La crisi del Medio Oriente

Le potenze anglosassoni per due volte hanno vinto la guerra mondiale, e quindi per due volte hanno salvato il capitalismo dall'estrema rovina, atteggiandosi a vittime dell'aggressione. Bisogna riconoscere che in ambo i casi il raffinato gioco diretto a costringere l'"aggresso­re" a sparare per primo è felice­mente riuscito. È evidente che non l'abilità diplomatica o l'arte del vittimismo bensì materiali condi­zioni di sviluppo storico favorisco­no l'ipocrita partita delle cittadelle imperialistiche occidentali: chi ar­riva ultimo nell'arena internaziona­le – ieri fu la Germania, oggi la Russia – trova il "tutto esaurito" nella spartizione dei possedimenti, delle colonie, dei protettorati, infi­ne delle "sfere di influenza", sic­ché deve stendere le mani sull'al­trui roba, cioè appunto deve "ag­gredire". Poco importa che il nuo­vo aspirante imperialista tenda a ripercorrere il cammino già fatto da altri e a volere le stesse cose che vogliono i rivali già "arrivati": egli rimane l'aggressore. È quello che appunto sta capitando alla Rus­sia che, impedita nei decenni scor­si dal farlo, si sta faticosamente aprendo un varco nel Medio Oriente.

L'abilità russa! È un fatto che tutte le volte che la Russia è costretta a scoprire il proprio gioco, costrettavi dalle accanite resistenze occidentali alle richieste di "posti al sole" del nuovo concorrente imperialista nonché ex alleato di guerra, la stampa ispirata e finan­ziata, direttamente o per vie tra­verse, dalle centrali imperialistiche di Washington e Londra, grida all'"abile mossa russa". Ora, ci domandiamo, che c'è di abile nella recente grave decisione di Mosca di contribuire al riarmo dell'Egit­to? Esistendo uno stato virtuale di guerra tra l'Egitto e la Lega Aruba da una parte, e Israele dall'altra parte, se la guerra guerreggiata dovesse subire una ripresa, la Russia non verrebbe a trovarsi automati­camente nella posizione di "aggres­sore", sia pure indiretto? E se, co­me pare probabile, le Grandi po­tenze riusciranno ad evitare il con­flitto, il fatto che la Russia si fac­cia, al cospetto del mondo, mer­cante di cannoni, non costituisce una pura perdita per Mosca nella guerra delle propagande, perché le mitragliatrici Skoda nelle mani de­gli ufficiali di Nasser buttano al macero tutta quanta l'alluvionale letteratura anti-bellica dei Partigiani della Pace? La verità è che ancora una volta gli altissimi pirati dell'imperialismo anglo-americano riescono a farsi passare per "vit­time dell'aggressione" e quindi a procurarsi ottime posizioni di par­tenza per la futura schifosa crociata a favore della "guerra di difesa".

La verità è che l'offerta di armi all'Egitto avanzata dalla Russia, e la decisione dell'Egitto di accettar­la passando sopra i severi moniti e le aperte minacce profferite dai governi inglese e americano, sono gli ultimi anelli di una ferrea ca­tena di avvenimenti, che non pos­sono certamente essere considerati prodotti della volontà dei gover­nanti. Essi sono: la seconda guerra mondiale, l'ingresso dell'imperiali­smo americano nel Medio Oriente, la costituzione dello Stato di Israele, la fondazione della Lega araba, la semi-rivoluzione egiziana, il patto turco-irakeno. Ognuno di tali giganteschi decadimenti ha im­presso una forte accelerazione al moto storico nel Medio Oriente, ma nessuno di essi si può isolare dal complesso e tremendo quadro delle convulsioni degli ultimi due o tre lustri della storia mondiale. Impresa vana, almeno per noi, è il tentativo che la stampa democratica-atlantica sta esperendo su scala gigantesca di attribuire i recenti sconvolgimenti medio-orientali alla "diabolica abilità" di Mosca. Ciò che sta avvenendo nella parte "mediana" dell'Asia, come ciò che è già accaduto nella parte "estre­ma" della stessa, scaturisce dai formidabili contrasti provocati dal­la nuova divisione del mondo, che, a differenza da quanto avvenne nel primo inter-guerra, ha suscitato deterministicamente l'incendio delle rivoluzioni nazionali di Asia e di Africa, grandioso manifestarsi della diffusione estrema del capitalismo nel pianeta.

Oltre che dall'intervento delle grandi potenze imperialistiche, la situazione storica del Medio Orien­te è resa incandescente dalla guer­ra di sistemazione nazionale che è quella combattuta dalla Repubblica di Israele contro gli Stati arabi, mentre è tuttora in piedi l'aspro conflitto diplomatico e politico tra l'Egitto e l'Irak, che pure sono en­trambi Stati-membri della Lega Araba. In tale intricato groviglio di interessi, che riflettono sia il gioco mortale delle coalizioni intercontinentali che il circoscritto contrasto dei poteri statali locali, che sono di ordine sia imperialistico che nazionalistico, se la sbri­ghi la stampa, che vive di questo pane, a scoprire l'"aggressore". Del resto, se siffatta qualifica si vuole affibbiare ai russi, perché essi stan­no tentando di aggirare la "posi­zione-chiave" del Medio Oriente, prendendola alle spalle, una facile retrospezione storica ci avverte che gli anglo-americani non da sem­pre hanno spadroneggiato in que­sto importante teatro strategico e zona petrolifera, che fino alla Pri­ma Guerra Mondiale rimase chiuso nell'Impero Ottomano.

D'altra parte, ad onta della cam­pagna vittimistica scatenata dai ri­spettivi governi, anzi al riparo di essa, gli Stati Maggiori degli Stati Uniti e dell'Inghilterra sono riusci­ti, sfruttando il tema puttanesco della "difesa contro l'aggressore", a mettere a segno un grosso colpo che meditavano da tempo: l'am­missione dell'Iran nel patto di Bagh­dad. Fin dall'epoca della sanguinosa soppressione del regime di Mossadeq, gli occidentali disegnavano di includere la Persia nello schiera­mento atlantico, essendosi già im­possessati dei pozzi petroliferi mediante l'accordo-capestro tra il car­tello internazionale del petrolio ed il governo di Teheran. Ma sempre ne erano stati distolti dal timore che la Russia, di fronte ad una tale mossa occidentale, ritenesse di do­ver applicare le clausole nel Trattato russo-persiano del 1921, che autorizzano il governo russo ad oc­cupare la parte settentrionale della Persia qualora si profili il pericolo di un intervento di una terza po­tenza nel Paese. La decisione clamorosa di fornire armi all'Egitto evidentemente è stata interpretata dai governi occidentali come il massimo rischio che Mosca era di­sposta a correre nella zona e, in conseguenza, è stato dato il "ver­de" al governo di Teheran. Il ra­gionamento doveva risultare esatto: Mosca si è limitata a protestare violentemente, adattandosi volente o nolente al fatto compiuto.

I due avvenimenti si sono succeduti nello spazio di meno di due settimane: il 2 ottobre il colonnello Gamel Abdel Nasser confermava alla radio, nel corso di un violento attacco alla politica occidentale nel Medio Oriente, la notizia diffusa in precedenza dal Foreign Office sulle forniture di armi ceche e russe: il 12 lo Scià annunciò al Parlamento l'adesione dell'Iran al Patto di Baghdad. Ecco un saggio della tec­nica anglosassone del costringere l'avversario a colpire per primo e addossarsi la taccia di aggressore. Del Patto di Baghdad, così deno­minato dalla capitale in cui venne firmato il 24 febbraio di quest'anno, parleremo anche in seguito. Qui ci limitiamo a dire che in origine fu un trattato bilaterale tra Turchia e Irak. Esso fu congegnato e voluto dalla diplomazia anglo-americana che in tal modo riusciva a gettare la discordia e la scissione nella Lega Araba, i cui memori si erano impegnati, col patto di sicurezza inter-arabo del settembre 1950, a non aderire a coalizioni militari estranee, e, pertanto, arrecava un grave colpo all'Egitto che, special­mente dall'epoca della rivoluzione, si atteggia a potenza-guida, come si suol dire, del mondo arabo.

L'opposizione russa al Patto si spiega agevolmente tenendo pre­sente che esso sancisce un'alleanza militare ostile alle frontiere meri­dionali della Russia, per di più col­legata, tramite la Turchia, al Patto Atlantico. L'adesione dell'Inghilter­ra, avvenuta nell'aprile, mostrò lampantemente come lo strumento diplomatico fosse stato architettato da mani inglesi. In settembre en­trò a farne parte il Pakistan, che negli scorsi anni ha stipulato ac­cordi con la Turchia e gli Stati Uniti. Pezzo su pezzo, le potenze occidentali, soprattutto la Gran Bretagna, venivano completando un poderoso sbarramento sulle vie di accesso russe al Medio Oriente. Si tenga presente che la Turchia, l'Irak e il Pakistan, compresi tutti tra il 30° e il 40° parallelo, confi­nano tra di loro e ognuno con la Russia. La cessione delle armi cecoslovacche all'Egitto ha significato un tentativo russo di rompere l'accerchiamento e di attestarsi alle spalle del nemico. Ma, colpiti in Egitto, gli anglo-americani passava­no al contrattacco in Persia, l'uni­ca potenza confinante con la Russia e che ancora si teneva fuori del patto anglo-turco-irakeno-pakistano. In sede di consuntivo, è difficile stabilire quale delle parti in lotta abbia guadagnato di più: se i russi che hanno steso una mano sulla "porta di accesso" all'Africa, come la stampa definisce l'Egitto, o gli anglo-americani, i quali, inglobando l'Iran nel Patto di Baghdad praticamente hanno colmato la lacuna che esisteva nella gigantesca catena di alleanze intercontinentali che ora si stende dalla Norve­gia al Pakistan. Certo è che la propaganda atlantica, sempre per atteggiarsi a vittima, ha artatamente esagerato il successo di Mosca, perché è notorio che l'Egitto, a onta delle sue orgogliose affermazioni di indipendenza, è soggetto ai finanziamenti esteri che occorrono per mandare avanti l'ambizio­so programma quinquennale di grandi opere di irrigazioni e di costruzioni industriali, dietro le quali il regime al potere tenta di nascondere la mancata rivoluzione nelle campagne.

Così, per la grande opera idrica di Assuan, un'impresa gigantesca che costerà più di 300 miliardi di lire, il governo del Cairo si attende di ottenere un prestito di 200-300 milioni di dollari dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Questo organismo finanziario, come è noto, viene gestito formalmente da 57 nazioni. In pratica, per avere gli Stati Uniti versato il 72 per cento dei capitale sociale e acquistato il 65 per cento delle obbligazioni emesse, è uno strumento della politica estera degli Stati Uniti. Un'altra gigantesca "opera del regime", una grande fabbrica di concimi chimici del costo di 45 miliardi di lire, attende di vedere la luce anch'essa grazie agli aiuti americani. Le considerazioni che suggeriscono simili po­tenti legami finanziari dell'Egitto con l'area del dollaro, spingono a ri­durre al loro giusto valore gli effetti della riuscita operazione diplomatica di Mosca presso il gover­no del Cairo. Sì, il rifornimento di armi. e di istruttori all'esercito egiziano, crea condizioni favorevoli al­l'estendersi dell'influenza russa nel Paese, ma è altrettanto chiaro che Mosca costruirà sulla sabbia finché il governo del Cairo busserà a dollari presso i plutocrati statuniten­si. Non a caso, dunque, la Russia si è offerta di fornire aiuti per la nuova grande diga di Assuan. Ma l'ambasciatore egiziano negli Stati Uniti, che ne ha dato notizia durante una conferenza stampa te­nuta a Washington lo scorso 18 ot­tobre, ha tenuto a dichiarare che l'Egitto attende l'esito dei negoziati che sta conducendo presso la Banca Internazionale, per prendere in esame l'offerta russa. Accetterà il Cairo, dopo le armi, i rubli? La comune opposizione al Patto di Baghdad sarà sufficiente, nel futuro, a mantenere operante l'attuale ami­cizia russo-egiziana?

L'immobile Occidente e il dinamico Oriente

La guerra ha giovato immensa­mente al Medio Oriente. Non ab­biamo paura di dirlo, perché non giudichiamo gli avvenimenti alla stregua dello stupido e inconclu­dente pacifismo. È anche vero che in Europa e in America la guerra, a conti fatti, ha ritardato di decenni la rivoluzione: il proletariato inter­nazionale, anziché praticare il di­sfattismo rivoluzionario e puntare sulla guerra civile di classe, si è lasciato corrompere ed ingannare dall'opportunismo, accettando di combattere per gli Stati belligeranti, sia nella divisa di soldato rego­lare che nella casacca del partigiano dietro il fronte. Ma, in as­senza della dittatura proletaria e del socialismo, si sono mosse l'Asia e l'Africa. Le rivoluzioni nazionali che vi si svolgono sono indirizzate verso il traguardo dell'industrializ­zazione capitalista, di ciò non è lecito dubitare, ma il loro movi­mento è reale ed effettivo, perché si lascia dietro le forme sociali caratteristiche del dispotismo asia­tico. Accade allora che, dopo tanto parlare che s'è fatto nel passato sulla "immobilità orientale", a muoversi sia proprio l'Asia, men­tre la progredita area euro-ameri­cana, che è più che matura per i1 "salto" rivoluzionario nel sociali­smo, rimane ferma al capitalismo. Naturalmente il fenomeno rinno­vatore non si presenta con la stes­sa intensità e lo stesso ritmo in tutto il vasto teatro geo-politico del vicino e Medio Oriente.

Nel Medio Oriente il movimento iniziò con la dissoluzione dell'Im­pero Ottomano che, finché fu in piedi, funzionò da formidabile ba­stione reazionario, contro il quale le correnti radicali del pensiero politico occidentale non potevano assolutamente fare breccia. Prati­camente non era "successo nien­te" in questa cruciale zona del mondo, da più di cento anni – cioè dalla spedizione di Napoleone in Egitto – fino a quando l'impero di Costantinopoli, alleato di guer­ra degli imperi centrali, si sfasciò sotto i colpi della sconfitta militare. Ebbe inizio da allora il processo di formazione degli attuali Stati in­dipendenti; ma il virtuale moto rivoluzionano fu bloccato dall'ingresso nell'ambita regione (che era diventata ormai oggetto delle contese imperialistiche) della potenza britannica, e, in posizione subordinata, del colonialismo francese. È noto che il Trattato di Sèvres, firmato 1'11 agosto 1920, assegnò il "mandato" in Palestina, in Transgiordania e in Mesopotamia all'Inghilterra e il "mandato" in Siria alla Francia. L'Arabia si giovò di un regime formalmente autonomo ma si suddivise in parecchi Stati indipendenti che subirono successivamente ulteriori trasformazioni, finché nel 1926 l'egemonia passò decisamente nelle mani degli Al Saud, la dinastia che oggi regna. La supremazia britannica nella re­gione non significò per tutti gli strati sociali indigeni una sovrimposizione dall'esterno e dall'alto, perché le finalità della politica mondiale della Gran Bretagna (è un fatto che la dominazione inglese sull'India è cessata nello stesso svolto storico che vedeva ridursi enormemente l'influenza inglese in Medio Oriente) si incontravamo con gli interessi delle classi conservatrici locali, per le quali la rivolu­zione nazionale non poteva che suonare il funerale ai loro privilegi. Le monarchie assolute, i prin­cipati, le inferiori gerarchie e bu­rocrazie dei regimi asiatico-dispotici, cioè tutte le forze interessate al perpetuarsi della dominazione aristocratica sulla terra e sulle primitive comunità, che spesse volte assume la forma della tribù noma­de, non potevano trovare migliore protezione che all'ombra dell'Impero britannico. È quello che avvenne all'estremità nord-occidentale dell'Africa, ove contro il movimento indipendentista si schiera il capitalismo metropolitano e indigeno di nazionalità francese, che fa causa comune con le locali caste semi-feudali.

Il moto rivoluzionario riprese con la Seconda Guerra Mondiale. Per alimentare il fronte di guerra dell'Africa settentrionale e sostenere, in seguito, il Corpo di spedizione destinato all'invasione della penisola italiana, gli Alleati trasformarono il Medio Oriente in una gigantesca base di operazione, bru­cante di unità britanniche e del Commonwealth, di reparti polacchi, francesi, greci, americani e di altre azioni. Gli effetti sociali che scaturirono dalla presenza duratura di tale massa di armati, sono descritti da una fonte non certamente sospettabile di simpatie, diciamo così, "progressiste", e cioè il Journal of the Royal Central Asian Society.

Riferendosi appunto alla permanenza nella regione delle armate alleate, il suddetto organo così scriveva nel gennaio 1945: "Ne sono risultati contatti sociali di immensa varietà e diver­sità, che sono continuati per lungo periodo di tempo, ed i cui effetti furono tutt'altro che effime­ri, e non possono venire trascurati. Inoltre i soldati alleati hanno speso ingenti somme di denaro, sia individualmente, sia attraverso i contratti militari, somme che nel 1942 e nel 1943 hanno superato, ed in certi casi di gran lunga, gli stan­ziamenti dei bilanci nazionali. Una gran parte di questo denaro messo in circolazione è andato a finire nelle tasche dei negozianti, dei commercianti e dei grandi e piccoli proprietari terrieri. Questi ultimi poi hanno tratto profitto dalla di­minuzione dei traffici d'oltremare e dalla conseguente necessità di au­mentare la produzione locale di generi alimentari e di elevare i prezzi per attrarre le merci sui mercati.

L'altro lato della medaglia è rappresentato dalle difficoltà sofferte dalle altre classi, a causa del­l'aumento dei prezzi e della scar­sità delle merci. Tutti i gruppi sociali il cui reddito è relativa­mente fisso, come i salariati che non hanno trovato impiego nelle forze armate, i braccianti, i funzionari dello Stato e gli impiegati, hanno subito le conseguenze del di­minuito potere d'acquisto della mo­neta. I governi hanno tentato, di­sciplinando la distribuzione dei generi alimentari, e in certi casi of­frendo sussidi per mantenere fisso il livello dei prezzi, di scongiu­rare vere e proprie carestie. Que­ste misure tuttavia non sono state sufficientemente vaste od efficaci da opporre un freno al formarsi di grandi ricchezze e all'impove­rimento di certe classi: i due estre­mi sono stati più contrastanti e più spiccati di quanto non si sia mai verificato prima.

Le agitazioni degli operai, sot­to forma di scioperi e di dimostra­zioni, sono state numerose. Dap­pertutto, la coscienza delle classi intellettuali si è fatta più sensibile agli appelli della giustizia sociale. Appare chiaro dalle relazioni degli osservatori bene informati di ri­torno da questi paesi che i pro­blemi sociali destano un interesse quale non si era mai riscontrato; specialmente in Egitto e in Persia. Si prospetta un periodo cruciale per il Medio Oriente. I redditi di vasti strati della popolazione e in particolare degli agricoltori e degli operai che trovavano lavoro grazie ai contratti militari dimi­nuiranno inevitabilmente, e, a me­no che non si escogitino misure adeguate per sventare il pericolo, ci sarà grande disoccupazione. Può darsi che queste condizioni diano luogo a disordini sociali che la guerra stessa ha stimolato ".

Così scriveva nel gennaio 1945, cioè alla fine della guerra mondiale il Journal of the Royal Central Asian Society. A parte certa ter­minologia, l'efficace descrizione dell'ambiente potrebbe portare la firma di un marxista, giacché le cause degli sconvolgimenti in atto e delle future convulsioni – giu­stamente previste – non vengono ricercate nel mondo della facile metafisica cui la volgare cultura politica immancabilmente attinge, ma vengono esattamente individua­te nella struttura dell'economia sociale. Il Medio Oriente è visto in agitazione permanente, non perché abbiano subito un rimaneggia­mento i "valori morali" tradizio­nali, ma perché la guerra, sommi­nistrando una poderosa frustata alle dormienti economie locali, ha provocato sensibili spostamenti nella sovrastruttura sociale. Quel che più nettamente emerge nel quadro storico succeduto alla guerra è la dilatazione della sfera della produzione mercantile, cioè della economia di mercato. Che non si tratti di piccola produzione, ma di moderna produzione associata di tipo capitalistico, è dimostrato, non soltanto dall'accrescimento degli ef­fettivi proletari, ma dal fatto che la formazione delle classi sociali proprie della società borghese avviene nel quadro dei fenomeni che Marx scoprì e descrisse nella dot­trina della "crescente miseria".

Il passo della surriportata cita­zione, nel quale l'autore riferisce che gli estremi dell'arricchimento ad un polo della composita società postbellica presente nel Medio Oriente, e dell'impoverimento al polo opposto, sono "più contrastanti e più spiccati di quanto non si sia mai verificato prima", quel passo l'abbiamo sottolineato noi, perché riassume da solo tutto il materiale relazionato e ne estrae il signifi­cato, essenziale. Una trasformazione sociale nella quale la concentrazione della ricchezza sociale (mezzi di produzione di uso collettivo) si accompagna con l'impoverimento delle classi produttive inferiori, va­le a dire con l'espropriazione del piccolo produttore che viene ridotto a possedere solo la forza-lavoro del proprio organismo fisico da im­mettere nel processo produttivo so­ciale, non può significare altro che il passaggio al capitalismo, cioè al­la forma di società storica in cui i "poveri" sono i proletari ingag­giati dall'imprenditore capitalista. Ma l'industrializzazione e la concentrazione capitalistica, sia pure all'età infantile, non potevano, una volta importate nell'"immobile" mondo arabo, che porre la que­stione della sostituzione dei vec­chi reazionari rapporti di produ­zione. A questa lotta rivoluziona­ria tra il "vecchio" semifeudale e dispotico e il "nuovo" borghese nazionalista stiamo assistendo. Confusione di aree geografiche e di tempi storici, qui non sono pos­sibili: in Asia, in Africa, nei paesi ­che giacciono ancora al livello coloniale, il "nuovo" verso cui tendere non può essere la dittatura proletaria e il socialismo. In­nalzarsi a tale livello spetta a noi proletariato di Europa e di America, che dal 1917, se non addirit­tura dal 1871, stiamo fermi e fuori dal campo rivoluzionario: può spettare anche a quei paesi solo per contraccolpo della rivoluzione occi­dentale.

La decisa affermazione della na­tura rivoluzionaria degli avveni­menti che si vanno svolgendo nel Medio Oriente, come in altre re­gioni dell'Asia e dell'Africa può sembrare in contrasto con la chiara nozione dell'enorme potere di controllo e di influenzamento dell'imperialismo, di cui non siamo di certo portati a sottovalutare la mondiale potenza. Essendo indiscu­tibile che le grandi potenze con­trollano economicamente e, quindi, politicamente, la regione, qualcuno potrebbe rifiutarsi di ammettere l'esistenza di movimenti rivoluzionari nell'ambito di essa per timore di sembrar di abiurare le concezioni marxiste dell'imperialismo. Ma di quanto sbaglierebbe! E perché? L'imperialismo, cioè la moderna fase storica della dominazione capita­lista, incondizionatamente è contro­rivoluzionario di fronte al proletariato, del quale non può accettare a nessun costo la rivoluzione, ma solo soggiacere ad essa dopo tre­menda lotta armata. Ma la stessa incondizionata avversione non può essere dell'imperialismo nei con­fronti delle rivoluzioni nazionali, le quali possono creare gravi crisi internazionali e fomentare nuove future divisioni del mondo nei bloc­chi militari intercontinentali, ma non costituiscono una minaccia all'esistenza stessa del capitalismo. In fondo, una stessa qualità sociale accomuna le vecchie potenze imperialistiche egemoniche e gli Stati nazionali di recente formazione: i rapporti sociali e lo Stato borghe­se. Per la loro comune origine e natura capitalista, non può esserci contraddizione tra la politica di conservazione dei centri imperialistici e gli impulsi nazionalistici dei nuovi Stati indipendenti. Né si tratta di una considerazione teorica, giacché la penetrazione americana nel Medio Oriente e la fondazione dello Stato di Israele stanno lì a fornire prove materiali della ve­rità del nostro assunto.

Contrariamente a quanto accadu­to al crollo dell'Impero Ottomano, la Gran Bretagna non è riuscita, alla fine della Seconda Guerra Mon­diale, a conquistarsi un assoluto predominio nel Medio Oriente. Sce­mata e quasi del tutto scomparsa è l'influenza della Francia, a seguito dell'elevazione della Siria e del Libano al rango di Stati indi­pendenti, e specialmente per il generale declino su tutta la linea sofferto dall'imperialismo francese, ma la Gran Bretagna non è rima­sta, per questo, la potenza predo­minante della regione. Ormai la Francia è ridotta in un angolo a mugugnare nei confronti degli al­leati-rivali inglese e americano. Del tutto nuova è la presenza de­gli Stati Uniti, i quali soltanto a cominciare dal 1943 – anno in cui gli americani "scoprirono" l'importanza petrolifera della zona – hanno iniziato la subdola erosione delle posizioni britanniche. Né la possente avanzata del capitale americano è avvenuta senza un sor­do conflitto con gli Inglesi che, te­nuto quanto più possibilmente na­scosto, doveva manifestarsi aper­tamente all'epoca della caparbia opposizione inglese alla campagna del sionismo mondiale per la crea­zione di un "Centro nazionale ebraico" in Palestina. Il fermo e costante appoggio, politico e finan­ziario, concesso dagli Stati Uniti al movimento nazionale ebraico, rive­lò all'epoca il contrasto in atto, successivamente superato, tra le massime potenze anglosassoni. La fondazione dello Stato di Israele che si giovò specialmente del soste­gno degli Stati Uniti, stette a dimostrare, oltre tutto, una sostanziale diversità nei metodi seguiti rispet­tivamente dagli inglesi e dagli ame­ricani nella politica di penetrazione nel Medio Oriente. Infatti, mentre l'Inghilterra si manteneva fedele alla tradizionale impostazione po­litica tendente all'intesa con le di­nastie arabe e alla conservazione dei rapporti sociali esistenti, lo spregiudicato imperialismo ameri­cano puntava decisamente sulla carta israeliana e favoriva l'impianto di una moderna repubblica borghese fornendo in tal modo un esem­pio, non nuovo nella storia delle sistemazioni nazionali, di come l'imperialismo possa, per i fini della propria politica di conservazione, sbloccare rapporti sociali pietrificati e avviare, in zone arretrate, la corsa all'ìndustrializzazione.

È chiaro che qui non si vuole fare una discriminazione tra l'im­perialismo americano e inglese a vantaggio del primo. Bisogna inten­dere la questione dialetticamente, cioè alla luce delle reali contrad­dizioni capitalistiche. Arrivando buon ultimo nel Medio Oriente e trovando già "piazzati" i cugini britannici, il governo statunitense, che ora sbraita contro gli "aggres­sori" russi, usava gli stessi metodi che costoro stanno esperendo, cioè si fabbricava una testa di ponte nella regione da conquistare alla propria influenza. Davanti agli Stati Uniti non si apriva altra stra­da. Ne doveva risultare un vero e proprio trapianto di capitalismo mo­derno nelle plaghe desertiche della Palestina, rimaste nell'abbandono per diecine di secoli, ed oggi ritor­nanti all'antica floridezza dei tempi biblici per la bonifica e rimessa a cultura del suolo e l'importazione di una tecnica fra le più progredi­te del mondo. Bisogna poi tenere presente che nella Repubblica di Israele la rivoluzione industriale-capitalista ha raggiunto il limite estremo delle possibilità storiche, costituendo un esempio di "rivolu­zione borghese sino a fondo", essendo assente ogni traccia di pree­sistenti rapporti feudali.

Contraddizioni dello stesso ordine di quelle che spingono l'imperialismo americano ad appoggiare la rivoluzione israeliana, costringono la Russia, che pure si atteggia a gran madre di tutti i movimenti "progressisti" in atto nelle società soggette a regime semicoloniale, a sostenere l'Egitto che ha compiuto solo a metà una rivoluzione borghe­se, inquantoché il regime rivoluzionario che impera oggi al Cairo ha risolto appieno la questione nazio­nale ottenendo l'evacuazione delle truppe britanniche dalla zona del Canale, ma ha del tutto trascurato la questione della terra, che conti­nua ad essere posseduta, come al tempo dell'obeso e dispotico Faruk, da una ristretta oligarchia di lati­fondisti che sfruttano selvaggiamen­te il lavoro dei fellah nilotici. Succede così che la Russia osteg­gia la Repubblica di Israele, la cui agricoltura rassomiglia, per via delle famose "fattorie collettive" (kibbutz), alla decantata "agricol­tura colcosiana", e fornisce armi all'Egitto che perpetua rapporti di produzione agricoli che appaiono arretrati persino nei confronti del­lo zarismo. Ma di tali incongruenze si meraviglia chi veramente crede alla diversa composizione sociale degli Stati del blocco americano-occidentale e di quello russo-orien­tale, e si illude che lo scontro tra le opposte formidabili coalizioni, che oggi stanno scavando abissi di rivalità anche nel Medio Oriente, debba decidere della lotta di classe tra capitalismo e socialismo.

In successivi articoli esaminere­mo nei dettagli le questioni che stanno bruciando sul posto, e in particolare ci soffermeremo sul con­flitto tra Israele ed Egitto, che tanti tratti in comune presenta con le passate guerre di sistemazione nazionale combattute nel secolo scorso in Europa. In questo arti­colo dobbiamo, per ragioni di spa­zio, guardare panoramicamente gli avvenimenti. Ma prima di chiudere vogliamo esporre in cifre la situa­zione cui è arrivata la sotterranea concorrenza tra inglesi e ameri­cani,

Le Nazioni Unite hanno pubbli­cato recentemente uno studio sulle condizioni economiche del Medio Oriente, e, in particolare di sette paesi della zona: Egitto, Irak, Iran, Israele, Libano, Siria e Turchia. Da esso si ricava che è in atto nell'economia di questi paesi una ten­denza all'espansione, con parti­colare evidenza nel settore petrolifero. Risulta, difatti, che nel periodo tra il 1945 e il 1954 le riserve ac­certate di olio minerale sono pas­sate da circa 5 miliardi a 12 miliardi e mezzo di tonnellate (dal 40 al 60 per cento delle riserve mondiali), la produzione da 36 mi­lioni a 136 milioni di tonnellate (dal 9,4 al 19,7 del totale mondia­le), l'attività di raffinazione da 41,5 milioni di tonnellate nel 1947 a 67 milioni nel 1954.

Per lo stesso periodo 1945-1954, il totale degli investimenti esteri assomma ad un totale di 3 miliardi 823 milioni di dollari. Da tale mas­sa finanziaria le quote destinate al solo settore petrolifero hanno rag­giunto la somma di 2 miliardi e 200 milioni di dollari, pari a circa il 58 per cento del totale. La somma ri­manente comprende gli aiuti mili­tari e le donazioni private. Naturalmente alla testa dei Paesi espor­tatori di capitali figurano le poten­ze occidentali, e il primo posto è detenuto dagli Stati Uniti che da soli hanno contribuito per 2 mi­liardi 595 milioni di dollari (Rela­zioni Internazionali, n. 31).

Ne hanno percorso di strada i magnati di Wall Street che soltanto nei 1943 cominciarono ad interessarsi del Medio Oriente! Nel perio­do tra le due guerre, la Gran Bretagna e altri Stati europei condus­sero senza troppo rumore le loro attività di ricerca e coltivazione dei giacimenti, finché sulla zona non si rovesciò il capitale americano, aggravando le condizioni di insta­bilità sociale che gli inglesi col loro raffinato fiuto politico avevano de­nunciato sin dalla fine della guerra.

Mentre scriviamo, la grossissima questione del Medio Oriente sta al­l'esame del Consiglio dei Ministri degli Esteri di Stati Uniti, Russia, Francia e Inghilterra. Ma mentre i medici discutono, la malattia pro­gredisce. L'ultimo atto – in ordine di tempo – della serrata lotta in corso è costituito dalla firma di un patto di mutua assistenza tra l'Egit­to e la Siria. Le parti contraenti hanno creato un comando militare unico, per cui l'organizzazione del­le forze armate sarà finanziato da un fondo comune al quale l'Egitto contribuisce per il 65 per cento e la Siria per il 35 per cento. Av­verrà dunque che le armi cecoslo­vacche e russe serviranno a raf­forzare per vie traverse anche l'e­sercito siriano? Un analogo patto l'Egitto ha concluso il 27 ottobre con l'Arabia Saudita, mentre la Si­ria e il Libano preparano piani di comune difesa. Ma l'evidente ten­tativo egiziano di procedere all'ac­cerchiamento militare della Repub­blica di Israele – che al momento attuale dispone di una potenza mi­litare superiore a tutte le forze armate degli Stati arabi confinanti – non ha avuto piena riuscita. In­fatti, l'Irak, che fin dal principio dell'anno si è definitivamente stac­cato dall'Egitto, influenza, per i vin­coli dinastici che uniscono le monarchie hascemite, la politica della Giordania, che evidentemente pen­cola, anche per influsso della politica britannica, verso le posizioni occidentaliste.

La corsa agli armamenti conti­nua. Corrono voci che i primi ca­richi di armi ceche e russe siano stati sbarcati nei porti egiziani e che siano arrivati di già nella zona dì Gaza, punto di massimo attrito negli opposti schieramenti israelia­no ed egiziano. Da parte sua l'In­ghilterra sta rafforzando il dispo­sitivo del Patto di Baghdad: è re­cente l'annuncio dato dal Daily Mail circa l'invio di aerei a reazione, carri armati e cannoni di tipo re­cente nell'lrak. " È questa la no­stra riposta alla decisione dell'Egit­to di accettare armi dalla Cecoslo­vacchia e dall'URSS " commenta­va soddisfatto e minaccioso il gior­nale londinese. Il 30 ottobre la radio di Cipro ha annunciato che l'Inghilterra ha fornito alla Gior­dania dieci caccia a reazione tipo "Vampire" che formeranno il nu­cleo delle nuove forze giordane. Frattanto il governo di Tel-Aviv fa pressioni sul governo americano per ottenere altri rifornimenti di armi. Nessuno può dire se i cannoni spareranno. Ma certo è che il fu­turo fronte della terza guerra im­perialistica passa già per il Medio Oriente.

Fonte Il programma comunista nn. 20-21
Data 1955
Autore Non firmato
Archivio n+1 - Formato Originale
Livello di controllo Zero Su copia Su originale * Filologico

Archivio storico 1952 - 1970