Patti colonici: stabilità da forca
Al fine di divertire l'attenzione italiana dalla crisi dell'esodo il partitone monta una delle sue ondate di campagne sulla questione dei patti colonici; inforca un altro dei suoi cavalli di eredità fascista: il blocco dei fitti della terra, vantando con questo di mirare al cuore della proprietà terriera.
Il colono che affitta un pezzo di terra dal proprietario legale per un canone in moneta, o in parte in natura, se la lavora e se il suo lavoro è solo di assoldare giornalieri e girare per i mercati grassi a sbettolare e metter pancia ogni giorno più, deve restare intangibile nella sua funzione anche se è il più bel campione di parassita sociale. Il contratto non può essere disdetto dal proprietario senza una giusta causa, e questo glorioso ipocrita principio deve diventare permanente.
Che razza di principio sia questo non è dato capire. Se la lotta centrale delle campagne deve consistere nell'andare a braccetto con l'imprenditore capitalista contro il proprietario fondiario, e non nel combatterli entrambi, nessuno potrà mai dare senso concreto alla differenza tra il diritto al possesso alla terra e la giustizia dei motivi con cui si ammette la casistica della sua restituzione da parte del fittavolo.
Si tratta della solita bassa demagogia per cui prendere i voti del ricco mezzadro e colono è tanto comodo quanto captare quelli del lavoratore povero della terra.
Nei capolavori di asineria che sono i voti dei sindacati "comunisti" si lega questa insulsa frase fatta "giusta causa permanente", che significa intangibilità del diritto fondiario salvo una mora contrattuale d'imperio statale, ad una rivendicazione non meno frase-fattizia: la stabilità sulla terra e nel lavoro. E dalla stabilità sulla terra alla proprietà di essa non vi è che un passo, anzi è la stessa cosa: sindacati e comitati di partito chiedono apertamente l'accesso del lavoratore alla proprietà della terra.
Fino a che il grande capitale industriale e finanziario domina la società l'uomo che lavora può essere stabile sulla terra solo come stabile bestia da soma.
La politica agraria - e del resto anche quella industriale - del partito stalinista non ha nessun senso di passaggio dal capitalismo al socialismo, ma è decisamente retrograda nel cammino stesso della società borghese.
Il Manifesto di Marx tracciò l'epopea del ciclone con cui il capitale aveva lanciato in giro per il mondo geografico e sociale le masse lavoranti senza poter scorgere e frenare le conseguenze lontane di questo vortice centrifugo da cui uscirà la rivoluzione operaia mondiale.
I traditori di oggi con la formula infame della stabilità, così puzzolente che l'ultimo dei riformistoni di mezzo secolo addietro ne avrebbe inorridito, lavorano per il rinculo della tecnica agricola in un manutengolismo di Stato ad un contadiname bigotto e chiesista candidato ai macelli di guerra, gli pongono come ideale non la società che non commerci più terra e la porti in alto alla comunione dell'opera fecondatrice sui milioni di ettari, apologizzando in modo schifoso la nuova servitù della gleba, con un "patto" legale più vile della "accomandita" del villano al nobile - che in guerra ci andava lui - di mille anni fa.
Da "Il Programma Comunista" n. 2 del 1957