Presente e futuro delle rivoluzioni d'Asia
Se discorriamo sovente di cose d'Asia non è perché movimenti demo-nazionali che hanno dato via a gigantesche unità statali suscitino in noi sentimenti di meraviglia o di stupore, come capita a moltissimi abitanti dei super-civili continenti d'Europa e d'America, cresciuti nella superstiziosa illusione che soltanto la razza bianca fosse capace di costruire fabbriche e foggiarsi moderni organismi statali, né perché sopravvalutiamo, come fanno quotidianamente i partiti socialstalinisti, la portata storica delle rivoluzioni sociali che colà hanno avuto luogo.
Non occorre scomodare l'Asia per trovare esempi di repentini rivolgimenti sociali che abbiano trasformato il carattere ed il modo di vivere di un popolo. Fino ad un secolo fa era la Germania a rappresentare ciò che fino ad ieri rappresentava la Cina in Asia. Basta leggere una sola delle famose invettive di Marx o di Engels contro la viltà e l'infingardaggine della borghesia prussiana per convincersene. Eppure, dalla guerra franco-tedesca del 1870 fino alla Seconda Guerra Mondiale, il capitalismo tedesco è rimasto un modello insuperato di dinamismo, di tenacia, di capacità di adattamento. Marx ed Engels avevano dunque giudicato male nel 1848 la borghesia prussiana? No, è la borghesia tedesca che in un secolo è cambiata, non certo per un collettivo sforzo di volontà, ma per le esigenze materiali della rivoluzione industriale scoppiata sulle rive del Reno. Non è materia di meraviglia per noi, che sappiamo ciò, la non azzardata previsione che la progrediente rivoluzione industriale possa trasformare i cinesi – cioè un popolo proverbialmente sedentario e pacifico – in una sorta di tedeschi dell'Oriente.
D'altra parte sappiamo troppo bene che le rivoluzioni demonazionali di Asia costituiscono contingentemente un allungamento della vita del capitalismo mondiale, per lasciarci suggestionare dalle falsificazioni ideologiche dello stalinismo che pretende di spacciare il regime di Pechino per un governo proletario rivoluzionario. Certo, lo sviluppo dell'industrializzazione e della conseguente proletarizzazione dei ceti contadini, non della Cina soltanto, ma di tutti gli Stati asiatici di recente formazione, costituisce un elemento rivoluzionario di prim'ordine, in quanto diffonde nel continente asiatico gli effettivi del proletariato industriale fino a ieri confinato nell'arcipelago giapponese. Ma gli effetti di codesto gigantesco rivolgimento storico diverranno operanti ad una scadenza relativamente lunga. Al contrario le ripercussioni delle rivoluzioni nazionali asiatiche sull'economia, e quindi la politica dei massimi Stati capitalisti di Occidente, sono già tangibili.
A giudicare dall'andamento generale della politica internazionale che, nonostante gli episodi clamorosi della tregua di Indocina e del rigetto francese della CED, veleggia verso l'accordo e la stabilizzazione dei blocchi, l'enorme area Russia-Cina diventerà l'oggetto di un colossale intreccio di affari. Numero per numero, non abbiamo tralasciato di segnalare tutti gli avvenimenti e le dichiarazioni di grossi calibri della politica ufficiale che provavano, in maniera diretta o indiretta, le odierne prepotenti tendenze del gonfio industrialismo euro-americano a riversarsi nei solchi che gli ambiziosi piani di industrializzazione stanno aprendo in Asia. Ultima arrivata è la dichiarazione resa da Clement Attlee, di ritorno dalla visita in Russia e Cina, il quale ha espresso l'opinione che il governo di Pechino desidera avere scambi commerciali con l'Occidente.
Ritorneremo sulla dichiarazione di Attlee limitandoci per il momento a quanto detto, che chiarisce ulteriormente la natura dei legami che intercorrono tra i regimi rivoluzionari (in senso borghese) dell'Asia e le centrali mondiali del capitalismo. Tali legami sono destinati, nel futuro, a rafforzarsi e non potrebbe accadere diversamente, dato il carattere borghese dei rivolgimenti di Cina, India, Indonesia, ecc.
Ma, allora, le rivoluzioni borghesi asiatiche rappresentano o no un elemento di crisi e una causa di violenti conflitti imperialistici? Come si concilia l'affermazione che i regimi di Pechino, di Nuova Delhi, di Giakarta allungano la vita del capitalismo, funzionando da valvola di sicurezza delle industrie occidentali, con la previsione che gli effetti remoti della borghesizzazione dell'Asia aggraveranno la malattia mortale del capitalismo? Sicuramente la fine del colonialismo in Asia (dopo la conclusione della tregua in Indocina, rimane soltanto la Malesia nella condizione di territorio coloniale, non volendosi calcolare gli stabilimenti portoghesi e francesi in India) ha aperto una tremenda crisi nell'equilibrio mondiale, ma gli effetti tarderanno a manifestarsi. Le economie occidentali ne risentiranno i tremendi contraccolpi nella misura in cui il potenziale industriale accumulato in Asia tenderà a sganciarsi, essendo divenuto autosufficiente, dai vulcani produttivi d'America e d'Europa. Ma per ora l'Asia ha fame di prodotti industriali occidentali né le ditte esportatrici dell'Inghilterra, della Germania, degli stessi Stati Uniti, hanno minore bisogno di procurarsi mercati di sbocco in Oriente. Perciò non è affatto contraddittorio sostenere che le rivoluzioni nazionali asiatiche contribuiscono potentemente ad allungare la vita del capitalismo e nello stesso tempo a preparare da lontano crisi e conflitti di vastissima portata.
Sul piano politico mondiale i vittoriosi movimenti nazionali e popolari di Asia hanno avuto l'effetto, d'altra parte, di ritardare il processo di enucleazione delle forze rivoluzionarie del proletariato in Occidente. Per convincersene, basti riandare al tempo dell'avanzata delle forze cino-coreane nella Corea del Sud che tanto entusiasmo sollevò – mentre la vittoria di Mao tse Tung contro Ciang Kai Scek del 1949 aveva provocato soltanto curiosità – nelle masse lavoratrici dell'Occidente. L'inganno allora riuscì alla perfezione perché i partiti stalinisti giocarono sul contrasto nazionalista che opponeva la Cina e la Corea del Nord all'imperialismo nordamericano per provare il preteso carattere comunista ed anticapitalista della rivoluzione cinese. Sicuramente, le vittorie di Mao tse Tung avrebbero enormemente aumentato il prestigio dello stalinismo. Né è successo qualcosa, da allora, che testimoni di un mutato sentimento delle masse, le quali continuano a credere, debitamente lavorate dai demagoghi social-comunisti, che la rivoluzione anticapitalista marci sulle punte delle baionette dei generali russi e cinesi. Naturalmente, ciò ha impedito e impedisce alle esigue forze del marxismo rivoluzionario, ridotto a pochi gruppi internazionali, di estendere il loro raggio di influenza.
La differenza sostanziale tra le condizioni in cui si trovò ad agire nel primo dopoguerra il movimento rivoluzionario marxista, e quelle in cui ci dibattiamo noi, è che nel 1917-1920 il movimento rivoluzionario era in ascesa, essendo stato rafforzato più che danneggiato dalla sconfitta della rivoluzione del 1905 in Russia, mentre accadde, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, che il movimento rivoluzionario, annichilito dal tradimento della dirigenza stalinista della Terza Internazionale, era praticamente inesistente. Le esecuzioni capitali dei bolscevichi russi avvenute alla vigilia della guerra (biennio 1936-1938), il tremendo repulisti e il catastrofico crollo ideologico provocato dalla guerra di Spagna, le radicali repressioni nazifasciste operate nell'intera Europa, si può dire che ridussero il movimento marxista a poche persone, miracolosamente scampate al macello, e, quel che conta di più, all'assassinio ideologico commesso dallo stalinismo. La fine delle ostilità permise la ritessitura degli sparsi gruppi sopravvissuti alla bufera controrivoluzionaria. Le ragioni dell'estrema durezza delle condizioni in cui essi si trovano tuttora a lottare per resistere e durare sono numerose e complesse, come sono di ordine essenziale ed accessorio. Enumerarle qui ci porterebbe fuori tema. Ma per quanto riguarda le rivoluzioni nazionali di Asia, va detto che esse vanno classificate fra le ragioni essenziali delle nostre odierne strettezze. Infatti esse hanno ridato allo stalinismo un volto rivoluzionario, sia pure posticcio e mentito. La guerra – durante la quale il governo di Mosca era passato dall'intesa con le democrazie occidentali all'alleanza col nazifascismo attraverso il Patto Stalin-Hitler dell'agosto 1939, per ritornare, al momento dell'invasione della Russia nel campo dell'imperialismo anglosassone – e l'immediato dopoguerra – che vide in piena efficienza il condominio americano-russo del mondo secondo lo spirito degli accordi di Yalta e Potsdam – avevano inferto colpi formidabili alla truccatura rivoluzionaria del potere di Mosca. Neppure le schermaglie della "guerra fredda" riuscirono a fugare completamente il sospetto delle masse – sia pure confuso e inespresso – che la scissione tra Stati Uniti e Russia ricalcasse il classico modello delle liti tra ladroni intenti a spartirsi la preda. Doveva svolgersi lo spettacolare film della travolgente avanzata delle armate di Mao tse Tung sui lanzichenecchi di Ciang Kai Scek e, un anno dopo, la calata irresistibile delle divisioni cinesi in Corea, perché il prestigio dello stalinismo internazionale riprendesse quota, atteggiandosi a guida della lotta mondiale contro gli Stati Uniti, roccaforte del capitalismo.
La rivoluzione di Mao tse Tung che completava l'opera iniziata dalla prima rivoluzione cinese di Sun Yat Sen del 1911, non era una montatura propagandistica dello stalinismo, come fu, ad esempio, la presentazione del carattere rivoluzionario del partigianismo in Europa. Era, e rimane, una rivoluzione effettiva operata da un reale capovolgimento del millenario equilibrio sociale cinese, anche se era compressa, ed è compressa, nei limiti dell'industrialismo borghese. Una forte ed influente organizzazione internazionale del comunismo marxista se fosse esistita all'epoca, avrebbe potuto fronteggiare la marea di istintivo entusiasmo sollevato nelle masse dalle ripercussioni del crollo del regime di Ciang Kai Scek, giustamente odiato per aver fatto massacrare con selvaggia feroce la Comune di Canton e Shangai nel 1927; ed avrebbe potuto farlo dimostrando il carattere e le finalità borghesi del regime trionfante di Mao tse Tung. Bisognerà purtroppo che passino degli anni perché si faccia strada la verità: essa ha fatto solo i primi passi a Ginevra, ove il primo ministro Ciu-en-lai fu amichevolmente accolto dai rappresentanti dei governi capitalisti di Francia ed Inghilterra. Bisognerà soprattutto che cessi la commedia del mortale conflitto fra Stati Uniti e Cina, dietro il quale si nasconde l'irresistibile reciproco richiamo di due economie complementari, che sono impedite di avvicinarsi solo dal determinismo della politica di alleanze internazionali che divide il mondo in blocchi di potenze.
Lo stalinismo, che in meno di un decennio, se si parte dallo sterminio della vecchia guardia bolscevica di Russia e ci si ferma alla conferenza anglo-franco-russo-americana di Potsdam, aveva fornito inequivocabili prove della sua vera natura, ha potuto prendere a prestito da una rivoluzione vera – anche se non proletaria e comunista – una falsa verginità rivoluzionaria. Gli sfacciati compromessi con l'imperialismo americano l'avevano per lo meno reso sospetto agli occhi di molti operai: oggi, invece, può produrre a garanzia il nuovo capitolo di storia cinese, truffando, naturalmente, come sempre. Spacciando, cioè, per non si sa che marcia verso il socialismo l'irrompere in Cina di forme industriali che, per fondarsi sul salariato, sono necessariamente borghesi e capitaliste.
Perciò dicevamo che le rivoluzioni asiatiche, segnatamente quella di Cina, costituiscono un allungamento della vita del capitalismo mondiale, in quanto offrono uno sfogo – sia pure temporaneo – alla produzione occidentale e in quanto rafforzano il prestigio dello stalinismo, partito guida della reazione capitalista. Ma si tratta di vantaggi passeggeri per la classe dominante borghese: presto o tardi, per forza di cose, i proletari di Europa e di America, gli stessi proletari di Asia, capiranno che lo stalinismo ha lavorato in Asia per il trionfo di rivoluzioni puramente e semplicemente capitaliste, e, nel resto del mondo, per la conservazione dello sporco dominio del capitale. La Cina è un nodo troppo grosso per poter evitare di incappare... nel pettine della storia.
Da "Il programma comunista" n. 17 del 1954.
Fonte | Il programma comunista n. 17 | |||
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Data | 1954 | |||
Autore | Non firmato | |||
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