Il cartello del petrolio e le basi della conservazione capitalistica

La pubblicazione del rapporto dell'ECE sui prezzi del petrolio nell'Europa occidentale è capitata proprio mentre in Italia la acre polemica sul petrolio, che come si sa è stato scoperto in Sicilia e in Abruzzo, si faceva più serrata. Con­viene riportarne, per quanto possi­bile, le risultanze, perché non si può comprendere la lotta che si sta svolgendo in Italia attorno ai pozzi petroliferi senza possedere il quadro generale della strapotente organizzazione internazionale che controlla il mercato mondiale del prezioso liquido.

Lo sfruttamento capitalistico del­l'industria del petrolio è un argo­mento quanto mai importante per chi, come noi, si preoccupa quoti­dianamente non già di trovare conferme alle posizioni teoriche e po­litiche del marxismo, che di con­ferme ne hanno raccolto fin troppe, ma di mostrare come nessun av­venimento contingente si riveli non incasellabile nei casi previsti da un secolo dal marxismo. Orbene, essendo assolutamente indiffe­rente sapere se ne abbiano avuto o meno il sospetto, gli alti funzio­nari della Commissione economica per l'Europa delle Nazioni Unite (ECE) che risiede a Ginevra, han­no, stilando il rapporto summenzionato, apportato l'ennesima prova che il meccanismo economico e po­litico del capitalismo non sfugge alle leggi che gli scoprì Marx fin da quando l'odierna fase che Lenin definì "imperialista" era ancora una realtà virtuale.

Il rapporto dell'ECE ha "ri­velato" il meccanismo mediante il quale il cartello internazionale del petrolio riesce a realizzare immensi sopraprofitti sui petroli del Medio Oriente, imponendo un prezzo uni­co di mercato equiparato al prezzo di produzione dei pozzi a più basso rendimento. Ha "rivelato", inoltre, che il commercio degli olii minerali, specie nel Medio Oriente, è controllato monopolisticamente da otto grandi compagnie che poggiano su capitali statunitensi, inglesi, olandesi e francesi. Il risultato è che l'Europa occidentale paga il petrolio che importa dal Medio Oriente sei volte tanto il prezzo di produzione. Ma inglesi, olan­desi e francesi, che abbiamo visto additare come membri del gigan­tesco consorzio internazionale del petrolio, non sono essi stessi parte dell'Europa occidentale?

La stampa di sinistra, che da tempo ha impostato su basi nazionalistiche la questione della ge­stione dei pozzi petroliferi italiani, ha presentato le risultanti del rap­porto dell'ECE in maniera da fare apparire l'esoso sfruttamento con­dotto dal gigantesco cartello del petrolio come derivante dalla spo­liazione dell'indipendenza e della sovranità fatta subire a Stati mi­nori dai colossi dell'imperialismo. Con siffatta interpretazione unila­terale bene si conciliano le posi­zioni di sfacciato nazionalismo eco­nomico assunte dai partiti cosiddet­ti proletari in materia di petrolio. Sicuramente la potenza materiale degli Stati, cioè la forza politica, è un elemento che non si può separare nella lotta per l'accaparramento capitalistico del petrolio, dalla potenza economica e finanzia­ria. Ma la fissazione del prezzo di vendita dei petroli controllati dal cartello internazionale, che è il punto di partenza del realizzo degli enormi sopraprofitti, obbedisce ad. una legge essenzialmente economi­ca che Marx un secolo fa espose nella sua teoria della rendita. Si combatte perciò seriamente contro gli effetti sociali di essa, non già invocando impossibili autolimitazioni di potenza dagli Stati massimi dell'imperialismo, ma, al contrario, conducendo una lotta rivoluziona­ria contro le basi storiche del ca­pitalismo.

Il rapporto dell'ECE ha provato che l'Europa occidentale è sottoposta allo sfruttamento del cartello quadripartito? Certamente. Ma, ri­petiamo, almeno tre delle stesse nazioni che figurano con i loro capitali e le loro bandiere nel trust del petrolio, fanno parte dell'Eu­ropa occidentale. Allora il proble­ma non si imposta in termini di nazioni, ma sibbene in termini di classi. Ciò si comprende appena si accorge che una diversa politica del consorzio è cosa impossibile, perché segnerebbe la rovina, ferme restando le leggi dell'economia mercantile e monetaria, della industria del petrolio, da cui consegui­rebbe una minaccia di morte per la stessa conservazione della classe borghese.

Il rapporto dell'ECE è venuto ad addurre l'ennesima prova, semmai ce ne fosse bisogno, che il petrolio, come altri articoli di monopolio, finché resterà merce scambiabile con denaro, cioè finché esisterà il capitalismo, sarà venduto nelle condizioni-capestro imposte dal cartello internazionale. Le leggi del mercato vietano che lo stesso articolo di monopolio possa essere venduto a prezzi diversi, anche se determinate condizioni economiche permettano di produrre a costi differenziati. Il petrolio, per il diverso grado di efficienza dei pozzi a seconda della configurazione geologica del giacimento e dell'età del suo sfruttamento, vieni prodotto a costi diversi. Certi pozzi in via di esaurimento hanno un bassissimo rendimento e quindi producono ad alti costi; altri scavati di recente o giovantisi di fattori naturali, co­me può essere ad esempio l'ausilio della pressione naturale dei gas sotterranei che rendono super­flue le spese di impianto delle pompe, registrano un altissimo gra­do di produttività, e quindi minori costi di produzione. Stando cosi le cose si comprende agevolmente che, se il prezzo di vendita del pe­trolio fosse equiparato al prezzo di produzione del greggio estratto dai pozzi ad alto rendimento, una sicura condanna a morte peserebbe sui pozzi a bassa produzione. Ma essendo la produzione complessiva limitata, bisogna mantenere in ef­ficienza anche i pozzi a basso ren­dimento, e ciò comporta che il prodotto complessivo dell'intera ca­tena di aziende, controllate dal con­sorzio, viene legato ad un prezzo unico che è poi il prezzo di produ­zione dei pozzi meno redditizi.

Perché il petrolio del Medio Oriente, che registra i più bassi costi di produzione, si vende ad un prezzo di mercato sei volte mag­giore? Gli Stati Uniti dispongono della più forte produzione di greg­gio del mondo. Su un totale di 613 milioni di tonnellate prodotte in ordine di grandezza dal Venezuela, Kuwait, Arabia Saudita, Irak, Iran, Indonesia e dagli altri paesi del Medio Oriente, la produzione degli Stati Uniti se ne aggiudica ben 312, cioè appunto il 50 per cento della produzione mondiale di greggio, escluse le potenze petrolifere del blocco russo (URSS: 58 milioni di tonn. e Romania: 10 milioni di tonnellate).

Ma la superiorità quantitativa della produzione americana non si accompagna a un eguale primato nel campo del rendimento. Si ri­cava infatti, dal rapporto ECE, che la produzione giornaliera dei pozzi degli Stati Uniti è pari a 31 barili di olio minerale, mentre la produ­zione giornaliera del Venezuela re­gistra 200 barili quotidiani, che vengono preceduti essi pure con un distacco enorme dai pozzi del Me­dio Oriente (5000 barili quotidiani). Kuwait poi detiene il primato asso­luto mondiale di produttività arri­vando all'altezza di 9000 barili al giorno! Come si spiega il basso ren­dimento dei pozzi statunitensi? Lo abbiamo già detto: si spiega con l'intensa coltivazione dei giacimenti che adesso accusano segni di esau­rimento. Gli Stati Uniti riescono a mantenere la produzione di greggio ai presenti altissimi livelli quantitativi procedendo continuamente a nuove perforazioni. Se­condo una statistica compilata da un noto settimanale, i magnati del petrolio americani avrebbero sca­vato una media di 28 mila pozzi all'anno nel decennio 1937-1947. La cifra sarebbe salita a 33 mila nel 1947, ed a 40 mila nel 1948. In quasi cento anni i pozzi perforati dalle compagnie petrolifere statu­nitensi, sempre a dire della rivista in parola, assommerebbe a qualcosa come un milione. È chiaro che la bassa resa media dei pozzi deri­vante dal progressivo esaurirsi del­le riserve naturali e le enormi spe­se per la ricerca e la perforazione dei nuovi pozzi (viene calcolato che un pozzo viene a costare da 36 milioni di lire ad 800) incidono fortemente sui costi di produzione del greggio, il che non avviene, relativamente parlando, per le zo­ne petrolifere "giovani" del Medio Oriente.

Per colmare appunto il grosso divario di costi tra i petroli statu­nitensi e quelli del Medio Oriente entra in gioco la legge economica che Marx descrisse nella teoria della rendita. Poiché abbassare i prezzi di vendita dei petroli ame­ricani non si può, pena il falli­mento economico delle ditte inte­ressate, si impone, allora, un prez­zo unico ai petroli controllati nel­le varie regioni del mondo dal cartello internazionale, un prezzo appunto che faccia salvo il profitto ricavato dai petroli ad alti costi. Di conseguenza il cartello interna­zionale viene a realizzare oltre al profitto normale enormi sopraprofitti (la rendita differenziale di Marx) che sono dati appunto dalla differenza tra costi di produzione (per Marx il prezzo di produzione è comprensivo dell'equivalente del capitale costante, del capitale va­riabile e del profitto) e prezzo di mercato.

Colonialismo senza colonie

Per le particolari condizioni sto­rico-sociali e costituzionali dei pae­si del Medio Oriente, produttori giganteschi di petrolio ma non ge­stori dei pozzi, che i locali governi e monarchie semi-assolutiste cedo­no in concessione al cartello inter­nazionale, parrebbe che non potesse toccare che a loro la qualifica di principale oggetto dello sfrutta­mento condotto dal cartello del pe­trolio. È vero invece che sono proprio i potenti e superbi Stati della civile Europa a farsi docili strumenti della soffocante politica di oppressione dei magnati coaliz­zati del petrolio. Con ciò non in­tendiamo minimamente concedere alle aberrazioni ideologiche dei partiti pseudomarxisti, per i quali è affare di tutti i giorni isolare dal corpo unitario della classe dominante una borghesia "nazionale", democratica e patriottica (i "capi­talisti onesti" di Togliatti) e opporla assurdamente alle potenze imperialiste. Non è l'Europa, ter­mine che socialmente dice nulla, ma sono le masse lavorataci dell'Europa che, in ultima analisi, pa­gano gli smisurati sopraprofttti del cartello del petrolio. Al contrario, le borghesie locali partecipano, di­rettamente o per vie traverse, al gigantesco banchetto di utili, non esclusi i capitalisti italiani che, tra cointeressenze nelle raffinerie esi­stenti nella penisola e tra noli marittimi per il trasporto del greg­gio, si pappano larghe fette di utili.

L'Europa importa dal Medio Oriente quasi tutto il fabbisogno di olio minerale. Nel 1952, su una complessiva importazione di 69.5 milioni di tonnellate di petrolio greggio, l'Europa occidentale riti­rò soltanto dal Medio Oriente per 64.8 milioni di tonnellate, equiva­lenti ad oltre il 90 per cento del totale. I paesi importatori non con­sumano tutto il greggio importato dato che sono in grado, per l'in­cremento subito dall'industria di raffinazione, di trasformare una quantità di greggio superiore al fabbisogno interno. Infatti, nel lu­glio 1954 le importazioni europee di greggio si avvicinavano ai 97 milioni di tonnellate, mentre il con­sumo non oltrepassò i 75 milioni annui. Esiste, dunque, un sensibile margine tra importazione e consu­mo che viene riesportato sotto for­ma di raffinati. E ciò prova, a scorno dell'Unità, come la derelitta Europa, cioè i capitalisti europei, traffichino a dovere il prezioso li­quido estratto dalle viscere della penisola arabica o dalle pianure della Mesopotamia e dell'Iran.

Il valore annuo della produzione delle raffinerie dell'Europa occiden­tale, che trasformano il petrolio grezzo in benzina, nafta, petrolio illuminante, bitumi, ecc., si aggira sui 2 miliardi e 200 milioni di dollari. Ma alle ditte che gestiscono le raffinerie tocca soltanto un boc­cone di tanto sostanzioso piatto, e ciò fa indignare la stampa social-comunista che vede in tale circo­stanza la prova che la povera Eu­ropa languisce, da povera vittima sfruttata, nelle grinfie del cartello internazionale, e, per esso, degli Sta­ti Uniti. Non si discute il fatto che, come risulta dal rapporto ECE, il trust internazionale del petrolio intasca oltre il 75 per cento del va­lore della produzione dei raffinati dell'Europa occidentale innanzi tutto perché il prezzo del petrolio greggio vi entra per quasi la metà, e, in secondo luogo, per il fatto che le spese di trasporto (noli marittimi) assorbono un altro quarto. In altre parole, su un valore di 2 miliardi e 200 milioni di dollari le raffinerie dell'Europa occidenta­le debbono contentarsi di circa un 25 per cento, pari a 550 milioni di dollari, da cui trarre le spese per la lavorazione (capitali di eserci­zio e salari) e il profitto d'azienda. Ma chi controlla le raffinerie?

Di fronte a tanta "ingiustizia" la stampa social-comunista, cioè na­zionalista di fatto e comunista di nome, ha bell'e pronto il rimedio: scioglimento del cartello internazio­nale, libertà per l'Europa (leggi: per i capitalisti europei) di impor­tare il petrolio grezzo del Medio Oriente senza passare al di sotto delle forche caudine del cartello americano-anglo-franco-olandese. A parte il fatto che la demolizione del cartello segnerebbe uno sconvolgi­mento tremendo nell'industria del petrolio, tale da mettere in forse la stabilità economica, e quindi sociale e politica dei massimi Stati capitalistici del mondo, i quali lo sanno troppo bene e non intendono affatto suicidarsi; a parte ciò, c'è da chie­dersi a chi gioverebbe la riduzione del prezzo del petrolio grezzo. C'è proprio bisogno di chiederselo? Ai capitalisti europei della raffinazione! Ma la linea divisoria separante le aziende europee dal cartello in­ternazionale del petrolio esiste so­lo nelle demagogiche invenzioni dei nazionalisti reazionari travestiti da socialisti e da comunisti. E a ri­prova di ciò sta non soltanto il fatto che nel cartello internazionale sono rappresentate, ripetiamo, com­pagnie petrolifere di Gran Bretagna (Anglo-Iranian), di Olanda (Shell) e di Francia (Compa­gnie Française des Pétroles), le quali controllano anche vastissimi e predominanti settori della raffinazione, ma sta altresì il fatto non meno importante che considerevoli capitali locali (l'Unità direbbe: ca­pitali nazionali o nazionalizzati, se si discorresse, ad esempio, dell'ENI) sono investiti nell'industria di raffinazione in società con ca­pitali stranieri.

Esistono, infatti, per restare nel­l'ambito dell'Italia, raffinerie diret­tamente gestite da società petroli­fere controllate dal trust interna­zionale del petrolio. Esempi: l'Inpet, che ha sede a La Spezia, ma è una filiazione del gruppo anglo-­olandese Shell; la Esso-Standard di Trieste e la Socony-Vacuum di Napoli la cui dipendenza aziendale è rivelata apertamente. Ma va cosi per tutte le altre raffi­nerie che esistono in Italia? Ri­spondiamo con quanto leggiamo nel­l'Unità del 5-3-1955, e cioè con il brano seguente: "Non sempre il capitale straniero è solo (nel ramo della raffinazione del petrolio grezzo ). Frequente è il sistema della 'mezzadria', del connubio fra società capitalistiche americane, inglesi e italiane e persino (udite! udite!) tra compagnie private straniere e gruppi statali italiani. È il caso della Sarpom di Trecate (Novara) finanziata in parti uguali dalla società messicana Caltex e dalla Fiat; della Irom di Porto Marghera (Venezia) che appartiene all'Agip (51 per cento del pacchetto azionario) e all'Anglo-Iranian; della Stanic, che ha stabilimenti a Livorno e Bari, di cui il capitale (14 miliardi) è per il 50 per cento della Standard e per il 50 per cento dell'Anic; è il caso a sua volta dell'Anic stessa che per il 48,5 per cento è di proprietà dell'ENI, mentre il resto è data in pascolo a numerosi azionisti, tra i quali figu­rava, almeno fino a due anni fa, anche la Montecatini, alleata, non dimentichiamolo, della Gulf; è, infine, il caso della Purfina che possiede quattro raffinerie (fra cui la famosa Permolio di Ro­ma) finanziata (al 70 per cento) dalla compagnia belga Petrofina, la quale pretende di non far parte, almeno ufficialmente, del cartello internazionale, ma che gestisce pozzi di petrolio del Canada ". Ec­co chi controlla le raffinerie!

Dopo aver letto codesto documentatissimo pezzo dell'Unità (a via Botteghe Oscure non mancano i mezzi di informazione!) ci si con­vince maggiormente di quanta fal­sità e demagogia siano imbottite le conclusioni che sul piano politico trae proprio lo stesso giornale di partito. Vendere sei volte meno il petrolio persiano in Europa – come urlava in tono di diffida un titolo dell'Unità – gioverebbe certamente alle raffinerie italiane, le quali non dovrebbero più pagare per il solo petrolio grezzo e i noli marittimi per il suo trasporto quasi tre quarti del valore totale della produ­zione. Ne verrebbero a pagare una cifra sei volte minore. Di conse­guenza ribasserebbero la benzina e la nafta, scenderebbero di rifles­so i costi delle industrie meccani­che, la Fiat 600 sarebbe accessibile a tutti... e per ottenere ciò votate frattanto per le liste del PCI e del PSI che una tomba al trust internazionale la stanno sicuramen­te scavando! Come se i nostri in­calliti affaristi queste cose le igno­rassero!

Con grave scorno per i riforma­tori social-comunisti del capitali­smo, la riduzione dei costi e l'au­mento del volume delle vendite hanno costituito, fin da quando i primi borghesi capitalisti compar­vero al mondo, il comandamento n. 1 della loro scienza e della loro attività pratica economica. Se le raffinerie dell'Europa occidentale si associano intimamente, attraverso coalizioni dirette o indirette, con le compagnie-membri del cartello internazionale che monopolizza il commercio del petrolio grezzo; se ne seguono la politica dei prezzi, anziché avversarla, tale fatto si spiega con una esigenza vitale tal­mente imprescindibile che debba superare e mettere a tacere gli in­teressi sezionali e particolari (pe­trolieri, raffinatori, trasportatori marittimi, ecc.) che si scontrano nel mondo dei cresi del petrolio. Tale esigenza suprema non può es­sere che la conservazione del do­minio di classe.

Pur di mantenere in piedi la roccaforte del capitalismo e della controrivoluzione mondiale (gli Sta­ti Uniti), che risulterebbe gravemen­te minata in seguito ad un even­tuale crollo dell'industria petroli­fera, il prezzo di vendita del pe­trolio grezzo che il trust interna­zionale impone, deve stare alla quota toccata dagli alti costi di produzione dei pozzi americani. Per tale sacrosanto motivo di clas­se, il petrolio del Medio Oriente che potrebbe essere venduto a qua­si trenta centesimi di dollaro viene a costare invece un dollaro e set­tantacinque centesimi per barile. Se tale esorbitante prezzo dovesse subire riduzioni, verrebbe a manca­re la convenienza economica di coltivare i giacimenti ad alti costi degli Stati Uniti: la incontenibile concorrenza dei petroli del Medio Oriente renderebbe necessario chiu­dere molti pozzi americani. Ma a chi gioverebbe un disastro dell'in­dustria petrolifera americana? Non certamente ai membri europei del cartello internazionale i quali si spartiscono con i soci d'oltreatlan­tico favolosi sopraprofitti di cui mettono a parte le società a capi­tale misto estero-nazionale. Forse gioverebbe agli esportatori di pe­trolio del blocco russo-orientale i quali praticano, è vero, prezzi più bassi che quelli del cartello inter­nazionale, ma non dispongono della potenza finanziaria e militare che si erge dietro il monopolio quadri­partito del blocco occidentale.

La differenza tra il prezzo di produzione (per usare la terminolo­gia marxista che con tale termine indica il valore risultante dalla ad­dizione delle tre sezioni del capi­tale costante, del capitale variabile e del profitto) e il prezzo di mercato dei petroli controllati dal trust, si ricava da un calcolo isti­tuito dai compilatori del rapporto dell'ECE. Costoro hanno stabilito, partendo dall'ammontare delle spettanze pagate all'Arabia Saudita, che su 300 milioni di barili di olio minerale la Aramco, una com­pagnia statunitense collegato ai trust internazionale, ha realizzato, l'anno scorso, un profitto di 425 milioni di dollari, e cioè un utile per barile di dollari 1.40. Detraendo tale cifra dal prezzo di mercato per barile di dollari 1.45 si ricava che il prezzo di produzione (sempre per barile) del petrolio estratto dalla Aramco si aggira appunto su trenta centesimi di dollaro.

Chi paga tale enorme soprapro­fitto, siffatta smisurata rendita dif­ferenziale? La risposta della stam­pa social-comunista è idiota quanto disfattista: l'Europa occidentale! Ma il vecchio continente è sede di una società di classi che, se non fosse ancora provato che hanno interessi opposti, si potrebbe farlo benissimo ora vedendo in quale posizione stanno le borghesie eu­ropee di fronte al cartello del pe­trolio. L'abbiamo detto e lo ripetiamo, le borghesie europee sono esse stesse parti contraenti del consorzio internazionale o alla po­litica di questo legano indirettamente (produzione e vendite dei raffinati, trasporti del greggio, ecc.) immensi interessi. Se dunque il capitalismo europeo partecipa al pan­tagruelico banchetto di sopraprofitti petroliferi, è chiaro che questi deb­bano uscire dal lavoro e dal sangue delle masse lavoratrici europee. Perciò dicevamo dianzi che il prin­cipale oggetto dello sfruttamento e la più ricca colonia del trust del petrolio sono, molto più che il sot­tile strato salariato indigeno che lavora nei pozzi del Medio Orien­te, le masse salariate dell'Europa occidentale. Allora che fine faran­no le stupide e controrivoluzionarie posizioni social-comuniste che pre­tendono di accordare gli interessi delle classi nell'ambito nazionale e opporre un tale assurdo blocco di forza contro l'invadenza del "capi­tale straniero"? Il capitale maneg­giato dal trust del petrolio, se si è capito quanto fin qui esposto, non è, a rigore, né americano né inglese né francese né olandese; è, al contrario, una potenza senza no­me e senza borghesia internazionale, di tutto quanto il campo del­la reazione capitalistica.

Come si può, allora, senza voler fare della demagogia fabbrica-voti adatta a carpire voti elettorali alle masse fatuamente patriottarde del­la piccola borghesia, auspicare il fronte unico delle classi, la union sacrée della nazione contro il cartello internazionale del petrolio? Senza contare l'interesse immediato e i vantaggi finanziari diretti che le borghesie locali traggono dal commercio del petrolio, altre po­tenti ragioni inducono i governi dell'Europa occidentale, specie quelli a basso potenziale economi­co, a conservarsi il favore dei Gengis Khan del petrolio. Sono es­si, in primo luogo, l'indebitamento sempre crescente dei governi nei riguardi del centro imperialista e il cronico squilibrio della bilancia dei pagamenti che impone ai go­verni di assicurarsi mercati di sbocco, il che si può ottenere, non senza concessioni doganali e commerciali, da parte delle economie maggiori. Tale è il caso soprattut­to dell'Italia, per cui non senza fondamento debbono essere le voci di un negoziato in atto tra Wa­shington e Roma, in base al quale gli Stati Uniti finanzierebbero il Piano Vanoni ottenendo via libera nella corsa al petrolio di Sicilia e di Abruzzo. In secondo luogo, una ragione non meno determinante che impedisce ai governi europei di inimicarsi il cartello del petrolio e il fatto che dietro le otto grandi compagnie che monopolizzano la produzione mondiale (eccettuata la quota del blocco russo-orientale) si erge la potenza militare anglo-americana. Se il petrolio persiano si vende, come lamenta l'Unità, a sei volte il suo prezzo di produzione, ciò è dovuto anche alla ca­pacità dei governi di Washington e Londra di affittare movimenti controrivoluzionari (come il rovesciamento del regime di Mossadek in Persia dimostra) e alle riserve di bombe all'idrogeno.

In conclusione, strappare il pe­trolio dalla stretta della piovra monopolistica si può alla condizione di strappare dalle mani del governo di Washington la bomba H, cioè alla condizione di distruggere il potere di intimidazione e di tre­menda rappresaglia della massima potenza capitalistica. Ma tale gigantesca impresa, destinata ad aprire l'epoca della più grande rivolu­zione della storia, non si conduce a termine invitando i proletari a fare comunella con la propria borghesia contro il "capitale stranie­ro". Combattere e distruggere l'im­perialismo si può alla sola condi­zione di unire il proletariato mon­diale in un solo campo rivoluzionario contro la borghesia e il capitalismo, vibrando i primi colpi proprio alla borghesia interna. Ma tale lotta smisurata non può essere che il compito titanico della "invincibile rivoluzione mondiale".

Da "Il programma comunista" n. 8 del 1955.

Fonte Il programma comunista n. 8
Data 1955
Autore Non firmato
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