Dialogato coi morti (4)
Il XX Congresso del Partito Comunista Russo

 

Giornata terza (basso meriggio)

Agricoltura: passo ridotto

Le cifre gloriose dei piani industriali, sia per il trascorso quinquennio che per quello che si inizia (più modesto del precedente: promette il 65 per cento e non il 70, sebbene pel 1951-55 si affermi aver mantenuto di più: l'85; perché dunque segnare il passo?) cedono il posto a toni di imbarazzo e a palesi reticenze, quando si passa all'agricoltura.

Al solito sono messi innanzi non i dati assoluti, ma quelli relativi all'anno di partenza dei piani. Nei decorsi cinque anni se ne sono avuti tre di stazionamento, e anche di rinculo (specie nelle posizioni chiave: cereali e tessili), e gli ultimi due, specie l'ultimo, di una certa ripresa che si vanta dovuta a sapienti misure, mentre è noto che si è trattato ovunque di stagioni favorevoli, e l'ultima addirittura eccezionale.

Comunque nel quinquennio non si può vantare che il 29 per cento nei cereali, il 9 per cento nel cotone, il 49 per cento nel lino in fibra. Ci risparmiamo di ironizzare sul 107 per cento nel girasole: noi non siamo nello stile dei pasteggiatori di cadaveri; questa nostra terza giornata, fra tanto suggestivo materiale, ci obbliga a pregare la lucerna del mondo dì rivolgersi più adagio.

Quelle cifre di progresso, ridotte a ritmo annuo, sono ben più modeste di quella esaltata per l'industria, in cui si ottenne il 13,1 per cento (contro il promesso 12; mentre oggi si promette solo, come dicemmo nell'antimeriggio, il più moderato 11,5 per cento). Infatti per i cereali il ritmo annuo risulta del 5 per cento appena, per il lino l'8 per cento, per il cotone l'1,8.

Né va dimenticato che al contempo cresce la popolazione con un ritmo ben maggiore dell'1 per cento, sicché di tanto è lecito ribattere le cifre di cui sopra.

Così Krusciov relata; e che frattanto profetizza Bulganin?

Le cifre non sono del tutto esplicite. Non sono forniti i ritmi della progressione scontata per il periodo 1956-1960. Viene però data una cifra impressionante al punto, che non si può esitare a dirla puramente impressionistica: si vuole potenziare la produzione globale agraria del 70 per cento nel quinquennio, ossia col ritmo medio del 12 per cento annuo!

Se fosse vero che il proletariato russo ha tante calorie oggi a disposizione quante l'Inghilterra e l'America (corsivo nell'«Unità» del 28 marzo, che abbiamo già azzittato sul punto industriale nel capitolo precedente), nel 1960 si dovrebbe giungere all'indigestione e ad un'epidemia di epatiti (primato nelle proteine): ma di ciò in tema di economia dei consumi.

Nel 1960 il raccolto globale dei cereali - questo il dato centrale - deve essere portato a 11 miliardi di pudi, cifra che tra l'altro «permetterà di soddisfare la crescente domanda di pane da parte della popolazione». Non vi pare di sentire la storica frase: qui'i1s mangent de la brioche?.

Poiché si conta portare quasi al doppio la produzione zootecnica (che nel quinquennio decorso ha segnato il passo come statistica dei capi da allevamento e dei prodotti, dopo i primi anni di indietreggiamento; non scherzeremo sulle cifre, incoraggianti solo per i suini) si parla di gran dissodamento di terre vergini ai fini di produrre più mangime per gli animali, specie granoturco, che prenderebbe 4 di quegli 11 miliardi di pudi (seicento su 1.800 milioni di quintali circa). Ma il fatto grave è che tale traguardo era lo stesso del V piano quinquennale, mancato in pieno! Se dunque nel 1960 il promesso 70 per cento fosse mantenuto, si avrebbe sempre il diritto di riferire la marcia a dieci e non a cinque anni: il ritmo scenderebbe al solo 5 e mezzo per cento. Ma non si arrischia se si prevede che all'invito «corri!» la campagna russa resterà sorda.

I piani anteguerra si erano tenuti al modesto 1,4 per cento. Il V piano promise l'8,5 per cento! Autentico bluff.

La scottante questione agraria

Tutta la nostra scuola ha sempre presentato la teoria della questione agraria come la vera chiave di volta della geniale costruzione marxista: noi abbiamo molto fatto per dimostrare come in essa siamo, alla lettera, fedeli alla formulazione classica di Marx, e come la stessa fosse ritenuta a base della visione storica e sociale in Russia, tesi per tesi, con gigantesca ortodossia, - zero innovazioni - da Lenin, in tutte le fasi.

Questo superbo sforzo scientifico ha per coronamento una tesi storica di prima linea: la forma capitalista di produzione attuò l'immensa conquista di render facile all'uomo il consumo dei più vari prodotti manufatti, ma gli rese relativamente più difficile il consumo dei generi alimentari ed agrari.

Nella moderna civiltà mercantile borghese gli uomini hanno molto ferro e scarso pane: da cui il grido del grande agitatore Blanqui, che invitava i proletari a capovolgere questa condanna: chi ha del ferro, ha del pane! Solo, dunque, che lasci di adoperare il magico metallo nell'officina, e sappia impugnarlo nella guerra di classe. Il che Marx e Lenin non rinnegarono, ma elevarono, da generoso spirito di disperata rivolta, a scienza della Rivoluzione e della Dittatura di classe.

Gli stessi dati degli oratori del XX congresso, letti secondo quel marxismo che essi hanno per sempre scordato, li classificano nel confine della civiltà borghese.

Marx sviluppa la luminosa teoria costruendo quel modello ternario della società borghese (che non è diclassista!) da Lenin adottato e rivendicato ad ogni passo; e solo i fessi entrano in imbarazzo, considerando che la scoperta di Marx fu fatta nell'esame della società inglese del mezzo ottocento, che sembrava per sempre libera da feudali, rigurgitate forme spurie rurali; e la più che geniale applicazione di Lenin si fa nella Russia del primo novecento ove ci si muove ad ogni passo tra le pastoie di un prolungato medioevo.

Il proprietario fondiario ha il monopolio legale dell'accesso alla terra, riscuote la rendita. L'imprenditore capitalista ha quello dei mezzi di produzione (scorte, capitale d'esercizio) nell'industria agraria (proprio come nella manifatturiera): riscuote il profitto. Il lavoratore salariato (nell'agricoltura quanto nell'industria), privo di terra e di capitale, non ha che la sua forza di lavoro, e riceve il salario.

Tutti i moderni paesi borghesi sono pieni di forme spurie della società che sfuggono ai tre tipi del modello. Il colono e il mezzadro sono ibridi tra il secondo e il terzo tipo: danno capitale di esercizio e lavoro personale, ricevono in natura o in moneta quanto cumula profitto e salario. Il contadino proprietario è ibrido fra i tre tipi: ha la proprietà della terra, il capitale d'esercizio, e la forza lavoro: dovrebbe ricevere rendita, profitto e salario. I conti di queste forme equivoche mostrano che alla fine i loro soggetti stanno più sotto, e non più su del salariato.

Questo li sovrasta da un'altezza di mille cubiti nella piena società borghese, perché solo ha il potenziale magico, che Marx gli scoprì, di far saltare l'involucro di essa; e gli spurii sono senza speranza inchiodati alla conservazione oggi, alla controrivoluzione domani. Marx e Lenin sapevano, senza che ciò menomamente intorbidasse la magnifica costruzione dottrinale e programmatica del Partito comunista, che nelle società preborghesi e nelle transizioni al capitalismo - ma non oltre - quei ceti agrari recitano alte parti rivoluzionarie.

Società rurale russa

Descriviamo secondo questi incrollabili connotati la società agraria odierna russa, in due parole (rinviando per una più estesa ripetizione delle vedute di scuola e di partito ai nostri studi, apparsi in Programma Comunista, sulla «questione agraria», e sulla Russia e la sua rivoluzione).

Il compito del proprietario fondiario sarebbe passato allo Stato. Lo stesso si dichiara per il compito dell'imprenditore capitalista. Sarebbe allora tutta la popolazione agraria costituita da lavoratori salariati?

Ciò può al massimo riferirsi ad una sua minoranza, ancora piccola, che lavora nei sovcos, o aziende agrarie collettive dì gestione governativa.

Una piccola (?) minoranza resta distribuita nelle vecchie spurie forme piccolo-borghesi contadine, a parte altre sopravvivenze di forme anche più antiche, tali da evadere dalle statistiche, per motivi che è lungo trattare.

Il grosso sta nei colcos. Il colcosiano ha una doppia figura: in quanto opera nell'azienda collettiva del colcos, di grande estensione, e in quanto opera nella piccola sua azienda familiare.

Confrontiamo i due momenti col classico modello ternario.

La proprietà della terra è dello Stato. Quindi il colcosiano non sarebbe proprietario, né in figura collettiva, né in figura personale. Va tuttavia notato che, come svolto nella Riunione di Genova del nostro movimento, il distinguere tra proprietà e godimento in concreta sede economica non ha senso. Il colcos come azienda collettiva è il vero padrone della terra in grande: vende allo Stato i prodotti, non gli paga un affitto agrario. Il colcosiano è il padrone del suo campo: mangia o vende i prodotti e non paga affitto né al colcos né allo Stato. Ma, anche rinunziando a tale posizione formale, vediamo oggi che prima e dopo il XX congresso la casa di abitazione della famiglia colcosiana (fondata sulla trasmissione ereditaria) è data in vera proprietà. Vedere Stalin nei «Problemi economici», in risposta a Notkin, e richiamo alla costituzione 1936 dell'U.R.S.S.: e vedere le promesse degli oratori recenti di aumento delle costruzioni per i rurali, con concessione di mutui fondiari simili in ciò a quelli occidentali, al sistema massiccio dei mortgages statunitensi. Prevediamo che, per effetto della gara emulativa, vedremo tra poco questo sistema esteso alle città, e ai salariati industriali, preconizzati padroni di casa. Indiscutibile dunque l'aspetto di fondiario del colcosiano.

Secondo: aspetto di capitalista. Non vediamo che al XX congresso abbiano smentito Stalin su questi punti. Il colcos ha un capitale di utensili e materie varie, che è aziendale e non statale. Solo le grandi macchine sono dello Stato, e il colcos ne paga un noleggio. Quanto al colcosiano individuale, il capitale scorte (animali, attrezzi, sementi) gli appartiene in proprietà (1). Proprietario di capitale agricolo di esercizio, vuol dire imprenditore, e goditore di profitto, come il colono occidentale.

Terzo aspetto: di salariato. Il colcosiano è tale quando lascia il suo campicello e fa giornate e ore di lavoro per il colcos, che gliele annota e accredita per il momento in cui l'azienda generale ripartisce con date regole il suo prodotto lordo.

Perché dunque il colcosiano, ossia l'agricoltore russo (compensiamo per brevità quelli dei sovcos con gli altri delle terre non ancora a colcos) dovrebbe differire dal contadino degli altri paesi, piccolo-borghese per la pelle? Che senso ha parlare, per la proprietà del colcos come insieme, e per quella della famiglia colcosiana, di proprietà socialista? Ancora minor senso che per le fabbriche industriali dello Stato: nell'industria la nostra obiezione verte sulla forma salario per la produzione e sulla forma mercato per la distribuzione, e l'espressione marxista è capitalismo di Stato. Nell'agricoltura siamo al «gradino» capitalismo di Stato solo per i sovcos: la forma del colcos è semi-capitalista, perché l'aspetto cooperativo solo è capitalista ma in quanto associato, non ancora statale; quello familiare è misto di capitalismo privato e di «forma spuria» tra rendita terriera, profitto di capitale scorte, e lavoro individuale.

In questo quadro, che ha avuto da dire il XX congresso? Ha anche qui annullate le posizioni di Stalin?

Confrontare ancora: «Costituzione 1936»; «Scritti economici» di Stalin.

Un annunzio americano

L'«Associated Press» in data 21 marzo (il 25 febbraio si era chiuso il XX congresso) diramava da Mosca un comunicato, che non troviamo modo di confermare con fonti sovietiche, ma che diamo tradotto parola a parola.

«I Rossi somministrano un'amara pillola ai contadini. - Il Kremlino ha ora lanciata la fase decisiva della sua guerra di 29 anni contro il contadino sovietico. L'obiettivo è di trasformare l'intera popolazione agricola sovietica in lavoratori senza terra che siano salariati dallo Stato.

Il governo sovietico ha pubblicato una nuova raccolta di direttive alle fattorie collettive. I punti più importanti consistevano in istruzioni per ridurre severamente le dimensioni dei campi e case private appartenenti ai contadini colcosiani; e per limitare - ed eventualmente abolire - i diritti dei contadini a possedere una scorta privata.

I contadini dei colcos formano la grande maggioranza della popolazione agraria sovietica, con le loro famiglie: costituiscono circa la metà della popolazione totale.

Al presente la più gran parte del paese è coltivata collettivamente dai colcosiani. La distribuzione dei prodotti delle terre colcosiane è strettamente controllata dallo Stato.

Una forte percentuale dei contadini colcosiani non potrebbe vivere con ciò che ad essi spetta per il lavoro nelle terre collettive, e vive coltivando piccoli lotti privati di terra, e di una piccola scorta privata che spesso consiste in una vacca, un maiale e alcuni polli.

Le nuove direttive comuniste tendono a ridurre drasticamente l'entità di quei lotti e ad eliminare la scorta privata. Lo scopo è di costringere i contadini o a lavorare esclusivamente sulle terre comuni ed essere totalmente alle dipendenze dello Stato, ovvero ad abbandonare le campagne e lavorare nelle fabbriche.

Questa è una pillola amara per i contadini sovietici.

In ultima analisi il Kremlino può tenersi preparato ad usare la forza bruta per condurre a termine il suo piano, come già una volta fece sotto Giuseppe Stalin quando le piccole fattorie vennero collettivizzate, e milioni di contadini il cui grano era stato confiscato languirono nella fame, fino a che l'intera classe contadina non fu sottomessa.

Probabilmente il governo non avrà questa volta bisogno di usare la forza».

Questa notizia lascia adito a due domande difficili. La collettivizzazione generale statale della coltura agraria è nei piani del governo sovietico? E, se lo fosse, avrebbe un simile piano probabilità di successo? Dopo queste due ne verrebbe una terza, nella dubbia duplice affermativa: sarebbe questa una trasformazione economica di contenuto socialista? Noi, come è evidente, siamo per la triplice negativa.

La «forbice» dei prezzi

Indubbiamente si è detto al XX congresso abbastanza per stabilire che la questione del rapporto tra industria e agricoltura è tormentosa, e il suo avvenire molto oscuro.

Pur deplorando molti oratori del congresso che i costi di produzione industriale siano troppo alti, rispetto ai paesi borghesi, indubbiamente il prezzo dei manufatti di consumo - di anormale altezza quando nel 1924 Trotzky ebbe a deplorare il grave disordine e il basso rendimento della produzione industriale - si abbassa, ed è questo che autorizza ad affermare, tra palesi esagerazioni, che il medio tenore di vita, e quello degli operai urbani, è in un certo aumento.

Ma il costo al minuto dei generi alimentari venduti dai magazzini di Stato ha potuto essere tenuto basso solo a condizione di un grave sacrificio del bilancio statale.

Oggi quindi si vedono affiorare due proposte: finirla con la riduzione dei prezzi di smercio al dettaglio; aumentare, come si è già fatto, i prezzi di ammasso con cui lo Stato compra all'ingrosso i prodotti delle aziende colcosiane. Nello stesso tempo si dà l'allarme perché i prodotti diretti della rete dei sovcos statali sono di costo troppo alto, e si stabilisce che il terzo tipo di istituto agrario, le Stazioni statali di motorizzazione, abbiano a diventare autonome economicamente, cioè debbano vivere sui noleggi che i colcos pagano per le grosse macchine agricole in dotazione stagionale.

Evidentemente tutto ciò non può che ricadere sull'economia di Stato e su tutti i dipendenti dello Stato, salariati della città e della campagna, e mal si concilia con la prospettata salita del medio salario reale.

Chi in queste strette può in generale uscirne bene come consumatore - e risparmiatore: forse accumulatore: (muore l'accumulazione solo quando si sopprime il diritto al risparmio e solo con ciò il socialismo nasce!) - e il membro del colcos che integra la sua parte di premio da lavoro con il consumo diretto familiare, dell'aziendina privata.

Al congresso tuttavia non si sono sentite minacce verso i colcosiani e tali da ferire il loro crescente attaccamento al possesso rurale. Oltre che delle case di campagna si e parlato con insistenza di migliorare, e non ridurre - come nella notizia americana - la dotazione dì bestiame ed altre scorte. I colcos come insieme sono stati vivamente stimolati a migliorare rendimenti e prodotti totali, nel campo agrario e in quello zootecnico, citando i soliti esempi buoni, tanto emulativi, quanto sporadici.

Quindi il drastico passaggio di tutti i colcos a sovcos non parrebbe preventivato in sede ufficiale. Troviamo solo la notizia che i sovcos si sono assai sviluppati, e coltivano 24,5 milioni di ettari nel 1955 contro 14,5 milioni di due anni prima. Non può però dirsi che tale terra sia stata perduta dai colcos, data l'ancora maggiore superficie che si afferma di aver posta a nuova coltura, e la mancanza, tra tante cifre, di una vera statistica della popolazione e della ripartizione della terra, note con dati contraddittori, la cui analisi non può ora svilupparsi.

Le dette cifre sono di superficie a semina. I sovcos si svilupparono molto nei due primi piani quinquennali: poi ebbero molto maggiore sviluppo i colcos. Nel 1935 la superficie seminata dei sovcos era già di 10 milioni di ettari, e quindi non molto minore che nel 1953, venti anni dopo. Nel 1938 era però, da altra fonte sovietica, 8 milioni e mezzo.

La forma del colcos ha quindi trionfato in Russia. Tuttavia è notevole il balzo dei sovcos annunciato per il biennio 1953-55. Perché si tace sul traguardo, al 1960, dell'estensione di essi? Si vuole o meno andare verso un capitalismo agrario di Stato? Certo che nel 1938 i colcos avevano già oltre 500 milioni di ettari, di cui quasi duecento seminati, e l'economia agraria di Stato era di gran lunga minoritaria. Secondo dati della FAO, nel 1947 la superficie coltivata russa sarebbe stata di 225 milioni di ettari: oggi è molto maggiore, ma il sistema del colcos vi predomina decisamente, questo è il dato fondamentale.

Nella campagna 1938-39 lo Stato industriale comprò grano per l'88 per cento dai colcos, per l'11 per cento dai suoi sovcos, e per lo 0,2 per cento da aziende individuali. Tale insieme globale, era, secondo Stalin, il 40 per cento della produzione complessiva.

Dati storici della superficie seminata: 1913, milioni di ettari 105; 1941, milioni di ettari 137. Su questi, i cereali rappresentarono da 94 a 102 milioni di ettari. Ammette Krusciov che la superficie nel 1950 era la stessa: 102,9; portata nel 1955 a 126,4.

Col miglioramento del rendimento il raccolto totale di cereali, da 800 milioni di quintali nel 1913 raggiunse 1200 milioni nel 1937.

Una volta e mezza in 24 anni vuoi dire appena l'uno e mezzo per cento annuo medio. L'ordine di grandezza dell'aumento di popolazione!

Se al 1960 saremo ai 1.800 milioni di quintali di cereali annunziati ciò vuol dire che oggi non siamo che ai 1050 circa: dov'è mai l'avanzata?

Ricordiamo pure che il «Traguardo di Stalin» prima che la guerra devastasse i «granai» russi, era 8 miliardi di pudi (1.300 milioni di quintali circa) di cereali. Siamo in aperto regresso!

Il lavoratore russo mangia oggi in virtù di un solo fatto storico - metà da rivoluzione borghese, metà sotto-borghese - e lo lasceremo dire al Pawlowsky, autore dei citati scritti. «L'industrializzazione ha fatto sì che l'agricoltura dell'Unione Sovietica non è più costretta dalla mancanza di domanda interna a vendere i suoi prodotti sul mercato mondiale, realizzando prezzi bassissimi al produttore».

L'industrializzazione, e il sipario di ferro!

L'operaio russo ha fatto la rivoluzione, ma paga il pane più caro del capitalista straniero.

Tuttavia (Dialogato con Stalin) formare, nelle economie asiatico-feudali, i mercati nazionali, è rivoluzione autentica!

L'insolubile antitesi

L'incertezza se la direzione che prenderà la «politica agraria» del regime di Mosca sia nel senso del grande capitalismo o del piccolo sotto-capitalismo, esprime per noi l'impossibilità per una forma sociale decisamente mercantile e borghese di uscire dalla stretta del contrasto tra agricoltura e manifattura. Nella presentazione risoluta del Mikoyan sembra prevalere il rimedio piccolo-borghese e non quello audace e «ricardiano» che risponde alla notizia dell'«Associated Press»: totalitarismo di intrapresa a salario nella campagna. Ricardo voleva allora che lo Stato capitalista confiscasse tutta la rendita fondiaria riducendo a binaria la società-tipo borghese: imprenditori e salariati. Marx dimostrò profeticamente che questa, mentre non era una vittoria per i proletari su cui sarebbe sempre caduto tutto il peso della nuova società, era un'utopia, entro i limiti del capitalismo mercantile: nessun codice borghese ha intatti abolito il diritto di proprietà sulla terra. Quello sovietico neppure lo ha fatto. In base alla stessa dottrina, esso non potrà uscire dalla forma colcosiana in cui parte notevole della terra resta frammentata, e con essa il capitale ivi investito.

Ecco le parole di Mikoyan. «Il compito principale (leggi dopo morto Stalin) consisteva nel liquidare il ritardo nell'agricoltura, nell'eliminare lo squilibrio tra lo sviluppo dell'industria e quello dell'agricoltura, squilibrio particolarmente pericoloso per il nostro paese, il cui ulteriore accentuarsi sarebbe stato di serio ostacolo al nostro sviluppo». E come fare? «Questo compito è stato assolto con una serie di provvedimenti, come l'elevamento dell'interesse materiale de colcosiani, la conquista all'agricoltura delle terre vergini e incolte. In due anni sono stati messi a coltura 33 milioni di ettari di nuove terre. Potevamo forse in passato sognare qualcosa del genere?».

Quello che questi signori non possono sognare è di mantenere tra industria e terra il legame mercantile, e insieme risolvere l'insolubile contraddizione tra i due campi dell'economia.

Mikoyan si conforta con il confronto con l'America, ove il governo non risolve dissodando nuove terre, ma togliendo dalla coltura 10 milioni di ettari, perché si producono troppe derrate. Ne induce che sono ivi in colpa le contraddizioni del capitalismo insanabili. Ma questa spiegazione vale marxisticamente anche per la Russia: la gara emulativa si svolgerà a chi semina di più, o a chi semina di meno? Non è pura retorica, quando anche Mikoyan spezza la sua lancia per la causa emulativa, nella forma più spinta: «A noi cittadini sovietici e al popolo americano questa emulazione è di pieno gradimento»?

Rivoluzione asinesca

Una notizia dell'appello ai colcos è data dall'«Unità» del 10 aprile sotto forma di invito a raddoppiare (sic!) la produzione agraria in tre e persino in due anni, e per l'Ucraina, fertile fin che si vuole, addirittura uno.

Questa è scienza della pianificazione, dopo una sbronza di emulativo whisky. Quale è la previsione sul passo da tenere, che in pratica abbiamo visto inchiodato al massimo di 1,5 per cento l'anno? Si è dopo ampi calcoli preventivato, invece del 70 per cento in cinque anni, il raddoppiamento in tre anni? Allora si è calcolata l'andatura media del 26 per cento annuo. Se si tratta di due anni si accelera al 42 per cento! Se poi di uno, è chiaro, del cento per cento. Se programmi esistono, come può un «appello» quadruplicarne perfino il preventivo ritmo? Moltiplicare per dodici quello del macchinoso VI piano?

Sarebbe poi sicuro che nel 1956 sarà doppia la produzione della carne. Si può solo dedurne che si è quadruplicato il consumo del whisky (sarebbe poco emulativo parlare della volgare vodka). Se si vuole doppia carne, occorre raddoppiare il patrimonio zootecnico nazionale. Questo piano può farsi per i conigli, o per i topi: nemmeno per i maiali. Quanto ai bovini, tra i capi vi sono, oltre alle fattrici, tori, buoi, vitelli e vitelle. Ogni vacca mette quasi un anno a fare un figlio, ed è per quasi altrettanto produttrice di latte. Chi voglia in un anno avere maggiore numero di capi, anche sognando, non può andare al di là dì questi limiti. La stessa tecnica della fecondazione artificiale non può far guadagnare molto. Per non seccare con computi diremo che il più valente zootecnico ha un solo modo per produrre doppia carne: o comprare all'estero bestie, o mangiarsi l'allevamento e... vedere ridurre la dotazione bestiame del cento per cento!

Un paese allevatore di prima forza è l'Olanda. Nel 1939 aveva 2 milioni 817.000 capi bovini: i tedeschi se ne papparono buona parte e nel 1948 erano solo 2.222.000. Al 1953 li avevano portati di nuovo a 2 milioni 930.000. Crediamo che sia un «passo» tecnicamente insorpassabile: risulta il 31 per cento in quattro anni; ritmo medio sette per cento all'anno.

Come spiegare le enormi balle del 26, 42, 100 per cento, che decollano a velocità supersonica dalle colonne dell'Unità? È tuttavia possibile; senza scherzare sul miracolo del raddoppiamento in un anno degli asini... in Italia, verso cui cammina quella stampaccia, mentre ciancia che si è avuta in Moscovia una rivoluzione colturale!! Da (si capisce) emulare, in degna gara col somarame yankee.

Potrebbe l'appello ai colcosiani essere di tono che ricorda la notizia lanciata dall'Associated Press. Animali ve ne sono in Russia in quantità non molto inferiore a quella olandese e vi sono in campagna le famose proteine dell'Unità. Si tratta forse di minacciare i contadini perché non si mangino, nella borghesissima santità del domicilio, la carne, che non arriva al proletariato delle fabbriche. Allora diventa plausibile che tra un anno l'operaio, che non ha alcun «livestock» o riserva alimentare, ne riceva il doppio. Che dedurre da questo? Conclusioni immense!

La proprietà individuale contadina nella ibrida forma del colcos, genera, giusta Stalin e contro Jaroscenko, rapporti dì produzione e quindi di classe. Il proletariato a salario, delle officine come dei sovcos - cui si apprende sarebbe stata estesa la concessione di piccoli orti privati - è la classe sfruttata, oltre che dal capitalismo statale, da un contadiname privilegiato. Mentre esso fa fame, come sappiamo, non di carne, ma di pane, non può più avviare nelle campagne le storiche gloriose squadre armate di approvvigionamento degli anni grandi - anche di Stalin!

Questo sarebbe oggi scandalo, oggi che si rinnega la dittatura, e non potrebbe un Nenni asinare che si tratta di liquidare «il comunismo di guerra», per introdurre una democrazia costituzionale e sovrapporre allo Stato, e più al partito, una magistratura togata!

Quella che quindi si accampa davanti all'emulazione mondiale e una bassa, vile, pidocchia e beota democrazia rurale, che si esibisce serva al grande capitalismo internazionale, e gli vende la pelle dell'eroica classe operaia russa e del mondo, pugnalata nella schiena, peggio che nel 1914, dai dirigenti sindacali ed elettorali, foraggiantisi sulla sua demoralizzazione. La carriera di tale truppa non è ancora giunta l'ora di affogarla nel fango in cui si crogiuola: questa gioia spetta alla nascente generazione.

Che ne pensava Stalin?

Stalin era decisamente per la conservazione della forma colcosiana agraria, e nel suo scritto respinse tutte le proposte di «riforma» in questo sistema. I compagni Sanina e Vengser avevano chiesto che «si espropriasse il colcos» ossia si dichiarasse la proprietà colcosiana proprietà «di tutto il popolo», e ciò «sull'esempio di quanto a suo tempo è stato fatto per la proprietà capitalistica (leggi industria)». Stalin è deciso: questa proposta è assolutamente sbagliata, indiscutibilmente inaccettabile!

Questa proposta sarebbe quella della notizia dell'«Associated Press», ma dobbiamo ripetere che non risulta affatto che il XX congresso abbia dato ragione a quei due compagni, contro il quos ego di Stalin.

Ineffabili sono però gli argomenti di questi: La proprietà colcosiana è una proprietà socialista (vedi sopra), e noi non possiamo in nessun modo procedere nei suoi confronti come con la proprietà capitalista. E aggiunge: dal fatto che la proprietà colcosiana non sia proprietà di tutto il popolo, non deriva in nessun modo che la proprietà colcosiana non sia proprietà socialista. Evidentemente, siamo nel regime del Gran Sacerdote che, ove voglia toccare, rende tutto stampigliato per «socialista». Là fabbrica proprietà dello Stato, il territorio del colcos e i suoi attrezzi, le zonette dei contadini e le poche loro scorte sono proprietà sì, ma col timbro «socialista». E noi, che abbiamo sempre creduto che socialismo significa proprietà di nessuno, sistema della non-proprietà!

Quindi Stalin, per battere l'idea di statizzare il colcos, pontifica, permettendosi di citare Engels, che il passaggio della proprietà di gruppi e persone allo Stato non è la migliore forma di socializzazione! E osa spiegarlo col motivo che lo Stato si estinguerà! Nel primo «Dialogato» mostrammo che colla stessa critica di Engels alle statizzazioni (allora quella di Bismarck sulle ferrovie) si prova che non hanno nulla a che fare col programma socialista le formule di passaggio alla proprietà della Nazione, del Popolo, e nemmeno quella (che sarebbe migliore) di proprietà della Società. Marxisticamente si sarebbe potuto dire di una «proprietà» dello Stato di classe, del Proletariato dominante e dittante. Ma moriranno insieme: Classi divise - Stato politico e Dittatura - Proprietà, quale che sia.

Secondo il XX congresso, vanno bene quelle formule di Stalin? Senza dubbio; e al più saranno date formule ancora meglio filo-capitaliste.

«Emulazione» anti-marxista

Uno dei più lunghi capitoli di Stalin nei «Problemi», e dei più aspri, fu dedicato a L. D. Jaroscenko. La stampa non sovietica racconta ora che questo stesso Jaroscenko avrebbe dopo il XX congresso rialzata la testa (egli si era offerto di compilare il trattato di Economia politica; e Stalin aveva negato il consenso nella solita forma villana). La «Pravda» avrebbe ora ammonito che non basta oggi far coro agli insulti a Stalin per riscuotere applausi, e avrebbe chiamato quelle dichiarazioni antimarxiste, «provocatorie e dirette contro il partito»; e ricorda che allora Stalin accusava Jaroscenko di avere seguito le idee economiche di Bucharin, condannate da Lenin.

Non prenderemmo come arbitro o probiviro né Stalin, né il redattore della «Pravda» di ieri o di oggi. Ogni lodo emesso, almeno quattro falsificazioni.

La condanna dì Lenin a Bucharin in merito alla teoria sulla economia russa e al programma nuovo del partito bolscevico è del 1919; sta in uno scritto di straordinario interesse, che nella relazione sulla Russia in corso di pubblicazione in testo esteso utilizzeremo a fondo. Stalin uccise Bucharin dopo, nel 1938; sta bene. Ma tra il 1919 e il 1938 Bucharin fu «il grande economista» di Stalin, quando si trattò, morto Lenin, dì sgarrottare coi soliti metodi Trotzky, Zinoviev, Kamenev ed altri valorosi economisti marxisti. Quando il non meno valoroso Bucharin aperse gli occhi sulla rovina teoretica e politica, fu anche lui ammazzato, e svergognato come marxista.

Il nome di Bucharin non chiude dunque la bocca a nessuno; cadaveri e viventi si sciacquino la propria, come in un detto popolare meridionale, prima di usare quel nome come titolo di degenere dottrina. La torta tra Stalin e Jaroscenko va altrimenti spartita, come, se le notizie son quelle, tra «Pravda» stile XX congresso e Jaroscenko.

Che pretendeva costui? Convinto quanto Stalin che la società russa fosse la pura immagine del socialismo, assumeva che non si dovesse parlare più di economia politica, anche marxista, perché vi è un'economia politica sola, quella applicabile al capitalismo! Oggi, diceva Jaroscenko, occorre solo una scienza della «pianificazione razionale», o qualcosa di simile. E proseguendo di tal passo sosteneva che non vi era più da parlare in Russia di forze produttive che vengono in contrasto coi rapporti di produzione, o forme di proprietà, e che si trattava solo dell'esistenza e presenza delle prime, senza più i secondi!

Stalin ribatteva a giusto titolo che in Russia vi sono tuttora rapporti di produzione «tra gli uomini», e non solo problemi di «cose», in quanto questo avverrà solo dopo la sparizione totale delle classi sociali: solo allora gli uomini non saranno schiavi della forza delle leggi economiche e controlleranno la produzione e l'assegnazione in forme razionali. I rapporti di produzione sono le forme della proprietà; in Russia sono tali la proprietà statale delle fabbriche, e appunto la proprietà dei colcos e dei colcosiani.

Era una grossa asinità di Jaroscenko non vedere un «rapporto di produzione» nella paga data al lavoratore industriale contro tempo di lavoro, o nella compera della vacca da parte del colcosiano, contro i prodotti del suo suolo o la quota salario nel colcos.

Ma Stalin aveva torto nel dire che, in una società socialista, le leggi dell'economia politica marxista, che descrivono il capitalismo mercantile e il sistema salariale, avrebbero tuttavia avuto concreta esistenza.

È facile risolvere il verboso dibattito. Avevano torto entrambi, solo che si metta a posto la vera tesi marxista: la società russa è una società di classi, mercantile e capitalista, e in essa valgono le leggi dell'economia marxista relative al modo di produzione capitalista, e che Marx per il primo dimostrò «non eterne come le leggi della natura fisica, e destinate a cadere». Allora si identificano bene in Russia, con le forze produttive, e con esse in fiero contrasto, i rapporti di produzione, o forme di proprietà. Non vi si identifica più la pretesa avvenuta «costruzione» di socialismo, in cui credono entrambi, Stalin e Jaroscenko.

Stalin, costretto dal suo subcosciente marxista, si sforza in questo strano dibattito dì sostenere che la stessa borghesia nella sua rivoluzione, cosciente delle leggi economiche, costruiva il capitalismo industriale, ancora più contribuendo (e perfino nel sostenere contro Jaroscenko una giusta tesi concreta) a quel pauroso disordine della dottrina, che peserà sul suo ricordo più della serie degli assassinii, e che mai i superstiti della sua corte potranno strapparsi di dosso.

Lenin e Bucharin

Lenin fu più volte con Bucharin feroce, e i momenti erano egualmente tragici per la Russia e il Partito, ma si era in altra atmosfera, tra marxisti provati; quelle discussioni hanno lasciato una traccia valida e ancora oggi preziosa, e per quanto ora urge, usando la parola antipatica, «attuale».

Bucharin aveva preparato per l'VIII congresso del Partito Comunista bolscevico del 19 marzo 1919 il rapporto sul programma. Lenin, che era insieme con lui relatore, per la commissione, criticò il progetto Bucharin.

Questi, suggestionato dai due grandiosi fatti contemporanei: la diffusione nel mondo della fase imperialistica del capitalismo, e l'avvento in Russia della piena dittatura del proletariato, aveva presentata tutta la lotta che costituiva il compito del partito proletario come lotta contro quella forma di capitalismo, e descritto la struttura, il processo storico, e la caduta del capitalismo secondo i soli caratteri del tempo monopolista, tacendo del tutto la parte relativa al «vecchio capitalismo» concorrentista e liberale

La messa in linea teoretica di Lenin in quell'occasione è un vero gioiello di dottrina e di realismo vigoroso.

Non correre troppo, Bucharin! - dove ammonire il Maestro. Perciò il parassita ideologico Stalin, tanti anni dopo, dà del buchariniano a Jaroscenko, corso a ragionamenti di pieno comunismo laddove si è solo al socialismo (a suo dire): non correre, Jaroscenko!

Prima di tutto Lenin chiariva una cosa a cui tanto teniamo: il capitalismo è sempre quello; l'imperialismo non è una nuova forma sociale tipica, ma solo una soprastruttura del capitalismo.

Interpretate: l'imperialismo è una nuova forma politica, basata sull'aggressione e la guerra, dell'unico modo di produzione: il capitalismo, che resta immutato.

Poi, quanto alla Russia, spiega a Bucharin che in Russia non si era ancora al capitalismo pienamente monopolista ed imperialista, ma si trattava di papparsi ancora capitalismo minimo e concorrenziale, anzi di augurarselo. Ma quale vigore rivoluzionario in questa diagnosi, che più spietata sarà nel discorso fondamentale del 1921 sull'imposta in natura, altra pietra miliare del grande corso e del nostro studio! Quando Stalin scimmiotta, e dice a Jaroscenko, non che finalmente si è giunti, almeno per l'industria, alla soprastruttura imperialista del capitalismo, che Bucharin vedeva già 35 anni prima, ma che siamo nel pieno socialismo, fanno vomire entrambi.

Abbiamo già rinviato questa compiuta analisi al suo luogo: ma talune citazioni hanno tale forza, sugli spudorati che hanno definito ritorno a Lenin il loro sporco atteggiarsi del XX congresso, che riescono qui inevitabili.

«In nessun luogo del mondo il capitalismo monopolistico non è esistito e non esisterà mai, senza che, in parecchie branche, esista la libera concorrenza».
«Noi diciamo di essere giunti alla dittatura. Ciò è comprensibile. Ma bisogna tuttavia sapere come vi siamo giunti. Il passato ci tiene, ci afferra colle sue migliaia di braccia e ci impedisce di fare un passo avanti, o ci costringe a muovere questi passi così male, come li muoviamo... Il capitalismo, nelle sue forme primordiali dell'economia mercantile, ci ha condotti e ci conduce».

Torniamo a dire che non qui diamo l'analisi di questo svolto possente, in cui è ancora una volta messo in linea Bucharin sulla questione dell'autodecisione dei popoli, ove, spiega Lenin, si deve proprio dire popolo e non classe proletaria! No, cari tanti amici di sinistra che non offenderà certo essere paragonati al formidabile marxista Bucharin: il marxismo non è mai semplice!

A voi, «leninisti»!

Lenin va nelle sue dimostrazioni diritto al fine. Siamo indietro anche nell'avanzatissima Germania! Perché?

«Prendete per esempio la Germania (1919) modello di paese capitalista avanzato, la quale per ciò che concerne l'organizzazione del capitalismo, del capitalismo finanziario, era superiore all'America. Un modello, si sarebbe detto. Orbene, che avviene anche colà? Il proletariato tedesco si è differenziato dalla borghesia? No! in fatti solo in alcune grandi città si è annunciato che la maggioranza degli operai è contraria ai fautori di Scheidemann (socialdemocratico di destra, scannatore di Liebknecht e Luxemburg)».

Come è potuto accadere? grida Lenin, intento a frenare l'estremismo dell'incandescente Bucharin. Queste parole cadano sulla faccia schifosa di quelli che saldano alla bestemmia del ritorno a Lenin il melmoso invito ai fronti popolari, alle maggioranze di sinistra: «Grazie all'alleanza degli Spartachiani con i tre volte maledetti menscevichi indipendenti tedeschi che tutto imbrogliano, e vogliono unire in connubio il sistema dei soviet con l'assemblea costituente!».

Lenin teorico classifica la Russia sotto lo stadio capitalista primordiale. Lenin rivoluzionario nello stesso momento staffila il contatto con gli indipendenti di sinistra, debitamente poi pestati nel mortaio del II congresso mondiale. Oggi vorrebbero pagare colla profanazione di un più che imbiancato sepolcro il diritto di levare il nome di Lenin, quando al tempo stesso affermano col linguaggio di quel cadavere, che l'economia russa è socialismo pieno, e stendono in Europa il mostruoso amplesso ancora più oltre degli Scheidemann odierni, sputtanando la Dittatura proletaria nella losca accucciata sotto la Costituzione borghese.

A suo tempo ci servirà un altro scritto, dell'ottobre 1919: Economia e Politica nell'epoca della dittatura del proletariato. Ma anche qui non è possibile non scrivere alcune parole di Lenin, che andrebbero tatuate con punta di fuoco sul grifo dei «ritornatori a Lenin da Stalin»: «Se mettiamo a confronto tutte le forze e le classi essenziali e i loro rapporti reciproci (leninista, si capisce, bestemmia di essere anche Jaroscenko, devancier degli asini calcianti il Leone!...) mutati dalla dittatura del proletariato, vediamo quale assurdità storica, quale ottusità, rappresenti la concezione corrente piccolo-borghese sul pas-sag-gio al so-cia-li-smo 'at-tra-ver-so la de-mocra-zia' in generale, concezione che riscontriamo in tutti i rappresentanti della seconda internazionale».

I trattini sono nostri, ma le virgolette alle parole attraverso la democrazia, sono dell'originale, o assurdi, ottusi, necrofori leninisti!

Non è dunque per nulla strano che nel campo dei rinnegati si sia devoti al feticcio mercantile in Russia, a quello liberale fuori. Queste, che andiamo offrendo, sono le chiavi marxiste della storia; e non lo stupore fesso dei giornalisti che qui si esaltino le elezioni e i legalismi, mentre lassù si tratterebbe solo di trovare chi destramente riafferri lo stesso potere, che consentì a Baffone, come nella «Domenica del Corriere», di far fare a Krusciov i funghi in corpo, gridandogli sghignazzante: «balla, khokhòl, balla dunque la ghopak!».

Rantolate ancora sotto un'ultima citazione: «Le frasi generiche sulla libertà, l'eguaglianza, la democrazia equivalgono di fatto a una ripetizione cieca di condizioni che sono un CALCO preso dai rapporti della produzione mercantile».

Questi messi da Mosca si dedichino pure alle elezioni. Voti ne prenderanno, lo sappiano tutti quelli che, da qualunque lato, ci vogliano speculare. Più porcate si fanno, più ghopak si ballano, più voti si pigliano.

A noi basta sapere da quale origine viene il calco, apposto alla loro ripugnante livrea, e ce lo dice la stretta magia del determinismo marxista: dai rapporti di produzione che non solo vigono in Russia, a dispetto di Jaroscenko, ma sono rapporti mercantili per cui è facile merce, da acquistare per poco, e con cifre più basse dei premi Stalin, la vanità sgualdrina di un gregge di candidati.

Dalla produzione al consumo

Quando Stalin vuole convincere Jaroscenko che anche in un sistema socialista va applicato un calcolo economico, cita la dimostrazione di Marx nella celebre lettera sul programma di Gotha, nella quale Marx spiega come nella produzione sociale vanno sempre detratte varie quote del prodotto totale per soddisfare, prima di provvedere al consumo dei lavoratori, una serie di necessità generali e pubbliche, e tra l'altro una quota per l'ammortamento dei mezzi di produzione logorati. Ma Marx nel dire questo non intese concedere che tali computi, dopo i quali si attribuiranno ai consumatori le loro quote, si faranno col meccanismo mercantile e monetario, e su bilanci aziendali e individuali. Egli volle solo mostrare vana la formula lassalliana e piccolo-borghese del «frutto indiminuito del lavoro», che dovrebbe spettare ad ogni partecipe alla forza produttiva, mostrando che anche in un'economia non borghese, sul «frutto» e prodotto - non più individuale né aziendale, ma sociale - andranno eseguiti dati concreti accantonamenti, prima di passare quanto resta al consumo globale sociale.

Svolgendo nel Dialogato con Stalin e altrove questa abissale distinzione tra la meccanica economica borghese e quella socialista, dicemmo che non si tratta di porre a zero il plusvalore lasciato da ogni operaio, pareggiando il lavoro necessario, remunerato, col totale lavoro prestato: questa è una falsa espressione del socialismo, ed è solo una versione insostenibile dell'economia individualistica. E ci esprimemmo con la formula cruda che il socialismo non sopprime affatto il plusvalore, ma tende ad abbassare proprio le ore di lavoro necessario, pagato, al minimo possibile, e infine a zero.

L'analisi economica quantitativa mostra che il problema socialista non verte su una diversa partizione del reddito, ma sulla globale socializzazione di tutto il lavoro e il prodotto, per una soddisfazione sociale della massa dei consumi: diritto e contabilità borghesi, dopo avere sopravvissuto in una fase di passaggio, restano soppressi.

Questo ovvio risultato - non capito da 95 socialisti su cento - si lega alle affermazioni di Marx nel «Capitale»: più alta è la ricchezza nazionale (tema su cui Adamo Smith eresse la poderosa costruzione della scienza economica capitalista) e quindi il reddito nazionale, più la classe lavoratrice è battuta, e inchiodata alla servitù del capitale, più l'aumento generale di prodotto a pari sforzo di lavoro, che assicurano la scienza e la tecnica, viene, non tanto assorbito dalla collegiata personale dei capitalisti in massima parte, e in minima dalla classe operaia, ma per la più gran parte dilapidato nel disordine e nell'assurdo della gestione mercantile individuale dei rapporti.

Dato che in Russia la collegiata borghese e lo Stato sono la stessa cosa, quale senso daranno nel «Manuale» alla teoria del reddito nazionale, nel capitolo reclamato da Stalin e dal XX congresso? Come questa dottrina presenterà lo smistamento del reddito tra consumo e nuovo investimento, per riprodurre il capitale e per allargarne l'accumulazione?

Evidentemente tale capitolo non sarà scritto col linguaggio di Marx nella lettera di Gotha, ma con lo stile dei Keynes e degli economisti del «benessere» e della «prosperity». La formula dell'emulazione mondiale, vertice della vacillante costruzione del XX congresso, significa, in economia, solo questo, che in entrambi i campi la corsa al reddito, totale o «pro-capite», e al margine di reinvestimento produttivo, con ritmo che scavalca quello dell'aumento di popolazione (ecco il legame col decrepito Malthus!) si impianta in senso opposto all'interesse immediato e storico del proletariato, alla realizzazione rivoluzionaria del socialismo mondiale, alla liquidazione della servitù di classe.

Sfida folle e perduta

La sfida che il VI Piano quinquennale vuole portare all'Occidente non è solo disfattista per il socialismo perché sposta gli antagonismi di classe a rivalità nazionali, e perché ostenta il passaggio da uno scontro di forze militari ad un pacifico confronto economico, ma perché su questo terreno la partita è perduta prima di venire giocata. Per tre ragioni, dunque.

Bulganin ci annunzia che il «reddito nazionale» russo salirà nel quinquennio che va al 1960 del 60 per cento, pari all'11 per cento annuo. Le previsioni degli euforisti dell'altra parte di Atlantico sono assai più misurate, sebbene una rigorosa analisi marxista abbia l'impegno di provare che corre sui trampoli anche l'ottimismo di costoro.

Un'ipotesi come quella di Bulganin dipende da tre punti: adeguato aumento del prodotto lordo industriale - adeguato aumento del prodotto lordo agrario - partizione del prodotto netto tra consumo e reinvestimento.

Il fatto solo che il reinvestimento in impianti produttivi si chiami, anche negli schemi russi, risparmio sul reddito, è altra prova della comune natura delle due economie. Nel capitalismo di Stato il reddito di intrapresa dovrebbe pervenire tutto non a singoli ma allo Stato-padrone, ed abbiamo quindi la strana figura economica dello Stato, non assorbitore dei risparmi dei cittadini sui loro redditi, ma egli stesso risparmiatore. Non si tratta di altro che di un risparmio forzato, e non del socialistico veto ad ogni possibilità privata - e alla fine anche pubblica - di accumulazione.

Risparmi e godimenti

I concetti sono ardui, le cifre concrete forse meno. Ecco come si parte nella gara.

Sappiamo che industrialmente la prima condizione può reggere. Il ritmo americano è il 5 per cento annuo circa, quello russo l'11 per cento. Quanto ne viene consumato? Una notizia della solita «Associated Press» sulla fortunata annata 1955 - in Russia, nei paesi satelliti, nell'ovest Europa - ci dà questo confronto del consumo del prodotto tipico, l'acciaio, dopo aver confermato le favorevoli cifre dell'aumento della produzione. Negli Stati Uniti e nell'ovest Europa il 40 per cento sarebbe adoperato per articoli di consumo e costruzioni edili, il resto per nuove macchine industriali e usi militari.

In Russia solo 9 milioni di tonnellate sulle 45 note, del 1955, andrebbero ai consumi, e il resto (80 per cento) all'industria e alla guerra.

Bulganin può qui rispondere che andando nel 1960 ai noti 68, si ripartirà diversamente l'aumento di 23 milioni di tonnellate. Vi è una sola via: il disarmo.

Circa la produzione agraria il caso è diverso. Il ritmo degli Stati Uniti di aumento è minimo: 0,5 per cento, come da un prospetto del «Manchester Guardian», che conferma la critica dì Krusciov. Ma la stessa Russia nei Piani antebellici era moderata: ottenne non più dell'1,4 per cento. Vecchio Marx, tu l'hai detto; sotto il capitalismo l'agricoltura non corre, sì l'industria. Teorema inverso: ove tanto dice la statistica, ivi capitalismo alligna!

Quindi il progettato 12 per cento per cinque anni, come abbiamo detto, non si potrà verificare. E senza il pianificato 70 per cento nel quinquennio agricolo, mancata la seconda condizione, l'ascesa del 60 per cento nel reddito resterà illusione.

Non possono dunque farsi previsioni rosee circa l'aumento del consumo medio e dei tenore di vita.

Gli economisti occidentali sembrano aver ragione nello stabilire che la percentuale di accantonamento per investimenti di capitale è molto più alta in Russia che non in Occidente. Fino al 1950 essa si è aggirata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti intorno al quinto, in Russia quasi al doppio (il 38 per cento). In Italia, se si seguisse il «Piano Vanoni», si dovrebbe avere un ritmo elevato, ma non al grado di quello russo.

Non si tratta qui di confronto tra capitalismo e socialismo (nel quale caso il secondo sarebbe fregato) ma tra capitalismo di paesi maturi e - maledetti loro - vincitori di tutte le guerre egemoniche, e capitalismo di paesi principianti, o che risorgono dopo la devastazione delle sconfitte.

Consumo «popolare»

Il lato equivoco delle teorie euforiche è che danno la caccia all'indice medio, e se compulsate circa gli indici estremi assumono che migliori il livellamento nazionale del reddito e del consumo. Americani e russi sono qui molto sospetti entrambi. Comunque, per un vero marxista l'ingiustizia distributiva è l'ultima delle nequizie del capitalismo, e chi tanto ha capito può per ora lasciare libero corso all'emulazione nel mentire.

Secondo Bulganin - e facendo fede sul 70 per cento quinquennale di maggior prodotto della terra - dato il maggior reddito del 60 per cento sarà possibile migliorare i salari reali del 30 per cento, mentre le entrate dei colcosiani lo saranno del 40 per cento. Saremmo dunque sempre nel taglio della forbice capitalista, in quanto chi fa gli abbondanti manufatti riceve meno, e chi i radi prodotti alimentari riceve più. Ove, anche in senso immediato, la funzione di guida della classe operaia su quelle piccolo-borghesi?

A detta di Krusciov il V piano quinquennale avrebbe visto salire il reddito globale del 68 per cento, i salari operai del 39 per cento e i guadagni rurali del 50 per cento. Il rapporto è lo stesso. Dunque nessuna «svolta» in questa economia di capitalismo industriale avaro con gli operai, e di relativa grassa piccolo-borghese contadina.

Krusciov asserì che del reddito tre quarti servono a soddisfare le esigenze della popolazione, e dunque contrappone un 25 per cento al 38 per cento dedotto dagli economisti di Oxford. Ma si può, accantonando, con un ingranaggio burocratico e dispendioso (come dalle stesse critiche recenti), solo il quarto del prodotto netto di un anno, ottenere che nell'anno successivo il prodotto lordo scatti del 12 per cento, il che viene a dire che bisogna aggiungere altrettanto a tutto il valore capitale dei mezzi di produzione, o poco meno, per cresciuta produttività tecnica? Dovrebbe il prodotto totale raggiungere metà del capitale (inteso nel senso borghese), e ciò, specie in Russia, è assurdo. La follia che ivi imperversa è di sublimare l'investimento, calpestare il consumo.

Il moderno forzato

Se dunque vanno prese con beneficio d'inventario le cifre sul miglioramento dei consumi, non deve altro pensarsi delle promesse di riduzione degli orari di lavoro.

Si dovrebbe attendere il 1957 per arrivare a sei giornate di sette ore, ossia 42 ore la settimana, ovvero cinque di otto ore, ossia 40? A parte il forte dubbio sulle ipotesi di calcolo, si tratta di un traguardo già noto, ad esempio, all'industria italiana e non basta a superare la pochezza di tali risultati la considerazione dell'«assenza di disoccupazione». Le delizie della civiltà moderna mercantile e le premure assistenziali e creditizie - altro campo in cui si annunzia un vasto scimmiottare dell'Occidente - consistono nel fare oscillare, tra paurosi incerti, l'armata umana di lavoro tra gli estremi della piena libertà di crepare di fame, e la forma schiavista dell'occupazione, che in tanto è totale in quanto è forzata, e che tende, in questo mondo divenuto a detta di quei signori conquistabile per «persuasione», sempre più a dilagare dall'atmosfera di guerra, in cui sorse terrorizzando, a quella di pace. Della orribile loro pace.

L'antico schiavo e il servo della gleba cominciano a poter guardare dall'alto il lavoratore moderno. Essi, è vero, non si potevano spostare dal luogo d'impiego; ma non erano, nemmeno, tenuti ad andare in guerra. Il moderno sta sotto l'incubo della guerra, e l'alta probabilità di morte, lesione, prigionia e lavoro forzato. Mentre la guerra antica, inoltre, camminava al passo verso il civile, la moderna vola. E affama migliaia di miglia avanti ai fronti ogni non combattente (mentre il militare sotto dati moderni profili se la spassa perfino). In pace lo ingozzano di prosperità statistica e di libertà commerciale: vediamo che anche qui al Kremlino si sogna una vera orgia emulativa: empori senza code, merci varie e ruffiane, titillamento delle mode, e dei gusti, dritti e rovesci. Presto si arriverà al capolavoro d'America: il consumo a credito. Con questo sistema il lavoratore, illuso magari di essere partecipe del capitale di azienda, è non più padrone, ma debitore dell'arredamento della sua casa, e se possiede anche la casa, del valore di essa. Praticamente è come lo schiavo, che era debitore del valore netto della sua persona, dopo nutrito.

Già è stato definito feudalismo industriale questo sistema americano del credito, che lega il lavoratore al suo luogo dì lavoro, e di debito. Un ulteriore passo della «crescente miseria», che significa perdita di ogni «riserva» economica. Il proletario classico è a riserva zero, il moderno ha una riserva negativa: deve pagare una forte somma per potersene andare nudo dove voglia. Come pagare, se non come a Shylock, con una fetta di natica?

La collana dell'alto tenore di vita e del benessere, ideali comuni ai due mondi in gara della contemporanea civiltà «quantitativa», vale il filo spinato dei campi di concentramento, vegliati da tutte le bandiere.

Danza di magro delle calorie

Dicevamo che giusta l'«Unità» oggi, e non al 1960, il consumo alimentare del popolo russo sarebbe al livello di 3020 calorie, contro le 2340 italiane, mentre solo America e Inghilterra sono poco più sopra, 3100. Il russo avrebbe 92 grammi di proteine giornaliere, contro 75 dell'italiano; sarebbe battuto solo dal francese con 99.

Al XX congresso non hanno dato cifre dei consumi alimentari, se non per asserire che nel quinquennio si sono raddoppiati, non i quantitativi del consumo, ma quelli dello smercio traverso le reti statali e cooperative, cosa ben diversa.

La statistica sta a mostrare che ogni popolo poco alimentato, come l'italiano, mentre è dotato mediamente di cereali e zuccheri, sta in difetto per carne, latte e grassi. Stanno al di sopra Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Paesi Scandinavi, e anche Francia, specie in quanto hanno forti dotazioni zootecniche. I paesi ad alimentazione prevalentemente vegetale stanno sotto le 2500 calorie.

La dotazione di carni dipende, specie per economie chiuse, da quella di capi bovini, suini, ecc., rispetto alla popolazione.

Limitiamoci ad un confronto tra Stati Uniti e Russia, e... Italia.

Bovini: Stati Uniti capi per abitante 0,66. Russia 0,25. Italia 0,20. Suini: Stati Uniti 0,34. Russia 0,13. Italia 0,10.

Possiamo fare un confronto dei cereali; accettati per la Russia i 1.800 milioni di quintali di Bulganin, nel 1960, sono oggi - come già detto - 1050 milioni, che fanno 4,7 quintali per abitante. Stati Uniti 1400 milioni di quintali, 9 per abitante. Italia 160 milioni, 3,5 per abitante.

Ce n'è abbastanza per stabilire che, se in Russia la dotazione è superiore a quella italiana, certo essa sta enormemente al di sotto dell'America (e paesi affini) ed è pura invenzione che le calorie alimentari stiano al livello americano di oltre tremila: esse non possono essere, date le 2.340 italiane, che al massimo 2500, deliberatamente esagerando.

È noto come questi indici varino in Italia tra il Nord e il Sud. Ne è stata recentemente ancora una volta riferita la causa alla spettacolosa prolificità del Sud. Abitanti in più 891.000 nel quinquennio, su 12 milioni: 7,5 per cento!

Krusciov ha detto che nei cinque anni del V piano la popolazione russa (intendiamo sempre tutta l'U.R.S.S.) è aumentata di ben 16 milioni e 300 mila.

Ammesso che nel 1950 fosse di 202 milioni, l'aumento è dell'8 per cento in cinque anni, ossia di circa l'uno e mezzo per cento all'anno.

Krusciov conchiude che ciò prova che i russi mangiano molto! Anche qui, a questo banale livello, si parla da antimarxisti! Dove si figlia molto, ivi si mangia poco. Vuole Krusciov gli indici di Inghilterra, America, Nuova Zelanda e Scandinavia, in tatto di prole? In Russia non solo si mangia poco, ma si migliora poco la razione, perché la produzione agraria cresce appena collo stesso ritmo (nelle realizzazioni, non nelle vanterie) della popolazione.

La fame russa è dello stesso livello di quella (che i signori dell'«Unità» condiscono in ben diversa, ma sempre farisaica, letteratura) di Partinico, di Venosa, di Barletta.

L'emulazione condurrebbe, ancora una volta, a fare di cappello ai paesi più ignobilmente, crassamente borghesi e anti-rivoluzionari del mondo.

E a tanto, rapidamente, condurrà

Cifre e pacifismo!

Una dura argomentazione, a cui non ci risulta sia stata data una risposta sovietica, accoglie da parte americana l'annunzio russo, successivo al XX congresso, di una riduzione di effettivi delle forze armate russe per milioni di uomini.

Negli ultimi otto anni la popolazione russa cresce con un ritmo prepotente, come prima dell'ultima guerra. Ma la natalità e l'aumento si fermarono bruscamente nel 1942, 1943 e 1944 per le terribili ecatombi nella lotta coi tedeschi. Quelle «classi» giungono ora all'età della leva militare. La curva della diminuzione dei maschi sedicenni disponibili dal 1956 al 1960 sarà paurosa.

Non avalliamo le cifre, ma esse sono queste («Rome Daily American», 29 maggio 1956). I maschi nati in Russia in un anno salirono dal 1934 al 1939, da 1.300.000 a 2.400.000 (ci pare aumento troppo forzato). Scendono nel 1940 a 2.100.000, nel 1941 a 1.800.000, nel 1942 a 800.000, nel 1943 a 300.000, nel 1944 a 300.000. Non solo la prospettiva 1960 è quindi, dicono gli americani, di pochi soldati, ma anche di scarsi lavoratori.

Quali che siano le cifre vere, un fatto è sicuro. La Russia è uno Stato capitalista perché ha immolato milioni di vite di proletari, che costituirono un pagamento di plusvalore in masse enormi, al capitale di Occidente. Questo allora risparmiò milioni e milioni di vite, oggi tradotte a suo beneficio di bilioni e bilioni di dollari. Lo stesso truculento Stalin, qui fu truffato. Solo una lega mondiale degli operai può capovolgere questo sanguinoso conto attivo dell'infamia capilista internazionale.

La Russia d'oggi è popolata, ma soprattutto di anziani e di fanciulli. Può molto consumare, meno produrre, meno combattere.

Offre pace a quelli, cui si deve offrire guerra sociale, nel cuore del loro cuore.

Da «Il programma Comunista» n. 8 del 1956. Pubblicato in volume nel settembre dello stesso anno.

 

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