Storia della Sinistra comunista Vol. II - Parte seconda
Dal Congresso di Bologna del PSI al Secondo Congesso dell'Internazionale Comunista

III. Il Congresso di Bologna

Il congresso si svolse dal 5 all'8 ottobre, ma al comma fondamentale dell'ordine del giorno ― Indirizzo e mezzi di azione del partito di fronte all'attuale situazione nazionale e internazionale ― si giunse nel pomeriggio della prima giornata solo dopo la relazione del segretario uscente Lazzari (dalla quale risultò che dal 1918 le sezioni erano aumentate da 1.021 a 2.068 e gli iscritti da 23.765 a 87.589), e gli si dedicarono appena le due giornate successive, l'ultima essendo interamente assorbita dalle questioni relative alla prossima campagna elettorale. D'altra parte, il rifiuto della nostra proposta che, essendo le posizioni delle diverse correnti ormai ben Note, si desse subito la parola ai delegati e i relatori (1) si limitassero a chiudere il dibattito prima di passare al voto, ebbe per naturale effetto che la discussione rimase pigiata in soli due giorni e mezzo con grave pregiudizio non della "democrazia", da noi non certo rivendicata né come bene in sé, né come formula risolutiva dei problemi in gioco, ma della chiarezza e del senso di responsabilità di fronte agli imperativi dell'ora, ai quali auspicavamo che il congresso fosse richiamato. Si convenne tuttavia che i relatori, parlando in apertura e a chiusura del dibattito, fossero il più possibile sintetici, e i convenuti invitati ad esprimere con tutta l'ampiezza consentita dai margini di tempo il loro pensiero.

1. Il discorso del relatore ufficiale della sinistra

In base a tale criterio, ebbe per primo la parola il relatore per la Frazione comunista astensionista, Amadeo Bordiga. Il discorso, di cui tocchiamo rapidamente i nodi essenziali (lo riproduciamo integralmente a pag. 83), è importante perché va subito al fondo della questione. La Sinistra sa benissimo che, anche solo in forza dei mandati imperativi delle sezioni ai loro delegati, il congresso si chiuderà come essa non vorrebbe e come la storia esigerebbe che non si chiudesse; non vede tuttavia in ciò una ragione per non ribadire l'integrale programma comunista "perché noi ci ripromettiamo di ottenere nella vita avvenire del nostro partito la riconferma del metodo che vi additiamo, anche se non è per voi giunto il momento di applicarlo". Di fronte alla massima assise del partito non stanno problemi contingenti la cui soluzione dovrebbe, caso mai, essere demandata alla futura direzione; sta invece una questione di fondo che non si può eludere perché è posta dai fatti, e non solo né tanto dai fatti visibili nell'angusto perimetro nazionale, ma da quelli che emergono da un ciclo apertosi su scala internazionale: la questione cioè della compatibilità fra un metodo, quello rivoluzionario, iscritto in tutta la storia del comunismo fin dal Manifesto del 1848, che indica nella "critica della democrazia borghese il punto fondamentale di partenza di tutta quanta la demolizione socialista dell'ordinamento presente e [...] la base da cui deve scaturire la tattica" del proletariato e del suo organo-guida (metodo il quale esclude che attraverso gli istituti rappresentativi della borghesia, la classe lavoratrice possa mai conquistare il potere ed esercitarlo in funzione dei suoi compiti storici, così come esclude la negazione anarco-sindacalista della funzione primaria del partito e della dittatura del proletariato nel nuovo stato rivoluzionario); e il metodo riformista che di tale gigantesca visione è storicamente una deviazione e teoricamente e praticamente l'antitesi (2).

Tale questione non è accademica come non è "nuova". Non è nuova, giacché le rivoluzioni vittoriose o vinte del dopoguerra l'hanno risollevata con drammatica urgenza e, se la risposta ad essa in senso genuinamente rivoluzionario è stata data per la prima volta dai bolscevichi, la grandezza di questi va appunto ravvisata nell'avere offerto nei fatti la riconferma della "dottrina della quale sempre siamo stati seguaci, anche prima della rivoluzione"; ed è per questo che ricusiamo l'epiteto di "mimetisti del fenomeno russo". (Ricordiamo questa posizione per la sua continuità con quella di tempi recenti contro la degenerazione del movimento che oggi si richiama a Mosca, e che dal 1956 ha ufficialmente teorizzato, dopo di averle praticate nella realtà, le diverse vie nazionali, e ridotta quella della dittatura ad una occasionale contingenza propria della Russia di Ottobre 1917, disonorando il più grande trapasso della storia umana).

Non è accademica, perché nei grandi svolti della storia "l'opera rivoluzionaria la compie quel partito le cui posizioni programmatiche si adagiano sul percorso storico della emancipazione proletaria quale esso effettivamente viene esplicandosi"; in ciò risiede l'"arcano" della vittoria bolscevica come nell'insufficienza di tale visione è l'"arcano" dell'insuccesso delle pur gloriose repubbliche rosse di Baviera e di Ungheria, oltre che del fulgido gennaio tedesco; in ciò la radice della nostra insistenza perché il programma del partito sia non solo "modificato" ma capovolto e, sintetizzando il bagaglio teorico di quasi un secolo di marxismo e l'esperienza storica lontana e recente delle lotte proletarie, venga posto sulle fondamenta dei princìpi dell'insurrezione, della lotta armata per la conquista del potere politico, e "della dittatura del proletariato da parte del nostro partito" (e nostro, s'intende, nel senso di partito comunista mondiale); in ciò la rivendicazione che non ci si limiti a proclamare senza riserve o sotterfugi l'integralità di un simile programma, ma si statuisca che "di fronte al programma del partito non vi è solo la disciplina dei fatti, ma la stessa disciplina del pensiero, in quanto chi non lo accetta completamente non ha altra via che uscire dalle file della nostra organizzazione".

Non ci si obietti ― col solito metodo della destra di frapporre traguardi intermedi tra il proletariato e la sua vittoria finale: le elezioni, le riforme, la lotta contro Versailles e i suoi propositi di schiacciare sul nascere qualunque moto eversivo (chiara allusione al "programma" Treves) ―, che "si deve discutere solo di ciò che è possibile oggi o tutt'al più domani mattina ed evitare di lanciare lo sguardo nell'avvenire"; non insorgano i massimalisti (che il relatore prevede "incespicheranno" proprio in questa tagliola) a dirci che non bisogna "far dell'accademia dimenticando l'azione"; le questioni di teoria sono questioni di vitale interesse pratico, e la nostra preoccupazione, quand'anche sia accertato che la rivoluzione è musica non del presente ma del futuro, è che "nel momento in cui finalmente si dovrà passare all'azione con quel metodo del quale siamo fautori, con quel metodo attraverso il quale ha trionfato la rivoluzione russa", sorga, nelle stesse file del nostro partito, una formidabile opposizione "da parte di uomini i quali, coerentemente a quanto hanno sempre detto e pensato, non potranno non schierarsi contro il nuovo processo che li condanna" e, fuori da qualunque intenzione o pio desiderio o lealtà personale, si schiereranno dall'altra parte della barricata, perché, al momento in cui la tattica di oggi sarà la tattica di domani, "l'accademia sarà diventata realtà e i discorsi saranno diventati schioppettate", come a Pietrogrado e a Berlino, a Monaco e a Budapest. Si renda conto il partito della grave responsabilità che si assume con l'eludere, sacrificandola a pretesi interessi contingenti, una questione che investe tutto il suo destino avvenire, che è poi quello della classe proletaria mondiale: se ne rendano conto soprattutto coloro che si professano "massimalisti" e tuttavia temono di staccarsi da quanti, per ineluttabilità di determinazioni storiche e sociali, diverrebbero domani i nemici nelle nostre stesse file! O di qua, o di là; o l'avvio del partito sulla via unica e diritta della preparazione rivoluzionaria, o la paralisi permanente sotto il ricatto riformista e il naufragio nella palude democratica.

A questo punto ― che è quello nodale, perché significa la violenta, irrevocabile e non lacrimata ma voluta rottura del partito secondo la linea di separazione che la storia ha tracciato ― ci si obietterà, una volta di più per tirarsi la benda sugli occhi, che Mosca si è pronunziata contro di noi a favore della partecipazione alle elezioni. Ebbene, noi attendiamo un chiaro pronunciato dell'Internazionale su questo divario di opinioni, ma fin d'ora abbiamo non solo il diritto di ricordare quanto nella gloriosa storia del partito bolscevico (al quale il ciclo di una "doppia rivoluzione" rendeva pur giustificabile la partecipazione alla Duma zarista, salvo a disertarla sotto l'urgere di brusche svolte nei rapporti fra le classi e con lo stato feudale) suffraga potentemente la nostra tesi ― a cominciare dallo scioglimento con la forza dell'Assemblea Costituente, che "contiene tutta la più grande, la più bella, la più suggestiva parte del nostro programma" ―, ma il diritto di proclamare che sulla bilancia del giudizio del nostro astensionismo marxista dev'essere gettato il peso di un'esperienza da cui i bolscevichi hanno avuto il privilegio di andare esenti, quello di un partito "che da decenni vive nel regime della democrazia parlamentare borghese" e che particolarmente "nell'ultimo decennio ha dovuto condurre una lotta speciale contro l'addentellato nelle sue file del metodo democratico", una lotta grazie alla quale soltanto non è caduto nell' infamia della unione sacra o anche solo della adesione alla guerra (accademia, dunque, o vitale necessità di esistenza?) e che, in Italia come in tutti i paesi a capitalismo maturo e a lunga tradizione parlamentare, insegna quanto sia difficile sradicare l'ingombrante retaggio democratico; come a tale opera di disinfestazione fra le masse e nel partito occorra dedicare tutte le forze, non essendo più il tempo di criticare soltanto, ma di attaccare il regime capitalista; e come tale opera di preparazione rivoluzionaria debba, per riuscire convincente, svolgersi fuori e contro gli istituti rappresentativi, giacché "la massima propaganda che facciamo alle masse non la facciamo con le nostre parole, ma col nostro atteggiamento" ed è con esso che potremo colpire il nostro "primo bersaglio, prima ancora dei privilegi ed istituti economici che attaccheremo dopo: il sistema democratico rappresentativo che bisogna sfatare prima, e poi distruggere".

I massimalisti si levarono contro il relatore quando sostenne che, nella pratica situazione dell'Italia 1919, partecipare alle elezioni aveva valore di collaborazione di classe, e che la vecchia intransigenza, utile sino al 1913, non bastava più ad esprimere il tono storico della lotta di classe. È chiaro che una simile impostazione feriva i propositi di chi voleva godere del trionfo elettorale, e passava per rivoluzionario proletario e nemico della borghesia. L'urto delle correnti farà dire al relatore che era stato molto più agevole svolgere la parte teorica che analizzarne le implicazioni tattiche; ma qui doveva affermare senza riguardi che, come il gruppo parlamentare dopo la fine della guerra aveva in più occasioni amoreggiato col ministro Nitti, così era nei voti di quest'ultimo la partecipazione del partito socialista alle elezioni con un grande successo, che avrebbe aperto la via ad una collaborazione anche nel potere contro ogni tradizione del partito.

Le ore in cui il proletariato e il suo partito sbagliano (e ancora a lungo negli anni successivi sbaglieranno) sono quelle in cui la classe borghese e la sua politica si presentano divise in due campi nell'apparenza fieramente avversi. Si è già detto che la spedizione fiumana e la minaccia agitata di una dittatura militare avevano spinto il gruppo parlamentare verso Nitti come la soluzione "migliore" o, diciamo, "meno peggiore", e che a sua volta Nitti corteggiava, come puntello del governo e dello stato, l'unica forza politica organizzata con largo seguito di masse, il PSI. La posizione della Sinistra ― anche questo sappiamo già ― era di vedere nella democrazia nittiana, o altra, la stessa forza di classe che nel fascismo nazionalista. Era quindi illusione quella di potere con forze parlamentari favorire l'una o l'altra frazione della classe dominante; in ogni caso, chi questo credeva doveva essere pronto a votare per quel governo la cui formula gradiva come traguardo intermedio o come soluzione meno peggiore. Lo svolgimento della lotta fascista mostrò che, come non era fattore determinante un voto parlamentare, così non poteva esserlo un'eventuale azione dello stato contro i fascisti votata alla Camera. Comunque, dato e non concesso che il fascismo volesse tentare con mezzi extralegali la conquista del potere (la ottenne ― si sa ― per vie legalitarie e parlamentari, e la sua azione di piazza prevalse solo per l'appoggio dello stato borghese che, auspici Nitti, Giolitti e Bonomi ― futuri campioni antifascisti! ― intervenne a strozzare le energie proletarie), era follia pensare, come i riformisti e in sostanza gli stessi massimalisti, di arrestarne la marcia facendo ordinare da una maggioranza montecitoriana che le forze dello stato respingessero l'assalto; chi questo sperava, aveva fin da allora rinnegato il marxismo e la sua visione della natura e dei compiti dello stato. Ma costui doveva anche essere disposto (e andando alla Camera vi sarebbe stato, volente o nolente, costretto) a votare a favore dell'illusorio governo di repressione. Eravamo quindi nel buon diritto di dire che, in tale situazione, optare per la carta parlamentare voleva dire aver vedute legalitarie fino all'appoggio di un ministero borghese di sinistra, ossia anticipare nell'aula quello che in anni futuri ci mostreranno l'Aventino e poi la Liberazione nazionale, solo sbocco della prassi parlamentare: la collaborazione di classe, che, rinfacciata ai massimalisti 1919, li fece insorgere, scottati sul vivo.

"Ecco perché il nostro dissenso da voi ― concluse il relatore mentre ancora la tempesta sollevata dalle sue parole ribolliva ― ecco perché vogliamo trascinarvi via da quell'ambiente per ricondurvi vicino al nostro proletariato, a fare la propaganda tenace del metodo sovietista, per la preparazione dell'urto finale che permetterà al proletariato di costruire sulle rovine di questo fradicio istituto della democrazia borghese il nuovo ordine sociale, suprema conquista della rivoluzione comunista".

Note

(1) Quattro, perché nel frattempo Costantino Lazzari si era fatto promotore di una "Frazione massimalista unitaria" destinata a impedire il distacco della destra gettando un ponte fra i "pubblici poteri" del programma 1892 e la "dittatura del proletariato" delle tesi 1919 della Internazionale e la cui mozione, ulteriormente limata per conciliare il diavolo e l'acqua santa, ottenne infatti il voto dei riformisti ― e l'unità fu salva!

(2) Usiamo il presente in tutta questa esposizione, per sottolineare che gli opposti schieramenti teorici e programmatici hanno un'inflessibile costanza: sono oggi e saranno domani quelli che erano ieri.

2. Vivace replica della destra

L'abile relatore per la destra, Claudio Treves, provoca subito vivaci incidenti con gli astensionisti perché li accusa di voler rinnegare tutta la storia del socialismo cancellandola solo perché dal nord, dalla "Russia immensa e gloriosa", è giunto un nuovissimo verbo. La sua tesi è semplice; oggi è divenuta moneta corrente (dopo morto il suo portavoce, marxista più preparato di molti suoi successori) ed è né più né meno quella sostenuta dai Krusciov e dai Togliatti, dai Breznev e dai Longo: molte e tutte buone sono le vie per la conquista del potere da parte del proletariato; non si deve escludere né quella rivoluzionaria né quella legalitaria, ma fare il caso per caso. Scesi su questo terreno, sarà sempre facile sostenere che per la vittoria dell'azione insurrezionale non è ancora il momento o mancano le condizioni (anche quando si ha dietro un partitone di massa).

Treves dice: la conquista del potere non l'avete inventata voi; è già scritta nel programma di Genova del 1892! Il lettore sa che qui si parlava di conquista dei pubblici poteri; ma il punto per noi importante è che Treves (del tutto coerente) propone che il programma di Genova rimanga e che in base ad esso l'unità del partito sia salva; non solo, ma audacemente afferma che Lenin nel suo messaggio di solidarietà non chiede la revisione del programma stesso. I fatti posteriori dimostreranno a Treves e a tutti che Lenin voleva non solo la modifica del programma, ma, contrariamente a destri e massimalisti uniti, la scissione da chi vi si opponeva.

Abilmente, l'oratore sottolinea ad ogni passo l'internazionalità della lotta proletaria per difendere la sua parola d'ordine della lotta contro Versailles come obiettivo da sostituire a quello per noi unicamente valido della lotta per la conquista del potere; e ciò coll'argomento che l'articolo 11 del trattato di pace prevede l'intervento della Società delle Nazioni in un paese minacciato nei suoi ordinamenti costituzionali, come già nel caso della rivoluzione ungherese schiacciata dalle baionette rumene agli ordini e al servizio di Parigi. Riferendosi al fallimento dello sciopero internazionale del 20-21 luglio per colpa dei francesi, egli mette in guardia contro iniziative premature e azioni di piazza. Il suo argomento cardine è: "Portate la propaganda, l'organizzazione e l'educazione internazionale fino all'ultima conseguenza"; e, per non essere frainteso e dare un'efficace botta ai massimalisti: "Con ciò io non intendo eludere la rivoluzione, come fanno i massimalisti, ma mostrarla nella sua entità reale".

Circa la questione dell'elezionismo, Treves ricambia all'estrema sinistra la lode di coerenza che questa aveva fatta ai deputati di destra. E' giusto, ammette, quanto sostiene la Sinistra: "Badate, il parlamentarismo è quello che è: se gli date un dito vi piglia un mano; gli date una mano e vi piglia un braccio. I massimalisti elezionisti rispondono: Noi andiamo al parlamento sicuri di noi, per fare soltanto atto di protesta e di sabotaggio e per lanciare gli squilli apocalittici dell'imminente rivoluzione. Illusione! Quando sarete in quell'ambiente, subirete, onestamente come noi, la legge di quell'ambiente. Sceglierete tra gli avversari in certe ore, come noi onestamente in certe ore abbiamo dovuto scegliere. Non abbiamo visto di recente alcuni compagni della direzione del partito condividere la nostra posizione, quando abbiamo dovuto rintuzzare la minaccia della reazione militarista guerrafondaia, peggiore di quella del governo? [V'è qui una chiara conferma dell'appoggio del gruppo parlamentare a Nitti. Come sempre, il riformismo fa l'apologia del popolo, delle masse, prima e con maggiore serietà dei pervertiti comunisti ligi alla Russia di oggi. Il popolo, grande organismo vivente, per ogni suo bisogno chiede una soddisfazione, per ogni minaccia alla sua libertà implora immediata la difesa, per ogni vantaggio esige il metodo più rapido, meno costoso e meno doloroso. Non è linguaggio sconcio in bocca a un riformista classico; lo è in chi abbia a suo tempo preteso, in Italia o nel mondo, di sconfessare il riformismo] [...]. Quando sarete là dentro, e quando sarete non un manipolo, non in quaranta, ma in cinquanta, in sessanta, forse in cento, e avverrà che tutto il gioco della assemblea possa essere nelle vostre mani, o abbandonerete quel gioco, oppure lo giocherete lealmente, secondo le sue leggi".

Gli ultimi due argomenti del relatore sono anch'essi suggestivi. Egli riporta la difesa della violenza alle suggestioni morbose della guerra e, battendo un tasto al quale sa che i massimalisti sono sensibili, mette in guardia contro una rottura con la possente Confederazione del Lavoro, che il metodo ― secondo lui ― barricadiero da noi propugnato renderebbe inevitabile col risultato di "creare un'aristocrazia di proletariato rivoluzionario pronto ad ogni cimento idealista e un altro prono al ventre, sordo a tutto ciò che non è l'interesse immediato", suscettibile quindi di cadere allo stesso livello del laburismo inglese. "Vi parrebbe saviezza, compagni, compiere questi atti? A me pare sarebbe gravissimo errore, un errore che si sconterebbe per assai tempo".

La conclusione non potrebbe essere più netta: Siamo e resteremo col Partito Socialista, secondo il programma del 1892. La risposta dell'enorme maggioranza al congresso sarà purtroppo: Restateci anche col nuovo programma! Vi teniamo con piacere!

3. Conclusioni dei massimalisti

Sarebbe ingiusto scaricare sulle spalle del vecchio Lazzari la responsabilità di avere impedito la scissione dalla destra offrendosi in sacrificio, come disse poi l'Avanti!, "per ricondurre all'unità del movimento socialista coloro che potevano forse volerne il distacco". La verità è che né i riformisti auspicavano un simile distacco, né occorrevano "olocausti" per convincere la maggioranza massimalista a trattenerli: era essa la prima a non volere a nessun costo una rottura.

Ai suoi occhi, l'abisso non era già stato aperto da una recente e sanguinosa storia; era o poteva essere, come disse il loro relatore Gennari, un "caso di coscienza", un fatto personale, non una realtà oggettiva (era, oggi si direbbe, una scelta privata): per Graziadei, i contrasti in seno al PSI erano così lievi da potersi "conciliare entro la formula dell'onesta libertà nel pensiero e della disciplina volontariamente accettata nell'azione" (proprio quello che noi negavamo): a sua volta, rimangiandosi le frasi troppo "dure" del manifesto-programma della Frazione massimalista elezionista, Serrati deplorò che a quest'ultima si fosse attribuito il proposito di rompere un'unità che al contrario bisognava salvaguardare, "non soltanto per ragioni sentimentali, ma anche e soprattutto per ragioni di carattere utilitario, nell'interesse della lotta di classe e del proletariato", argomento che valeva certo per un successo elettorale, ma era del tutto... antiutilitario dal punto di vista della continuità di azione del partito e della sua capacità di guidare la classe operaia anche soltanto nelle lotte rivendicative (1).

Allo stesso modo, sarebbe ingeneroso beffarsi del modo in cui Lazzari pose a Bologna la questione della violenza: "Cosa importa a noi che l'abbattimento della borghesia sia violento o pacifico? Importa che sia totale" (quasi che la storia avesse posto il problema in termini soggettivi e l'avesse risolto nel senso che tutt'e due le strade sono "buone", a scelta e piacere di Tizio, Caio o Sempronio) presentando ai congressisti, invasati, a sentir lui, di uno spirito bellicoso contrastante con la "natura del popolo italiano (che è eminentemente pacifico)", la mirabolante alternativa di un partito che afferma il "coraggio del diritto". Sarebbe ingeneroso ed anche ingiusto, perché nei loro discorsi i massimalisti ribadirono, è vero, i princìpi improvvisamente riscoperti del marxismo rivoluzionario, e Gennari si spinse fino a citare le roventi pagine dell'Indirizzo della Lega dei Comunisti del 1850, ma si preoccuparono essenzialmente di... scusarsene di fronte all'uditorio e, in ogni caso, di attenuarne la portata: violenza sì, ma non perché da quasi un secolo il marxismo avesse riconosciuta in essa la "levatrice della storia", anzi la sua "locomotiva", bensì perché, contro ogni nostra buona volontà, c'era stata di mezzo la guerra, e noi, "figli di essa", dovevamo "parlare un po' più [non tanto, per carità!] di violenza di quanto non ne abbiamo parlato prima" (Serrati); dittatura sì, ma a patto che fosse "dittatura impersonale di tutto il proletariato", mai di un partito (Gennari), e la si utilizzasse non per "uccidere o strangolare la borghesia", ma per "dirle soltanto: Tu devi lavorare con noi, devi vivere del tuo lavoro; chi non lavora non mangia" (ancora Serrati); rivoluzione sì, ma solo quando non i contrasti interni della società borghese, ma "la classe operaia avrà raggiunto un sufficiente grado di maturità" (per Graziadei, dovendosi distinguere ― bella scoperta ― fra "periodo rivoluzionario" e "momento rivoluzionario", era tanto giusto essere gradualisti nel primo quanto antigradualisti nel secondo); adesione all'Internazionale sì, ma non senza "riservarsi una certa scioltezza di movimenti nell'ambito nazionale" (ancora Gennari)!

Poste così le questioni, bastava (come bastò) che una commissione incaricata di redigere il programma stilasse una mozione nella quale era bensì inserito un programma sostanzialmente accettabile anche per noi, ma slegato da qualunque implicazione pratica (2), e che d'altra parte Lazzari accettasse l'emendamento alla sua mozione proposto da un compagno di corrente, secondo cui la "conquista dei pubblici poteri" nel programma del 1892 andava intesa nel senso di mirare "alla loro sostituzione con i consigli dei lavoratori, cui dovrà trapassare il potere politico"; bastava che i riformisti aderissero a questa graziosa formula ("vi aderiamo", spiegherà Treves, perché "la mozione offre piena ospitalità e cittadinanza a tutte le correnti del partito"); bastavano dunque i più banali espedienti diplomatici, perché il salvataggio non della "unità" ma della confusione imperante fosse assicurato. Val la pena di osservare che nessuno dell'Ordine Nuovo prese la parola durante il congresso: l'unico contributo di questo che oggi si pretende sia stato il gruppo di punta del comunismo rivoluzionario in Italia alla soluzione dei gravi problemi di cui il partito avrebbe dovuto discutere e non discusse, fu la partecipazione di Tasca e Rabezzana alla compilazione della mozione massimalista elezionista, intesa appunto a lasciare tutto nel vago e così garantire la permanenza nel partito della destra dichiaratamente riformista!

Note

(1) Facciamo grazia al lettore di frasi serratiane di patetico appello all’unità, quali: "Noi vogliamo bene ai nostri uomini e sappiamo che tra essi vi sono tali coscienze, tali menti, che piuttosto abbandonerebbero tutte le medagliette che abbandonare la medaglia di Carlo Marx". Quanto alle ragioni dell’astensionismo, l’unico argomento accampato dagli elezionisti fu che esso era "logico ma impolitico", perché significava "straniarsi dalla vita del paese", quasi che proprio in quei mesi la metà proletaria del "paese" non fosse in lotta per ben altro che per un pezzo di scheda, e quasi che noi non avessimo teorizzato l’astensionismo per ragioni squisitamente pratiche!

(2) La mozione, diversamente dal programma pubblicato dai massimalisti nell’agosto (in base al quale le sezioni avevano votato dando ai loro delegati il mandato imperativo di sottoscriverlo), taceva della esclusione dei riformisti dal partito: da anti-unitari almeno formalmente, i serratiani si erano "convertiti" all’unitarismo ad ogni costo, e su tale posizione rabbiosamente si arroccarono in tutto il triennio successivo.

4. Una voce della destra e due della sinistra

Fra gli altri interventi meritano un cenno quello di Turati e quelli dei due astensionisti Boero e Verdaro.

Il primo è l'unico, agli antipodi della nostra posizione, a non usare mezzi termini nella difesa del riformismo. L'Ottobre rosso, per lui, è una "barbarica" frattura nel filone aureo dell'unico socialismo degno di un paese civile, il socialismo evoluzionistico, nel quale anzi egli addita l'inverarsi del "passaggio dall'utopia alla scienza" nella celebre frase di Engels. Il soviet? Ma esso non è "essenzialmente altra cosa ... che la nostra associazione operaia; e il complesso dei soviet, o Soviet centrale, è in qualche modo la nostra Confederazione generale del Lavoro [punto sul quale ritornerà in un suo discorso il giovane Matteotti]... Se domani il nostro attuale Consiglio superiore del Lavoro diverrà una più grande organizzazione elettiva uscente dalle organizzazioni e munita di poteri legislativi, ecco che avremmo il nostro Soviet centrale"; ed è vero che, da bravi democratici, non ne escluderemmo "la rappresentanza degli elementi industriali, o chiamateli anche borghesi", e ripudieremmo il "voto plurimo" a danno dei contadini, ma "resta a vedere se queste differenze non siano il segno e la conseguenza necessaria della nostra grande superiorità di evoluzione civile"!!! La rivoluzione? Ma "la sola rivoluzione possibile e fruttuosa" è costituita "dal lavoro assiduo e penoso di conquista graduale" (1) ― "il suffragio universale, quando diventi consapevole (e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile) è l'arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste". La violenza? In un unico caso essa "sarà non soltanto legittima, ma necessaria e vittoriosa [...]: quando il suffragio universale sarà voluto, sentito e saputo fortemente manovrare dalle nostre masse, se la classe borghese follemente tentasse di rapirglielo con la violenza per ricondurle in servitù"!!!

A chi gli domanda se accetta la dittatura del proletariato come privazione dei diritti politici alla ex classe dominante, Turati risponde: "Quando la borghesia avrà esaurito il suo compito, e i proletari, armati di tutti i mezzi tecnici, intellettuali, morali, politici, potranno sostituirla interamente nella gestione della società", ebbene, chiamatela pure dittatura, allora e soltanto allora saremo d'accordo. La situazione così prevista è in atto o, quanto meno, appartiene a un ciclo prevedibile dell'avvenire non lontano? No, perché "il socialismo non può nascere se non dalla pletora del capitalismo, dalla crisi di sovrapproduzione", mentre, per disgrazia collettiva, la guerra ha "essicato tutte le fonti produttive, e ridotto tutti, vinti e vincitori, in tale stato di miseria e prostrazione [...] che è la condizione più contraria, direi per definizione, alla possibilità di un'immediata rivoluzione socialista". (Inutile ricordare che, arrivata la pletora, i riformisti hanno sempre scoperto e sempre scopriranno che, per... inversione dialettica, i presupposti dell'azione rivoluzionaria sono venuti a mancare).

Ma le parole che suonano particolarmente ciniche in bocca di Turati sono che le condizioni obiettive erano presenti in Russia, paese che "ha dovizia di miniere, di cereali, di ogni ben di dio" (proprio in quei giorni, alla guerra civile si aggiungeva, nel primo paese di dittatura proletaria, il flagello della carestia!) e il guaio era che le si fosse imposto una "rivoluzione ad oltranza" per la quale, dal punto di vista soggettivo, essa era "manifestamente immatura"! Logica dunque la conclusione: o tenere il programma 1892, e con esso la tradizione di "graduali conquiste" in cui il vecchio leader riconosce l'unico aspetto della storia di ventotto anni tormentati che ancora si salvi, o buttare insieme con il programma l'intera "dottrina marxista" (nella sua versione Critica Sociale, ben s'intende!). O di qua o di là: il partito rinsavisca... (2)!

I discorsi del torinese Giovanni Boero e del fiorentino Virgilio Verdaro sono a loro volta importanti ad esplicita dimostrazione che la corrente di sinistra, piccola o grande che fosse numericamente, era ben lontana dal rimanere circoscritta al famoso, o meglio ancora famigerato, Mezzogiorno, e disponeva di una rete nazionale con punti di forza anche in aree ad altissima concentrazione proletaria. Il valoroso compagno Boero rivendica a nome della Frazione la necessità non solo di modificare il programma di Genova, chiedendo a tutti i congressisti di proclamare francamente se intendono "seguirlo [il nuovo programma formulato nel modo più netto ed esplicito] fino alla fine, o se lo accettano pro forma per poi tradirlo al primo avvenimento", ma anche di mutare nome: "oggi apparteniamo al partito comunista, e il Partito Socialista Italiano non può essere che una sezione del comunismo internazionale". L'oratore oppone le grandi possibilità dell'epoca storica aperta dalla rivoluzione russa a quelle, ridotte, che potevano giustificare una tattica meno audace, e, sulla scorta delle esperienze di Germania e Ungheria, mostra come in un simile ciclo storico l'unità tanto cara ai massimalisti rappresenti non un elemento di forza, ma una ragione di debolezza. Valendosi del bilancio pratico del proletariato torinese durante la guerra, egli mette in evidenza l'urgente necessità di svolgere un'attiva propaganda nell'esercito e dedicare maggiori energie che in passato all'agitazione in mezzo ai contadini. Fra le urla dei massimalisti, soliti ad assumere pose rivoluzionarie a carico del contadiname, il compagno osserva giustamente: "Si è detto che i nostri contadini non si trovano nelle condizioni di quelli di Russia, e che quindi non verranno a noi perché vogliono la terra divisa in proprietà. Così sarà se non diremo loro che queste piccole proprietà saranno più di danno che di vantaggio". Concludendo, l'oratore indica fra i grandi insegnamenti della rivoluzione russa quello di non aver esitato di fronte alla creazione di un "militarismo russo", e oppone la rivendicazione fondamentale della dittatura, del terrore e dell'organizzazione armata della classe operaia, al vile parlamentarismo in cui non solo la destra ma il centro massimalista affogano (3).

Venendo a rincalzo del compagno di Torino, Verdaro illustra efficacemente la necessità imprescindibile di cambiare il programma e, come volle Lenin nell'aprile del 1917, anche il nome del partito, e ricorda come di questa esigenza la storia del movimento operaio presenti numerosi, autorevoli esempi. Dopo aver rivendicato come fondamentale acquisizione del movimento operaio rivoluzionario lo scioglimento dell'Assemblea Costituente in Russia ad opera dei bolscevichi, ed aver messo in luce la contraddizione teorica e storica fra il socialismo della II Internazionale e quello della III (che meglio si chiama comunismo, come nel Manifesto di Marx), il compagno ironizza sulla proposta Serrati di far firmare ai futuri eletti al parlamento una lettera di dimissioni in bianco per il caso in cui (tanta fede si aveva nella loro qualità di socialisti!) passassero armi e bagagli al "nemico". Cita uno stato sudamericano dove tale lettera è addirittura nelle mani del presidente della camera, che può defenestrare chiunque faccia opposizione, e, fra risate alle spalle dei massimalisti, rileva l'assurdità di escludere dal parlamento, una volta che si sia deciso di andarvi, uomini come Turati e Modigliani: è dalle nostre file che vanno messi fuori! Non è la scissione o l'amputazione che uccide un partito: "è l'equivoco, perché rallenta e uccide l'azione di tutti".

Non abbiamo bisogno di ricordare come questo concetto si trovi pienamente, e alla lettera, nelle parole di Marx e di Lenin.

Note

(1) L’opportunismo non conosce frontiere. Al Congresso di Tours, un anno dopo, Blum dirà: "Lo sforzo quotidiano di propaganda che il militante compie, è la rivoluzione che ogni giorno fa un passo avanti. Tutto quel che è organizzazione e propaganda socialista, tutto quel che è estensione all’interno della società capitalistica delle organizzazioni operaie sulle quali passerà domani la società collettivista, tutto ciò è rivoluzionario. Le stesse riforme […] se servono ad accrescere e consolidare la presa della classe operaia sulla società capitalistica, sono rivoluzionarie" (Kriegel, Le Congrès de Tours, pag. 24). Del resto, a Tours Blum parlerà anche il linguaggio dei massimalisti. Per esempio, ecco la sua illustrazione del concetto di dittatura proletaria: "Dittatura esercitata da un partito poggiante sulla volontà e sulla libertà popolare, sulla volontà delle masse; dunque dittatura impersonale del proletariato […]. Dittatura di un partito, sì, dittatura di una classe, sì, dittatura di alcuni individui, noti o ignoti, oh, questo no!" (Ivi, pag. 129).

(2) In nome di "quella unità del proletariato militante che è sempre in cima ai nostri pensieri e che la scissione e lo sgretolamento del nostro partito metterebbe a gravissimo repentaglio" (frase che nei mesi successivi sarà Serrati a friggere e rifriggere), Turati annunzia in ogni caso che i suoi sono pronti a "ripiegare ― malgrado un dissenso che non desideriamo dissimulare ― sopra la mozione Lazzari".

(3) È dovere di cronaca rilevare tuttavia come Boero scivoli qua e là, pur sempre riscattandosene, nel mito proprio dell'ambiente torinese della virtù propedeutica dei "Consigli" e dell'educazionismo specialmente tecnologico, che porterà gli astensionisti piemontesi, durante lo sciopero dell'aprile e l'occupazione delle fabbriche, a sbandamenti severamente giudicati da Il Soviet.

5. Replica finale del relatore della sinistra

Non riassumeremo le repliche di Bombacci per i massimalisti, e di Treves e Lazzari per gli unitari: il primo sproloquia tra il sentimentale e il barricadiero; gli altri due, finalmente "uniti", ammoniscono ancora una volta sui pericoli che minacciano il proletariato italiano, e non si accorgono di personificarli appunto in quelle forze della democrazia internazionale e indigena contro le quali si guardano bene non diciamo di mobilitarlo, ma di prepararlo in qualche modo a combattere. Tutti sono chiusi nel cerchio della contingenza: tutti eludono le questioni di principio e fingono di ignorare che esse sono nello stesso tempo questioni terribilmente pratiche, questioni di vita.

È nella replica del relatore della Sinistra che il congresso si risolleva all'altezza del grande svolto storico inaugurato dall'Ottobre. Val la pena, senza riassumerlo, di indicare alcuni fra i principali punti che ne emergono. Anzitutto (e ciò valga per gli storici i quali piangono sulla nostra cocciutaggine nel rifiutare l'unità a tutti i costi, anche coi "più vicini"), essa mostra perché, malgrado la sostanziale concordanza del programma frettolosamente redatto dai massimalisti in sede congressuale (povera... democrazia: le sezioni, la famosa "base", non ne sapevano nulla!) con i cardini del nostro da tempo reso pubblico, la Frazione comunista astensionista voterà separata: quel programma è infatti incastonato come corpo estraneo in una mozione ― l'unica sulla quale si voterà ― che lo svuota di ogni implicazione pratica in quanto non prevede minimamente l'espulsione dei riformisti e, pur dando adesione alla III Internazionale, tace sugli obblighi che questa necessariamente comporta se non vuole essere fittizia ed ipocrita: insomma, perché il mutamento di programma va di pari passo con un... cocciuto immobilismo sulle posizioni equivoche e compromissorie di sempre. In secondo luogo, dalla replica si vede bene perché, malgrado tutto, la Sinistra non rompa né possa rompere col partito (e ciò valga per gli storici che, inversamente, ci accusano di... insufficiente durezza): il massimalismo italico, certo meno piratesco ― soggettivamente ― della controparte "indipendente" tedesca, ha però reso alla classe dominante il servizio di imprigionare l'unica frazione veramente comunista nel dilemma di rompere i ponti con un partito "riverniciatosi" attraverso un programma sostanzialmente compatibile con le tesi di Mosca e con l'esplicita adesione alla sua Internazionale, rendendosi così incomprensibile ai proletari accecati da quell'apparenza luminosa ma soprattutto escludendosi dalla nuova e gloriosa assise del comunismo internazionale, o rimanere obtorto collo nel partito per infrangere l'artificioso diaframma; vi rimase infatti per un anno ancora di tradimenti altrui (e, come vedremo, di impazienze di compagni come quelli torinesi nel settembre 1920), perché attraverso la sua incessante opera di chiarificazione e propaganda maturasse nell'Internazionale prima di tutto, e in nuclei nel 1919 ancora annebbiati del PSI in secondo luogo, la coscienza, anzi la certezza, che la rottura era doverosa. Le due condizioni, al congresso, mancano: Mosca non è presente, e fra i congressisti nessuno, all'infuori di noi, sente l'urgenza dell'"esclusiva", cioè della condanna irrevocabile del metodo socialdemocratico che non è solo e non tanto il metodo della "pacifica conquista", ma ― come tragicamente insegnano Berlino, Monaco e Budapest ― il metodo della violenza antiproletaria ("al momento decisivo della sua storia, la borghesia non si difende attraverso partiti borghesi: sarebbe spazzata via. Essa si difende attraverso i campioni del metodo socialdemocratico nell'ultima battaglia contro l'avanzare della rivoluzione"). In terzo luogo, la replica dà un'ennesima smentita ai chierichetti della storiografia a tanto il braccio secondo cui la nostra tesi della necessaria selezione del partito secondo la discriminante del metodo rivoluzionario marxista avrebbe tratto origine da una prognosi errata della "situazione" giudicata da noi matura fin da allora, mentre il fato teneva in grembo ben altro e ben più duro cammino da faticosamente percorrere. La Sinistra non pone affatto la questione di un oggi rivoluzionario che esiga un cambiamento di rotta invece non necessario in un domani di riflusso: per essa come per i bolscevichi, la prospettiva è "di lungo periodo", e il nemico contro il quale essa si batte non è quello che in un problematico presente "impedisce la rivoluzione", bensì quello che ci taglierà la strada, se non lo sconfiggeremo a tempo, nell'ora in cui essa batterà davvero alle porte e non dovrà trovare un partito paralizzato da forze contrastanti nel suo seno. È allora, "quando il proletariato deve essere adoperato esclusivamente per sé, non per far prevalere nella vita del mondo borghese una frazione contro l'altra", è allora che la classe avrà bisogno di un'arma lucida e tagliente, non di una spada di cartapesta. Non siamo rivoluzionari perché vediamo necessariamente vicina l'ora x: siamo rivoluzionari perché, vicina o lontana, essa chiede da noi fin da ora un'azione, una tattica, un'organizzazione incompatibili con l'azione, la tattica e l'organizzazione del passato!

I massimalisti, tutti assorbiti dal problema elettorale, pretendono insieme che i riformisti rimangano nel partito e che gli si metta la cintura di castità in parlamento:

"Noi vorremmo ― afferma il relatore ― che il problema fosse risolto altrimenti. Vorremmo che fosse escluso dal partito chi non accetta il programma di domani, quello che voi medesimi avete stampato e distribuito al congresso stamattina. La logica, la necessità stessa vogliono che possano esservi minoranze disciplinate ad una mozione, ad un ordine del giorno deliberato dal congresso, ma non ammettono che nel partito siano tollerati coloro che negano il programma. Ecco perché dovrebbe, per la selezione del partito, bastare la vostra formula teorica; ma non basterà. È facile prevedere che non basterà, non solo perché non avete voluto, ma perché effettivamente non vi era la possibilità che quella affermazione bastasse, nella situazione attuale, dal momento che avete deciso di ingolfarvi nella battaglia elettorale. La conclusione sarà che da questo congresso uscirà vincitrice una grande frazione elezionista che condurrà il partito nella imminente battaglia [...]. Il partito vuole nella sua maggioranza andare a questa battaglia e vi andrà. Noi siamo fermamente convinti che essa rappresenta una condizione di inferiorità di fronte alle esigenze dell'azione rivoluzionaria, di fronte alla nostra adesione alla Terza Internazionale. Noi una volta tanto facciamo i profeti (e ci auguriamo di essere falsi profeti) pretendendo che queste forze che andranno unite al cimento elettorale dovranno domani scindersi su un altro terreno. Ebbene, quando questa crisi verrà, questa crisi che la nostra affermazione dottrinale non ha valso a precipitare, valga almeno un augurio: che essa non attraversi le supreme fortune del proletariato, non attraversi le vie grandiose della rivoluzione sociale!".

La profezia era esatta al cento per cento: l'augurio, purtroppo, rimase soltanto tale. Non vengano, coloro che a Bologna "non sentirono il problema dell'incompatibilità" ma truffaldinamente camuffarono nelle vesti di un programma comunista il loro opportunismo legando le mani a noi come al proletariato, non vengano costoro col senno (presunto) del poi a gridarci in faccia: Colpa vostra! avreste dovuto avere il "coraggio della rottura" (essi, che hanno avuto sempre un'unica bandiera ― seguire il più forte, non rompere mai con la greppia)! Noi, i cosiddetti impazienti o i cosiddetti intemperanti, vivevamo con angoscia il dramma di un equivoco lungo a morire, che paralizzava tutti: sapevamo che avremmo dovuto penare a lungo ― e mai abbastanza! ― perché il Partito Comunista nascesse su basi non fittizie; ci armammo di pazienza e di tenacia in vista di un difficile domani.

Ci si consenta d'altra parte un breve inciso, strettamente collegato ad una frase centrale della replica Bordiga: In chi era chiara la visione della realtà? La scissione venne, ma solo a Livorno, nel gennaio del 1921. La guerra civile venne; ma fu perduta dalle falangi rosse. Quale la causa? Il colossale errore di volersi salvare dalla sconfitta influendo sul maneggio elettorale e parlamentare dello stato. Chi tagliò i garretti e l'anima al proletariato in marcia? Il fascismo forse? E forse perché seppe rompere nelle mani del proletariato l'arma di cartapesta a cui l'opportunismo riformista e centrista tipo seconda Internazionale e seconda e mezzo volle affidarlo? No, per dio, l'alea storica favorevole alla rivoluzione fu stroncata dalla decisione di ricorrere al mezzo legale quando la terra e l'aria ardevano di combattimento spietato. La causa del proletariato italiano fu uccisa dalla fede nella democrazia, e non allora soltanto; fu compromessa una situazione feconda per sceglierne una torbida e reazionaria che non fu quella del ventennio fascista, ma è quella di oggi, tutta nutrita di un cinismo e cretinismo parlamentare, di cui neppure la frazione Turati-Treves di tanti anni prima aveva dato paragonabili esempi.

L'alternativa della storia fu quella di Bologna: rovesciare energie di masse poderose nello sfogatoio elettorale e parlamentare, anziché rovesciarle nella non lontana battaglia da dare alle forze unite del fascismo e dello stato borghese democratico, aspetti della stessa vergogna storica. Se si fosse andati verso l'alternativa della battaglia civile, contro queste due forze alleate si poteva certo, come Spartaco, cadere sotto i colpi di un blocco fascista-democratico. Ma, anzitutto, si sarebbe caduti senza vergogna. E poi, era proprio il sangue di Spartaco, come quello dei valorosi di Monaco e di Budapest, da cui dovevamo imparare per esserne degni e prepararne il riscatto consacrando le forze, poche o molte, all'unica direttiva della Dittatura e del Terrore! Solo una dittatura rossa può uccidere una dittatura nera.

Nel congresso si urlava ormai: Ai voti, ai voti!, e noi non fummo che tremila contro il bestione elettorale indiscriminato. Portammo il nostro appello a Mosca mentre già il proletariato italiano cadeva, vincendo a Montecitorio, sulle ginocchia. Il risultato immediato del nostro appello fu negativo.

Come avevamo obbedito alla maggioranza di Bologna 1919, obbedimmo a quella di Mosca 1920. Il corso seguente dirà se non era giusto (ove la storia facesse posto a un piccolo se) chiedere che si sconfessassero non solo i socialdemocratici subiti a Bologna, ma anche tutti quei centristi che a Bologna non li avevano voluti lasciar liquidare.

Il taglio di Livorno che, per ubbidienza a Mosca e al suo troppo splendore di allora, eseguimmo come essa volle, avrebbe dovuto essere più profondo e più cruento. L'avvenire ce lo ha insegnato. Ma l'avvenire non ha visto solo il disastro italiano: ha visto quello internazionale, di gran lunga più nero e sinistro.

Per questo la tradizione della nostra Sinistra fa propria oggi in pieno la tesi antiparlamentare di Bologna, e rigetta chiunque abbia per un momento creduto alla suprema beffa del parlamentarismo rivoluzionario e sabotatore, anche se questa beffa ingannò un Lenin, il quale tutto seppe e scrisse sull'infamia della democrazia, con qualunque aggettivo.

6. Le mozioni e il voto

Nel riprodurre le tre mozioni che quello stesso giorno passarono al voto, non possiamo esimerci da un breve commento.

La mozione della Frazione Massimalista Elezionista afferma princìpi generali, ma non li sostanzia in direttive di azione conformi ad essi: quindi elude il problema dell'esclusione dei riformisti, cioè nega il carattere vincolante, non ipotetico o possibilista, del programma; tace sulle necessarie conseguenze pratiche della professata adesione alla Terza Internazionale; quanto alle Organizzazioni sindacali, propone la conclusione di "accordi" da... potenza a potenza, negando così il primato del partito, cioè dell'organo politico della classe, sull'organo economico. E' dunque una mozione "acchiappa-tutto", quindi "acchiappa-nulla". Essa riscuoterà 48.411 voti, corrispondenti a 1.012 sezioni. Eccone il testo:

"Il Congresso del PSI adunato in Bologna nei giorni 5-8 ottobre 1919, riconoscendo che il programma di Genova è ormai superato dagli avvenimenti e dalla situazione internazionale, creata dalla crisi mondiale sorta in conseguenza della guerra, proclama che la Rivoluzione russa, il più fausto evento della storia del proletariato, ha creato la necessità in tutti i paesi di civiltà capitalistica di agevolarne l'espansione;

"Premesso poi che nessuna classe dominante ha rinunziato finora al proprio dispotismo se non costrettavi dalla violenza, e che la classe sfruttatrice fa ad essa ricorso per la difesa dei propri privilegi e per il soffocamento dei tentativi di liberazione della classe oppressa, il congresso è convinto che il proletariato dovrà ricorrere all'uso della violenza per la difesa contro le violenze borghesi, per la conquista dei poteri e per il consolidamento delle conquiste rivoluzionarie;

"Afferma la necessità di avvisare ai mezzi di preparazione spirituale e tecnica;

"Considerando poi la situazione politica attuale nei riguardi delle prossime elezioni, delibera di scendere in giostra sul terreno elettorale e dentro gli organismi dello stato borghese per la più intensa propaganda dei princìpi comunisti e per agevolare l'abbattimento di detti organi della dominazione borghese.

"Informandosi infine alle considerazioni suesposte, delibera di modificare il programma del partito, concretandolo nella forma seguente:

Programma

"Considerando che nel presente ordinamento della società gli uomini sono divisi in due classi; da un lato i lavoratori sfruttati, dall'altro i capitalisti detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali; che i salariati d'ambo i sessi, d'ogni arte e condizione, formano, per la loro dipendenza economica il proletariato costretto a uno stato di miseria, di inferiorità e d'oppressione;

"Riconoscendo che gli attuali organismi economico-sociali difesi dall'odierno sistema politico, rappresentano il dominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali sulla classe lavoratrice; che i lavoratori non potranno conseguire l'emancipazione se non mercé la socializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione;

"Riconoscendo inoltre che la società capitalistica, col conseguente imperialismo, ha scatenato e scatenerà guerre sempre più vaste e micidiali; che solo l'instaurazione del socialismo condurrà alla pace civile ed economica; che lo sfacelo prodottosi in tutto il mondo civile è il segno evidente del fallimento che minaccia tutti i paesi, vinti e vincitori; che la manifesta incapacità della classe borghese a rimediare ai danni da essa prodotti, mostra come sia iniziato un periodo rivoluzionario di profonda trasformazione della società, che conduce ormai all'abbattimento violento del dominio capitalistico borghese ed alla conquista del potere politico ed economico da parte del proletariato; che gli strumenti di oppressione e di sfruttamento del dominio borghese (stati, comuni e amministrazioni pubbliche) non possono in alcun modo trasformarsi in organismi di liberazione del proletariato; che a tali organi dovranno essere opposti organi nuovi proletari (Consigli dei lavoratori, contadini e soldati, Consigli dell'economia pubblica ecc.) i quali, funzionanti da prima (in dominio borghese) quali strumenti della violenta lotta di liberazione, divengono poi organismi di trasformazione sociale ed economica e di ricostruzione del nuovo ordine comunista (1); che la conquista violenta del potere politico da parte dei lavoratori dovrà segnare il trapasso del potere stesso dalla classe borghese a quella proletaria, instaurando così il regime transitorio della dittatura di tutto il proletariato; che in tale regime di dittatura dovrà essere affrettato il periodo storico di trasformazione sociale e di realizzazione del comunismo dopo di che con la scomparsa delle classi scomparirà anche ogni dominio di classe, ed il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti:

delibera

"1) di informare la organizzazione del PSI ai suesposti princìpi;

"2) di aderire alla terza Internazionale (2), organismo proletario mondiale, che tali princìpi propugna e difende;

"3) di promuovere accordi con le organizzazioni sindacali che sono sul terreno della lotta di classe, perché informino la loro azione per la più profonda realizzazione dei suesposti princìpi".

La mozione della Frazione comunista astensionista pone invece nettamente e senza ambagi i tre cardini: 1) dell'adesione al Comintern intesa come accettazione integrale del suo programma e impegno ad osservarne la disciplina; 2) dell'esclusione dei riformisti; 3) del cambiamento di nome del partito in base al programma pubblicato fin da luglio; in linea subordinata, propugna l'astensione dalle elezioni ma l'intervento nei comizi a scopi di propaganda, per la mobilitazione di tutte le forze ai fini della preparazione rivoluzionaria del proletariato. I voti a suo favore furono 3.417 per 67 sezioni: così debole era "la consapevolezza storica della necessaria realizzazione integrale del programma comunista"! Eccone il testo:

"Il XVI congresso nazionale del PSI dichiara che il programma costitutivo di Genova del 1892 non risponde più alle esigenze della vita e dell'azione del partito;

"Delibera che il partito faccia parte integrante dell'Internazionale Comunista, accettandone il programma costitutivo di Mosca ed impegnandosi ad osservare la disciplina dei congressi internazionali comunisti.

"Dichiara incompatibile la presenza nel partito di coloro che proclamano la possibilità dell'emancipazione del proletariato nell'ambito del regime democratico, e ripudiano il metodo della lotta armata contro la borghesia per l'instaurazione della dittatura proletaria;

"Delibera che il partito assuma il nome di Partito comunista italiano e adotti il programma che segue, nel quale, sulla base delle dottrine fondamentali bandite dal Manifesto dei Comunisti del 1848 e delle direttive politiche sulle quali procedono le rivoluzioni contemporanee, sono prospettati gli sviluppi storici del trapasso dal presente ordine sociale a quello comunista, ed è stabilito il compito del partito nelle diverse fasi di tali sviluppi [si allude al già noto programma della Frazione];

"Delibera che il partito si astenga dalle lotte elettorali, intervenendo nei comizi a propagandare la ragione di tale atteggiamento, ed impegna tutti gli organi e le forze del partito all'opera di:

"a) precisare e diffondere nella classe operaia la consapevolezza storica della necessaria realizzazione integrale del programma comunista;

"b) allestire gli organi proletari e i mezzi pratici di azione e di lotta, necessari per il raggiungimento di tutti i suoi successivi capisaldi programmatici".

La mozione massimalista unitaria, in origine molto lunga ed estremamente blanda, venne infine presentata nella seguente versione ridotta e insieme "irrobustita":

"Il XVI congresso del Partito Socialista Italiano fa proprie le conclusioni presentate e illustrate dal segretario Costantino Lazzari;

"Dichiara che il concetto della conquista dei poteri per la loro trasformazione, assunto nel programma del 1892, deve rettificarsi nel senso che essa conquista miri alla loro sostituzione con i Consigli dei lavoratori, cui dovrà trapassare il potere politico;

"Considera come sostanziale il carattere internazionale della crisi che travaglia il mondo moderno e di conseguenza quello dell'azione rivoluzionaria da svolgersi dal proletariato per la realizzazione socialista;

"Proclama per tutti gli iscritti il diritto di cittadinanza nel partito e la completa libertà di pensiero, disciplinata dall'azione".

Su di essa bloccarono i riformisti: in verità, l'aderirvi non costava nulla! I voti furono complessivamente 14.880, per 339 sezioni. Gli unitari, comunque, non accettarono di far parte della nuova direzione.

Storici recenti, come il citato Cortesi, pretendono di ravvisare l'esistenza di una robusta corrente "comunista", solo respinta dal nostro caparbio astensionismo, nella "dichiarazione di princìpi" che un gruppo di votanti per la mozione massimalista elezionista (fra cui, non a caso, E. Leone) chiese fosse inserita negli atti del congresso. Ne diamo il testo:

"Il congresso del Partito Socialista di Bologna proclama e riconosce che la Rivoluzione russa, nella quale saluta il più fausto evento della storia del proletariato mondiale, ha creato la necessità in tutti i paesi di civiltà capitalistica di agevolarne l'espansione irresistibile; pensa che i metodi e le forme di questa espansione rivoluzionaria destinata a tramutare il rivolgimento russo nella completa rivoluzione sociale sono da attingere ai modelli d'una rivoluzione che, se si appella russa per riferimento di geografia, è, pel suo carattere, universale, ed è fondata sul principio della unione dei proletari di tutti i paesi;

"Riassume tutti gli insegnamenti che emanano dalla rivoluzione dei Soviet, che viene a realizzare tutte le aspettative dei veraci sostenitori della causa del socialismo, nei seguenti punti che sono altrettanti canoni di azione immediata a ritmo accelerato:

"1) La lotta di classe s'è rivelata il reale motore della storia attuale degli uomini mostrando la sua capacità a spezzare l'unione solidaristica social-nazionale, alla quale i governi borghesi con le loro mistificazioni intesero di confidare il tentativo di eliminarla e di ritardarla;

"2) La rivoluzione socialista ha mostrato in atto un duplice movimento:

"a) di erosione e svuotamento dei poteri statali e di negazione dei fondamentali istituti che le forme democratiche adoperano per fuorviare la missione storica del proletariato, cioè: delle costituenti che pongono su un piede di mendace uguaglianza legale oppressi ed oppressori, e dei parlamenti che ne scaturiscono, organi complementari della sovranità dello stato e non espressione di volontà popolare;

"b) di costruzione, mercé un organo di classe di nuova creatività, il Soviet operai, contadini e soldati, che deve fin d'ora essere fondato in Italia e nell'Europa occidentale come organo di collegamento di tutti gli oppressi sospirosi di attingere le vette già raggiunte dai pionieri russi, alla cui composizione sociale devono concorrere tutte le masse di operai e contadini poveri, e anche, senza rinunciare alla loro specifica individualità, i partiti che agiscono sul terreno rivoluzionario per la abolizione del padronato e delle autorità dello stato borghese, i sindacati di mestiere, che nel Soviet troveranno un'azione politico-sociale più elevata e rivoluzionaria di quelle che abbiano fin qui raggiunto per l'inevitabile loro struttura corporativa, i membri del moto cooperativo che nel Soviet potranno lottare come avversari del regime capitalistico a fianco dei salariati, riparando all'inoperosità rivoluzionaria del loro organismo, e le Leghe operaie dei reduci di guerra.

"3) La lotta politica contro lo stato, organo militare di guerra, in ogni forma politica che possa assumere, deve come in Russia essere passione e slancio ribelle, perché il socialismo da puro problema di logica sociale diventi nel contempo focolare di ardore e di entusiasmo creando così nel proletariato civile e militarizzato gli elementi psicologici pel trapasso di tutto il potere al Soviet e per la sua successiva difesa da ogni attacco rivoluzionario;

"Questo e nient'altro è l'appello alla violenza cui ci esortano i pionieri russi, che è debito d'onore e bisogno di raccogliere, e non la mischia e il caos contro cui si è reso garante il socialismo in Russia come apportatore di un ordine nuovo.

"4) Il Partito bolscevico russo non ha rinunziato di esistere, e così del pari non cesserà di esistere il Partito socialista italiano, fino alla maturità completa dell'esperimento soviettista al quale occorre subito accingersi, subordinando però tutte le sue funzioni ai princìpi che la esperienza rivoluzionaria russa suggerisce, convinta ormai che le grandi iniziative storiche solo dal proletariato aggruppato nei suoi Soviet, superiori ai partiti, alle scuole, alle corporazioni, possono essere condotte al trionfo".

E questa sarebbe la voce di una corrente maturata alla consapevolezza del programma rivoluzionario comunista? In realtà, avvolti in un linguaggio retorico e fumoso, vi si trovano tutti gli errori di principio contro i quali proprio allora si battevano fieramente i bolscevichi: la teoria del "modello" piovuto dal cielo di Russia a rivelare verità fino allora "igNote"; la critica del parlamento come mancata "espressione della volontà popolare" anziché come organo di una volontà di classe; la concezione dei soviet come miscuglio di organi politici ed economici eterogenei "di nuova creatività", per giunta "superiori ai partiti, alle scuole e (pazienza questo) alle corporazioni"; la rinunzia al ruolo preminente del partito, unico e dittatoriale, di classe; il postulato del l'"ordine nuovo" contrapposto al "caos borghese", squisita espressione di un... managerialismo avanti lettera; infine, l'appello alla "passione e allo slancio ribelle" in mancanza della più elementare chiarezza programmatica! Ce ne vorrà, in un anno di chiodi tenacemente ribattuti, per fare entrare in un'esile minoranza di ex-massimalisti i cardini della teoria e del programma comunisti ristabiliti dai bolscevichi! E gli anni successivi a Livorno dimostreranno che il duro osso del marxismo non aveva ancora trovato i denti capaci di roderlo e gli stomaci in grado di digerirlo, malgrado i nostri sforzi tanto pazienti, quanto inflessibili!

Note

(1) In vista della lunga polemica che la Frazione Comunista sosterrà nel gennaio-febbraio successivi contro le diverse correnti massimaliste sulla questione dei soviet, si osservi come, al solito, i massimalisti da un lato vedano (giustamente) nei Consigli prima della presa del potere degli organi di lotta politica, dall'altro propongano l'istituzione già ora di "Consigli dell'economia", cioè di organi di trasformazione economica che presupporrebbero già avvenuta la conquista del potere. Quanto agli ordinovisti, è significativa la dichiarazione di Tasca secondo la quale egli aveva proposto la seguente variante (accettata ma poi non introdotta da Gennari): "[...] i quali, funzionanti da prima (in dominio borghese) prevalentemente quali strumenti della violenta lotta di liberazione, ecc.", esprimendo così il parere di quanti ritenevano che i nuovi organismi non potessero essere strumenti di tale lotta "se non in quanto subito (e non poi) organismi di trasformazione sociale ed economica" (Ordine Nuovo, 18 ottobre), chiara formulazione del concetto ordinovista secondo il quale il proletariato, attraverso i Consigli, opera una graduale trasformazione dell'ordine economico e sociale capitalistico prima ancora di essersi assicurato il potere.

(2) Al congresso, l'adesione alla Terza Internazionale fu votata per acclamazione contro il parere non soltanto nostro ma, per opposte ragioni, della destra. In realtà, una decisione così importante non doveva essere lasciata in balia degli impulsi sentimentali dell'ora, ma esigeva chiara consapevolezza di ciò che significava "aderire". Fra gli stessi massimalisti, i nodi non tarderanno a venire al pettine e non solo la destra rifiuterà ogni disciplina ai deliberati dell'Internazionale, ma la maggioranza di Bologna arretrerà sgomenta di fronte alle logiche e dure implicazioni del retorico gesto allora compiuto. Se avevamo chiesto l'esclusione dei riformisti, ben presto dovremo propugnare la scissione anche dalla maggioranza dei massimalisti.

7. Dopo il voto del congresso

Il voto equivoco uscito dagli alambicchi di corridoio, oltre ad essere lumeggiato da quanto abbiamo riportato della discussione, può essere meglio capito dal commento col titolo Dopo il congresso apparso ne Il Soviet del 20 ottobre, che annunzia una breve sospensione delle pubblicazioni per riorganizzarsi come organo nazionale della Frazione, e non più della Federazione socialista di Napoli. Ne riportiamo gran parte:

"Se si consideri che il Partito socialista ha fatto della politica parlamentare fulcro può dirsi fondamentale della sua azione, deve ritenersi in conseguenza ben naturale che il congresso ultimo, tenutosi ad elezioni generali imminenti, non potesse non sentire in ogni sua deliberazione l'influsso enorme e preponderante di questo avvenimento [...].

"La verità è che la maggior parte del partito è pienamente fiduciosa, anzi convinta (e speriamo per essa che non sia un'illusione), che le prossime elezioni daranno successi straordinari sia per numero totale di voti, sia per numero di eletti. Ognuno, poi, questo grande successo valuta dal suo punto di vista. V'è chi vede per esso acquisita dal partito e dal proletariato una maggior forza parlamentare immediata; chi tien conto della grande propaganda da potersi fare disseminatrice di idee, di propositi; chi si compiace della colossale rassegna di forze, monito solenne per la borghesia e promessa sicura di più fervido e intenso domani.

"Tutte queste varie aspirazioni, questi varî sentimenti, propositi, speranze, auguri, convergevano tutti verso un medesimo punto: mantenere intatta l'unità del partito, che in questo momento vuol dire mantenere intatta la sua forza elettorale.

"Per ottenere il quale risultato, che la stridente divergenza dei programmi minacciava di compromettere, è stato necessario venire a qualche piccola transazione, che pel momento è stata sufficiente a mantenere l'accordo soprattutto tra l'ala destra, più debole nel congresso ma forse più forte nel corpo elettorale, e la corrente preponderante massimalista elezionista, le quali sarebbero state entrambe fortemente danneggiate da una scissione in questo momento affatto intempestiva.

"L'ala destra, infatti, dopo avere espresso il suo pensiero di svalutamento teorico del massimalismo mediante i motteggi e le mordaci battute dell'on. Turati, e dopo avere ancora una volta deprecato l'avvento violento del bolscevismo, ha all'ultimo momento rinunziato a riaffermate col voto il proprio pensiero per accoccolarsi all'ombra non molto amicale del compagno Lazzari. Questi, a sua volta, accettando all'ultimo momento un'aggiunta al suo ordine del giorno del massimalista unitario Maffi, volgeva a sinistra la prora, carca di tanto grave pondo, e si accostava al massimalismo elezionista, il quale, generoso e pletorico vincitore, tendeva ai possibili dispersi un'ardita passerella sospesa per incanto sul baratro profondo dell'incompatibilità di convivenza affermata nel programma e votata con mandato imperativo dalle sezioni che questo programma avevano accettato. Così il congresso è venuto fuori unanimemente massimalistico almeno nelle sue apparenze formali.

"A questa armonia universale la corrente comunista astensionista, che si è rivelata non solo assai più di una piccola pattuglia ma anche qualche cosa di assai diverso da un'espressione personale o regionale, come per interesse di polemica si era cercato di far credere, non poteva e non doveva partecipare.

"Essa ha il grave torto di essere coerente al suo programma e al suo metodo che non consente accomodamenti ed opportunismi; perciò è accusata contemporaneamente di essere utopistica e di peccare per eccesso di logica. Essa continua a credere che la vittoria del numero ottenuta con transazioni programmatiche è effimera e soltanto apparente, così come crede che l'unità attuale del partito sia soltanto formale e destinata fatalmente a spezzarsi nel giorno dell'azione.

"Questa scissione naturale essa aveva tentato di provocare oggi, anticipandola su un terreno teorico [...]. Conseguente a questo suo indirizzo anti-unitario, la Frazione astensionista non poteva prendere parte alla Direzione del partito senza contraddirsi. Non doveva, quindi, tale sua deliberazione strettamente logica e coerente influire sulla decisione della frazione di destra; la quale invece, avendo fatto caposaldo della sua mozione l'unità del partito, avrebbe potuto e dovuto dare i suoi uomini alla Direzione così come li dà alle liste dei candidati, nelle quali, anzi, quella che era minoranza nel congresso si rifà largamente, e senza quei tali scrupoli di proporzione di tendenze".

Dallo stesso numero 42 de Il Soviet riportiamo il comunicato della Frazione comunista astensionista a chiusura del congresso. Il testo accenna ai passi fatti verso la Frazione massimalista elezionista, sebbene in quel tempo non si credesse di render pubblica la proposta di ritirare la clausola dell'astensione dalle elezioni, già portata all'ultimo comma, se i massimalisti avessero accettata l'estromissione dei riformisti annunciata nella parte di principio della nostra mozione. Essi, tutti concordi (sola eccezione la compagna Abigaille Zanetta), rifiutarono l'intesa, e noi votammo sulla nostra mozione integrale.

"Come annunziammo sabato 4 ottobre, a Bologna, ebbe luogo la riunione dei rappresentanti al XVI Congresso nazionale socialista, aventi mandato per la tendenza antielezionista, ed altre numerose riunioni ebbero luogo durante lo svolgimento del congresso.

"Nelle riunioni tenute prima del voto si esaminò l'atteggiamento delle altre tendenze, e per non precludere ogni via ad un'intesa coi massimalisti elezionisti si modificò lievemente non già il contenuto politico, ma l'ordine degli argomenti contenuti nella mozione che doveva essere presentata, insieme al noto programma della Frazione, al voto del congresso.

"Poiché la divergenza tra le due tendenze andò approfondendosi ed estendendosi, oltre che alla tattica elettorale, anche alla questione della eliminazione dei riformisti e del nome del partito, la Frazione, pur constatando che il programma presentato all'ultimo momento dai massimalisti non differiva dal punto di vista teorico dal programma proprio, si affermò isolatamente sulla propria mozione, il cui testo è il seguente [segue il testo della mozione già da noi riportato].

"Dopo il voto favorevole con grande maggioranza alla tendenza Serrati, ebbero luogo altre riunioni degli aderenti alla Frazione, nelle quali tra il più grande affiatamento ed entusiasmo si affrontarono importanti e complesse questioni politiche.

Fu anzitutto, dopo ampia discussione, adottato con voto unanime il seguente deliberato: "I delegati al XVI congresso nazionale socialista aderenti alla Frazione comunista astensionista;

"Visto il deliberato col quale la grande maggioranza del congresso ha adottato la tattica elezionista, e riconfermando il loro punto di vista secondo il quale una simile tattica contraddice al programma massimalista, ai metodi della terza Internazionale e alla preparazione dell'azione rivoluzionaria del proletariato italiano, ed è inevitabile una netta separazione tra i seguaci del metodo socialdemocratico e quelli del metodo comunista;

"Deliberano di proporre alle Sezioni da loro rappresentate di rimanere nel seno del Partito Socialista Italiano, rinunciando per disciplina ad agitare nella massa la propaganda dell'astensione elettorale;

"Dichiarano costituita la Frazione comunista astensionista nel partito invitando tutte le Sezioni e i gruppi che ne condividono il programma presentato al congresso, a farvi adesione.

"Passano a discutere sulle funzioni e sul compito che la Frazione dovrà esplicare. Fu anche deliberato di non accettare nessun posto nella Direzione del Partito [...].

"Si esaminò la situazione del movimento giovanile, e nel far voti che al prossimo congresso giov. soc. vinca la tendenza antielezionista, si espresse il parere che i giovani avrebbero dovuto anche in tale ipotesi non scindere le forze della Federazione e non ritirare l'adesione al PSI, reclamando di non essere impegnati a nessuna attività elettorale (1).

"Si disapprovò il contegno d'un gruppo d'una sessantina di giovani socialisti bolognesi usciti dalla Federazione e costituitisi in Fascio Comunista, lasciando libero campo agli elezionisti nella Unione Giovanile Bolognese.

"Circa le organizzazioni sindacali, dopo aver constatato che nessuna di quelle esistenti riflette la dottrina e il metodo comunista, si impegnarono gli aderenti alla Frazione a non far opera per il distacco di organizzazioni dalla Confederazione né dalla Unione Sindacale, cercando di far penetrare in entrambe le direttive della Frazione, almeno fino a quando non muti la situazione sindacale italiana.

"Si dette mandato al Comitato centrale di predisporre tutto un lavoro di indagine e di preparazione comunista utilizzando tutte le forze della Frazione, e di alimentare intensi rapporti con i partiti esteri della III Internazionale, e soprattutto con quelli che sono antiparlamentari e astensionisti.

"I convenuti presero quindi commiato inneggiando al comunismo, lietissimi di aver constatato la più completa concordia nel campo delle dottrine e della tattica tra i fautori dell'astensionismo socialista in Italia".

Questi materiali storici hanno importanza massima perché valgono a stabilire quanto fosse efficace l'opera della Frazione astensionista nella lotta contro il pericolo, non lieve in Italia, di una versione anarcoide e sindacalista del bolscevismo, opera che dette nel futuro larghi risultati e che ad esempio mancò totalmente nella formazione di un partito comunista in Francia.

* * *

È suggestivo, in contrapposto al bilancio che qui sopra la Sinistra fa del congresso, notare come le diverse sfumature della maggioranza vittoriosa ne giudicarono le conclusioni.

Tutti presi dal fascino maliardo delle prossime elezioni e delle loro prospettive di successo (ben a ragione, su La Critica Sociale del 16-31 ottobre, Treves esclamava: "Elezionista assai più che massimalista, nella sua segreta profondità, il XVI congresso socialista d'Italia!"), i massimalisti non credono di dovere dedicare più di un editoriale dell'Avanti! del 10 ottobre a quella che tuttavia avevano per tanti mesi sbandierato come una svolta decisiva nella storia del socialismo, e questo editoriale è tutta una lirica esaltazione non già del trionfo dei "princìpi comunisti", ma dell'unità ritrovata sia pure di straforo fra tutte le correnti, ognuna nel pieno diritto di convivere con l'altra e di arrecare alla causa "comune" il proprio sostanziale contributo. Del resto, nel primo numero di Comunismo non aveva già scritto Serrati: "La revisione del programma del PSI non deve creare scissure che potrebbero essere gravemente lesive degli interessi della massa proletaria e della sua stessa rivoluzione; dobbiamo volere, tutti uniti, che questo nostro partito, il cui nome glorioso nell'Internazionale non ha bisogno di essere mutato, proceda audacemente avanti sulla strada che altri ha già vittoriosamente battuto per noi"? Che cosa ci fosse dietro questa "unità", il numero citato dell'Avanti! è però costretto subito dopo a svelarlo: coerenti come al solito, i riformisti si sono riuniti la stessa sera della chiusura dei lavori e, come "Frazione unitaria", si sono proclamati unanimemente d'accordo nell'escludere "che debba essere compito del partito polarizzare gli spiriti e le attività dei soci aderenti e del proletariato unicamente verso l'uso della violenza" e che l'attività dei suoi organi dirigenti debba esaurirsi nella "preparazione spirituale e tecnica della violenza stessa"(e vogliono dire: nella preparazione dello sbocco rivoluzionario). Non soddisfatti, proclamano che ― "l'adempimento del mandato parlamentare non può essere solo quello della "propaganda dei princìpi comunisti"(2), ma comporta ed esige correlativamente tutta un'opera positiva di trasformazione della società attuale e di costruzione degli organismi della società nuova, che sarebbe da quella azione negativa svalutata e impedita". Proclamano quindi, implicitamente, di non accettare né il programma della III Internazionale in quanto organo mondiale del comunismo rivoluzionario, né, subordinatamente, il suo metodo di impiego delle elezioni e degli istituti parlamentari a fini esclusivamente eversivi. Di più: minacciano, qualora tale impostazione della prassi elettorale e parlamentare non sia accettata dalla direzione del partito, di rinunciare alla candidatura illustrando agli elettori il motivo del proprio dissenso. E' l'inizio del permanente ricatto al quale la destra sottoporrà il centro per tutto il periodo successivo, e che questo subirà in piena consapevolezza all'insegna... dell'unità.

È vero che nello stesso numero dell'Avanti!, in un articolo che pomposamente si intitola Non facciamo confusione e che viceversa è tutto un campionario di confusioni, Serrati protesta contro la "poco bella manovra"; ma non le oppone che un atteggiamento di blanda difensiva e, tutto sommato, di sostanziale convergenza. Tutto quanto egli ha da obiettare all'iniziativa riformista è che "si tratta di vedere quali siano le opere positive e in qual modo noi e loro intendiamo avvalercene [...]; noi accettiamo tutte le opere positive che sono volte al conseguimento della rivoluzione" ― e chi fra i destri oserebbe mai sostenere di non mirare appunto a questo obiettivo? La protesta si risolve fin d'ora in un tacito avallo; tanto è vero che, come abbiamo sempre sostenuto, gli schieramenti politici non sono fatti d'ordine soggettivo, "scelte personali", ma il portato di determinazioni reali mille volte più forti di qualunque individuo!

E il bilancio dell'Ordine Nuovo? Esso è perfettamente allineato sulla posizione massimalista e, sotto certi aspetti, ancora più odorante di concretismo riformista. Significativamente, l'articolo di fondo del 18 ottobre 1919, n. 22, è intitolato L'unità del Partito e, quasi anticipando il giudizio negativo sulla scissione di Livorno che Gramsci formulerà a posteriori come "regalo alla reazione", spiega come tale unità noi "non la concepiamo oggi che come condizione necessaria per realizzare il trapasso dal vecchio al nuovo regime e sopportarne il terribile peso: spezzata, equivarrebbe a diminuire il nostro concorso volontario e cosciente al trionfo della rivoluzione e affidarsi invece per troppa parte agli eventi, alle incognite del malcontento e della disperazione". Tutto, quindi, fa brodo, la mozione Lazzari come la mozione Gennari-Serrati e perfino (non si capisce con quale logica) la mozione della Frazione comunista astensionista! Onore ai destri che insistono sulla "prefigurazione" tecnico-psicologica della "impalcatura sociale" in seno alla società borghese, e auspicio che "in tale opera tutti, Bordiga come Zibordi, Serrati come Lazzari e come Schiavi, possiamo incontrarci; da tale convergenza di lavoro pratico, dipende la forza del partito, la concretezza socialista dei risultati ottenuti, la solidità definitiva delle sue conquiste"! È il trionfo del pragmatismo, del concretismo, dell'unitarismo: e questa sarebbe stata la matrice della scissione di Livorno?

All'articolo di fondo, certamente di Gramsci, fa da contrappunto un lungo articolo intitolato Impressioni sul congresso socialista di quell'Angelo Tasca che invano oggi gli storici cercano di differenziare dal blocco unitario dell'Ordine Nuovo. La posizione ordinovista non è qui meno chiara: "Lo stato d'animo del congresso fu espresso tutto in un'apostrofe di Enrico Leone: ‘Il Soviet è una cosa seria’"; in questa vuota boutade è il "punto d'incontro" di tutte le tendenze concordi nell'eludere le questioni di fondo, questioni di fondo alle quali non appartengono, dio guardi, anzi sono "d'interesse assai limitato", i due motivi di dissenso (secondo Tasca) dagli astensionisti, cioè l'astensionismo medesimo e l'esclusione dal partito di coloro che "proclamano la possibilità dell'emancipazione del proletariato nell'ambito del regime democratico e ripudiano il metodo della lotta armata contro la borghesia per l'instaurazione della dittatura proletaria". In verità, esclama l'articolista, "non era proprio il caso di formare una frazione comunista, poiché comunista è oggi la maggioranza del partito"; quanto ai massimalisti, c'è solo una cosa da ricordar loro: "Per noi, e siamo lieti di aver avuto su ciò l'approvazione di Enrico Leone [vecchio sangue sindacalista non mente!], il massimalismo non ha senso se non è realizzatore, se non esce cioè dal generico e dall'a priori per prendere contatto coi problemi concreti". Un pizzico di concretezza, e il massimalismo bagolone è bell'e salvo!

Sarebbe forse inutile aggiungere (se non dovessimo fare i conti coi soliti storiografi più o meno ravveduti) che appunto alla mozione Leone vanno le speciali simpatie dell'Ordine Nuovo: non solo essa non rompe col massimalismo, ma ha il pregio supplementare di contenere una esplicita svalutazione del ruolo del partito e la riduzione della violenza rivoluzionaria, da un lato, a idealistico "slancio ribelle", dall'altro a "garanzia di volontà ricostruttrice"! La violenza non è che creazione di "una nuova civiltà"; meglio ancora, "il carattere ‘violento’ dell'azione massimalista non è già in una specie di tono maggiore da darsi all'azione stessa, ma nel suo carattere di tentativo di creazione autonoma dell'impalcatura della società comunista da parte della classe lavoratrice […] anche se le istituzioni che gli oppressi si foggeranno per gestire le funzioni della società nuova non potranno sostituirsi a quelle in rovina degli oppressori senza tumulto di piazza", lapidaria anticipazione della "via italiana al socialismo" con relativo "parto indolore" della società nuova, dove non solo non si parla del terrore per la fase della dittatura del proletariato, ma si riduce ai minimi termini omeopatici la stessa violenza rivoluzionaria per la conquista del potere, conquistabile quest'ultimo grado a grado nel concrescere degli elementi della famosa impalcatura socialista entro la società borghese e in piena indifferenza verso il suo Stato.

Alla luce di una posizione simile, perfino il buon Gennari, con la sua negazione della possibilità per i nuovi organi proletari di assumere compiti di trasformazione economica e sociale se non dopo la conquista violenta del potere, appare un rivoluzionario, un affine degli… esecrati astensionisti! Prendendo lo spunto dall'equivoca espressione gennariana di "lotta di liberazione del proletariato" (sia pure violenta), Tasca scrive: "La liberazione del proletariato si attua precisamente mediante l'esplicazione della società da sé e per sé creata; la liberazione è nella creazione di tali organi che, se sono vivi e funzionano, per ciò solo provocano la trasformazione sociale ed economica che ne costituisce il fine", dal che si vede anzitutto come gli ordinovisti, pur stravedendo per il "modello" russo, ignorassero totalmente il perno della concezione leninista, cioè la funzione primaria del partito entro i soviet come sola "garanzia" del mantenimento del loro carattere rivoluzionario, e d'altra parte non li concepissero affatto come organi politici ma come una fattispecie dei consigli di fabbrica, centri cooperativistici, consorzi municipali, ecc., organi insomma di riforma economica della società esistente dal suo interno (3).

Il razzo finale precorre le evoluzioni e contorsioni sull'internazionalismo come ampliamento del... nazionalismo quando proclama compito del partito "dar vita a tali organi, farli funzionare nella realtà della nostra nazione per costruire la realtà della nuova Internazionale", e di conseguenza auspica che il programma votato a Bologna sia ulteriormente riveduto in vista della "creazione dell'ordine nuovo mediante la preparazione tecnica e morale del proletariato".

Gira e rigira, a questo punto di approdo tutti, salvo gli astensionisti, erano sbarcati, trovandovi la base di lancio di una fattiva e operante "comunione di premesse": educazionisti tutti, riformisti tutti!

Note

(1) Il Congresso della Federazione giovanile italiana si tenne poi il 26-28 ottobre e merita solo un breve cenno in quanto ebbe un esito astutamente orchestrato dalla maggioranza elettoralista. La Frazione astensionista godeva tra i giovani di un seguito largo ma non omogeneo, e Il Soviet era dovuto intervenire non solo per contrastare le legittime impazienze antielettorali dei giovani bolognesi ma, e ancor più, le tendenze anarco-sindacaliste serpeggianti nelle file dei giovani pugliesi. Al congresso i grossi calibri del massimalismo tennero un atteggiamento fin troppo prevedibile: massimo di demagogia nell'inneggiare alla Russia, a Lenin e alla dittatura rivoluzionaria al solo fine di non provocare una reazione dei giovani operai alla baraonda elettorale; altrettanta demagogia nel proclamare il pieno diritto di cittadinanza, anzi la piena compatibilità reciproca, a tutte le correnti, e nel dichiararsi perfino astensionisti in linea di principio ma unitari... in linea di fatto. L'ordine del giorno prevedeva: 1) espulsione dei riformisti dal partito (parte della commedia di estremismo parolaio inscenata dai massimi dirigenti, di cui tuttavia non si fece poi il minimo cenno); 2) costituzione del Partito Comunista d'Italia (di cui nemmeno si parlò; tutte cose che avrebbero rotto le uova nel paniere elettorale!); 3) trasportismo: sciocca parola per designare la tendenza ad allontanare l'Avanguardia da Roma (illusione con la quale si adescarono i giovani torinesi di buona stoffa rivoluzionaria, i quali, a loro volta giocati, si rimangiarono il trasportismo lasciando tutto come prima). Il risultato del Congresso, sul quale riferiscono due articoli di Giuseppe Berri (allora, molto allora, sinistro) del 4 e dell'11 gennaio ne Il Soviet, fu che i giovani di tendenza rivoluzionaria si lasciarono irretire da una dichiarazione di princìpi ipocritamente unitaria e tutto finì fra gli abbracci e con un ordine del giorno Terracini sui consigli operai e sull'adesione alla Terza Internazionale, che, a conferma della confusione generale, raccolse la quasi totalità dei voti, mettendo nel sacco gli ingenui torinesi "trasportisti" ed astensionisti. L'ordine del giorno è così formulato:

"Il congresso [...] convinto che l'adesione alla Terza Internazionale intanto avrà ragione in quanto il programma massimalista avrà pronta e sicura attuazione; ritenuto che il periodo della critica debba finalmente sboccare in quello della creazione; riconoscendo nei Consigli operai, contadini e soldati la forma del potere proletario che deve sostituire l'ordinamento parlamentare borghese; impegna il nuovo C.C. ad indirizzare la sua attività, specialmente sull'organo federale Avanguardia, alla diffusione degli elementi pratici della loro costituzione e del loro funzionamento, poiché la miglior cultura rivoluzionaria più che da libri e lezioni si acquista nell'assistere e nel partecipare con coscienza di mezzi e di fini al funzionamento di questi organismi, destinati ad attuare il diritto del proletariato".

Quest'ordine del giorno tocca un punto che tra non molto affronteremo in pieno nel riportare come fin da allora, le direttive della nostra Frazione fossero apertamente contrastanti con quelle dei torinesi "ordinovisti". Esso è già indicativo di questo pensiero, solo più tardi svolto in modo completo da Gramsci: si crede che la critica e la teoria debbano essere sostituite da una prassi di "inquadratura" organizzativa che per virtù quasi magica, incasellando gli operai uno per uno, li trasformerà in rivoluzionari, senza bisogno non solo della dottrina del partito, ma anche del partito politico e della insurrezione per il potere centrale. È il vecchio sofisma sindacalista-riformista a cui fin da quegli anni la sinistra marxista rispose con Lenin che la rivoluzione non è una questione di forma organizzativa ma di forza politica armata, ciò a parte il fatto che si faceva atroce confusione tra il soviet politico e il consiglio di fabbrica, ultima formula sterile del corporativismo economico. Come giustamente scriveva il Berti: "Il consiglio di fabbrica fu il boia prescelto per strozzare il programma comunista".

Altri due punti vanno sottolineati. Alla maggioranza "unitaria", che pretendeva si dovesse fare "questione di programmi e non di metodi", l'organo della nostra Frazione rispose che discutere di metodi significa discutere appunto del modo migliore, più cosciente ed efficace, di applicare i programmi: pretendere che i giovani si occupino unicamente dell'educazione e della propaganda socialista disinteressandosi dei mezzi usati dal Partito nell'azione, vuol dire spezzare l'infrangibile legame fra teoria e prassi. Ai giovani astensionisti pugliesi che avrebbero voluto rompere subito col partito per allearsi ai giovani anarchici e anarcosindacalisti, il settimanale rispose che "la rivoluzione non è soltanto nelle barricate, ma è soprattutto nella preparazione del nuovo stato di cose che alle barricate dovrà necessariamente succedere" e in merito al quale dissentiamo nettamente da anarchici e anarcosindacalisti e quindi non potremmo non trovarci su due fronti opposti.

Il Soviet ribadì tuttavia la ferma intenzione di "svolgere una continua opera di propaganda fra i giovani socialisti per diffondere sempre di più tra essi le nostre direttive". Così fu che, mentre le manovre in sede di congresso e la scarsa forza dei giovani di tendenza rivoluzionaria permisero a Luigi Polano al Secondo Congresso di Mosca di rappresentare una Federazione giovanile elezionista, i mesi successivi dimostrarono che la corrente comunista astensionista aveva in pratica conquistato la vivace Federazione giovanile, il cui contributo alla scissione di Livorno ebbe quindi un peso determinante.

(2) La mozione appena votata dal congresso sull'attività parlamentare del partito proclamava il dovere di lottare "sul terreno elettorale e dentro gli organismi dello stato borghese per la più intensa propaganda dei princìpi comunisti e per agevolare l'abbattimento di detti organi della dominazione borghese".

(3) Un articolo dell'Ordine Nuovo del 9 agosto aveva addirittura propugnato un aggancio fra "Consigli" e parlamento mediante l'invio a quest'ultimo di compagni in grado di esprimere le tendenze e direttive dei primi: i "soviet" come vivai di deputati autenticamente "rivoluzionari"!!!

IV. Primi tentativi di contatti internazionali

Come stabilito nel comunicato a chiusura del congresso, i mesi successivi furono utilizzati dalla Frazione comunista astensionista per una serie di tentativi di allacciamento internazionale, prima di tutto con Mosca.

Abbiamo già messo in evidenza come, malgrado la costituzione dell'Internazionale Comunista al Primo Congresso del 2-19 marzo 1919, le informazioni sulla situazione nell'Europa occidentale, con particolare riguardo ai partiti socialisti, fossero a Mosca scarse, incomplete, e quindi spesso erronee. Soprattutto nei confronti del PSI l'opinione di Lenin e dei bolscevichi, memori dell'atteggiamento decoroso da esso tenuto durante la guerra e della sua partecipazione alle conferenze di Zimmerwald e Kienthal, continuava ad essere assai più lusinghiera di quanto l'effettivo contegno del partito meritasse. I dirigenti italiani si erano affrettati a dare la loro adesione al neo-costituito organismo internazionale, e la prontezza di tale gesto aveva rafforzato la convinzione che si potesse contare sul loro partito come su una delle più sicure sezioni "comuniste" europee. I contatti diretti mancavano, o erano talmente labili che delle prime fondamentali tesi e circolari della III Internazionale il partito non ebbe notizia in Italia se non con fortissimo ritardo, mentre degli sviluppi del tormentato e tutt'altro che lineare processo di enucleazione dei partiti comunisti perfino in Europa si avevano soltanto nozioni confuse e approssimative. Né le cose andavano meglio in senso inverso malgrado la presenza in Europa occidentale di emissari più o meno qualificati del Comintern (i famosi "occhi di Mosca": Degot prima, Niccolini-Ljubarskij poi, Chiarini-Haller infine). Non fa quindi specie che Lenin salutasse nell'esito del congresso di Bologna un importante successo del comunismo internazionale, e in riformisti puri come Turati vedesse i rappresentanti non della destra ma del centro, e quindi in Serrati, Lazzari ecc. i rappresentanti della sinistra. Questo giudizio sfocato continuò a pesare sul processo di formazione dell'organo mondiale del proletariato rivoluzionario, e non fu prima del suo Secondo Congresso (luglio-agosto 1920) che il vero volto del massimalismo italiano cominciò ad apparire in chiara luce agli "artefici della rivoluzione d'Ottobre".

Tanto più urgente, per la Frazione comunista astensionista, era prendere contatto diretto con Mosca e illustrare ai dirigenti dell'Internazionale la natura, le posizioni e le prospettive di sviluppo del comunismo in Italia eliminando il paradosso per cui la sola compagine veramente comunista era costretta dall'adesione del PSI all'Internazionale a continuare a convivere in esso. Come abbiamo documentato nel I volume e in tutte le pagine che precedono, fin dal 1917 la Frazione si era schierata sulle stessissime posizioni di principio di cui la rivoluzione di Ottobre era stata la grandiosa riconferma dopo il tradimento socialdemocratico del 1914: ruolo centrale del partito nella rivoluzione comunista come nella preparazione ad essa, dittatura proletaria e terrore rosso come necessario sviluppo dell'atto rivoluzionario, azione internazionale unitaria sulla base dei cardini teorici e pratici vittoriosamente riaffermati dai bolscevichi nell'incendio della guerra civile. Nessuna sbavatura di tipo sindacalista, operaista, aziendista (o, per dirla all'italiana, ordinovista), si troverà nei numerosissimi testi della Frazione che commentano non soltanto il cammino glorioso della rivoluzione e della dittatura bolscevica in Russia, ma il corso accidentato dei tentativi rivoluzionari purtroppo falliti nell'Europa centrale, traendone la medesima lezione che Lenin e Trotsky. Se il PSI, o meglio la sua direzione cosiddetta intransigente, aveva dato la propria adesione alla III Internazionale non solo senza assimilarne le tesi fondamentali, ma neppure conoscendole; se aveva delegato al congresso costitutivo del Comintern (al quale tuttavia egli non poté mai giungere) un fior fiore di socialdemocratico come l'onesto ma confusionario Oddino Morgari, la Frazione comunista astensionista aveva riconosciuto nei testi ufficiali resi pubblici in quel semestre in Italia l'intero patrimonio di posizioni programmatiche e tattiche che era anche il suo.

Che cosa aveva proclamato il I congresso? Ricordiamolo brevemente.

Tesi di Lenin sulla democrazia borghese. La risoluzione svolge in pieno le questioni di dottrina e di principio sulla distruzione dello stato borghese e la conquista del potere proletario, come formulate in Stato e rivoluzione e nei testi fondamentali del marxismo. Siamo nel pieno campo dei princìpi generali collegati alla situazione storica seguita alla prima guerra mondiale:

"La storia insegna che nessuna classe oppressa è mai giunta alla dominazione, né ha potuto mantenervisi, senza passare attraverso un periodo di dittatura, durante il quale essa si impadronisce del potere politico ed abbatte con la forza la resistenza disperata, esasperata, non arretrante di fronte ad alcun delitto, che gli sfruttatori oppongono [...]. Tutti i socialisti, dimostrando il carattere di classe della civiltà borghese, della democrazia borghese, del parlamentarismo borghese, hanno espresso l'idea, già formulata con la massima esattezza scientifica da Marx ed Engels, che la più democratica delle repubbliche borghesi non può essere che una macchina per opprimere la classe operaia a favore della borghesia, la massa dei lavoratori a favore di un pugno di capitalisti [...]. Nello stato di cose creato in particolare dalla guerra imperialistica, la dittatura del proletariato non è soltanto assolutamente legittima in quanto strumento atto a rovesciare gli sfruttatori e a schiacciarne la resistenza, ma anche assolutamente indispensabile per tutta la massa lavoratrice come solo mezzo di difesa contro la dittatura della borghesia che ha causato la guerra e che prepara nuove guerre. Il punto più importante che i socialisti non comprendono, e che costituisce la loro miopia politica, il loro irretimento in pregiudizi borghesi, e il loro tradimento politico verso la classe operaia, è che nella società capitalistica, non appena si aggrava la lotta di classe che ne è alla base, non esiste nessun mezzo termine tra la dittatura della borghesia e la dittatura del proletariato. Tutti i sogni di soluzione intermedia non sono che piagnistei reazionari di piccoli borghesi".

Piattaforma dell'Internazionale Comunista. Riafferma i princìpi della presa rivoluzionaria del potere, della distruzione dell'apparato statale borghese e della sua sostituzione con un potente apparato statale proletario "sempre più centralizzato nella sua forma", come "organo di costrizione diretto contro gli avversari della classe operaia" e destinato "ad infrangerne e renderne impossibile la resistenza" così come a "realizzare una crescente centralizzazione dei mezzi di produzione e la direzione di tutta la produzione secondo un piano unico", avviando il processo di graduale trapasso dal modo di produzione capitalistico a quello socialista e dalla società borghese divisa in classi alla società senza classi, la società di specie.

Risoluzione sulle correnti socialiste e la conferenza di Berna dei socialtraditori. Vi è posta in pieno la questione della ricostituzione del partito rivoluzionario con stretto legame alla teoria e con valutazione delle due schiere di socialisti rinnegati, tesi da allora classica: da un lato i socialpatrioti, aperti scherani della borghesia, come quelli che assassinarono Liebknecht e Luxemburg; dall'altro i pericolosi centristi (tra i quali si annoverano Kautsky e Adler, Turati e MacDonald) che negano la dittatura proletaria nella sua universalità, e che Lenin non a caso definisce col termine di socialpacifisti. Non si proclama soltanto la scissione irrevocabile coi primi: si afferma che "la rottura organizzativa col centro e una necessità storica assoluta".

Tesi sulla situazione internazionale e la politica dell'Intesa. Sono riferite al momento storico dato, ma la loro costruzione è universalmente valida. Vi è ribadita la condanna del pacifismo della Società delle Nazioni di allora, del pacifismo di Mosca e dell'ONU di oggi.

Risoluzione sul terrore bianco. La spietata difesa della borghesia e del suo privilegio viene fatta risalire non a forme preborghesi (come si farà poi col fascismo italo-tedesco), ma all'imperialismo dei democratici paesi dell'Intesa, e come sola via di uscita è indicato il rovesciamento del capitalismo.

Manifesto ai proletari del mondo intero. Riallacciandosi a un secolo di lotte proletarie, termina col grido di guerra:

"La critica socialista ha sufficientemente flagellato l'ordine borghese. Il compito del Partito comunista internazionale (si noti come il nuovo organismo venga fin da allora concepito come partito mondiale unico) è di abbattere questo ordine di cose e di costruire al suo posto il regime socialista [...]. Sotto la bandiera dei Soviet operai, della lotta rivoluzionaria per il potere e la dittatura del proletariato, sotto la bandiera della III Internazionale, proletari di tutti i paesi, unitevi!".

Non altri erano stati i temi svolti, fin dal suo primo numero del dicembre 1918, da Il Soviet, per non parlare degli articoli apparsi a nome della Frazione sull'Avanti! e sull'Avanguardia dal '17 in poi. La nostra corrente era anzi già allora favorevole ad una maggior rigidezza nei criteri di ammissione all'Internazionale, e non solo (come vedremo) dava dei termini centro e centristi un'accezione più lata, comprendendovi i massimalisti italiani, e ritenendo ormai scontato che nessun accostamento a queste formazioni, statisticamente in gran parte operaie ma politicamente borghesi, sarebbe più stato ammesso, ma era anche d'avviso che al nuovo organismo mondiale si dovessero ammettere soltanto i partiti e gruppi di inequivocabile posizione programmatica comunista, non organizzazioni economiche, anche se genericamente animate da spirito rivoluzionario, ed esprimeva serie riserve sulla stessa formula usata dai bolscevichi di "blocco con gli elementi del movimento operaio rivoluzionario che, pur non avendo appartenuto in passato a partiti socialisti, si collocano ora, in tutto e per tutto, sul terreno della dittatura proletaria nella sua forma sovietica, cioè con gli elementi corrispondenti del sindacalismo". La speranza dei bolscevichi - non assurda nel clima dell'epoca - era, da un lato, che il procedere vittorioso della rivoluzione mondiale, ritenuta più vicina di quanto purtroppo non fosse, avrebbe permesso di amalgamare questi elementi di sana origine proletaria nel grande crogiuolo di un nuovo Ottobre, nel fuoco ardente del quale, come dirà Trotsky più di un anno dopo ricevendo i delegati al II congresso nella sede del soviet di Mosca, i bolscevichi avevano forgiato una infrangibile spada e invitavano i comunisti di tutto il mondo ad "impugnarla ed immergerla nel cuore del capitale mondiale", dall'altro che, grazie al loro contributo, si potessero controbilanciare se non con la chiarezza teorica, almeno con lo slancio rivoluzionario, l'influenza dei troppi "comunisti" dell'ultima ora convertitisi alla "moda" dei soviet dopo un passato ricco di compromessi, per non dire di peggio. Una lunga e dura esperienza di lotta nell'arena dell'Europa occidentale aveva insegnato alla sinistra "italiana" che le alleanze anche transitorie "facilitano il superamento di un periodo a tutto danno della possibilità di affrontare il periodo successivo nel quale l'alleanza [in particolare appunto con gli anarco-sindacalisti] dovrà per forza di cose spezzarsi per le divergenze iniziali del programma", nel che andava ravvisato "in tutti i tempi una condizione passiva pel complesso del movimento comunista": questo dunque doveva "calcolare unicamente sulle forze che si muovono sulla via del suo preciso programma di concretazione rivoluzionaria" (1). I mesi e gli anni avvenire dimostreranno agli stessi bolscevichi ― a conferma della nostra tesi ― che nulla avrebbe mai potuto compiere il miracolo di allineare, per esempio, gli IWW americani, gli shop stewards britannici o, sul piano politico, i sindacalisti francesi (le poche ― e dubbie ― eccezioni individuali confermano la regola) sulle posizioni classiche ed invarianti del marxismo, e, quanto ai sindacati, che sarà perfino impossibile ottenerne la globale adesione all'Internazionale sindacale rossa, costituita nel 1921 in antitesi all'Internazionale di Amsterdam.

Degli anarcosindacalisti e sindacalisti-rivoluzionari, e della nostra decennale polemica con essi, si è lungamente parlato nel I volume. Agli Industrial Workers of the World (IWW o, popolarmente, wobblies) andava il merito di avere organizzato fin dai princìpi del secolo, in antitesi all'American Federation of Labor (AFL), una rete di sindacati non di mestiere ma di industria aperti a tutti gli operai senza distinzione di razza, nazionalità o qualifica, specialmente manovali e "migranti" supersfruttati, e di aver diretto poderosi scioperi, prima e durante la guerra, malgrado i divieti del bonzume confederale. Nel periodo postbellico, questi battaglieri militanti furono oggetto di feroci persecuzioni; e non a caso, perché erano i soli a levare, nella Bengodi della prosperità capitalistica, l'antico grido di guerra: "La classe operaia e la classe imprenditoriale non hanno nulla in comune [...]. Fra le due classi la lotta non può cessare prima che i lavoratori di tutto il mondo si organizzino in quanto classe, prendano possesso della terra e del macchinario produttivo, e aboliscano il sistema salariale!". La loro combattività non poteva tuttavia far dimenticare che essi non si spingevano, né volevano spingersi, oltre il limite massimo della associazione economica, intesa inoltre, perché organizzata per industria, come forma intrinsecamente rivoluzionaria; che, mentre levavano la bandiera dell'azione diretta e dello sciopero generale, respingevano per principio sia la lotta politica, non potendo concepirla altrimenti che come lotta parlamentare, sia il suo organo, cioè il partito di classe, in quanto espressione della sovrapposizione dei "capi" alle "masse", e vedevano lo stesso sciopero generale come mezzo taumaturgico atto ad operare da solo, grazie al peso bruto della paralisi produttiva, il crollo del "sistema", senza dunque insurrezione armata, meno che mai dittatura e terrore. D'altra parte, come gli ordinovisti italiani, immaginavano che "organizzandosi per industria, si crei la struttura della nuova società in seno ["nel guscio", come essi dicevano] della vecchia", sostituendo una specie di "gradualismo rivoluzionario" escludente la presa del potere politico al gradualismo riformista: i sindacati "industriali" si sarebbero poi uniti in un solo grande sindacato, One Big Union, che si sarebbe assunto la direzione più o meno pianificata e centralizzata dell'economia socialista. V'era in essi una radice chiaramente sindacalista alla Sorel; nella stessa ala "politica" raccolta intorno a Daniel De Leon e, nel 1908, separatasi dalla vecchia organizzazione, il partito era ridotto a funzioni puramente educative, di illuminazione delle coscienze.

Gli shop stewards, forti soprattutto in Scozia e nelle vitali industrie metalmeccaniche e cantieristiche inglesi, avevano invece costituito una rete di "fiduciari di reparto" eletti direttamente dalle maestranze, in cui si esprimeva la volontà di lotta e il disgusto della prassi ultracollaborazionistica delle Trade Unions in larghi strati di operai comuni; e, pur sentendo nel corso delle agitazioni l'esigenza della centralizzazione degli sforzi e delle direttive, rimasero sempre gelosamente fedeli a un tipo di associazionismo aziendale, localista, autonomista e federativo; il luogo di lavoro essendo da essi concepito come il vivaio dell'istinto di classe e l'espressione più genuina della "democrazia operaia", e insieme come la base della nuova società e la chiave di volta del modo di produzione socialista. Sia gli IWW che gli shop stewards, protagonisti di gigantesche battaglie, divergevano dunque dalla visione marxista propria della III Internazionale tanto sul piano programmatico e tattico, quanto sul piano delle finalità e della teoria: erano antiparlamentari e astensionisti, ma per "orrore dei capi"; erano contro i sindacati tradizionali, ma perché credevano di aver trovato una forma economica (l'unione industriale o il consiglio di fabbrica) in sé rivoluzionaria; concepivano la società futura, nei termini del proudhonismo o del bakuninismo, come rete di "comuni" autonome o di "sindacati" autosufficienti. La grande fiamma dell'Ottobre li attirava verso la III Internazionale (Rosmer fra gli altri riconoscerà che quasi tutti avevano scambiato Stato e rivoluzione di Lenin per una... revisione del marxismo in senso anarchico o anarcosindacalista, e i soviet per una nuova edizione delle comunità autoregolantisi della mitologia libertaria) e Mosca tendeva ad aprirgli le porte, in considerazione del robusto istinto di classe da cui erano animati, malgrado il loro orrore della politica e del partito (2). Raggruppandoli sotto la categoria comune del sindacalismo, l'articolo già citato del Il Soviet ne riconosceva bensì la vigorosa reazione al collaborazionismo (e perfino, in tempo di guerra, sciovinismo) dell'AFL e delle Trade Unions, ma precisava:

"I sindacalisti [...] sostengono che la lotta rivoluzionaria è condotta dai sindacati economici e non dal Partito politico; vedono nella rivoluzione il passaggio della direzione della società ai sindacati, anziché allo Stato proletario e al governo rivoluzionario; nella proprietà comunista, non una proprietà sociale, ma una proprietà sindacale. La critica di questa scuola mostra che essa è una degenerazione del marxismo nel senso delle teorie economiche borghesi. Di fronte ad essa, pur riconoscendo che i suoi esponenti sono sentimentalmente rivoluzionari, occorre mostrare che il suo programma è inattuabile, e la preparazione a tale metodo, destinato ad essere scartato dagli avvenimenti, è non-rivoluzionaria. Il programma di Mosca parla di "fare blocco" coi sindacalisti che accettano la dittatura. A parte l'esattezza della espressione blocco, osserviamo che il concetto di dittatura politica è in antitesi col sindacalismo puro [...l. Molto vi è da fare per condurre le masse organizzate economicamente alla concezione politica della rivoluzione che vive in seno al partito proletario; altrimenti si avranno dolorose sorprese, come in Russia e Ungheria, dal contegno dei sindacati".

Se tuttavia su questi punti esisteva fin da allora il germe di un dissenso fra noi e Mosca, esso verteva sull'opportunità di un'applicazione più o meno rigida dei medesimi postulati, e lasciava intatto il pieno accordo su essi. Va quindi considerata una dolorosa fatalità storica che le due lettere inviate dalla Frazione il 10 novembre 1919 e l'11 gennaio 1920 al Comitato centrale (in realtà esecutivo) dell'Internazionale Comunista non siano mai giunte a Mosca: a chiunque siano state consegnate, esse finirono (ad ulteriore dimostrazione della fragilità della rete organizzativa costruita in Europa dagli emissari del Comintern) negli archivi della polizia italiana. Dolorosa fatalità, perché il loro mancato arrivo non soltanto impedi ai bolscevichi di conoscere le vere posizioni difese dalla Sinistra in Italia, ma ritardò di quasi un anno il processo di graduale revisione del giudizio sulla Frazione di maggioranza del PSI, dei massimalisti serratiani, e, di là da questo, il riconoscimento che in Europa urgevano più drastici criteri di selezione.

La prima lettera fu scritta quando ancora non si conoscevano testi della III Internazionale che solo nei primi mesi del 1920 divennero di pubblica ragione in Italia, e ai quali si riferisce invece la seconda, come la lettera di Lenin Ai comunisti italiani, francesi e tedeschi del 10 ottobre 1919, apparsa sull'Avanti! solo il 31 dicembre, e la circolare a firma Zinoviev sul Parlamento e la lotta per i Soviet datata 1 settembre 1919 (3) e resa nota per la prima volta qui da noi nel nr. 15 febbraio 1920 di "Comunismo", la rivista diretta da Serrati. Conviene tuttavia, non rispettando la stretta successione cronologica, considerarle insieme.

Entrambe chiariscono all'Internazionale la natura esteriore e formalistica, non sostanziata da convincimenti profondi, dell'adesione del PSI, e precisano che il nostro dissenso dalla maggioranza elezionista verte in primo luogo sull'incompatibilità dell'appartenenza della destra al partito, da noi affermata e da quella respinta. La seconda va ancora più in là nella diagnosi del massimalismo serratiano: esso equivale in Italia al centrismo degli indipendenti tedeschi (4), e impone ai comunisti astensionisti di lavorare alla costituzione, fuori dal PSI e non appena l'Internazionale abbia riconosciuto l'inderogabile necessità di questo passo, di un partito "puramente comunista" - un partito "forte e centralizzato", giacché essi non solo non condividono le fisime anti-autoritarie ed anti-centralistiche degli anarchici, ma vengono a giusta ragione attaccati da questi come gli esponenti del più rigoroso autoritarismo e centralismo.

La costituzione di un simile partito, ribadiscono le due lettere, è condizione pregiudiziale non solo di uno snodamento rivoluzionario della crisi sociale italiana, ma della sua stessa preparazione (altro che dedicarsi di più all'organizzazione illegale: qui non ve n'è, ne' può esservene, neppure l'ombra!).

È a questo fine che mira il nostro astensionismo, il quale non ha radici nell'orrore anarchico della "politica" e dello stato inteso come incarnazione del male; non è assoluto e soprastorico, perché ammette che, in date epoche storiche ed aree geografiche - là dove, come in Russia, si pone il problema di una "rivoluzione doppia" non essendosi ancora impiantato su scala generale il modo di produzione capitalistico con le sovrastrutture giuridiche e politiche ad esso corrispondenti – il "parlamentarismo rivoluzionario" conservi la sua validità come mezzo di propaganda sovversiva e di azione disgregatrice (legittima dunque la partecipazione, del resto condizionale e transitoria, dei bolscevichi alla Duma zarista); ma trae origine dalla convinzione, maturata attraverso dolorose esperienze, che nell'Occidente europeo a capitalismo stramaturo, con una secolare tradizione democratica e parlamentaristica, l'astensionismo su basi marxiste si imponga al duplice scopo di provocare una spietata selezione nei vecchi partiti impestati di democratismo e di rendere inconfondibili agli occhi delle masse i lineamenti della nostra via unica al potere: rivoluzionaria, violenta, dittatoriale. Non si possono senza gravi ripercussioni negative trasferire in paesi che hanno compiuto da un secolo o quasi la loro rivoluzione democratico-borghese le direttive tattiche, d'altronde accessorie rispetto alla linearità delle posizioni di principio valide per la Russia zarista: l'insegnamento universale dell'Ottobre è un altro, e lo scioglimento a mano armata della Costituente ne è l'espressione luminosa proprio perché avvenuto là dove una tattica più "blanda" poteva ancora mantenere una parvenza di giustificazione. Né d'altra parte la nostra posizione è di astratta e passiva indifferenza di fronte a un episodio, come quello delle elezioni, che disgraziatamente ha ancora il potere di concentrare su di sé l'interesse e perfino la passione di strati proletari, giacché noi propugniamo bensì l'astensione dalla competizione elettorale, ma siamo per la partecipazione ai comizi in funzione di critica e denunzia, quindi di attiva propaganda delle tesi e finalità comuniste.

Le due lettere delimitano infine la nostra corrente rispetto a due deviazioni allora e poi denunciate da Lenin e dall'Internazionale: respingono cioè la pretesa degli operaisti tedeschi (5), futuri creatori del KAPD, di equiparare parlamento e sindacati, e quindi proporre l'uscita da questi ultimi per fondare altri organismi sedicentemente immunizzati dal virus opportunista (per giunta sostitutivi del partito), e con altrettanta energia rifiutano l'utopismo sia di coloro che, come i massimalisti italiani, vaneggiano di "costruire i soviet" sulla carta, ma restano fedeli ad una prassi gradualista e legalitaria ormai incancrenita, sia di coloro che, come i membri dell'"Ordine Nuovo", confondono i soviet, organi squisitamente politici, con le commissioni di fabbrica o con altri organismi economici e aziendali, e vedono in essi gli embrioni della società nuova, "isole di socialismo" in pieno regime capitalistico, eludendo il problema centrale della presa violenta del potere politico e trasferendo sul piano dell'azione locale e aziendistica il gradualismo della destra. Altro che "infantilismo", il nostro! La sostanza della critica leniniana al falso estremismo è qui già tutta compresa e riassunta!

Diamo il testo delle due lettere (i corsivi sono nostri):

I. Frazione comunista astensionista del Partito Socialista Italiano

Comitato centrale Napoli, Borgo 5. Antonio Abate 221
Al Comitato di Mosca della III Internazionale

La nostra frazione si è costituita dopo il congresso di Bologna del Partito socialista italiano (6-10 ottobre 1919) ma aveva iniziato prima la sua propaganda a mezzo del giornale Il Soviet di Napoli, indicendo quindi un convegno a Roma il 6 luglio 1919 nel quale venne approvato il programma poi presentato al Congresso. Inviamo una collezione del giornale e diverse copie del programma e della mozione assieme alla quale fu posto in votazione.

È bene premettere che durante tutto il periodo della guerra vi fu in seno al Partito un forte movimento estremista che si opponeva alla politica troppo debole del gruppo parlamentare, della Confederazione Generale del Lavoro - perfettamente riformisti - e della stessa Direzione del Partito, sebbene fosse rivoluzionaria intransigente secondo le decisioni dei congressi di prima della guerra. La Direzione è sempre stata divisa in due correnti di fronte al problema della guerra; la corrente di destra faceva capo a Lazzari, autore della formula "né aderire né sabotare la guerra"; la corrente di sinistra a Serrati, direttore dell' Avanti! In tutte le riunioni tenute durante la guerra le due correnti però si presentavano solidali tra loro, e pur facendo riserva sul contegno del gruppo parlamentare non si mettevano decisamente contro di esso. Elementi di sinistra estranei alla Direzione lottavano contro questo equivoco prefiggendosi di scindere dal Partito i riformisti del gruppo ed assumere un atteggiamento più rivoluzionario.

Il congresso di Roma del 1918, tenuto poco prima dell'armistizio, nemmeno seppe romperla colla politica transigente dei deputati, e la Direzione, pure aggiungendosi elementi estremisti come Gennari e Bombacci, non mutò sostanzialmente la sua direttiva, attenuata dalla debolezza verso certe manifestazioni della destra contraria all'indirizzo della maggioranza del Partito.

Dopo la guerra, apparentemente tutto il Partito prese un indirizzo "massimalista" aderendo alla Terza Internazionale. Il contegno però del Partito non fu soddisfacente dal punto di vista comunista; vi preghiamo di vedere su Il Soviet le polemiche col gruppo parlamentare, colla Confederazione (a proposito della "costituente professionale") e colla stessa Direzione, specie per la preparazione dello sciopero del 20 e 21 luglio.

Subito noi, con altri compagni di tutta Italia, ci orientammo verso l'astensionismo elettorale, che abbiamo sostenuto al congresso di Bologna. Desideriamo sia chiaro che al Congresso ci siamo divisi da tutto il resto del Partito non solo sulla questione elettorale, ma anche su quella della scissione del Partito.

La frazione "massimalista elezionista", vincitrice al Congresso, aveva anche essa accettata la tesi della incompatibilità della permanenza nel Partito dei riformisti, ma vi rinunziò per considerazioni puramente elettorali nonostante i discorsi anticomunisti di Turati e Treves.

Questa è una forte ragione per l'astensionismo: non sarà possibile la costituzione di un partito puramente comunista se non si rinunzierà alla azione elezionistica e parlamentare.

La democrazia parlamentare nei paesi occidentali assume forme di tale carattere, che costituisce l'arma più formidabile per la deviazione del movimento rivoluzionario del proletariato.

La sinistra del nostro partito fin dal 1910-1911 è impegnata nella polemica e nella battaglia contro la democrazia borghese, e questa esperienza conduce a concludere che nell'attuale periodo rivoluzionario mondiale deve essere troncato ogni contatto col sistema democratico.

La situazione attuale in Italia è questa: il Partito fa la campagna contro la guerra ed i partiti interventisti, sicuro di ricavarne un grande successo elettorale, ma poiché il governo attuale è composto dai partiti borghesi contrari alla guerra nel 1915, si determina una certa confluenza tra l'azione elettorale del Partito e la politica del governo borghese.

Siccome tutti gli ex deputati riformisti sono stati ripresentati candidati, il governo Nitti, che è con loro in buoni rapporti, come risultò dalle ultime vicende parlamentari, farà in modo che essi riescano a preferenza. Dopo, l'azione del partito, già esaurito dai grandi sforzi della attuale campagna elettorale, si perderà in polemiche col contegno transigente dei deputati. Avremo quindi la preparazione delle elezioni amministrative peI luglio 1920; per molti mesi il partito non farà propaganda e preparazione seriamente rivoluzionaria. È da augurarsi che avvenimenti imprevisti non superino e travolgano il partito (6).

Noi diamo importanza alla questione dell'azione elettorale e pensiamo che non sia conforme ai princìpi comunisti lasciare la decisione in merito ai singoli partiti aderenti alla III Internazionale. lì Partito comunista internazionale dovrebbe esaminare e risolvere tale problema.

Oggi noi ci prefiggiamo di lavorare alla costituzione di un partito veramente comunista, e per ciò lavora la nostra frazione nel seno del P.S.I. Ci auguriamo che i primi eventi parlamentari condurranno verso di noi molti compagni, in modo da realizzare la scissione dai socialdemocratici.

Al congresso hanno votato per noi 67 sezioni con 3.417 voti, mentre i massimalisti elezionisti hanno vinto con 48.000 voti, e i riformisti ne hanno avuti 14.000.

Noi dissentiamo anche dai massimalisti su altre questioni di principio; per brevità vi uniamo una copia del programma approvato dal congresso che è oggi il programma del Partito (col cambiamento del programma, nemmeno un socio ha lasciato il partito), con alcune nostre osservazioni.

Occorre notare che non siamo in rapporti di collaborazione coi movimenti fuori dal Partito: anarchici e sindacalisti, perché seguono princìpi non comunisti e contrari alla dittatura proletaria, anzi essi accusano noi di essere più autoritari e centralizzatori degli altri massimalisti del partito. Vedete le polemiche su Il Soviet.

È necessario in Italia un complesso lavoro di chiarificazione del programma e della tattica comunista, a cui noi dedicheremo tutte le nostre forze. Se non si riesce ad organizzare un partito che si occupi unicamente e sistematicamente della propaganda e preparazione comunista nel proletariato, la rivoluzione potrà risolversi in una sconfitta.

Sull'opera tattica e specie in merito alla costituzione dei Soviet, ci pare che si stanno commettendo errori anche dai nostri amici, col pericolo che tutto si limiti ad una modificazione riformistica dei sindacati di mestiere. Si lavora infatti alla costituzione dei comitati di officina, come a Torino, riunendo poi tutti i commissari di una data industria (metallurgica) che prendono la direzione del sindacato professionale col nominarne il comitato esecutivo.

Si resta così fuori dalle funzioni politiche dei Consigli operai a cui occorrerebbe preparare il proletariato, pur essendo, secondo noi, il problema più importante quello di organizzare un potente partito di classe (partito comunista) che prepari la conquista insurrezionale del potere dalle mani del governo borghese.

Sarebbe vivo desiderio nostro conoscere la vostra opinione:

a) sull'elezionismo parlamentare e comunale e l'opportunità d'una decisione in merito della Internazionale Comunista;

b) sulla scissione del partito italiano;

c) sul problema tattico della costituzione dei Soviet in regime borghese e sui limiti di tale azione.

Salutiamo voi e il grande proletariato russo pioniere del comunismo universale.

Napoli, 10 novembre 1919.

II. Frazione comunista astensionista del Partito Socialista Italiano

Comitato centrale Napoli, Borgo S. Antonio Abate 221

Al Comitato centrale della III Internazionale Comunista

Mosca

Napoli, 11 Gennaio 1920.

Carissimi compagni,

L'11 novembre vi abbiamo indirizzato un'altra nostra comunicazione. Ci serviamo della lingua italiana sapendo che il vostro ufficio è diretto dalla compagna Balabanoff che la conosce benissimo.

Il nostro movimento è stato costituito da coloro che al congresso di Bologna votarono per la tendenza astensionista. Torniamo a mandare il nostro programma e la mozione che lo accompagna. Speriamo che vi siano giunte le collezioni del nostro giornale Il Soviet e vi mandiamo ora le copie del I e Il numero della nuova serie le cui pubblicazioni si sono iniziate col principio dell'anno.

Scopo della presente lettera è il sottoporvi alcune osservazioni alla lettera del compagno Lenin ai comunisti tedeschi chel’Avanti! del 31 dicembre 1919 riportava dalla Rote Fahne (7) del 20, per chiarirvi bene quale sia il nostro atteggiamento politico.

Richiamiamo anzitutto la vostra attenzione sul fatto che nel Partito socialista italiano sono ancora quei socialisti opportunisti tipo Adler e Kautsky, di cui parla nella prima parte la lettera di Lenin. Il partito italiano non è un partito comunista e nemmeno rivoluzionario; la stessa maggioranza "massimalista elezionista" è piuttosto sul terreno degli indipendenti tedeschi - Noi al congresso ci dividemmo da essa non solo per la tattica elettorale ma altresì per la proposta di esclusione dal partito dei riformisti capitanati da Turati.

La divisione dunque tra noi e quei massimalisti che votarono a Bologna la mozione Serrati non è analoga a quella che separa nel partito comunista tedesco i sostenitori dell'astensionismo da quelli della partecipazione elettorale, ma è piuttosto simile alla divisione tra comunisti e indipendenti.

Programmaticamente il nostro punto di viste non ha nulla a che fare con l'anarchismo e il sindacalismo. Siamo fautori del partito politico marxista forte e centralizzato di cui parla Lenin, anzi siamo i più tenaci assertori di questa concezione nel campo massimalista. Non sosteniamo il boicottaggio dei sindacati economici ma là loro conquista da parte dei comunisti, e le nostre direttive sono quelle che leggiamo in una relazione del compagno Zinoviev al congresso del Partito comunista russo pubblicata dall'Avanti! del 1° gennaio.

Quanto ai Consigli operai, essi esistono in Italia solo in alcune località, ma consistono soltanto nei Consigli di fabbrica, composti di commissari di reparto, che si occupano di questioni interne dell'azienda. È invece nostro proposito prendere l'iniziativa della costituzione dei Soviet municipali e rurali, eletti direttamente dalle masse riunite per fabbriche o villaggi, perché pensiamo che nella preparazione della rivoluzione la lotta deve avere carattere prevalentemente politico. Siamo per la partecipazione alle elezioni di qualunque rappresentanza della classe lavoratrice a cui prendano parte solo lavoratori. Siamo invece apertamente avversi alla partecipazione dei comunisti alle elezioni pei parlamenti, consigli comunali o provinciali o costituenti borghesi, perché riteniamo che in tali organismi non sia possibile fare opera rivoluzionaria, e crediamo che l'azione e la preparazione elettorale ostacolino la formazione nella massa lavoratrice della coscienza comunista e la preparazione alla dittatura proletaria in antitesi alla democrazia borghese.

Partecipare a tali organismi ed evitare le deviazioni socialdemocratiche e collaborazioniste, è una soluzione che non esiste in realtà nell'attuale periodo storico, come i fatti dimostreranno anche per l'attuale esperimento parlamentare italiano. Ci conduce a tali conclusioni l'esperienza della lotta condotta dall'ala sinistra del nostro partito dal 1910-1911 ad oggi contro tutti gli inganni del parlamentarismo in un paese che da lungo periodo è retto a regime democratico borghese: la campagna contro il ministerialismo, i blocchi politici e amministrativi elettorali coi partiti democratici, la massoneria e l'anticlericalismo borghese, ecc. Da questa esperienza traemmo la conclusione che il più grave pericolo per la rivoluzione socialista è la collaborazione colla democrazia borghese sul terreno del riformismo sociale; esperienza generalizzatasi poi nella guerra e negli avvenimenti rivoluzionari di Russia, Germania, Ungheria, etc.

L'intransigenza parlamentare era realizzabile, sempre però tra continui urti e difficoltà, in periodo non rivoluzionario, quando non si prospettava possibile la conquista del potere da parte della classe operaia; e le difficoltà dell'azione parlamentare sono tanto maggiori quanto più il regime e la composizione del parlamento stesso hanno tradizionale carattere democratico. È con questi criteri che noi giudicheremmo i confronti colla partecipazione dei bolscevichi alle elezioni della Duma dopo il 1905.

La tattica seguita dai compagni russi di partecipare alle elezioni per la Costituente e poi di sciogliere colla forza questa stessa assemblea, anche se non ha costituito una condizione sfavorevole al successo sarebbe pericolosa in paesi dove la rappresentanza parlamentare, anziché essere una formazione recente, è un istituto costituito saldamente da molto tempo e radicato nella coscienza e nelle abitudini dello stesso proletariato.

Il lavoro occorrente a predisporre le masse alla abolizione del sistema di rappresentanza democratica appare ed è per noi molto più vasto e sostanziale che in Russia e forse in Germania, e la necessità di dare la massima intensificazione a questa propaganda di svalutamento dell'istituto parlamentare e di eliminazione della sua nefasta influenza controrivoluzionaria ci ha condotti alla tattica astensionista. Contrapponiamo alla attività elettorale la conquista violenta del potere politico da parte del proletariato per la formazione dello stato dei Consigli, e quindi il nostro astensionismo non discende dalla negazione della necessità di un governo rivoluzionario centralizzato. Siamo anzi contrari alla collaborazione cogli anarchici e sindacalisti nel movimento rivoluzionario, perché essi non accettano quei criteri di propaganda e di azione.

Le elezioni generali del 16 novembre, pure svolte da parte del P.S.I. sulla piattaforma del massimalismo, hanno ancora una volta provato che l'azione elettorale esclude e fa dimenticare ogni altra attività e sopratutto ogni attività illegale. In Italia il problema non è di unire azione legale ad azione illegale, come Lenin consiglia ai compagni tedeschi, ma di cominciare a diminuire l'attività legale per iniziare quella illegale, che manca affatto.

Il nuovo gruppo parlamentare si è dato a fare opera socialdemocratica e minimalista, presentando interrogazioni, preparando disegni di legge, ecc.

Concludiamo la nostra esposizione col dichiararvi che secondo ogni probabilità, se finora siamo rimasti nel P.S.I. disciplinati alla sua tattica, tra poco tempo e prima forse delle elezioni comunali, che avranno luogo nel luglio, la nostra frazione si separerà dal partito che vuol tenere nel suo seno molti anticomunisti, per costituire il Partito comunista italiano, il cui primo atto sarà quello di mandarvi la sua adesione alla Internazionale Comunista.

Saluti rivoluzionari.

È facile capire che, con questa concezione veramente organica della genesi del partito - nascente sul tronco della tradizione marxista restaurata nella sua interezza contro socialdemocratici e centristi, e resa ancor più aspra dal bilancio di formidabili lotte e sanguinose sconfitte, quindi senza cedimenti all'anarchismo, al federalismo, all'aziendismo ― la nostra corrente giudicasse più tormentoso di quanto non appariva ai bolscevichi il processo di costituzione di sani partiti comunisti in Occidente, e auspicasse ― come farà al II congresso di Mosca ― metodi di selezione estremamente drastici.

Al congresso costitutivo dell'IC nel marzo 1919 erano potute intervenire solo rappresentanze di alcuni gruppi e partiti europeo-occidentali: mancavano i delegati francesi e italiani, mentre la delegazione cruciale, quella tedesca, esprimeva per bocca di Albert (pseudonimo di Eberlein) gravi riserve sull'opportunità di costituire ufficialmente la stessa Internazionale. L'argomento ― tipico dello spartachismo ― era che le masse non avrebbero capito la necessità di un nuovo organo internazionale, anzi vi avrebbero visto un ulteriore differimento della tanto desiderata "unità" - quasi che compito del partito di classe, in quanto "coscienza" del proletariato, non fosse appunto di anticipare gli sviluppi che le masse sentiranno poi come inevitabili, e di orientarle fin da ora in questo senso invece di attendere la maturazione spontanea di una consapevolezza che la classe nella sua bruta estensione e nella somma statistica dei suoi componenti non può attingere che a rivoluzione avvenuta, ma sul cui solco si muoverà deterministicamente, agendo prima di capire. Ed è noto che l'ostinata resistenza del delegato tedesco, vincolato da un mandato imperativo, minacciò per breve ora di rinviare l'atto costitutivo del Comintern.

Lo si comprende, del resto. Il KPD [Kommunistische Partei Deutschlands (Spartakusbund)] era, in marzo, l'unico grande partito comunista esistente in Europa, non solo aureolato della luce del sacrificio dei suoi migliori e di un patrimonio di eroica lotta rivoluzionaria di classe, ma operante nel vero epicentro della crisi mondiale post-bellica: eterogeneo e frammentato in più correnti il movimento operaio in Inghilterra e America, minuscoli e di dubbia consistenza i partiti o gruppi già sorti in Svizzera, Austria (8), Scandinavia, Olanda, più che larvale l'esistenza di nuclei comunisti in Francia, ancora indefinita la situazione in Italia.

Il congresso, malgrado le esitazioni tedesche, aveva comunque decretato la fondazione del Comintern e aveva fissato le grandi linee sulle quali il nuovo organismo si sarebbe mosso. Il problema, per noi, era fino a che punto si sarebbero cristallizzati intorno alla "piattaforma dell'Internazionale" dei partiti "puramente comunisti".

Per quanto vaghe fossero le notizie giunte in Italia (ed è un punto da tener sempre presente, anche perché spiega come la Sinistra in Italia poté solo a poco a poco farsi un'idea degli sviluppi nell'Europa Centrale e solo gradualmente abbandonò l'illusione che esistessero soprattutto in quell'area le basi per una omogenea corrente di Sinistra Comunista europea) le due lettere ci delimitano già dalla corrente cosiddetta di sinistra del partito tedesco, che proprio in ottobre, al congresso di Heidelberg (20-24 ott.), ne era stata esclusa. Al congresso di fondazione, alla fine di dicembre 1918, il KPD si era dichiarato a maggioranza contro la partecipazione alle elezioni per l'Assemblea nazionale costituente, e aveva mostrato nell'insieme uno stato d'animo ― comprensibile dato il ruolo sostenuto dalle organizzazioni sindacali durante la guerra e subito dopo la sua fine, ma non per questo teoricamente accettabile ― di ostilità all'adesione dei suoi militanti ai sindacati diretti da socialdemocratici e al lavoro di attiva propaganda e agitazione nel loro seno (9). La prima posizione poteva, in apparenza, coincidere con la nostra e perfino con quella dei bolscevichi che espressamente ammettevano in date circostanze (e quella del gennaio tedesco ne era senza dubbio una) il boicottaggio e delle urne e del parlamento; la seconda non si accordava né con l'una né con l'altra; e col passar dei mesi apparve chiaro che, in larghi strati del partito tedesco, le due posizioni nascevano dalla stessa matrice, la matrice - in sostanza - immediatista: ricerca di forme generiche di espressione "autentica" dello spirito rivoluzionario della classe, disdegno della "politica" come sovrapposizione della volontà dei "capi" a quella dei militanti, riduzione del partito (quando non lo si condannava, alla pari coi sindacati, come ostacolo al libero "autodeterminarsi" e "autoattivarsi" delle masse) a puro organo di propaganda dei princìpi comunisti, rivendicazione di strutture federali e di autonomia locale degli organi economici e delle stesse sezioni del partito. Al congresso di Heidelberg, la Centrale, per bocca di Levi, attaccò violentemente questa opposizione di falsa sinistra, che aveva il suo centro ad Amburgo, con argomenti del tutto simili a quelli da noi usati nei confronti di anarcosindacalisti e ordinovisti: tuttavia (e anche su questo aspetto della questione, come vedremo più oltre (10), gettammo ben presto l'allarme), la procedura con la quale la "Sinistra" tedesca era stata brutalmente posta di fronte all'aut aut di capitolare o abbandonare il partito, e la violenza della polemica che aveva reso irrevocabile il distacco - deprecato da Lenin stesso in una lettera al comitato centrale del KPD del 28.X.1919 - di un'ala bensì deviante, ma non consolidatasi fino allora in posizioni teoriche definitive, e forse recuperabile con un energico sforzo di inquadramento e in virtù di una salda e coerente azione dell'insieme del partito, sembravano a loro volta nascondere nelle sue sfere dirigenti uno stato d'animo incline, come si dimostrerà ben presto, a sbandamenti ancor più gravi in senso opposto: gli "uomini di Amburgo" non avevano tutti i torti quando, a Heidelberg, protestarono perché la polemica verteva esclusivamente su di loro nell'atto in cui dall'alto si offriva un ramoscello d'olivo agli Indipendenti con l'invito a commemorare insieme… la Rivoluzione d'Ottobre mille volte infangata dai Kautsky e dagli Hilferding - inizio di una manovra di cui vedremo più innanzi gli sviluppi e che contribuirà ad irrigidire su posizioni sbagliate nuclei proletari senza dubbio generosi, e per istinto assai più combattivi dei "vertici"!

Vedremo poi come questi sviluppi resero vane le nostre speranze che si potesse costruire una sinistra internazionale omogenea. Resta per ora il fatto che ci dissociammo subito dai futuri promotori del KAPD (Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands, Partito operaio comunista di Germania), per giunta impeciati, nel caso di Wolffheim e Laufenberg, di "nazional-bolscevismo" (11); e non mancammo nel contempo di mettere in guardia contro il pericolo di uno slittamento del partito tedesco verso destra, poco importa se per giusta reazione a tali infantilismi.

Della situazione francese, la Sinistra in Italia aveva avuto conoscenza diretta attraverso una conversazione con Louise Saumoneau, rappresentante di quel Comité pour l'adhésion à la III Internationale (già Comité pour la reprise des relations internationales, promotore dell'adesione di gruppi operai di minoranza alle conferenze di Zimmerwald e Kienthal), al quale si doveva la prima iniziativa per la formazione di un nuovo partito in antitesi alla SFIO immersa nel fango dell' "union sacrée", a guerra finita. La composizione del Comité era però eterogenea, con prevalenza di sindacalisti come Monatte, Monmousseau, Péricat, Rosmer, su un esile gruppo di socialisti di sinistra (Loriot, Cartier); e se ai primi non si poteva negare un forte spirito rivoluzionario e di classe, è altrettanto chiaro che su quella base difficilmente poteva sorgere (purtroppo sorgerà su basi ancor più infelici alla fine del 1920) un partito comunista saldamente ancorato ai princìpi marxisti. Riportiamo qui il commento del Il Soviet, 20.X.1919, sull'incontro con la compagna francese, a ennesima smentita delle "ricostruzioni" postume che assimilano la Sinistra in Italia alle variopinte "opposizioni" di tipo anarco-sindacalista.

Conversando con la compagna Louise Saumoneau

"Nell'occasione del Congresso nazionale abbiamo anche avvicinato la valorosa compagna Louise Saumoneau che rappresenta l'estrema sinistra del movimento socialista francese ed il gruppo di compagni che ha resistito in Francia alla infatuazione patriottarda.

"La Saumoneau non è favorevole ad una scissione, per il momento, del Partito Socialista francese, malgrado esso comprenda elementi transingenti ed antirivoluzionari per eccellenza. Coloro che nel Partito propugnano l'adesione alla III Internazionale non sono numerosi e non potrebbero costituire un partito a sé. La Saumoneau partecipa con elementi anarchici e sindacalisti della Sinistra della Confederazione Generale del Lavoro al Comitato per la III Internazionale, che esplica la sua attività sotto le mille restrizioni poliziesche del democratico governo della Repubblica. La condizione dei comunisti francesi è alquanto scabrosa, presi come sono tra il riformismo dilagante nel Partito Socialista e le correnti anarco-sindacaliste che non potrebbero - e la Saumoneau concordava in questo con noi - essere rappresentate in un Partito comunista aderente alla Internazionale di Mosca.

"L'impressione da noi riportata dalla vivace e limpida esposizione fattaci dalla nostra compagna è che, sebbene anche in Francia le masse, tormentate dalla situazione economica, tendano ad uno stato d'animo rivoluzionario, pochissime probabilità vi sono che possa presto sorgere in Francia un forte Partito sulla base del programma della III Internazionale".

La diagnosi sarà purtroppo confermata dagli anni successivi, quando il partito francese, avendo nel suo seno elementi di destra e di centro malamente controbilanciati da una sinistra non integralmente comunista, vagherà come una nave trascinata da opposti marosi, e l'Internazionale sarà di volta in volta costretta a intervenire per rimetterla sulla strada giusta, solo per doversi accorgere che il filo era stato di nuovo perduto.

Sono, tutti questi, materiali da tener presenti per la storia futura della III Internazionale, e che spiegano perché fin dal 1919-1920, come corrente di Sinistra Comunista in Europa, la nostra frazione si trovò - non certo per suo desiderio - pertinacemente sola (12).

Note

(1) Da Il Soviet del 10.VIII.1919, Il programma comunista e le altre tendenze proletarie.

(2) La lunga lettera dell'Esecutivo agli IWW, nel gennaio 1920, le tesi e i discorsi al Il congresso del luglio-agosto, sono una testimonianza dello sforzo paziente e tenace per convincere quei generosi proletari che "il partito politico e l'organizzazione economica devono marciare con lo stesso passo verso lo scopo comune: l'abolizione del capitalismo mediante, la dittatura del proletariato e i soviet, verso la soppressione delle classi e dello stato".

(3) Cfr. oltre l'appendice al cap. VIII.

(4) È vero che gli indipendenti avevano svolto e svolgeranno in Germania un ruolo ben più infame, staccandosi dalla socialdemocrazia maggioritaria durante la guerra con la fredda determinazione (ben documentata dalle lettere di Kautsky a Adler) di trattenere le masse in preoccupante radicalizzazione dal precipitare nelle braccia dei "ragazzacci Carlo e Rosa"; andando al governo con gli stessi riformisti alla caduta del regime kaiserista per facilitarne il trapasso indolore alla repubblica; separandosene di nuovo per rifare il gioco del "rivoluzionarismo" in concorrenza con gli spartachisti, salvo pugnalarli alle spalle durante le giornate di "azione comune" in gennaio e marzo a Berlino, e in aprile a Monaco. Ma ― anche a prescindere da quello che faranno dopo ― i massimalisti italiani avevano esattamente lo stesso bagaglio ideologico e "fraseologico" degli indipendenti d'oltr'alpe, e infatti salutarono con entusiasmo le mozioni dei loro congressi del marzo e del novembre-dicembre, tutte intonate ― come vedremo più avanti ― alla spuria combinazione del verbalismo rivoluzionario e della prassi parlamentare e gradualista.

(5) Cfr. il cap. VIII.

(6) Era, come si è visto, anche il timore di Lenin, di cui tuttavia non si conosceva la lettera.

(7) Cfr. più oltre l'appendice al cap. VIII.

(8) Il delegato austriaco fu in sede di congresso ― insieme con i balcanici, i finlandesi, gli ungheresi, gli svizzeri e gli scandinavi ― uno dei più accesi sostenitori della necessità (da noi pure assunta) di costituire subito l'Internazionale. Ma il suo giudizio iperottimistico sulla situazione generale europea corrispondeva all'immaturità teorica di un movimento che proprio in quell'anno si lancerà in avventati putsch subito repressi con grave danno per la sua compagine nascente.

(9) Sulla questione torneremo più particolarmente nel cap. VIII.

(10) Cfr. più oltre il cap. VIII.

(11) La teoria, cioè, secondo cui il nemico era l'Intesa, e i comunisti dovevano prendere l'iniziativa di una resistenza nazionale o addirittura di una guerra in alleanza con la Russia offrendo a questo fine alla propria borghesia la pace sociale. È tipico degli sbandamenti a ripetizione del KPD, il fatto che Levi si muoverà su un terreno analogo, dopo averlo condannato negli "amburghesi", all'inizio del '21, e tutto il partito vi si tufferà nel 1923 ai tempi dell'occupazione della Ruhr, trascinandosi dietro la stessa Internazionale.

(12) La questione sarà approfondita più oltre, nel cap. VIII. Notiamo qui soltanto che, riproducendo un articolo di Sylvia Pankhurst, esponente della Socialist Workers' Federation (uno dei molti gruppi estremisti operanti in Inghilterra), e compiacendosi della concordanza sulla questione dell'astensionismo, Il Soviet del 20.X.1919 osservava come nella classe operaia inglese stentasse a farsi strada il concetto ― nostro come di tutti i marxisti ― "di un'attività politica che non sia quella parlamentare, ma svolga l'azione rivoluzionaria di classe, che è azione squisitamente politica". Il seguito mostrerà che le idee della Pankhurst si avvicinavano assai più a quelle dell'Ordine Nuovo.

La Pankhurst, come la Saumoneau (entrambe disertarono nel corso del 1920 il movimento comunista), aveva assistito al congresso di Bologna partecipando poi al convegno internazionale tenuto a Imola il 10 ottobre sotto egida massimalista con la partecipazione anche di delegati svizzeri e austriaci. La platonica riunione, presente un fior fior di socialdemocratico come P. Faure, aveva espresso totale adesione ai princìpi, a tutti o quasi... sconosciuti, della III Internazionale, aveva incaricato il PSI di convocare una conferenza internazionale dalla quale sarebbe dovuto uscite "un comitato coordinatore della preparazione alla dittatura [!!!] che intanto stabilisca in pratica il sabotaggio e il boicottaggio dei mezzi bellici somministrati dall'Intesa ai nemici della Repubblica dei soviet di Russia", e aveva anche deciso di lanciate un manifesto ai lavoratori di tutti i paesi per riconfermare la rottura dei rapporti con quanti in guerra avevano infranto i princìpi dell'internazionalismo e invitare i compagni delle diverse nazioni a lavorare per il distacco dei rispettivi partiti dalla Il Internazionale e la loro adesione alla III. Inutile dire che né la conferenza né il manifesto divennero mai realtà...

Archivio storico 1952 - 1970