Il cartello del petrolio e le basi della conservazione capitalistica
La pubblicazione del rapporto dell'ECE sui prezzi del petrolio nell'Europa occidentale è capitata proprio mentre in Italia la acre polemica sul petrolio, che come si sa è stato scoperto in Sicilia e in Abruzzo, si faceva più serrata. Conviene riportarne, per quanto possibile, le risultanze, perché non si può comprendere la lotta che si sta svolgendo in Italia attorno ai pozzi petroliferi senza possedere il quadro generale della strapotente organizzazione internazionale che controlla il mercato mondiale del prezioso liquido.
Lo sfruttamento capitalistico dell'industria del petrolio è un argomento quanto mai importante per chi, come noi, si preoccupa quotidianamente non già di trovare conferme alle posizioni teoriche e politiche del marxismo, che di conferme ne hanno raccolto fin troppe, ma di mostrare come nessun avvenimento contingente si riveli non incasellabile nei casi previsti da un secolo dal marxismo. Orbene, essendo assolutamente indifferente sapere se ne abbiano avuto o meno il sospetto, gli alti funzionari della Commissione economica per l'Europa delle Nazioni Unite (ECE) che risiede a Ginevra, hanno, stilando il rapporto summenzionato, apportato l'ennesima prova che il meccanismo economico e politico del capitalismo non sfugge alle leggi che gli scoprì Marx fin da quando l'odierna fase che Lenin definì "imperialista" era ancora una realtà virtuale.
Il rapporto dell'ECE ha "rivelato" il meccanismo mediante il quale il cartello internazionale del petrolio riesce a realizzare immensi sopraprofitti sui petroli del Medio Oriente, imponendo un prezzo unico di mercato equiparato al prezzo di produzione dei pozzi a più basso rendimento. Ha "rivelato", inoltre, che il commercio degli olii minerali, specie nel Medio Oriente, è controllato monopolisticamente da otto grandi compagnie che poggiano su capitali statunitensi, inglesi, olandesi e francesi. Il risultato è che l'Europa occidentale paga il petrolio che importa dal Medio Oriente sei volte tanto il prezzo di produzione. Ma inglesi, olandesi e francesi, che abbiamo visto additare come membri del gigantesco consorzio internazionale del petrolio, non sono essi stessi parte dell'Europa occidentale?
La stampa di sinistra, che da tempo ha impostato su basi nazionalistiche la questione della gestione dei pozzi petroliferi italiani, ha presentato le risultanti del rapporto dell'ECE in maniera da fare apparire l'esoso sfruttamento condotto dal gigantesco cartello del petrolio come derivante dalla spoliazione dell'indipendenza e della sovranità fatta subire a Stati minori dai colossi dell'imperialismo. Con siffatta interpretazione unilaterale bene si conciliano le posizioni di sfacciato nazionalismo economico assunte dai partiti cosiddetti proletari in materia di petrolio. Sicuramente la potenza materiale degli Stati, cioè la forza politica, è un elemento che non si può separare nella lotta per l'accaparramento capitalistico del petrolio, dalla potenza economica e finanziaria. Ma la fissazione del prezzo di vendita dei petroli controllati dal cartello internazionale, che è il punto di partenza del realizzo degli enormi sopraprofitti, obbedisce ad. una legge essenzialmente economica che Marx un secolo fa espose nella sua teoria della rendita. Si combatte perciò seriamente contro gli effetti sociali di essa, non già invocando impossibili autolimitazioni di potenza dagli Stati massimi dell'imperialismo, ma, al contrario, conducendo una lotta rivoluzionaria contro le basi storiche del capitalismo.
Il rapporto dell'ECE ha provato che l'Europa occidentale è sottoposta allo sfruttamento del cartello quadripartito? Certamente. Ma, ripetiamo, almeno tre delle stesse nazioni che figurano con i loro capitali e le loro bandiere nel trust del petrolio, fanno parte dell'Europa occidentale. Allora il problema non si imposta in termini di nazioni, ma sibbene in termini di classi. Ciò si comprende appena si accorge che una diversa politica del consorzio è cosa impossibile, perché segnerebbe la rovina, ferme restando le leggi dell'economia mercantile e monetaria, della industria del petrolio, da cui conseguirebbe una minaccia di morte per la stessa conservazione della classe borghese.
Il rapporto dell'ECE è venuto ad addurre l'ennesima prova, semmai ce ne fosse bisogno, che il petrolio, come altri articoli di monopolio, finché resterà merce scambiabile con denaro, cioè finché esisterà il capitalismo, sarà venduto nelle condizioni-capestro imposte dal cartello internazionale. Le leggi del mercato vietano che lo stesso articolo di monopolio possa essere venduto a prezzi diversi, anche se determinate condizioni economiche permettano di produrre a costi differenziati. Il petrolio, per il diverso grado di efficienza dei pozzi a seconda della configurazione geologica del giacimento e dell'età del suo sfruttamento, vieni prodotto a costi diversi. Certi pozzi in via di esaurimento hanno un bassissimo rendimento e quindi producono ad alti costi; altri scavati di recente o giovantisi di fattori naturali, come può essere ad esempio l'ausilio della pressione naturale dei gas sotterranei che rendono superflue le spese di impianto delle pompe, registrano un altissimo grado di produttività, e quindi minori costi di produzione. Stando cosi le cose si comprende agevolmente che, se il prezzo di vendita del petrolio fosse equiparato al prezzo di produzione del greggio estratto dai pozzi ad alto rendimento, una sicura condanna a morte peserebbe sui pozzi a bassa produzione. Ma essendo la produzione complessiva limitata, bisogna mantenere in efficienza anche i pozzi a basso rendimento, e ciò comporta che il prodotto complessivo dell'intera catena di aziende, controllate dal consorzio, viene legato ad un prezzo unico che è poi il prezzo di produzione dei pozzi meno redditizi.
Perché il petrolio del Medio Oriente, che registra i più bassi costi di produzione, si vende ad un prezzo di mercato sei volte maggiore? Gli Stati Uniti dispongono della più forte produzione di greggio del mondo. Su un totale di 613 milioni di tonnellate prodotte in ordine di grandezza dal Venezuela, Kuwait, Arabia Saudita, Irak, Iran, Indonesia e dagli altri paesi del Medio Oriente, la produzione degli Stati Uniti se ne aggiudica ben 312, cioè appunto il 50 per cento della produzione mondiale di greggio, escluse le potenze petrolifere del blocco russo (URSS: 58 milioni di tonn. e Romania: 10 milioni di tonnellate).
Ma la superiorità quantitativa della produzione americana non si accompagna a un eguale primato nel campo del rendimento. Si ricava infatti, dal rapporto ECE, che la produzione giornaliera dei pozzi degli Stati Uniti è pari a 31 barili di olio minerale, mentre la produzione giornaliera del Venezuela registra 200 barili quotidiani, che vengono preceduti essi pure con un distacco enorme dai pozzi del Medio Oriente (5000 barili quotidiani). Kuwait poi detiene il primato assoluto mondiale di produttività arrivando all'altezza di 9000 barili al giorno! Come si spiega il basso rendimento dei pozzi statunitensi? Lo abbiamo già detto: si spiega con l'intensa coltivazione dei giacimenti che adesso accusano segni di esaurimento. Gli Stati Uniti riescono a mantenere la produzione di greggio ai presenti altissimi livelli quantitativi procedendo continuamente a nuove perforazioni. Secondo una statistica compilata da un noto settimanale, i magnati del petrolio americani avrebbero scavato una media di 28 mila pozzi all'anno nel decennio 1937-1947. La cifra sarebbe salita a 33 mila nel 1947, ed a 40 mila nel 1948. In quasi cento anni i pozzi perforati dalle compagnie petrolifere statunitensi, sempre a dire della rivista in parola, assommerebbe a qualcosa come un milione. È chiaro che la bassa resa media dei pozzi derivante dal progressivo esaurirsi delle riserve naturali e le enormi spese per la ricerca e la perforazione dei nuovi pozzi (viene calcolato che un pozzo viene a costare da 36 milioni di lire ad 800) incidono fortemente sui costi di produzione del greggio, il che non avviene, relativamente parlando, per le zone petrolifere "giovani" del Medio Oriente.
Per colmare appunto il grosso divario di costi tra i petroli statunitensi e quelli del Medio Oriente entra in gioco la legge economica che Marx descrisse nella teoria della rendita. Poiché abbassare i prezzi di vendita dei petroli americani non si può, pena il fallimento economico delle ditte interessate, si impone, allora, un prezzo unico ai petroli controllati nelle varie regioni del mondo dal cartello internazionale, un prezzo appunto che faccia salvo il profitto ricavato dai petroli ad alti costi. Di conseguenza il cartello internazionale viene a realizzare oltre al profitto normale enormi sopraprofitti (la rendita differenziale di Marx) che sono dati appunto dalla differenza tra costi di produzione (per Marx il prezzo di produzione è comprensivo dell'equivalente del capitale costante, del capitale variabile e del profitto) e prezzo di mercato.
Colonialismo senza colonie
Per le particolari condizioni storico-sociali e costituzionali dei paesi del Medio Oriente, produttori giganteschi di petrolio ma non gestori dei pozzi, che i locali governi e monarchie semi-assolutiste cedono in concessione al cartello internazionale, parrebbe che non potesse toccare che a loro la qualifica di principale oggetto dello sfruttamento condotto dal cartello del petrolio. È vero invece che sono proprio i potenti e superbi Stati della civile Europa a farsi docili strumenti della soffocante politica di oppressione dei magnati coalizzati del petrolio. Con ciò non intendiamo minimamente concedere alle aberrazioni ideologiche dei partiti pseudomarxisti, per i quali è affare di tutti i giorni isolare dal corpo unitario della classe dominante una borghesia "nazionale", democratica e patriottica (i "capitalisti onesti" di Togliatti) e opporla assurdamente alle potenze imperialiste. Non è l'Europa, termine che socialmente dice nulla, ma sono le masse lavorataci dell'Europa che, in ultima analisi, pagano gli smisurati sopraprofttti del cartello del petrolio. Al contrario, le borghesie locali partecipano, direttamente o per vie traverse, al gigantesco banchetto di utili, non esclusi i capitalisti italiani che, tra cointeressenze nelle raffinerie esistenti nella penisola e tra noli marittimi per il trasporto del greggio, si pappano larghe fette di utili.
L'Europa importa dal Medio Oriente quasi tutto il fabbisogno di olio minerale. Nel 1952, su una complessiva importazione di 69.5 milioni di tonnellate di petrolio greggio, l'Europa occidentale ritirò soltanto dal Medio Oriente per 64.8 milioni di tonnellate, equivalenti ad oltre il 90 per cento del totale. I paesi importatori non consumano tutto il greggio importato dato che sono in grado, per l'incremento subito dall'industria di raffinazione, di trasformare una quantità di greggio superiore al fabbisogno interno. Infatti, nel luglio 1954 le importazioni europee di greggio si avvicinavano ai 97 milioni di tonnellate, mentre il consumo non oltrepassò i 75 milioni annui. Esiste, dunque, un sensibile margine tra importazione e consumo che viene riesportato sotto forma di raffinati. E ciò prova, a scorno dell'Unità, come la derelitta Europa, cioè i capitalisti europei, traffichino a dovere il prezioso liquido estratto dalle viscere della penisola arabica o dalle pianure della Mesopotamia e dell'Iran.
Il valore annuo della produzione delle raffinerie dell'Europa occidentale, che trasformano il petrolio grezzo in benzina, nafta, petrolio illuminante, bitumi, ecc., si aggira sui 2 miliardi e 200 milioni di dollari. Ma alle ditte che gestiscono le raffinerie tocca soltanto un boccone di tanto sostanzioso piatto, e ciò fa indignare la stampa social-comunista che vede in tale circostanza la prova che la povera Europa languisce, da povera vittima sfruttata, nelle grinfie del cartello internazionale, e, per esso, degli Stati Uniti. Non si discute il fatto che, come risulta dal rapporto ECE, il trust internazionale del petrolio intasca oltre il 75 per cento del valore della produzione dei raffinati dell'Europa occidentale innanzi tutto perché il prezzo del petrolio greggio vi entra per quasi la metà, e, in secondo luogo, per il fatto che le spese di trasporto (noli marittimi) assorbono un altro quarto. In altre parole, su un valore di 2 miliardi e 200 milioni di dollari le raffinerie dell'Europa occidentale debbono contentarsi di circa un 25 per cento, pari a 550 milioni di dollari, da cui trarre le spese per la lavorazione (capitali di esercizio e salari) e il profitto d'azienda. Ma chi controlla le raffinerie?
Di fronte a tanta "ingiustizia" la stampa social-comunista, cioè nazionalista di fatto e comunista di nome, ha bell'e pronto il rimedio: scioglimento del cartello internazionale, libertà per l'Europa (leggi: per i capitalisti europei) di importare il petrolio grezzo del Medio Oriente senza passare al di sotto delle forche caudine del cartello americano-anglo-franco-olandese. A parte il fatto che la demolizione del cartello segnerebbe uno sconvolgimento tremendo nell'industria del petrolio, tale da mettere in forse la stabilità economica, e quindi sociale e politica dei massimi Stati capitalistici del mondo, i quali lo sanno troppo bene e non intendono affatto suicidarsi; a parte ciò, c'è da chiedersi a chi gioverebbe la riduzione del prezzo del petrolio grezzo. C'è proprio bisogno di chiederselo? Ai capitalisti europei della raffinazione! Ma la linea divisoria separante le aziende europee dal cartello internazionale del petrolio esiste solo nelle demagogiche invenzioni dei nazionalisti reazionari travestiti da socialisti e da comunisti. E a riprova di ciò sta non soltanto il fatto che nel cartello internazionale sono rappresentate, ripetiamo, compagnie petrolifere di Gran Bretagna (Anglo-Iranian), di Olanda (Shell) e di Francia (Compagnie Française des Pétroles), le quali controllano anche vastissimi e predominanti settori della raffinazione, ma sta altresì il fatto non meno importante che considerevoli capitali locali (l'Unità direbbe: capitali nazionali o nazionalizzati, se si discorresse, ad esempio, dell'ENI) sono investiti nell'industria di raffinazione in società con capitali stranieri.
Esistono, infatti, per restare nell'ambito dell'Italia, raffinerie direttamente gestite da società petrolifere controllate dal trust internazionale del petrolio. Esempi: l'Inpet, che ha sede a La Spezia, ma è una filiazione del gruppo anglo-olandese Shell; la Esso-Standard di Trieste e la Socony-Vacuum di Napoli la cui dipendenza aziendale è rivelata apertamente. Ma va cosi per tutte le altre raffinerie che esistono in Italia? Rispondiamo con quanto leggiamo nell'Unità del 5-3-1955, e cioè con il brano seguente: "Non sempre il capitale straniero è solo (nel ramo della raffinazione del petrolio grezzo ). Frequente è il sistema della 'mezzadria', del connubio fra società capitalistiche americane, inglesi e italiane e persino (udite! udite!) tra compagnie private straniere e gruppi statali italiani. È il caso della Sarpom di Trecate (Novara) finanziata in parti uguali dalla società messicana Caltex e dalla Fiat; della Irom di Porto Marghera (Venezia) che appartiene all'Agip (51 per cento del pacchetto azionario) e all'Anglo-Iranian; della Stanic, che ha stabilimenti a Livorno e Bari, di cui il capitale (14 miliardi) è per il 50 per cento della Standard e per il 50 per cento dell'Anic; è il caso a sua volta dell'Anic stessa che per il 48,5 per cento è di proprietà dell'ENI, mentre il resto è data in pascolo a numerosi azionisti, tra i quali figurava, almeno fino a due anni fa, anche la Montecatini, alleata, non dimentichiamolo, della Gulf; è, infine, il caso della Purfina che possiede quattro raffinerie (fra cui la famosa Permolio di Roma) finanziata (al 70 per cento) dalla compagnia belga Petrofina, la quale pretende di non far parte, almeno ufficialmente, del cartello internazionale, ma che gestisce pozzi di petrolio del Canada ". Ecco chi controlla le raffinerie!
Dopo aver letto codesto documentatissimo pezzo dell'Unità (a via Botteghe Oscure non mancano i mezzi di informazione!) ci si convince maggiormente di quanta falsità e demagogia siano imbottite le conclusioni che sul piano politico trae proprio lo stesso giornale di partito. Vendere sei volte meno il petrolio persiano in Europa – come urlava in tono di diffida un titolo dell'Unità – gioverebbe certamente alle raffinerie italiane, le quali non dovrebbero più pagare per il solo petrolio grezzo e i noli marittimi per il suo trasporto quasi tre quarti del valore totale della produzione. Ne verrebbero a pagare una cifra sei volte minore. Di conseguenza ribasserebbero la benzina e la nafta, scenderebbero di riflesso i costi delle industrie meccaniche, la Fiat 600 sarebbe accessibile a tutti... e per ottenere ciò votate frattanto per le liste del PCI e del PSI che una tomba al trust internazionale la stanno sicuramente scavando! Come se i nostri incalliti affaristi queste cose le ignorassero!
Con grave scorno per i riformatori social-comunisti del capitalismo, la riduzione dei costi e l'aumento del volume delle vendite hanno costituito, fin da quando i primi borghesi capitalisti comparvero al mondo, il comandamento n. 1 della loro scienza e della loro attività pratica economica. Se le raffinerie dell'Europa occidentale si associano intimamente, attraverso coalizioni dirette o indirette, con le compagnie-membri del cartello internazionale che monopolizza il commercio del petrolio grezzo; se ne seguono la politica dei prezzi, anziché avversarla, tale fatto si spiega con una esigenza vitale talmente imprescindibile che debba superare e mettere a tacere gli interessi sezionali e particolari (petrolieri, raffinatori, trasportatori marittimi, ecc.) che si scontrano nel mondo dei cresi del petrolio. Tale esigenza suprema non può essere che la conservazione del dominio di classe.
Pur di mantenere in piedi la roccaforte del capitalismo e della controrivoluzione mondiale (gli Stati Uniti), che risulterebbe gravemente minata in seguito ad un eventuale crollo dell'industria petrolifera, il prezzo di vendita del petrolio grezzo che il trust internazionale impone, deve stare alla quota toccata dagli alti costi di produzione dei pozzi americani. Per tale sacrosanto motivo di classe, il petrolio del Medio Oriente che potrebbe essere venduto a quasi trenta centesimi di dollaro viene a costare invece un dollaro e settantacinque centesimi per barile. Se tale esorbitante prezzo dovesse subire riduzioni, verrebbe a mancare la convenienza economica di coltivare i giacimenti ad alti costi degli Stati Uniti: la incontenibile concorrenza dei petroli del Medio Oriente renderebbe necessario chiudere molti pozzi americani. Ma a chi gioverebbe un disastro dell'industria petrolifera americana? Non certamente ai membri europei del cartello internazionale i quali si spartiscono con i soci d'oltreatlantico favolosi sopraprofitti di cui mettono a parte le società a capitale misto estero-nazionale. Forse gioverebbe agli esportatori di petrolio del blocco russo-orientale i quali praticano, è vero, prezzi più bassi che quelli del cartello internazionale, ma non dispongono della potenza finanziaria e militare che si erge dietro il monopolio quadripartito del blocco occidentale.
La differenza tra il prezzo di produzione (per usare la terminologia marxista che con tale termine indica il valore risultante dalla addizione delle tre sezioni del capitale costante, del capitale variabile e del profitto) e il prezzo di mercato dei petroli controllati dal trust, si ricava da un calcolo istituito dai compilatori del rapporto dell'ECE. Costoro hanno stabilito, partendo dall'ammontare delle spettanze pagate all'Arabia Saudita, che su 300 milioni di barili di olio minerale la Aramco, una compagnia statunitense collegato ai trust internazionale, ha realizzato, l'anno scorso, un profitto di 425 milioni di dollari, e cioè un utile per barile di dollari 1.40. Detraendo tale cifra dal prezzo di mercato per barile di dollari 1.45 si ricava che il prezzo di produzione (sempre per barile) del petrolio estratto dalla Aramco si aggira appunto su trenta centesimi di dollaro.
Chi paga tale enorme sopraprofitto, siffatta smisurata rendita differenziale? La risposta della stampa social-comunista è idiota quanto disfattista: l'Europa occidentale! Ma il vecchio continente è sede di una società di classi che, se non fosse ancora provato che hanno interessi opposti, si potrebbe farlo benissimo ora vedendo in quale posizione stanno le borghesie europee di fronte al cartello del petrolio. L'abbiamo detto e lo ripetiamo, le borghesie europee sono esse stesse parti contraenti del consorzio internazionale o alla politica di questo legano indirettamente (produzione e vendite dei raffinati, trasporti del greggio, ecc.) immensi interessi. Se dunque il capitalismo europeo partecipa al pantagruelico banchetto di sopraprofitti petroliferi, è chiaro che questi debbano uscire dal lavoro e dal sangue delle masse lavoratrici europee. Perciò dicevamo dianzi che il principale oggetto dello sfruttamento e la più ricca colonia del trust del petrolio sono, molto più che il sottile strato salariato indigeno che lavora nei pozzi del Medio Oriente, le masse salariate dell'Europa occidentale. Allora che fine faranno le stupide e controrivoluzionarie posizioni social-comuniste che pretendono di accordare gli interessi delle classi nell'ambito nazionale e opporre un tale assurdo blocco di forza contro l'invadenza del "capitale straniero"? Il capitale maneggiato dal trust del petrolio, se si è capito quanto fin qui esposto, non è, a rigore, né americano né inglese né francese né olandese; è, al contrario, una potenza senza nome e senza borghesia internazionale, di tutto quanto il campo della reazione capitalistica.
Come si può, allora, senza voler fare della demagogia fabbrica-voti adatta a carpire voti elettorali alle masse fatuamente patriottarde della piccola borghesia, auspicare il fronte unico delle classi, la union sacrée della nazione contro il cartello internazionale del petrolio? Senza contare l'interesse immediato e i vantaggi finanziari diretti che le borghesie locali traggono dal commercio del petrolio, altre potenti ragioni inducono i governi dell'Europa occidentale, specie quelli a basso potenziale economico, a conservarsi il favore dei Gengis Khan del petrolio. Sono essi, in primo luogo, l'indebitamento sempre crescente dei governi nei riguardi del centro imperialista e il cronico squilibrio della bilancia dei pagamenti che impone ai governi di assicurarsi mercati di sbocco, il che si può ottenere, non senza concessioni doganali e commerciali, da parte delle economie maggiori. Tale è il caso soprattutto dell'Italia, per cui non senza fondamento debbono essere le voci di un negoziato in atto tra Washington e Roma, in base al quale gli Stati Uniti finanzierebbero il Piano Vanoni ottenendo via libera nella corsa al petrolio di Sicilia e di Abruzzo. In secondo luogo, una ragione non meno determinante che impedisce ai governi europei di inimicarsi il cartello del petrolio e il fatto che dietro le otto grandi compagnie che monopolizzano la produzione mondiale (eccettuata la quota del blocco russo-orientale) si erge la potenza militare anglo-americana. Se il petrolio persiano si vende, come lamenta l'Unità, a sei volte il suo prezzo di produzione, ciò è dovuto anche alla capacità dei governi di Washington e Londra di affittare movimenti controrivoluzionari (come il rovesciamento del regime di Mossadek in Persia dimostra) e alle riserve di bombe all'idrogeno.
In conclusione, strappare il petrolio dalla stretta della piovra monopolistica si può alla condizione di strappare dalle mani del governo di Washington la bomba H, cioè alla condizione di distruggere il potere di intimidazione e di tremenda rappresaglia della massima potenza capitalistica. Ma tale gigantesca impresa, destinata ad aprire l'epoca della più grande rivoluzione della storia, non si conduce a termine invitando i proletari a fare comunella con la propria borghesia contro il "capitale straniero". Combattere e distruggere l'imperialismo si può alla sola condizione di unire il proletariato mondiale in un solo campo rivoluzionario contro la borghesia e il capitalismo, vibrando i primi colpi proprio alla borghesia interna. Ma tale lotta smisurata non può essere che il compito titanico della "invincibile rivoluzione mondiale".
Da "Il programma comunista" n. 8 del 1955.
Fonte | Il programma comunista n. 8 | |||
---|---|---|---|---|
Data | 1955 | |||
Autore | Non firmato | |||
Archivio n+1 - Formato | Originale | |||
Livello di controllo | Zero | Su copia | Su originale * | Filologico |