Dialogato coi morti (1)
Il XX Congresso del Partito Comunista Russo

 

Viatico per i lettori

Una chiara comprensione del presente lavoro comporta (quasi necessariamente) la conoscenza del «Dialogato con Stalin», stampato nel 1953 a cura dello stesso movimento, da cui l'attuale pubblicazione deriva.

Nelle pagine con cui questo scritto si apre è detto abbastanza sul collegamento cronologico e sulla natura tutta speciale del «contraddittorio» che qui seguita a svolgersi.

Colla premessa del 1953 al «Dialogato con Stalin» davamo chiara ragione di tre tempi di quell'antico e profondo contrasto.

Nel primo tempo, che andò dal 1918 al 1926, può dirsi che trattavasi di una divergenza sulla tattica, nel seno di un movimento che tendeva allo stesso comune fine, della Terza Internazionale Comunista, fondata sulle rovine della Seconda caduta nell'opportunismo social-patriottico, e nella scia della Rivoluzione russa di Ottobre 1917. L'ala sinistra del socialismo italiano, da cui noi deriviamo, nella guerra e nel dopoguerra lottò, dal 1914, per rompere con ogni versione democratica e pacifista del socialismo, e coronò la sua lotta con la fondazione a Livorno nel gennaio 1921 del Partito Comunista d'Italia. Nel seno del movimento internazionale questa corrente sostenne tesi che divergevano da quelle dell'Internazionale Comunista e dello stesso Lenin, quanto alla tattica parlamentare e a quella tendente a debellare i partiti operai opportunisti, negando che a ciò fossero validi i metodi detti allora del fronte unico, e peggio del governo operaio.

Questo bagaglio di contributi, che contenevano una esplicita denunzia contro pericoli di degenerazione, ebbe per tappe i congressi di Mosca dal 1920 al 1926 e congressi del partito italiano a Roma nel 1922 e a Lione nel 1926

Nel secondo tempo, dopo il 1926, la dirigenza si svolse fino alla separazione organizzativa e politica, in cui la posizione di sinistra fu ovunque battuta fieramente, mentre le sue previsioni di rivoluzione della maggioranza dominante in Russia Europa ed Italia trovavano gravi conferme. In Russia vinceva la falsa teoria della costruzione della società socialista russa senza e al di fuori della rivoluzione proletaria internazionale, e l'opposizione che su questo e altri punti restava fedele alle tradizioni bolsceviche e di Lenin soccombeva, diffamata e sterminata. In Europa il rinvio dell'ondata rivoluzionaria e il consolidarsi insolente del capitalismo avevano come risposta disfattista e imbelle il passaggio dei comunisti nelle file di blocchi con partiti e classi non proletarie, col fine non del rovesciamento della borghesia, ma della salvezza della borghese democrazia liberale.

Nel terzo tempo, colla seconda guerra mondiale, fu chiaro che il dissenso si era allargato ad abisso incolmabile di dottrine e di principii, col totale rinnegamento da parte del Kremlino e delle sue aggregazioni estere del marxismo rivoluzionario, nei capisaldi difesi e rivendicati dopo la prima guerra da quelli che lottavano come Lenin e con Lenin. Furono gettati i partiti esteri nella collaborazione social-nazionale, nella prima fase in Germania, nella seconda in Francia, Inghilterra ed America. La consegna di Lenin per il disfattismo entro ogni paese imperialista belligerante e l'abbattimento del potere militare e civile dei capitalisti, si tradusse in una lega con gli Stati che erano bellicamente alleati di Mosca, mentre contro gli Stati a lei nemici si lottava non per distruggervi la borghesia, ma per ripristinare le sue forme liberati, uccise nella teoria da Marx e da Lenin, schiacciate per sempre materialmente nell'interno della Russia, sia rivoluzionaria, che imperiale.

Questo tempo segnò la liquidazione organizzativa e teoretica dell'Internazionale di Lenin e di Ottobre: si videro tratti i corollari del totale passaggio alla controrivoluzione. In poco numero, ma con un bagaglio possente di continuità storica e dottrinale, proclamammo, fuori dal clamore che circondava in una falsa ebbrezza di folle i seguaci di quello che allora si chiamò da tutti i lati lo stalinismo, che avevamo da molti anni di fronte non più uno smarrito dissidente da se stesso di ieri e da noi marxisti di sempre, ma un aperto giurato nemico mortale della classe operaia e del suo storico cammino al comunismo. E nello stesso tempo si levava palese la prova della natura capitalistica della società economica, in Russia instaurata, e l'infamia centrale di vantarla nel mondo come società socialista; nel che, di tanti e così clamorosi tradimenti ravvisiamo il vertice supremo, il capolavoro di controrivoluzionaria infamia.

* * *

Nel «Dialogato con Stalin» ci eravamo proposti di tracciare i «tempi» futuri di questo dibattito storico - che chiamiamo tale, per quanto ad una delle parti in contesa manchino del tutto illustri credenziali - e prevedemmo la futura confessione in cui due legami saranno dichiarati rotti: tra la struttura produttiva russa ed il socialismo; tra la politica dello Stato russo e quella della lotta di classe dei lavoratori di tutti gli Stati contro la forma capitalista mondiale.

Dopo tre anni, il XX congresso del Partito Comunista della Unione Sovietica, se non ci ha dato il termine di questa storica tappa futura, ha tuttavia rappresentato un balzo enorme, e forse più vicino di quanto attendevamo. Poiché tuttavia le scandalose ammissioni, che fanno chiasso mondiale per il distacco dal morto Stalin, sono ancora incastonate nella pretesa di parlare la lingua di Marx e di Lenin, il Dialogo col contraddittore-fantasma deve proseguire: la totale Confessione, che verrà un giorno, non sappiamo se in un altro solo triennio, dal Kremlino, lo ridurrà al loro monologo. Vanamente avevano tanto sperato essi con le Confessioni che strappavano torturando i rivoluzionari. I Confessori confesseranno.

La posizione che oggi prendiamo, dinanzi allo strazio esagerato fino all'oscenità dell'idolo di tre anni addietro, e che è tutt'altro che di plauso agli iconoclasti, è coerente a quanto allora stabilimmo, ben prevedendo che sul corso della terrificante inabissata si sarebbe levato il grido ghignante del mondo borghese contro le grandiose concezioni della nostra dottrina rivoluzionaria. Scrivemmo quanto segue:

«I metodi di repressione, di stritolamento, che lo stalinismo applica a chi da ogni parte gli resiste, trovando ampia spiegazione in tutta la critica ora ricordata del suo sviluppo, non devono dare appiglio alcuno ad ogni tipo di condanna, che menomamente arieggi il pentimento rispetto alle nostre classiche tesi sulla Violenza, la Dittatura ed il Terrore, come armi storiche di proclamato impiego: pentimento che lontanamente sia il primo passo verso l'ipocrita propaganda delle correnti del 'mondo libero' e la loro mentita rivendicazione di tolleranza e di sacro rispetto alla persona umana. I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe politica, sociale e bellica della signoria americana sul mondo capitalistico. Nulla quindi abbiamo a che fare colla richiesta di metodi più liberali o democratici, ostentata da gruppi politici ultra-equivoci, e proclamati da Stati che nella realtà ebbero le più feroci origini, come quello di Tito».

Già da queste chiare parole, come da tutta la nostra costruzione, tanto più compatta e non confondibile con altra, quanto meno recitata davanti a camere fono-televisive da figure da farsa, risultò allora quale accoglienza dovevano da parte nostra avere le pietose contorsioni del XX congresso, e la commedia della abiura da Stalin, mostrata come un ritorno ai classici della nostra grande Scuola; mentre è una tappa della marcia all'indietro verso le superstizioni più fallaci dell'ideologia borghese, una vile genuflessione alle super potenze del contemporaneo lupanare capitalistico.

* * *

Abbiamo premesso in copertina la breve epigrafe che, insieme a questo scorcio della nostra origine storica, salva il nostro piccolo gruppo da indesiderate deplorevoli confusioni.

Aggiungiamo un'altra discriminante. È certo che ogni passo della inabissata, di cui sopra, degli uomini del Kremlino nelle sabbie mobili della controrivoluzione borghese, avvicina il duro, aspro traguardo della ricostituzione del partito rivoluzionario, cui tutto dedichiamo delle nostre possibilità, meno che una bolsa impazienza.

Quando l'ora sarà dalla storia segnata, la formazione dell'organo di classe non avverrà in una risibile costituente di gruppetti e di cenacoli che si dissero e dicono antistalinisti o che oggi si dicano bene o male «anti-ventesimo congresso».

Il Partito, ucciso goccia a goccia da trent'anni di avversa bufera, non si ricompone come i cocktails della drogatura borghese. Un tale risultato, un tale supremo evento, non può che essere posto alla fine di un'ininterrotta unica linea, non segnata dal pensiero di un uomo o di una schiera di uomini, presenti «sulla piazza», ma dalla storia coerente di una serie di generazioni.

Soprattutto non deve sorgere da nostalgiche illusioni di successo, non fondato sulla incrollabile dottrinale certezza del corso rivoluzionario, che da secoli possediamo, ma sul basso soggettivo sfruttamento dell'annaspare, del vacillare altrui; che è misera, stupida, illusoria strada per un risultato storico ed immenso.

Giornata prima

Richiamo di capisaldi

Le recenti discussioni del congresso comunista dell'Unione Sovietica, che hanno avuto in ogni campo eco vastissima, rivestono un profondo significato storico. Questo non si legge certo enunciato nelle formulazioni esposte, ma nemmeno si risolve nel dichiararle tutte pura verbale manovra, tendente alla copertura di misteriose calcolate azioni: la relazione tra tutte quelle parole e il sottofondo storico si cerca ben altrimenti: noi vi siamo preparati assai meglio dei seguaci - scombussolati per non breve ora, anzi che no - e degli avversari occidentali, facinorosi ma armati di ben poveri mezzi polemici e critici.

Affermiamo questo oggi ai pochi che conoscono i precedenti della nostra non chiassosa, ma fondata, coerente, ricerca e presentazione. Altri eventi, che faranno rumore in ben più vasta cerchia della nostra, ci troveranno a saldare, anche tra il silenzio, altri anelli di questa solida, se pur oggi poco visibile, catena.

Con le date del 1° febbraio, 21 aprile, 22 maggio, 28 settembre 1952, Stalin pubblicava una serie di non lunghi scritti, coi quali riteneva necessario intervenire nella discussione economica sorta in seno al partito nell'anno 1951, a proposito della preparazione del nuovo «Manuale di economia politica», che di recente è stato pubblicato in occidente, e che speriamo conoscere prima che sia fatto sparire. Proposito dello scritto era di stabilire quali leggi economiche andassero applicate alla struttura della società russa di oggi, e di sostenere che tali leggi fossero quelle proprie di un'economia socialista. E, ovviamente, il contenuto era anche quello di richiamare le leggi che vigono nella contemporanea economia del capitalismo internazionale, confrontandole con la maniera nella quale l'economia marxista le ha da un secolo formulate.

Il Dialogato con Stalin, pubblicato dal nostro movimento in un volumetto del 1953, sostenne che questa costruzione, mentre rappresenta in modo erroneo la realtà del procedere del fatto economico, sia in Russia che in occidente, contiene una serie di gravi sbagli di dottrina; è inconciliabile con i fondamenti di quella marxista. Vi furono raccolti «Fili del Tempo» dati in questo periodico nel n. 1 del 10-24 ottobre 1952 e nei successivi 2, 3, 4, con estratti complementari nei nn. 2 e 3 del 1953.

Proprio in quel torno, dal 5 al 15 ottobre del 1952, il partito comunista dell'Unione Sovietica teneva il suo XIX congresso, nel quale, come ben si ricorda, Stalin non tanto sovrastava come capo, quanto era considerato da tutti e in tutti i testi come ordinatore dell'intera teoria storica, economica, politica e filosofica del partito, ufficialmente definita la «dottrina di Lenin e Stalin».

Tale posizione rimase indiscussa nel partito russo (e nei confratelli) fino al giorno 5 marzo del 1953, nel quale Stalin moriva. E da quel giorno ad oggi (14 febbraio 1956).

Nella trattazione sulla Russia che si svolge nelle pagine di «Programma Comunista» dal novembre 1954 abbiamo ridato in ordine organico i materiali della nostra veduta critica sviluppata da anni e decenni. Secondo questa le posizioni «staliniste» in storiografia, economia, politica, e anche filosofia, sono false ed anti-marxiste.

Di tutto ciò voglia chi oggi ci segue, amico o nemico, considerare soprattutto la discussione di economia marxista di quel «Dialogato», e la recente esposizione della storia rivoluzionaria di Russia, delle grandi lotte del 1917 e dei seguenti gloriosissimi anni, della costruzione storica dei bolscevichi e di Lenin sullo sviluppo della struttura sociale russa, e della rivoluzione russa e mondiale; soprattutto in quanto contrastano alla cosiddetta teoria dello costruzione del socialismo in un solo paese, alle gesta persecutorie, infamanti, e disfattiste dei suoi sciagurati fautori, da trent'anni ad oggi.

Dal 14 al 25 di questo febbraio del 1956 si è svolto il XX congresso del partito di Stalin: il suo linguaggio sta alle mille miglia dal nostro tanto meno risuonante, ma non è più quello del XIX congresso e del vivente Stalin: si parla in esso sempre dell'immortale Lenin, non più di un immortale Stalin.

Nessuno per il marxismo è immortale - nessuno è morto. La vita dialoga con tutti quelli che così chiama la volgare oratoria. Tutti risponderanno! Con essi i vivi, e quelli che verranno dopo.

Da Est terremoto ideologico

Da varie voci risulta che la immensa società di propaganda costituita dal partito e dal governo di Mosca, che da trent'anni riempie con mezzi strapotenti la superficie terrestre di una formidabile letteratura forgiata su di uno stampo costante, pur se attenta ogni tanto a far funzionare un implacabile Indice che ritira e brucia emissioni sbandate - e non sia detto a disdoro dell'Indice romano alle cui spalle sta, inchiodata indelebilmente sulle targhe in cima ai pali degli auto-da-fè, una poderosa coerenza a bimillenaria dottrina - risulta, dunque, che questa società gigantesca mette di colpo tutto sotto revisione, e lancia l'annunzio di nuovi testi su tutte le discipline, da sostituire agli antichi. Nulla è passato sotto silenzio: storia ed economia, filosofia e politica, arte e biologia, tecnologia ed etnologia...

Ha questo congresso di incredibile abiura fondato altamente il piedistallo di una nuova fede, sulle cui pietre angolari si possa attendere che vengano erette le nuove stele di una costruzione diversa, e può qualcosa fare attendere che una simile opera fondatrice possa domani scaturire da quell'aggregato di forze storiche? I materiali del congresso, giunti da tutte le fonti, presentati sotto luci diverse da tutte le «chiese», ci danno tanto da poter rispondere clamorosamente e irrevocabilmente che no.

Ha questa confessione di spaventosa ed incancrenita eresia minimamente valso, in ginocchio sotto le ceneri di un'incredibile Canossa, a significare un ritorno alle posizioni ortodosse in lungo fallire calpestate e prostituite, un lavacro di sanguinose colpe, e un rinnovato battesimo nella salvezza? Mai. Queste figurazioni di generose leggende, a loro volta forgiate da subcoscienza di antichi rivolgersi storici, non ci porgono oggi chiave alcuna; va annunciata solo una nuova fase del morbo inguaribile, un passo ulteriore verso il fondo del baratro di non riscattabile dannazione. Il gridato da tutti gli angoli, nel recitare il più goffo ed inabile mea culpa dell'accecamento stalinista, ritorno alle fonti grandiose del Marxismo e Leninismo, tradizioni di purissimo sangue storico oggi vantate da irriconoscibili bastardi, non è che una bestemmia dì più della indegna serie, un nuovo - ma per iddio cento volte più impotente dei precedenti - insulto all'altezza della fede rivoluzionaria del Proletariato mondiale. La bestemmia, l'insulto, degnamente coronano un terzo di secolo di pratiche oscene che celebra una laida congrega nera di sacerdoti del fallo, imbrattata di menzogna e di fraterno sangue, con macchie indelebili per la storia dei secoli.

Questo terremoto ideologico che mostra e prepara soltanto rovine, lasciando ad altre forze l'elevazione di strutture nuove, e con ben altre materie, deve essere spiegato con gli scuotimenti del sottofondo sociale, non solo di Russia ma dell'intero mondo. Vano è parlarne come di una nuova montatura di altre scene propagandistiche, agli stessi fini dello stesso mostruoso ma ancor saldissimo potere, come fa l'imbecillità borghese da ogni lato; vano più ancora sarà, dopo tratto il fiato (nei ranghi degli scagnozzi cui cadono da anni le briciole dei banchetti d'orgia del sinedrio bonzesco incredibilmente sopravvivente alle sue gesta) osare ancora di cianciarne come di preludio di un meglio aggiustato tiro di schiere che difendano le classi sacrificate dalla maledetta società presente. Il senso di classe di quanto si svolge è ben altro; in non lontano avvenire sarà evidente, e lo premettiamo all'ulteriore esame.

La «nuova» formula dell'alleanza nel mondo capitalistico tra classe del lavoro salariato e classi della minima e piccola ricchezza non «esce» storicamente, come terza via, dall'antitesi - che demmo a chiusura della nostra prima parte della trattazione russa e che la nostra redazione ha messo in fronte al primo annuncio della logorrea di Mosca - tra dittatura del capitale e dittatura del proletariato. Essa «entra» nel corno controrivoluzionario della insolubile antitesi, e passa al servizio delle forze del grande capitale mondiale. Muore lo stalinismo, ma rinasce sotto lo smascherato aspetto di quello che per noi non è motivo idiota di scandalo e di orrore, ma lieto annunzio di scioglimento rivoluzionario: il totalitarismo mondiale, il filisteisticamente deprecato «fascismo».

Le disonorate classi medie di questa moderna pestilenziale società, come tante volte abbiamo visto, si aprono solo verso destra, e chi le tasta e attira non è che un manutengolo della controrivoluzione.

Questo a Mosca hanno detto, senza saperlo né volerlo; e non già maneggiando con diaboliche risorse il timone che i compari di occidente attribuiscono ai russi di tenere con salde mani.

«Gli uomini fanno la loro storia, ma non secondo la loro libera volontà, non in base a circostanze liberamente scelte, sibbene sotto l'impulso di fatti immediati, anteriori ed ineluttabilmente definiti dagli eventi trascorsi.»

«La tradizione di tutte le generazioni scomparse grava come un incubo sul cervello dei vivi, e quando sembra che appunto lavorino a trasformare sé ed il mondo circostante, a creare il nuovo, essi invocano angosciosamente gli spiriti del passato, ne mutano i nomi, le parole d'ordine, i costumi, allo scopo di erigere sotto questo antico e venerabile travestimento, e con frasi prese a prestito, la nuova scena della storia».

Estremo sinistro del congresso, Anastas Mikoyan, avete detto che bisogna ormai cercare non nei giornali in edizione attuale, ma nell'archivio. Con le parole or citate si apriva un «lavoruccio» - a dir dell'autore, povero emigrato a Londra - che nel febbraio 1852 giunse alla rivista tedesca «Die Revolution» pubblicata a New York da un fedelissimo della nostra scuola: Giuseppe Weydemeyer: studio scritto di getto negli stessi giorni degli avvenimenti. Si tratta dell'esordio del «Diciotto Brumaio», di Carlo Marx.

Lacera storiografia

Qualche volta nel nostro studio abbiamo messo in evidenza le falsificazioni storiche, alla lettura delle quali, e dopo tanti anni di esperienza amara, viene fatto di fregarsi gli occhi, e non solo a chi ha vissuto da vicino quegli eventi. Non lo abbiamo fatto con molto impegno: la nostra ingenuità non ha in tanti decenni abbastanza vacillato sotto l'incredibile serie di profanatrici guanciate vibrate alla sacra storia della Rivoluzione e del suo Partito, e non siamo mai riusciti a capacitarci che masse di figli della classe operaia ormai giurassero su quell'Himalaya di merda.

Una tale fiducia di tanto pochi era giusta. I materiali di quella montagna rovinano per mano di chi ne ha elevato il cumulo: ma quale ammorbante fetore!

Il «Breve Corso» della Storia del Partito Comunista Bolscevico, su cui un'intera generazione russa è stata educata, come sul testo di base, viene nel rapporto di Krusciov squalificato.

Il moderato segretario, sebbene non compreso tra gli autori del testo, si è limitato a dire (giusta l'«Unità») che si è voluto dal C.C. attuale migliorare il lavoro ideologico, diffondendo le opere di Marx, Engels e Lenin (silenzio nero su quelle di Stalin!), e poi che «negli ultimi diciassette anni la nostra propaganda è stata basata principalmente sul 'Breve Corso'», ma che «è necessario pubblicare un libro di testo marxista popolare (e dalli!) della storia del Partito», un altro sui «principii della dottrina marxista-leninista», ed una «esposizione popolare (non ci campate tanto, da scegliere tra popolare e marxista) dei fondamenti della filosofia marxista».

Più deciso è stato Mikoyan, il testo intero del cui discorso non sarà dato dall'«Unità». Nella versione di questa, l'oratore ha solo imputato al Breve Corso di ignorare gli ultimi venti anni di storia. E come si scriveranno questi venti anni con metodo materialista? Come si racconterà l'onta suprema del 1939, l'accordo imperiale prima con la Germania nazista, poi con le democrazie plutocratiche oggi esecrate, la «sale bisogne» dei partiti esteri che si fanno prima servitori di Hitler e disfattisti (per la teoria di Lenin!) solo degli imperialismi di Parigi, Londra, ecc.; e, ad un colpo di bacchetta, smaccati partigiani della guerra antitedesca per la democrazia, al punto da far rimpiangere gli sciovinisti del 1914, sanguinosamente scuoiati dalla inesorabile lama di Vladimiro? E si addebiterà ipocritamente al solo sorprendente capro espiatorio Djugasvili il tentato (e nemmeno saputo portare a segno) colpo di tagliare i garretti agli alleati d'America nel 1945, il «doppio colpo» audacemente annunziato nel rapporto al XVIII congresso nel 1939, oggi che si lanciano a questi idiote passerelle diplomatiche? Si offre per questo quella testa? Non basta, signori, un teschio.

Mikoyan ha detto ben altro sulle vergogne di quella «storia». Nel testo dell'«Associated Press» si dice: «Mikoyan ha criticato Stalin sotto parecchi aspetti: 1) Egli (Mikoyan) dichiarò che gli scritti del fu Premier ignorano le ultime due decadi; e richiese quindi nuovi testi di insegnamento sul comunismo. 2) Egli attaccò le accuse di tradimento che Stalin portò con molti anni di ritardo contro gli eroi di una volta della rivoluzione bolscevica del 1917. 3) Egli dichiarò che la politica estera della Russia è divenuta attiva, flessibile e calma dopo la morte di Stalin nel marzo 1953».

Quanto a questo punto, esso non sa certo di un ritorno al metodo storico marxista! I nostri pochi lettori possono dare atto che né nel 1953 né negli anni dopo il 1945 abbiamo mai creduta vicina la guerra Russia-America. Ma le ragioni storiche di questo fatto non hanno un canchero a che vedere colla morte di Stalin! Non si lotta contro il mito personale dicendo, al rovescio, la stessa fesseria. E non qui ci fermiamo sulla parte, nota anche all'«Unità», che demolisce (a ragione, ma senza dedurne la chiara conseguenza che annienta le altre conclusioni di tutti questi sfrontati neo-antistalinisti) gli «Scritti economici».

Bari, passa la verità

Solleviamo tuttavia la copertina di quel «Breve Corso», di falsità senza limite, come se fosse una cosa seria.

«La Storia è stata redatta da una commissione incaricata dal Comitato Centrale del P.C. (b) dell'U.R.S.S. della quale hanno fatto parte Kalinin, Molotov, Voroscilov, Kaganovic, Mikoyan, Zdanov, Beria, sotto la direzione di Stalin».

Tutti o morti bene, o morti male, o mal-vivi. Ed oggi si parla di aver «riabilitato» i 32 del grande Comitato di Ottobre, di cui, dopo poche morti naturali, solo superstite era da anni molti il grande Morto, oggi debeatificato, del 1953!

Di miglior respiro è leggere quanto ha detto l'eminente storiografa Pankratova, che (vedi tra altri Tempo del 24 febbraio) «ha posto in evidenza la profonda crisi di cui ha sofferto per circa trent'anni la storiografia sovietica, a causa del grande numero di argomenti resi sotto Stalin 'tabù'».

La stessa ha fatto un lungo elenco difatti che era obbligo tacere o capovolgere. Riscrivere la storia della guerra civile (1918-1920) come se mai Trotzky fosse stato commissario alla Guerra. Tacere nel libro commemorativo della Comune ungherese del 1919, sanguinosamente caduta dopo disperata difesa, il nome del suo grande condottiero Bela Kun. Oggi un comunicato ufficiale riabilita questo nome di un impareggiabile compagno, marxista completo, vero eroe rivoluzionario, che semplice e modesto si aggirava umile nei corridoi dei congressi di Mosca, tra tanti pomposi intriganti di manovre coi social-traditori d'Europa, quasi fosse stata una colpa l'amara disfatta del magnifico partito ungherese, superbo per la dottrina teorica quanto per il valore sulle barricate; e solo perché, quando le belve capitaliste azzannavano alla gola, nel momento cruciale, la rivoluzione di Mosca, non aveva atteso altro per lanciare tutto nella battaglia, nella grande rossa cittadella danubiana, levata contro la ventata feroce di tutte le sbirraglie borghesi d'Europa, contro la velenosa rabbia di tutti i rinnegati e social-traditori, tedeschi ed intesisti, fascisti e democratici. Non sarebbe mai egli tornato in Europa per trattare, magari per ordine di Lenin che tanto lo amava, coi boia del socialismo rinnegato: dichiarato nel 1937 nemico dei popolo, non si sa dove sia stato mandato a crepare in Siberia pochi anni fa; mentre solo perché il crimine fu consumato fuori di Russia si sa il giorno e il luogo in cui affondava nel cranio del rosso capo della Vittoria, Leone Trotzky, la piccozza levata da un ancor vivente carognone, avvicinatosi in veste di discepolo. Costui può ora uscire più tranquillo di galera: non ha più misteri da rivelare.

Seguiamo alcuni dei riferimenti della professoressa Pankratova. Ordine di non far conoscere in Russia la storica corrispondenza di Lenin con Trotzky, che possiede l'università di Harvard. Ordine di far sparire dalle biblioteche e dai musei tutti i documenti relativi al ruolo di primo piano, nella Rivoluzione, dei giustiziati nelle grandi «purghe». Ordine agli storiografi Chliapnikov, Jaroslawsky e Popokov nel 1931 di far apparire Trotzky come agente segreto imperialista nella storia della guerra civile. L'oratrice ebbe ordine di minimizzare lo sbarco alleato in Normandia nella seconda guerra europea, modificando una sua opera del 1946. Fu di piena ragione che nel 1949 Stalin si fece qualificare nei trattati come «il fondatore della storiografia sovietica».

Ed infine la cosa più sbalorditiva e stupefacente - vi sono cose che scendono più sotto del limite di ogni possibile indignazione! Nei testi di storia relativi alla rivoluzione di Ottobre fu fatta inserire la favola che un tentativo di assassinare Lenin fu fatto da Bucharin! Il diritto, semplice, sorridente, verginale Bucharin, i cui occhi azzurri inumiditi vedemmo tante volte lampeggiare di entusiasmo e di gioia, quando il maestro, che egli idolatrava come un fanciullo, trattava i temi della rivoluzione nei congressi di Mosca, e la fiducia reciproca più splendida soprastava i contraddittori più ardenti! Quanto lontani dalle spregevoli unanimità di una collegiata di servi!

La Pankratova ha affermato che la reazione degli storiografi ha contribuito in gran parte a far cadere questi ignobili «tabù».

Qualche rara volta, scienza e coraggio procedono insieme.

I comunisti, sta scritto dal «Manifesto», «disdegnano di nascondere i loro principii e i loro scopi». Non è un imperativo etico per i marxisti la difesa della verità. Ma essa è fisicamente il solo ossigeno della Rivoluzione.

Mito e culto della persona

Non si può non gioire dei colpi portati contro quella che è la vera peste controrivoluzionaria del mondo contemporaneo, mortifera sia in quanto si tratti di portare in alto il ruolo (passi il brutto vocabolo per la cosa scema) della Persona di eccezione, il seguito e la gratitudine che Le si dovrebbe - sia quando si delira e deboscia ideologicamente per la generica persona umana, mai tanto osannata e inchinata, quanto in un'epoca della storia che la stritola in masse come polvere nel mortaio.

Ma qual valore dare alle proclamazioni e di Krusciov, e di Mikoyan, e di Molotov, e di Bulganin, e di quasi tutti?! Cadono nel freddo, dette come cose nuove e straordinarie, le ovvie ammissioni che il culto della personalità è contrario allo spirito di Marx e di Lenin. Altro che allo spirito! - chi a tali uomini avesse manifestato una superstizione tanto schifosa, e peggio che mai rivolta a loro medesimi, non sarebbe uscito dalle loro grinfie senza lasciarvi brucianti brandelli della sua pelle di rettile.

Sono decenni che questa sporca genia imbottisce i crani con la storia delle gesta dei Grandi, degli Altissimi, dei Big, siano essi genii del bene o del male. La caleidoscopica moderna società capitalista ad ogni tanto si lascerebbe sistemare da una combriccola di tre o quattro più o meno minorati uomini illustri; il rachitico Franklin Delano, il paranoico Winston, l'oggi svuotato maniaco di grandezza e di sangue Josif. E, alla rovescia, fino a ieri milioni di uomini sono stati lanciati ed immolati al successo consistente nel bruciare la carcassa del sadico Adolfo; nell'appendere per i piedi il buon miles gloriosus Benito. Marxismo questo, o fessi malati del culto dei fessi?

Ed è tanto facile che questi idoletti rovinino da tanto ingombranti e suffumigati altari? Disgraziati, udite.

Dopo trentatré anni Carlo Marx ristampò quel lavoruccio che abbiamo già citato - dopo la Comune di Parigi, che aveva ordinato abbattersi la colonna di Piazza Vendòme su cui ergevasi la bronzea statua del Primo Napoleone; e dopo che il Terzo e Piccolo era caduto. E poté scrivere:
«La previsione, colla quale io concludevo, si è di già, intanto, avverata: se il manto imperiale cade sugli omeri di Luigi Bonaparte, ciò significa che la statua bronzea di Napoleone si appresta a venire precipitata dall'alto della colonna Vendòme».

Noi vedremo dunque cadere la grande statua di Djugasvili dagli spalti tanto fieramente contesi di Stalingrado. Forse sarà un minimo vantaggio - se è vero che la grande adunata di massa a chiusura del congresso è stata disdetta per non darle sapore di adulazione ai dirigenti eletti - non sentire e leggere più delle scene triviali in cui servili delegazioni di lavoratori recano doni di omaggio a pochi scafessi intavolati sotto una sciocca fila di testoni su fondo rosso.

Ma molto ancora più in alto sta il marxismo, di questo gioco fetentissimo sui grandi nomi, che ottunde, acceca e alcolizza la classe di avanguardia.

In quella stessa prefazione Marx scrisse queste parole sulla moda, che indignato vedeva venire, del Cesarismo.

«Io spero infine che questo mio scritto contribuirà a liberarci dalla frase scolastica del cosiddetto Cesarismo, il quale trionfa adesso specialmente in Germania (di te, Jerusalem, la parabola parla!), e per entro la cui superficiale ed implicita analogia vien messo in non cale il tratto saliente della questione, che cioè nell'antichità, specie in Roma, le lotte civili si svolgevano unicamente nel seno di una privilegiata minoranza, tra ricchi e poveri cittadini liberi, mentre la grande massa produttiva della popolazione, gli schiavi, costituivano il passivo piedistallo della lotta. È messa in non cale, dico, la profonda sentenza del Sismondi - il proletariato romano libero essere vissuto a spese della società, mentre la società odierna (siamo tentati di osare aggiungere: soprattutto nelle sue classi medie) vive a spese del proletariato».

Questi ridicoli signori che cianciano, pur liquidato Stalin, di un marxismo nuovo che creano tutte le mattine, sono a tanto di attribuire a questo linguaggio un senso, che non mancherebbero di dire banalmente popolare? Vedremo, citando loro, che mai no!

Non è questa l'epoca storica, insegna Marx, della direzione individuale della società, delle grandi lotte civili nel suo seno. E in altre parole equivalenti: la rivoluzione della classe operaia non può essere diretta da Personalità.

Molte volte abbiamo adoperato il termine di romanticismo per designare la condanna, che pesava sulla rivoluzione russa per la sua «faccia» antifeudale, e in tanto borghese, a ricalcare le linee delle Grandi Rivoluzioni occidentali. Come queste presero dall'antichità classica la dottrina giuridica (dimenticando la differenza, che lo jus latino giocava tra i soli liberi e lasciava la massa degli schiavi, che tutti manteneva, fuori delle sue garanzie, ossia la differenza basilare, qui sopra, di Marx e Sismondi), così ne presero politicamente quanto letterariamente (qui nous delivrera des Grecs et des Romains!) lo schema rigido della Repubblica che cede al Cesarismo imperiale.

Sui problemi tremendi della Rivoluzione di Mosca, che andavano ridotti alla trama veramente possente della marxista costruzione di Lenin, si proiettavano con forza di terribile suggestione le ombre di quella di Parigi. Si agitò contro l'ardente ed irruente, ma per nulla macchiato di personalismo, Trotzky, l'oltraggio di bonapartismo e la turpe invenzione storiografica della preparazione di un Termidoro, a lui, magnifico teorizzatore e capitano del più splendido Terrore proletario, e solo proletario.

Ma come la borghesia liberale aveva scioccamente e fuori tempo, e dopo il solo esempio del Grande Bonaparte (che può forse stare a Robespierre come Giulio Cesare stava a Bruto, e Alessandro il Grande a Leonida) spenta la sua collettiva forza rivoluzionaria nel cesarismo e nelle marionette in cui si cristallizzò nell'ottocento e nel primo novecento, stentati aborti della storia, così la magnifica Rivoluzione di Russia, che aveva una falange formidabile di capitani e di maestri, recitò con l'ubriacatura nel nome di Stalin, e i sanguinosi sacrifici alla sua grandezza, che nessuno, forse noi nemmeno, credette così caduca, la sua farsa d'obbligo, protagonista la Personalità.

Ovunque la Rivoluzione borghese ha divorato i propri figli e non per questo le gridammo mai di fermarsi, qualunque fosse - o sarà - la sua nazione e la sua razza. Ma la Rivoluzione che finalmente sarà proletaria, e solo proletaria, se certo taglierà le scorie da sé col ferro e col fuoco, una tale via non ricalcherà.

Dicemmo che la borghesia di Francia ha dato l'eccezione col grande Corso. Ma quanto anche di tale grandezza individuale non fu determinazione di forze storiche? Marx in quel testo ricorda che «il colonnello Charras aperse l'attacco contro il culto napoleonico nel suo libro sulla guerra del 1815, e da quel tempo, segnatamente negli ultimi anni, la letteratura francese ha con le armi della storia, e della critica, e della satira, sfatata la leggenda napoleonica», ed altre volte citammo in materia il saggio Engels. Oggi un giovane, quarantenne storiografo di Francia, Jean Savant, ha eretto nei suoi ben quindici lavori una teoria che svuota la persona del Bonaparte e legge nelle sue gesta famose l'opera di tre uomini di prima forza: l'agitatore politico Barras, il poliziotto Fouché, il grande capitalista Ouvrard. La scienza ufficiale si rode il fegato, ma a tappe frequenti si inchina alla potenza del marxismo.

Chiudiamo la disgressione e chiediamoci se siamo stati davanti ad un congresso di marxisti demolitori del culto della Personalità, o non piuttosto di professionali lustratori di stivali, che reagiscono alla disoccupazione costituendo una cooperativa di genii da dozzina.

Insanabile scoliosi

Non sono state dimenticate le frasi cortigiane del XIX congresso, e la cosa è troppo recente perché amici e nemici possano averlo fatto. Il più acceso, il più veemente degli iconoclasti, il più volte nominato Mikoyan, ha nel suo fascicolo personale note di questa posta: Stalin, il Grande Architetto del Comunismo! Ecco un'altra spiegazione della tempesta magnetica in corso: dal Sole hanno sentito costui tuonare per il marxismo-leninismo che non vuole adorazione dell'Uomo!

Sconcia romanticheria, qui, di tipo massonico, che scimmiotta il Grande Architetto dell'Universo: i borghesi erano troppo filistei per mettere Dio a riposo, e gli dettero un posto stipendiato. Il Comunismo non ha architetti! e se mai quel posto sarebbe occupato da secoli, dal tempo di Cabet, di Campanella, di Moro e perfino di Platone.

L'«Associated Press» non poteva non pagarsi la testa del nostro turibolario abiurante: vale la pena dì raccontarla, sebbene l'argomento della paternità di affermazioni cozzanti sia per noi di poco peso, appunto perché della saldezza della persona ne facciamo a meno su tutto il fronte, e riteniamo che possa la luce venire dal blasfemo come la tenebra dall'ortodosso, sol che un boccone vada lor di diritto o di traverso.

«Al XIX congresso del 1952 Mikoyan dichiarò che l'opera di Stalin 'illumina col genio di Lui tanto la grande, storica strada che noi abbiamo percorsa, quanto quella che conduce ad un sempre più tangibile futuro comunista'. Alla fine del suo discorso del 1952 Mikoyan levò il grido di 'Gloria al grande Stalin!'. Quella volta egli si riferì anche alle opere di Stalin come ad un 'tesoro di idee' e disse che nei suoi libri 'il compagno Stalin illumina la nostra vita con la sfolgorante luce della scienza'!».

Oggi per gente dotata di simili stomaci, come Tito da bandito a coltello fra i denti è passato a eroe rivoluzionario, Stalin viene ridotto ad una pezza da piedi. Ma Stalin fu un combattente, un cospiratore ed un organizzatore di primissima forza: i suoi lati negativi sono noti in modo pauroso, oggi che il libro di Trotzky sulla sua biografia resta pacificamente acquisito come non dovuto ad un «agente segreto»: teorico e scienziato, ecco quello che nessuno doveva crederlo, né oggi, ne ieri, ne ieri l'altro! Chi dunque crederà ad una ricostruzione dottrinale e scientifica, commessa a quella gente, che si fece reggere il massimo lume proprio da lui? Spegnete la lampada sotto la sua icona, gente, e andatevene a letto al buio. Non elogiate Lenin e Marx: potrebbero saltar fuori dalla tomba.

Citiamo la stampa borghese, eh, tovarisch Tecoppa? Giusta la consegna di dar mano agli archivi, data dal gran segretario, sfogliamo la collezione dell'«Unità».

Col XIX congresso si annunziava la stampa di un milione e mezzo di copie dei «Problemi del socialismo» di Stalin (nel seguito diremo dell'attuale demolizione di tale opera al XX congresso). Viene, nell' «Unità» del tempo, citato dalla «Pravda» che
«si tratta della più grande fase di sviluppo dell'economia politica marxista-leninista..., che eserciterà un'enorme influenza sullo sviluppo della scienza sovietica avanzata», che «per la prima volta formula la legge economica fondamentale del socialismo» (era la legge del valore e quella della produzione crescente in ragione geometrica!), e tutto ciò «sviluppando in maniera creativa (ce la sbrigheremo pure con questa creatività, che si è anche oggi voluto far risalire a Lenin) gli insegnamenti di Marx, Engels e Lenin».

Malenkov chiuse così: «Sotto il vessillo dell'immortale Lenin (era già morto, buon per lui), sotto la saggia guida del grande Stalin, avanti, ecc.».

Molotov fu più sonoro: «Viva il partito di Lenin e Stalin! Possa il nostro grande Stalin vivere in buona salute per molti anni! Gloria al compagno Stalin, grande capo del partito e del popolo! Viva il caro Stalin!».

Kaganovitch (numero del 15 ottobre 1952) parlò a lungo del geniale capo Stalin, che arricchì di nuove scoperte la teoria di Marx, Engels e Lenin; di capo e maestro Stalin, di opera geniale teorica, e via. Quanto al discorso di Mikoyan lo si legge a pag. 3 del numero del 16 ottobre, con le smaccate espressioni già dette.

Tanto uso di retorica e di cortigianeria ributtante, per grande fortuna, è pernicioso anche per il successo del lavoro disfattista della preparazione rivoluzionaria della classe operaia: non aprirà essa gli occhi, in Italia e altrove, nemmeno a questo scandaloso svolto di oggi?

Noi attenderemo lo stesso gli effetti di quelli, marxisticamente indagabili, che si verificheranno domani, e che segneranno la lunga durissima via del risalire storico della rossa onda di marea.

E vedremo il legame tra il terremoto congressuale di oggi e le proclamazioni che la realtà storica imporrà domani, inevitabilmente, a quelli che oggi con impareggiabile audacia buttano via i giurati insegnamenti del maestro Stalin, il milione e mezzo di copie della nuova Economia che sostituivano a quella di Marx e Lenin, i volumi delle «Opere Complete» di Stalin in pubblicità fino ad oggi in Italia, e che da oggi si tolgono di bottega.

Come noi abbiamo già detto andiamo verso il Congresso della confessione. La forza dei fatti è una forza fisica, ed essa si impone agli uomini anche presentandosi come forza di una teoria, cui si può per interi cicli mentire, ma alla quale alla fine si è costretti a piegarsi.

Un grande svolto verrà quando dovrà dichiararsi che la struttura dell'economia sociale di Russia è struttura capitalista.

L'economia pseudo scientifica di Stalin sarebbe allora incomoda alla manovra. Farà anche comodo trarre dal marxismo autentico questa prova, sostenendo la storica necessità di questa situazione, per salvare la stabilità - di cui oltre diremo - del potere di Stato.

Converrà allora citare che questo Trotzky, Zinoviev e tanti di noi lo avevano detto, fino a che scese la saracinesca del 1926. E allora non sarà comodo aver diffuso che lo dicevano perché erano agenti segreti del Capitale.

Ecco la trama di una spiegazione marxista oggettiva del XX congresso, e della labilità ideologica paurosa di quanto in esso si è dovuto formulare.

Piombo nei deretani

Altra nostra trattazione che i lettori ricordano considerava la recente abiura di Molotov - che il suo «caro Stalin» aveva gratificato dell'epiteto di deretano di piombo - alla enunciazione, sfuggitagli per troppa fretta, per essersi forse un momento i diplomatici piombi scuciti, che in Russia non si erano edificate altro che «le basi» del socialismo, e non «il socialismo».

Per ora questa abiura Molotov l'avrebbe ripetuta, e con essa altre, come quella di avere sottovalutata la sollevazione dei popoli di Asia ed Africa contro il giogo coloniale bianco.

Ma noi avemmo il diritto di far collimare questa tesi evidentemente esatta, con quelle che erano state svolte nel contraddittorio all'Esecutivo allargato di agosto 1926 fra Stalin, Trotzky e Zinoviev, che fu in quell'occasione in modo particolare felice e completo, ben riscattando gli ondeggiamenti tattici di anni anteriori. Stalin resistette allora assai debolmente alla schiacciante prova storica e teorica che Lenin non aveva mai ammessa come possibile la trasformazione socialista (di costruzione non parlò mai, né può parlarne il marxismo) senza l'avvento della Rivoluzione operaia in occidente. Stalin stesso ripiegò allora sulla vittoria militare sulla borghesia interna e sulla edificazione delle basi del socialismo. La base del socialismo, come Lenin ha sempre spiegato, è il capitalismo monopolista e statizzato nell'industria, e un passo verso di esso è il più modesto gradino del capitalismo, qual che sia, al posto della piccola produzione rurale e del piccolo commercio. Questo uno Stato centralizzato può edificare, dove manca, e quindi costruire forme economiche capitaliste.

Il passaggio alle forme socialiste non è una edificazione, ma una demolizione di rapporti produttivi, possibile al di là di un certo livello quantitativo delle forze di produzione, che Bulganin ci confesserà, più oltre, di non poter raggiungere nemmeno nel 1960.

Legammo la giusta formula marxista, non sfuggita a caso ad un diplomatico del calibro di Molotov, alla sua forza come militante e studioso di scienza marxista, che risale ai primi tempi di Lenin e che male egli posponeva ai dubbi insegnamenti di Stalin nel 1952.

In questo congresso la questione non poteva non avere un'eco. Ma essa non è oggi matura: ne sentiremo parlare tra qualche anno tanto ampiamente, quanto oggi di quelle della storiografia distorta, della direzione collegiale e non personale, e delle altre che attendono noi e voi alla prossima giornata: le leggi economiche che spiegano l'economia russa attuale nell'industria pesante e leggera, nell'agricoltura e nel commercio - e la grande questione centrale su cui i disertori si spezzeranno da sé i denti e le reni: il trapasso internazionale del potere al proletariato, e le pretese nuove vie di esso. Abbiamo visto passare due generazioni di marxisti: cominciammo appena a ripetere la dottrina sulla via al socialismo, che già dovemmo darci di coltello con quelli che prefiggevano vie nuove (nel lontano 1910, il frontepopolarista Bonomi).

La consegna in questo congresso è di tenere duro sulla costruzione del socialismo in Russia affermata dal 1936, anche se negli altri paesi la «volontà popolare» regola i loro «affari interni» nel senso di restare capitalisti.

In un ulteriore stadio la tesi sulla «coesistenza», altra bestemmia anti-leninista, sarà disperatamente tenuta su, anzi «diventerà marxisticamente vera» perché sarà gettata fuori dei bordi, sul mucchio delle invendute opere di Josif, quella della «costruzione». Allora, racconterà un Molotov all'Occidente, noi coesistiamo perché edifichiamo la stessa cosa: il capitalismo quantitativamente crescente.

Ma si leverà allora, da tutto fuorché dai congressi di quel partito, la voce di Lenin: proprio per questo non coesisterete, perché i vari imperialismi non possono che andare verso lo scontro e la guerra.

Sul terreno oscillante il discorso di Krusciov ha pure avuto, tra le ombre, qualche colpo d'ala. Ad esempio quando ha descritto un asse di affari Washington-Bonn, che egli contrappone ad un asse Londra-Parigi. Forse l'inguaribile frontista ha visto il gioco di una crociata, comoda ancora, contro la Reichswehr dell'odiata Germania, che più formidabilmente del primo dopoguerra si sta oggi levando in piedi. Ma noi abbiamo rammentato che dal 1919, non ancora sopite le cannonate della prima guerra mondiale, Lenin indicava il conflitto imperiale tra Stati Uniti e Giappone, come se sentisse schiantarsi sulla pietra e l'acciaio le bombe tremende, se pur non atomiche, di Pearl Harbour.

La Rivoluzione ritornerà con la non vicina guerra generale. Ma Lenin nel tracciare questa lucente dottrina non legò tanto la disfatta militare, la ritardata rivoluzione borghese, e la scesa in lizza del proletariato su questo dramma, quanto il ritorno della situazione rovinata dai traditori del 1914, e che dovevano ancora poi rovinare quelli, carne della sua stessa carne, del 1939. Egli vide la rivoluzione che ferma la mobilitazione e la guerra e rovescia i poteri dei mostri imperiali belluini e sitibondi di sangue.

Difficile è la prospettiva della prossima guerra se i primi missili arriveranno a partire. Ma forse, in qualche eventualità non prossima della storia, essi non saranno fatti partire. Una di queste potrebbe riguardare l'asse Bonn-Washington, e specie se si avrà la temuta, dai due ministeri della guerra atomica del Cremino e del Pentagono, unificazione tedesca. Se risorgerà quel partito, di pochi uomini oltre Marx ed Engels, del ricordato lontanissimo 1852, che spingevano lo sguardo, ansioso e pieno delle grandi visioni del Quarantotto, sull'apparire dei nuovi bagliori di guerra nell'orizzonte di una pace idiota, potrà il dramma rivoluzionario, che nel primo mezzo novecento ha girato intorno alla Russia, girare nel secondo mezzo intorno alla Germania.

Cauti sguardi sulla rotta nuova

Le parole misurate del rapporto di Krusciov dirette alla tesi di Molotov hanno avuto per contrappeso un'affermazione che si è presentata agli osservatori di mestiere come diretta contro Malenkov, prima di Molotov, e più gravemente, censurato dal partito per avere intravisto un trapasso dall'economia di produzione a quella di consumo, un freno all'industria pesante a vantaggio della leggera, fase che evidentemente in dottrina si pone molto più oltre nel tempo, di quella dell'edificazione totale delle basi industriali.

Anche Malenkov non ha mancato di rettificare e ritirare formalmente: né Molotov né Malenkov sono stati o saranno ghigliottinati, nemmeno in effigie, come il giornalistume attendeva ed attenderà, e Bulganin tanto meno. Il caso di Beria non riguarda programmazioni economiche: esso è legato alla liquidazione del periodo staliniano, d'infamia e forca sull'ala sana rivoluzionaria del partito russo. Questa non avrebbe mai tollerato, portata tutta non su piani costruttivi, ma sulla rivoluzionaria distruzione del capitalismo di occidente, la vergogna dei patti militari di alleanza, degli amplessi di coesistenza, di un appoggio internazionale - che cedendo visibilmente ha smontato il risibile gioco - sul fecciume sociale delle classi medie, là ove la rivoluzione contro il feudalismo, la sola in cui possono servire da carne da cannone, era fatta e dimenticata. Ed è oggi Beria storiografato come agente imperialista.

Ma tra le stesse formule di Krusciov si legge, se ben si guarda l'altro revirement di domani, che ridarà ai Trotzky, agli Zinoviev, ai Bucharin non solo l'onore di militanti antesignani del comunismo, ma il riconoscimento della potente chiarezza teorica e scientifica di marxisti, mentre i loro assassini e pretesi critici andranno alla sorte che li attende, nell'amplesso colle braccia dentate di acciaio degli altri mostri imperiali.

Ci serviremo del testo dell'«Unità», nel riassunto e negli stralci dal resoconto che la «Tass» ha diffuso.

Nel confronto col potenziale dei paesi occidentali le cifre confermeranno che Krusciov ha avuto ragione di dire che la Russia è ancora di molto indietro - egli ha detto «la base industriale del sistema socialista divenne sempre più potente». Alla lettera la formula è marxista quanto quella molotoviana!

Krusciov ha decisamente più volte accennato ad un «fallimento» nel piano agricolo e nella scarsa resa della produzione colcosiana, lasciando intendere quanto ciò dilazioni un elevamento della produzione dei beni di consumo. Ma ciò va riservato alla parte economica. Anche in questo ha pencolato verso Molotov.

Anche la formula: consolidare la potenza economica del nostro paese socialista è attenuata rispetto a quella dell'avvenuta costruzione socialista: nella prima la Russia è socialista politicamente, nella seconda economicamente. Due falsi, ma teoricamente diversi.

«Progresso economico, elevamento del livello materiale e culturale dei lavoratori» non sono più formule che si attagliano ad una società socialista!

Contrasta per la sua freddezza la condanna di Molotov: «Pretendere che noi abbiamo gettato soltanto le fondamenta del socialismo significa trarre in inganno il partito e il popolo».

Vi è dunque ancora popolo quando il socialismo coi suoi «rapporti di produzione» è già «edificato», ossia quando nemmeno il proletariato dovrebbe più esistere?

Ma la botta dall'altra parte è molto più data a fondo: «Incontriamo un altro estremo nel modo di trattare la questione dello sviluppo socialista. Perché noi abbiamo alcuni funzionari dirigenti i quali interpretano la transizione graduale dal socialismo al comunismo come un segnale per l'attuazione dei principii della società comunista già nella fase attuale. Alcune teste calde hanno deciso che la costruzione del socialismo è già completata (insomma la costruzione è cominciata o completata? Ha le sole fondamenta o anche il tetto?) ed hanno cominciato a compilare una tabella minuziosa dei tempi per il passaggio al comunismo».

Questa seconda formula è straordinariamente timidista. Nello stesso capitalismo alcune funzioni economiche si fanno, in settori chiusi nel tempo e nello spazio sia pure, con principii di economia comunista, ossia senza remunerazione monetaria: lo spegnimento degli incendi, la lotta alle epidemie, alle inondazioni, ai terremoti (geologici!), al freddo persino. In un paese socialista non si farebbe nemmeno uno starnuto senza contropartite in dare ed avere, di denaro e di tempo-lavoro?

Qualche altra spintarella e ci siamo, Segretario cui - honny soit qui mal y pense - non si tributerà, né oggi né mai, culto alcuno.

Da: «Il programma Comunista» n. 5 del 1956. Pubblicato in volume nel settembre dello stesso anno.

 

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