mesi della guerra numerose furono le esortazioni ai proletari di Inghilterra e degli USA di sabotare la produzione bellica e di scioperare contro il padronato, dopo il giugno 41 la propaganda trotzkysta spinse gli operai di quei paesi ad intensificare la produzione fino alle estreme possibilità. "Armi per l'esercito Rosso"! così esortava La Verité, in questo caso opportunista e difesista.
Non neghiamo però che gli accenti propagandistici della IV Internazionale divergessero talvolta profondamente dalla propaganda guerrafondaia dell'Humanité. Mai i fogli trotskisti eccitarono il proletariato francese all'odio contro il popolo tedesco, si iniziò anzi attraverso sforzi pericolosi, spesso pagati a caro prezzo, un lavoro di fraternizzazione con soldati e marinai germanici. Vedremo così il trotskismo assumere via via atteggiamenti contraddittori nonostante l'onestà rivoluzionaria dei suoi militanti; La Verité esorta la classe operaia a partecipare alla guerra borghese pur non risparmiando critiche a tutti gli imperialismi; il trotskismo difende con "tutti i mezzi" (anche borghesi) lo stato russo pur ponendo spesso l'accento sulla necessità di una politica rivoluzionaria ed esortando gli operai a difendere i propri interessi e non quelli della borghesia. La IV Internazionale continuò per anni questa altalena, indecisa se inquadrarsi nelle maglie difensive del capitalismo o se riprendere la bandiera della lotta contro di esso. Tale nebulosità, aggravata dalla morte di Trotsky, tramutò la IV Internazionale nella retroguardia di un esercito arresosi a discrezione di fronte al nemico.
Sul trotskismo incombe il pericolo di tramutarsi nell'ala sinistra della socialdemocrazia e dello stalinismo. Solo una crisi ideologica profonda, un rinnovamento dell'armamentario tattico ed una rivalutazione dei metodi organizzativi potrebbero salvare davanti al tribunale della storia la IV Internazionale dal fallimento: ma ciò significherebbe sfasciarsi come organismo consolidato e rinascere su basi integralmente diverse. Il che può essere un sogno, ma non può essere la realtà.
Se la degenerazione dello Stato Russo ha influito in maniera determinante sulla sconfitta ideologica e politica del proletariato, non dobbiamo però dimenticare un altro principale fattore della crisi: il fascismo.
Il movimento fascista ha non solo battuto in breccia più e più volte l'apparato politico difensivo e di offesa della classe, ma ne ha di riflesso sgominato spesso e disorientato sempre i cardini ideologici. Gli stessi partiti comunisti della III Internazionale furono costretti fin dal 1922 a subire i rudi colpi della reazione fascista e si dimostrarono disorientati ed indecisi nell'analisi interpretativa di questa nuova forza politica e nella ricerca di appropriati mezzi tattici di combattimento. Anche in Italia forti correnti del partito non riuscirono a comprendere pienamente il ruolo e la natura del movimento fascista, e causa l'impostazione analitica inesatta, operarono sul piano tattico attraverso una politica di fronti unici con quegli stessi movimenti che avevano rappresentato l'involucro migliore nel quale il fascismo era sorto e si era sviluppato, e dal quale aveva tratto forza, vigore ed appoggio per la scalata al potere. L'impostazione aclassista dell'Aventino portò il Partito Comunista sullo stesso piano dei partiti politici borghesi falsamente antifascisti che "credevano" (?) di poter risolvere la crisi reazionaria non mobilitando il proletariato attraverso scioperi e sommovimenti, bensì con l'intervento della Corona, della stampa e del... Parlamento. L'esito disastroso della lotta diede ragione all'analisi della Sinistra Italiana che dimostrava come il fascismo, lungi dall'imporre alla classe un ritorno alle forme di lotta per le "libertà democratiche", rappresentasse in realtà un superamento storico della democrazia, sicché la guerra a fondo contro di esso avrebbe dovuto assumere aspetti sempre più rivoluzionari ed intransigenti. Il Congresso di Lione del '26, l'uscita della Sinistra Comunista italiana dal Partito costituitasi autonomamente a Pantin, furono i risultati di un lungo travaglio ideologico durante il quale vennero profondamente sviscerati i problemi più scottanti che la dinamica politica porgeva alla critica conseguente dei marxisti. Il ruolo dello Stato Russo, il fascismo ed i suoi rapporti con la democrazia, la crisi della III Internazionale, la negazione dei principi tattici errati, la riaffermazione critica degli schemi organizzativi, furono altrettanti problemi affrontati con decisione ed in parte risolti, dalla sinistra italiana in Francia.
Lo scoppio della II guerra mondiale pur travolgendo, come era prevedibile, la leggera ossatura organizzativa della frazione, non potè impedire che i germi ideologici di essa, favoriti dalla crisi bellica, si sviluppassero non solo in Francia e in Belgio ed altrove, ma anche nel nostro paese dove la situazione precipitava militarmente e socialmente. Nel 1942 infatti, la sinistra comunista in Italia, pur sotto il peso dei rudi colpi inferti dal fascismo, iniziò la sua nuova attività politica tra le continue persecuzioni della polizia e della milizia.
Esiste in Italia una storiografia "ufficiale" sugli eventi che condussero alla caduta del fascismo ed alla "guerra di liberazione", storiografia di valore assi dubbio, notevolmente lacunosa e superficiale, apologetica nelle conclusioni. In realtà le più appariscenti soprastrutture del vecchio stato crollarono non per l'attività del generico "antifascismo democratico", ma per i rudi colpi ricevuti in campo militare, e sotto il pericolo di un violento accentuarsi della pressione di classe i cui prodromi significativi furono gli scioperi scoppiati nel Nord d'Italia nel marzo del '43. La borghesia italiana, avventuratasi imprudentemente in un conflitto intercontinentale di gigantesche proporzioni, vistasi militarmente perduta, timorosa di un vigoroso risveglio della lotta di classe, fu costretta ad abbandonare la camicia nera ormai lacera ed inservibile per un estremo tentativo di salvezza. Con l'armistizio del '43 grazie ad un rapido e "machiavellico" voltafaccia, il nostro capitalismo operava l'ultimo tentativo di salvaguardare (almeno in parte) i suoi interessi sul piano delle contese tra stati borghesi, schierandosi in cobelligeranza col blocco dei vincitori. Né questo basta. I circoli capitalistici e finanziari italiani compresero perfettamente che soltanto spalleggiati e protetti dagli imperialismi trionfanti avrebbero potuto rapidamente resistere agli eventuali moti rivoluzionari, sia con la forza, sia polarizzando il malcontento della classe verso l'occupante tedesco e le residue organizzazioni fasciste e promuovendo una sedicente guerra di liberazione, durante la quale fu per essi assai facile rifarsi una verginità "democratica" dopo il più che ventennale connubio con i totalitarismi.
Il proletariato, cui difettava una coscienza politicamente avvertita, non comprese la manovra borghese e l'intrigo che il capitalismo ordiva ai suoi danni gettandolo nella lotta per la "liberazione". Il partigianesimo proletario deve essere considerato come il tentativo istintivo e confuso dei lavoratori di tornare sul terreno di una conseguente lotta di classe attraverso una manifestazione di forze rivoluzionarie tendenti a schiacciare il nemico borghese.
Tali conati generosi, dettati anche dalle precarie condizioni di vita della classe, non erano il risultato di una approfondita e realistica analisi della situazione storica nazionale ed internazionale, analisi che condussero a termine solo sparuti gruppi marxisti rivoluzionari distaccati generalmente dalle grandi masse causa la profonda crisi politica della III Internazionale e la stagnante situazione reazionaria che solo allora andava lentissimamente evolvendosi. Il partigianesimo fu cosi sfruttato e potenziato dalla classe dominante "offrendo ai lavoratori un motivo plausibile per dimenticare nell'ubriacatura dell'Unione sacra la via maestra della conquista del potere, per fraternizzare con il nemico di classe, per spianare le strade alla ricostruzione di un nuovo stato borghese e per la vittoria di un imperialismo sull'altro". Nonostante le sue manovre e gli sforzi propagandistici, il capitalismo non avrebbe avuto la possibilità di salvarsi e consolidarsi se gli fosse mancato l'appoggio entusiasta ed incondizionato dei partiti dell'opportunismo e del tradimento.
Nel Sud i primi nuclei comunisti che venivano sorgendo dopo il luglio e il settembre, si muovevano, seppur confusamente, su di un terreno di istintiva intransigenza e di lotta a fondo contro le vecchie classi dirigenti. Fu solo l'arrivo da Mosca dei santoni dello stalinismo e il rafforzamento burocratico dell'"apparato", che compressero dapprima ed affogarono poi definitivamente nel mare magnum della "tattica", i tentativi non conformisti della base. La grande influenza politica giuocata in quel periodo dalle "sinistre democratiche" era conforme ai reali interessi della borghesia che poteva essere difesa solo da quei partiti cui il proletariato concedeva piena fiducia.
Il nazionalcomunismo, infatti impose alle masse agricole del Sud ed agli operai del Nord di subordinare ogni loro esigenza e necessità alla lotta armata, fianco fianco con il fascismo americano. Al congresso di Bari dei partiti antifascisti, stalinisti e socialdemocratici promossero la costituzione in tutta Italia dei CNL, organi della collaborazione di classe con gli esponenti e gli strati più retrivi del cattolicesimo, del radicalismo e del decrepito liberalismo. Crediamo inutile il ricordare atteggiamenti, parole d'ordine, dichiarazioni degli esponenti dei partiti "operai" in quel periodo tutte informate allo spirito dell'embrasson-nuos. "Noi combattiamo concordemente alla destra cristiana, organizzazione democratica dei ceti progressivi cattolici e con le gloriose forze del liberalismo che hanno creato l'Italia" - Togliatti. "Vi sono dei buoni monarchici, insieme a loro potremo fare molta strada" - Togliatti. "Il governo costituitosi a Roma ringrazia per l'appoggio prezioso le grandi democrazie americana e inglese" - Togliatti.
Subito dopo l'armistizio, la monarchia dei Savoia, squalificata agli occhi dell'occupante e del popolo italiano non avrebbe in nessun modo avuto la possibilità di rimanere come forma istituzionale ai vertici dello stato. Nessuna organizzazione politica borghese avrebbe potuto osare di collaborare con essa, fu solo l'atteggiamento collaborazionista delle sfere dirigenti del PCI che salvaguardò per due anni la Corona. "Nessuna pregiudiziale di monarchia o repubblica; il nostro compito è uno: l'unità degli italiani" (L'Unità).
Se il nazionalcomunismo, e per esso Togliatti, si fosse guardato dall'assumere tali posizioni, la questione istituzionale non sarebbe mai sorta e la monarchia avrebbe cessato automaticamente di esistere. Tutto ciò, a ben guardare, non rispondeva però alle mire strategiche del capitalismo che una volta cessato il conflitto, potè convogliare passioni e coscienze proletarie nella lotta per la forma istituzionale dello stato, guadagnando del tempo prezioso per il rafforzamento dei suoi mezzi oppressivi, ed aggiogando alla difesa della nuova repubblica (graziosamente elargita) le masse popolari tramite la colossale mistificazione elettorale del 2 giugno. Promotori di tale manovra lo stalinismo e la socialdemocrazia.
All'inquadramento politico controrivoluzionario doveva di necessità seguire quello sindacale. Nell'attuale fase estrema dell'imperialismo i sindacati vengono di necessità spinti nell'apparato difensivo della società borghese, quali preziosi ed indispensabili strumenti atti a salvaguardare gli interessi delle classi dominanti; fianco a fianco con la magistratura, il clero, la polizia.
Il patto di Roma sancì l'unità sindacale in nome della guerra e della ricostruzione nazionale. A questi principi obbedirono ed obbediscono gli organismi sindacali. Chi non ricorda la politica dell'aumento ad ogni costo della produzione e le ciancie unitarie in nome della ricostruzione della patria? Tutto ciò diede adito ai tradizionali partiti della destra borghese di rinforzarsi in attesa di riprendere il ruolo di guida dell'apparato statale.
La mobilitazione bellica dell'Italia centro-meridionale fu condotta a termine grazie ad una propaganda senza precedenti, sfruttando motivi nazionalistici della più frusta retorica risorgimentale, propinando al proletariato una serie di parole d'ordine mussolinistiche. "Costituente, riforma industriale ed agraria" gracidavano i megafoni dell'antifascismo democratico... "Repubblica sociale, socializzazione, difesa della Patria..." rispondevano dal Nord gli ultimi macabri fantocci in camicia nera... Gli uni e gli altri si battevano in nome degli stessi principii formali e per il medesimo obiettivo sostanziale: trascinare nella loro guerra le masse operaie per dissanguarle e pervenire i moti spontanei di lotta classista.
Al gioco borghese si prestarono (occorre dirlo?) perfino... i terribili campioni del... rivoluzionarismo più "intransigente": gli anarchici. Il carattere non storicistico ma volgarmente volontaristico della loro dottrina, la particolare forma mentis passionale, confusa, spesso illogica, la superficialità delle loro analisi, portarono questi "ribelli"... cavalieri dell'ideale, nelle file del CNL fianco a fianco (o fulmini di Bakunin !) con preti, mazziniani e borghesi. Le candide menti degli anarchici non furono minimamente sfiorate dal dubbio che la guerra che essi combattevano rientrasse nel novero delle contese imperialistiche, aderendo al CNL i "più radicali negatoti di ogni forma di governo" non sospettarono minimamente di dare il loro appoggio ai nuovi organismi dello stato borghese che essi "abbattono definitivamente"... in teoria, e consolidano in pratica con tutti i mezzi, esclusa la confusione delle loro povere menti in piena... "anarchia" intellettuale e la loro prassi di astratta negazione.
Una triste nemesi storica ha voluto che il primo e l'ultimo atto della tragedia bellica (Spagna ed Italia) vedessero gli anarchici scendere a patti (ministri, liberatori, CLN) con il capitalismo, contribuendo a rendere veramente totalitaria la sconfitta della classe operaia.
Nel novembre 1943, all'indomani delle tragiche giornate dell'armistizio, la sinistra italiana costituitasi in partito, lanciava al proletariato le parole d'ordine della ricostruzione dei suoi tradizionali organismi di lotta ed in primo luogo del Partito rivoluzionario. La guerra che tra le sue rovine travolgeva gli spiriti e le coscienze dei proletari confondendole e pervertendole, trovò nel partito il nemico più implacabile e deciso.
"Alla guerra imperialista il partito deve opporre la ferma volontà di raggiungere i suoi obiettivi storici". I comunisti internazionalisti furono i soli a combattere la rude difficile battaglia di classe contro il fascismo tramutatosi in "nazionalsocialista" e contro i sei partiti della coalizione democratica. Di pari passo con la lotta contro la guerra, procedeva il lavoro di chiarificazione ideologica tra le masse operaie.
Il problema russo, l'essenza e le forme della guerra imperialistica, la natura degli organismi di massa, furono altrettanti problemi dibattuti e divulgati dai fogli clandestini del Partito. Né poteva essere altrimenti. Ogni movimento politico che vuole reagire in senso antiformista all'opportunismo ed al tradimento, deve necessariamente sottoporre ad una profonda rivalutazione ed affermazione i principii teorici pervertiti e smussati dal riformismo scoprendo è denunciando nello stesso tempo le ragioni politiche e sociali che determinarono l'abbandono o il fraintendimento dei cardini rivoluzionari della teoria. Negli anni della prima guerra mondiale, tale compito fu assunto dalla frazione bolscevica di cui ci rimangono, patrimonio preziosissimo, gli scritti sull'imperialismo di monopolio, sullo "Stato e la Rivoluzione", sulla necessità per i marxisti di procedere "contro corrente" cioè contro l'Unione sacra e lo sciovinismo:
"La difesa della collaborazione fra le class, la rinuncia alle idee della rivoluzione socialista ed ai metodi rivoluzionari, l'adattamento al nazionalismo borghese, il feticismo della legalità, l'abdicazione dal punto di vista di classe per paura di inimicarsi la massa della popolazione (leggi piccola borghesia), queste sono incontestabilmente le basi dell'opportunismo. La guerra ha dimostrato che nei momenti di crisi, un'imponente massa di opportunisti passa al nemico, tradisce il socialismo, manda in rovina la classe operaia... Gli opportunisti comodamente installati nel partito operaio, sono dei nemici borghesi della rivoluzione proletaria che in tempo di pace compiono nell'ombra la loro opera di penetrazione e in tempo di guerra si rivelano alleati della classe capitalista e del blocco borghese, dei conservatori, dei radicali, degli atei, dei clericali. Chi non capisce questo dopo gli avvenimenti che vìviamo, s'inganna e inganna gli operai" (Lenin).
Questi principi condussero alla vittoria dell'Ottobre ed alla nascita della III Internazionale. Gli stessi principii, a trenta anni di distanza, riprese il PCInt., nella lotta a fondo contro le nuove deviazioni. Senza pietà e con decisione il Prometeo clandestino affrontò il problema russo e forte di vecchie e recenti esperienze, denunciò alla classe operaia italiana il fallimento e la politica impcrialistica dell'Unione Sovietica pur rivendicando il valore storico formidabile di quella esperienza, e facendo propri i vitali insegnamenti della rivoluzione del '17:
"La Russia che amiamo e difendiamo sul piano delle conquiste rivoluzionane è quella del proletariato e del contadiname povero che sotto la guida di Lenin, hanno osato spezzare l'impalcatura della feudalità politica e del capitalismo e porre la propria dittatura di classe, esperienza transitoria del potere proletario sullo stato, la cui meta avrebbe dovuto essere la distruzione dello stesso stato e della stessa classe. La Russia che amiamo e difendiamo è quella che ha dato al suo proletariato e a quello internazionale la coscienza della sua forza e del suo ruolo rivoluzionario, la dimostrazione organica del nuovo mondo del lavoro che nel Soviet ha il fulcro creativo. Non è questa la Russia cara al cuore di tutto il radicalismo internazionale ma è la Russia della nostra battaglia antiborghese, della nostra immutata passione rivoluzionaria" (Prometeo clandestino n. 2)
I nostri fogli clandestini posero anche l'accento sulla necessità della edificazione della nuova internazionale, pur premettendo che essa non sarebbe di certo sorta per volontà di singoli o per virtù magiche, ma sarebbe scaturita dall'accumulazione di nuove esperienze negli strati più coscienti della classe operaia, dal ritorno alla lotta di classe, da un processo di chiarificazione ideologica. Fu anche smascherata, di contro alle superficiali analisi dello stalinismo, l'essenza intima del fascismo e della democrazia rilevandone le sostanziali collusioni, e ponendo in chiaro che il fascismo, come realtà storica, deve essere combattuto in blocco dalle sue basi sociali alle sue soprastrutture politiche. II capitalismo, causa il suo evolversi verso forme statali totalitarie in economia, abbandona sul terreno politico i principii "democratici" dell'800 ed assume un contenuto sèmpre più apertamente fascista. È solo combattendo la società borghese nei suoi gangli economici che ci si potrà difendere innanzi tutto contro il capitale che al fascismo ha dato anima e corpo, gli ha trasfuso tutto l'odio che la paura folle della perdita del privilegio può ispirare e gli ha armato la mano per farne l'esecutore cieco, bestiale delle sue vendette...
Non al solo campo ideologico si limitò il lavoro del Partito nei duri anni della clandestinità. Contro il partigianesimo barricadero e piccolo-borghese che convogliava verso le montagne centinaia di giovani operai, i comunisti internazionalisti affermarono la necessità che il proletariato combattesse nelle fabbriche la sua battaglia contro il nemico capitalistico. Gli scioperi che punteggiarono quel travagliato periodo storico videro il Partito attivissimo nelle officine di Torino, di Milano, dell'Italia settentrionale, nel guidare il movimento e nel ricordare agli operai che i loro problemi economici potevano essere radicalmente risolti solo imperniando la lotta sul terreno politico in antitesi con l'imperialismo e la guerra per la rivoluzione:
"I capitalisti ed il governo fascista, responsabili del conflitto, sono incapaci di risolvere la crisi economica della nazione, di sfamare gli operai e le loro famiglie costringendoli ancora a fabbricare cannoni. Operai, solo unendovi contro la guerra, contra il capitale, contro gli sfruttatori, solo spostando la vostra azione dal terreno economico a quello politico riuscirete a spezzare le catene che ancora vi imprigionano...".
Queste parole d'ordine furono divulgate con tutti i mezzi anche tra i raggruppamenti partigiani, nonostante le difficoltà obiettive. Il Partito, esile organizzativamente, fu costretto a muoversi tra mille difficoltà combattendo con coraggio ma con mezzi scarsi i due blocchi politici:
"Contro il fascismo che vuole la continuazione della guerra tedesca e contro il Fronte Unico dei sei partiti, che sono per il macello democratico, gli operai si organizzino sul posto di lavoro in un fronte unico proletario per difendere i loro stessi interessi e per la lotta decisiva contro la guerra".
La nuova parola d'ordine smentiva categoricamente le accuse di settarismo e di astratta intransigenza lanciata da molte parti all'indirizzo politico del PCInt. I comunisti internazionalisti erano per il fronte unico che non partisse dai vertici, che non fosse concordato tra gli esecutivi dei partiti in nome della guerra; i comunisti internazionalisti erano per il fronte unico nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, erano per un vasto moto spontaneo che, ponendo in secondo piano alcune marginali divergenze interpretative, convogliasse operai e contadini "di tutte le correnti politiche e senza partito" contro i due fronti borghesi, contro la "teoria" del male minore, contro l'arbitrarismo barricadero, per legare le agitazioni economiche alle guerre di classe. Su tali basi gli operai avrebbero dovuto organizzarsi sul posto di lavoro per aumentare e centuplicare le forze destinate a battersi sulle barricate di classe contro la guerra, La parola d'ordine, causa la propaganda bellicista che aveva intossicato gli ambienti operai, non ottenne che scarsi risultati anche perché il Partito la lasciò cadere e non si battè disperatamente e con tenacia per essa, in nome di una valutazione rigidamente deterministica del momento politico.
Durante le giornate di aprile i comunisti internazionalisti furono fatti segno ai colpi della nuova reazione del CNL, reazione che non sfaldò minimamente il partito, rafforzando anzi la volontà di lotta dei suoi militanti. La fine della guerra permise il ricongiungimento del Partito con i gruppi delle Frazioni di sinistra dei comunisti e socialisti che, nel Sud si muovevano su di un piano sostanzialmente identico. Con la "pace" si iniziava un altro periodo della storia del movimento operaio, periodo non ancora concluso e che tutti noi comunisti viviamo intensamente.
Con i nostri articoli abbiamo voluto sottoporre all'attenzione dei proletari le peripezie del movimento operaio durante la Seconda Guerra Mondiale. A distanza di tre anni dalla fine del conflitto il pericolo della guerra torna ad incombere. La lotta politica in Italia non è che il riflesso della contesa dei blocchi d'Oriente e d'Occidente che sfocerà prima o poi in un nuovo conflitto. Noi siamo però fermamente convinti che la classe, forte delle recenti esperienze stori-che, non si lascerà ingannare nuovamente e pecorilmente. Oggi come quattro anni or sono noi comunisti gridiamo agli operai:
"Sabotate e disertate la guerra: sabotatela e disertatela sotto qualunque maschera vi si presenti".
Contro i fronti popolari o nazionali, contro i fronti borghesi di destra e di sinistra gli operai hanno una sola arma di lotta: il fronte rivoluzionario nelle officine e nei campi contro la guerra, sotto la guida del partito di classe.
Da "Battaglia Comunista", nn. 28, 29, 31 e 32 del 1947 e nn. 2, 5 e 11 del 1948