Storia della Sinistra comunista Vol. II - Parte settima
Dal Congresso di Bologna del PSI al Secondo Congesso dell'Internazionale Comunista

IX. Il II Congresso dell'Internazionale comunista, un culmine e un bivio

1. Preludio

Quando si riunì a Mosca il II Congresso dell'Internazionale Comunista (19 luglio-7 agosto), il quadro della situazione economica e sociale e delle lotte di classe nel mondo appariva, malgrado le dure sconfitte del primo anno di pace, ancora denso di potenzialità rivoluzionarie.

In quei giorni era in corso la controffensiva dell'Armata rossa contro l'estremo baluardo anglo-francese nell'Oriente europeo ― la Polonia ― e si attendeva da un momento all'altro la caduta, che poi non venne, di Varsavia. Contemporaneamente, le truppe dell'ultimo generale bianco foraggiato dall'Intesa, Wrangel, cedevano a poco a poco terreno nella Russia meridionale e specialmente in Crimea, fino a volatilizzarsi in un crollo verticale, conclusosi con l'imbarco su navi francesi degli ultimi sparuti reparti in novembre.

La puntata al cuore della Polonia faceva dimenticare le gesta bestiali della controrivoluzione in Finlandia e Ungheria, mentre la combattività inesausta del proletariato tedesco, i grandi scioperi minerario in Inghilterra e ferroviario in Francia, il fermento che preludeva in Italia all'occupazione delle fabbriche, la stessa ondata di arresti e persecuzioni nei due grandi paesi vincitori della guerra in Occidente (1), per non parlare della cronica instabilità politica e sociale in Spagna e nei Balcani e dei sintomi di irrequietudine nei paesi neutrali, dalla Svizzera alla Scandinavia, o in ex belligeranti minori come il Belgio e i Paesi Bassi, suffragavano la diagnosi di una crisi acuta del regime capitalistico cui non si sottraevano neppure i grandi beneficiari del macello da poco consumato, gli Stati Uniti (sciopero dell'acciaio, settembre 1919-gennaio 1920), e che ― come ricorderà Lenin nel discorso di apertura del Congresso, il 19 luglio ― trovava drammatica espressione nei contrasti fra gli stessi alleati alla conferenza di Parigi e nelle grida di allarme di un Keynes sulle conseguenze disastrose di una politica miopemente revanscista e, sul piano economico, particolarmente insensata.

Significativamente, d'altra parte, il peso materiale della crisi postbellica spingeva verso l'ago magnetico dell'Ottobre rosso gruppi proletari di origini e tradizioni non marxiste, ma duramente impegnati nelle lotte sociali e pieni di carica rivoluzionaria, aprendoli almeno a un'iniziale comprensione dei problemi del partito, della conquista violenta del potere, della dittatura proletaria e del terrore: IWW americani, shop stewards committees inglesi, sindacalisti rivoluzionari francesi, italiani, spagnoli, tedeschi. Dell'incalzare della crisi su scala europea poteva apparire un sintomo la stessa circostanza che poderose organizzazioni come l'Independent Labour Party in Inghilterra, l'USPD in Germania, il PSF (già SFIO) in Francia, il Socialist Party of America negli Stati Uniti, avessero deciso di abbandonare la II Internazionale e oscillassero fra la dubbia prospettiva di una "ricostruzione" su basi meno apertamente compromissorie (una specie di Internazionale 2 ½ avanti lettera) e i cauti sondaggi diplomatici per un'eventuale adesione alla III ― sia che i loro dirigenti fossero spinti ad andare a Canossa dalla pressione della "base" (era l'ipotesi più benigna, ma la più discutibile), sia che, come noi pensavamo fosse nella loro missione storica, sentissero di dover precedere il moto di radicalizzazione della "base", e quindi il distacco di frazioni di avanguardia militante dal vecchio tronco del partito, per contrastarlo nel primo caso, per impedirlo nel secondo.

Mentre gli stessi promotori della crociata antibolscevica nel 1918-1919 cominciavano lentamente a ripiegare su posizioni di "tolleranza" e perfino di "riconoscimento" dello stato di fatto in Russia fino a prospettare la conclusione di trattati di pace e di accordi commerciali (primo della serie, la Gran Bretagna), tutto sembrava di nuovo possibile, sull'arena dello scontro fra le classi, dopo i terribili rovesci del 1919 e i lunghi anni di guerra civile nell'immensa area coperta dalla rossa insegna dell'Ottobre. Mai dimenticata o smentita, la prospettiva della rivoluzione mondiale riprendeva corpo ― e le davano nuovo alimento i poderosi sussulti nelle colonie e semicolonie dell'imperialismo, specialmente britannico, da dove il capitale soprattutto europeo aveva attinto gli extraprofitti necessari per nutrire, oltre a se stesso, l'aristocrazia operaia e quindi l'opportunismo; sussulti che confermavano a distanza di tempo la grandiosa visione di Marx ed Engels ― con particolare riguardo all'India e alla Cina, ma ora anche alla Persia, alla Turchia e alle Indie Olandesi ―, di una saldatura fra il movimento proletario nelle metropoli capitalistiche e i conati di liberazione dei popoli d'Oriente trascinati nel vortice dell'economia e del mercato mondiali. Se l'occhio dei delegati al II Congresso ― come raccontano i testimoni dell'epoca ― era fisso alle bandierine di giorno in giorno spostate in avanti sullo scacchiere polacco, di là da esso la loro mente e il loro cuore vibravano all'unisono con una ciclopica battaglia la cui estensione a tutti i continenti era simboleggiata dal confluire di militanti operai dei più diversi paesi nella sede della prima vera dittatura proletaria della storia ― militanti non solo di pelle ma di formazione ideologica differente, tuttavia accomunati da una passione più forte di qualunque attaccamento alle "are e case" del passato.

V'era ― e primi fra tutti ad averne coscienza erano i bolscevichi ― un sospetto elemento di "moda", in questa grande fiammata; Zinoviev poteva parlare della necessità di "chiudere a chiave l'Internazionale Comunista" e porre al suo ingresso una "guardia giurata"; Trotsky poteva sentirsi a suo agio più con l'ingenuo fervore di militanti non ancora spogliatisi di preconcetti anti-autoritari ma pieni di slancio e di istinto di classe, che con l'"arroganza" di "comunisti" a sentire i quali le grosse questioni che avevano lacerato il movimento operaio ― appunto le questioni del partito, della conquista violenta del potere, della dittatura e del terrore rosso ― erano ormai conquiste definitive; Lenin poteva condannare l'estremismo come malattia d'infanzia del comunismo, dunque come manifestazione di vitalità e "crescenza" del movimento rivoluzionario, non come abiura di esso, al modo in cui invece copriva di ignominia, insieme alla destra socialdemocratica, il centro, magari precipitatosi ad inviare i suoi pellegrini al Cremlino. Ma quali scorie non poteva bruciare, se ben diretta nel suo divampare, la fiamma? E questa aveva trovato la sua direzione là dove, proprio allora, gli stessi uomini impegnati in una titanica battaglia su tutti i fronti interni ed esterni andavano forgiando, nelle tesi per il II Congresso, armi ben più dure ed affilate di quanto non potessero supporre al loro arrivo i delegati di partiti da un anno aderenti al Comintern; armi, d'altra parte, destinate a rimanere come pietre miliari sul cammino della lotta di emancipazione della classe operaia anche se la maggioranza dei suoi esponenti politici convenuti a Mosca fosse stata ― come era ― impreparata non ad accettarle formalmente, ma a farle proprie nella sostanza; non diciamo poi a riconoscerle già proprie. La fiamma poteva indebolirsi o addirittura temporaneamente spegnersi (Lenin, nel discorso inaugurale, metterà in guardia contro l'errore di credere che alla classe dominante ogni via di uscita dalla crisi postbellica fosse ormai preclusa); ma, con quelle armi e su quell'incudine, la preparazione all'assalto rivoluzionario avrebbe potuto non conoscere soste neppure se (ancora Lenin lo ribadirà in polemica con Serrati) (2) la situazione avesse cessato d'essere rivoluzionaria.

Oggi, a distanza di mezzo secolo, è facile dire che gli entusiasmi facevano velo ad una realtà assai meno favorevole di quanto allora non si fosse portati a supporre. Bisogna però aggiungere che se, da un lato, il 1920 si apriva sotto il segno di due grandiose vittorie ― il trionfo nella guerra civile in Russia e il fisico ricongiungimento delle falangi proletarie mondiali dopo lo smembramento della guerra imperialistica e l'assedio alla cittadella bolscevica, due vittorie che giustificavano non solo l'entusiasmo ma il tripudio, e di cui solo i dotti pedanti e filistei possono non sentire il peso materiale, la storica portata ―, dall'altro gli animatori e dirigenti dell'Internazionale avevano piena coscienza degli aspetti contraddittori e delle "ambiguità" della situazione in cui versava il movimento comunista. Non c'era ombra di retorica, ora che l'accerchiamento della Russia era finito, nella orgogliosa dichiarazione di Lenin:

"Un anno o poco più è trascorso dal primo congresso dell'Internazionale comunista, e oggi già parliamo come vincitori nei confronti della II Internazionale",

o in quella di Zinoviev:"Oggi abbiamo il pieno diritto di proclamare che la II Internazionale è stata colpita a morte dalla III [...]. Nel suo crollo si rispecchia il crollo dello stesso ordine borghese [...]. L'abbiamo vinta perché è cominciato il "crepuscolo degli dei" della borghesia [...] e chi cerca di legare ad essa il suo destino, non può che seguirla nell'abisso" (3).

Ma i bolscevichi erano troppo buoni marxisti per ignorare che, dal I congresso, in seno al movimento operaio le cose non erano sensibilmente cambiate, non solo e non tanto perché nessun grande paese europeo (per non parlare degli Stati Uniti) aveva espresso un partito comunista, ma perché ben pochi fra quelli che stavano per costituirsi, o pretendevano di esserlo già, offrivano serie garanzie di potersi proclamare tali. Per Serrati allora, e postumamente per uno storico alla Carr, era ed è spiacevole che Mosca trattasse da scolaretti, con fare e in tono fastidiosamente "pedagogico", i delegati dei partiti aderenti ancor più che i "compagni di strada" ammalati di estremismo infantile, e non di rado li trattasse non molto meglio (a volte peggio, come è di rigore) che i dubbi postulanti dell'USPD o del PSF: la verità è che i bolscevichi sapevano di doverlo fare essendo gli unici in grado di farlo con severità e rigore ― da parte nostra, avremmo auspicato che lo facessero anche più a fondo ―, e che il compito di liberarli dal peso di un passato incancrenito di conciliatorismi nella migliore delle ipotesi e di compromissioni nella peggiore, sarebbe stato ben più duro che nelle assemblee russe di operai e contadini "senza partito". Il II Congresso si risolverà per buona parte in una grandiosa assise di proselitismo e propaganda nelle file del movimento comunista o sedicente tale, e i suoi protagonisti, che allo stato dei fatti, piacesse o no a Serrati o ad altri, potevano essere una volta di più soltanto gli uomini dell'Ottobre rosso, finirono, ammaestrati dal corso del dibattito, per inasprire (secondo noi, non abbastanza) quelle condizioni di ammissione che in un primo momento erano stati inclini a mitigare, o nel presupposto di avere di fronte partiti teoricamente e praticamente maturi ai quali non occorresse impartire troppi ordini e divieti perché, avendo fatto tesoro di una lunga e salutare lezione, avrebbero trovato la via giusta senza bisogno della bacchetta del maestro e del colpo di barra del nocchiero, o nella fiducia di poter essere un po' più larghi di manica verso i convertiti della dodicesima ora di quanto non fossero stati al timone della dittatura sovietica, perché sicuri di poterli neutralizzare grazie al contrappeso di un duro nocciolo di militanti "alla bolscevica".

A prescindere dai partiti dell'area sovietica, balcanica, germanica, di Polonia, di Finlandia, non si poteva fare serio affidamento né sulle uniche acquisizioni recenti in Europa, i partiti comunisti di Spagna e Belgio, né su un PSI del cui vero volto si cominciava a conoscere almeno una metà, né sui due partiti frettolosamente nati in America e prossimi a fondersi, il Communist Party of America e il Communist Workers' Party of America, né sui quattro raggruppamenti inglesi già uniti in un "Comitato provvisorio per la costituzione del Partito comunista di Gran Bretagna" ma divisi tanto sulle questioni parlamentare e sindacale, quanto sulla questione di aderire o no alla struttura "elastica" del Labour Party, e in ogni caso gracili o confusi (il British Socialist Party, il British Labour Party, la South Wales Socialist Society e la Workers' Socialist Federation), mentre il bilancio degli ultimi mesi in Germania, se dava torto sul piano della correttezza teorica al KAPD, non segnava molti punti a favore del KPD quanto a maturità di formazione dottrinale e a sicurezza e ortodossia di decisioni tattiche. Le correnti, i gruppi e le frazioni dichiaratamente comunisti in Francia, Svizzera, Scandinavia, Italia erano ancora entità imponderabili, e solo la prova dei fatti avrebbe potuto dire qualcosa di sicuro sugli stessi partiti ufficialmente già formatisi nel resto dell'Europa e in Asia. Quanto all'apporto dubbio e sempre guardato con sospetto di ali "sinistre" staccatesi o prossime a staccarsi da partiti "di centro", è vero che poteva fargli da contrappeso e in una certa misura da contravveleno l'acquisizione di battagliere pattuglie di militanti tipo IWW, shop stewards, sindacalisti francesi e spagnoli in crisi ecc., ma questi avevano bisogno a loro volta di una dura ― e di esito incerto ― "scuola preparatoria". "La lotta fra noi e la II Internazionale ― dirà ancora Zinoviev in apertura di congresso ― non è una lotta fra due frazioni di un solo movimento rivoluzionario proletario, non è una lotta tra sfumature, non è una lotta fra correnti nell'ambito di un unico campo di classe: è una lotta fra le classi". Era vero alla scala storica; a livello immediato, la "chiarezza e ancora chiarezza" invocata dal presidente della III Internazionale attendeva ancora ― e di gran lunga ― d'essere raggiunta, e la stessa linea di frattura tra le classi passava attraverso quasi tutti i partiti affiliati. "Ogni passo di movimento reale" è più importante per i marxisti di uno straccio di programma, ma alla sola condizione che non sia compiuto a prezzo di un "commercio dei princìpi". I delegati a Mosca si aspettavano d'essere accolti con manifestazioni di entusiasmo, non anche con piogge di quelle che potremmo chiamare le edizioni 1920 della "Critica al programma di Gotha".

Ai "ricostruttori" si poteva sbattere la porta in faccia: il "pericolo immenso ed immediato per il trionfo della causa dell'emancipazione del proletariato" ― rispetto al quale era "assai meno grave" la tendenza all'"estremismo" ― stava nel fatto che "alcuni vecchi partiti della II Internazionale, talora cedendo inconsapevolmente ai desideri e alla pressione delle masse, talora ingannando consapevolmente le masse per conservare la loro vecchia funzione di agenti ed ausiliari della borghesia in seno al movimento operaio, danno la loro adesione condizionata o addirittura incondizionata alla III Internazionale, mentre in realtà, in tutta la pratica del lavoro politico e di partito, rimangono al livello della II Internazionale", scriveva Lenin nel progetto di Tesi sui compiti fondamentali del II Congresso, datato 14 luglio (4), e ne deduceva la caratteristica tipica dell'"attuale fase di sviluppo del movimento comunista internazionale" per cui, "nella stragrande maggioranza dei paesi capitalistici, la preparazione del proletariato alla realizzazione della sua dittatura non è portata a compimento, e anzi, molto spesso, non è stata ancora intrapresa in modo sistematico" (tesi 5). Urgeva assicurarsi che "la dittatura del proletariato non fosse riconosciuta soltanto a parole", non dimenticando (come dimenticavano i partiti esitanti ad amputarsi della loro ala destra e del loro "centro kautskiano aperto o mascherato") che "ciò che fino alla vittoria del proletariato sembra soltanto un dissenso teorico sulla democrazia diventerà inevitabilmente, dopo la vittoria, una questione da risolvere con la forza delle armi". Altro che stupirsi di un "atteggiamento pedagogico"! Il glorioso stato maggiore bolscevico, che si era svenato in due anni e mezzo di guerra civile sapendo di dover vincere perché la rivoluzione mondiale potesse trionfare, e, finito il suo isolamento fisico, si ritrovava politicamente e praticamente quasi solo, aveva non diciamo il diritto (che non rivendicò mai) ma il dovere rivoluzionario di "tener lezione" a quelli che avrebbero dovuto essere i primi della classe, ed erano gli ultimi! Contro Kautsky si avverava la profezia kautskiana del 1902 ricordata nel I capitolo dell 'Estremismo:

"La Russia, che ha attinto dall'Occidente tanta energia rivoluzionaria, è forse oggi pronta a diventare essa stessa una fonte di energia rivoluzionaria per l'Occidente. Il rinfocolato movimento rivoluzionario russo sarà forse il mezzo più potente per sradicare lo spirito di infrollito filisteismo e superficiale politicantismo che comincia a diffondersi [al 1920, si era altro che diffuso] nelle nostre file e farà nuovamente divampare in vivida fiamma l'ardore della lotta e l'appassionata dedizione ai nostri grandi ideali".

Ma non era un processo meccanico, come forse se l'augurava l'Herr Professor in alta teoria: era un compito, un altro pesantissimo compito, che gli eroici militanti ai quali era parso di poter finalmente tirare il fiato, e ricevere dopo aver dato tanto, si accingevano ad espletare con fermezza non meno eroica. Solo degli indipendenti tedeschi o inglesi potevano, per questo, giudicarli intinti di... "spirito nazionalista"!

Nel rievocare la massa imponente di opuscoli, tesi, commenti redatti dai bolscevichi tra la fine di aprile ― quando si era deciso di convocare a breve scadenza il II Congresso e, nello stesso tempo, era cominciato il pellegrinaggio di "missioni informative" socialiste a Mosca ― e il 19 luglio, quando il Congresso si aprì, i furieri e i public relations men storiografici dell'opportunismo si dilettano invariabilmente di gettarci fra i piedi L'"estremismo", malattia infantile del comunismo, con l'aria di dire, quando non lo dicono chiaro e tondo e fra grida di giubilo: Vi abbiamo presi in castagna, voi della Sinistra: eccola, la vostra bolla di scomunica; eccolo, il nostro attestato di leninismo!

I dotti signori fingono di ignorare due "piccoli" dettagli. Fingono di ignorare, anzitutto, che l'Estremismo si apre con la constatazione che, per quanto

"dopo la vittoria della rivoluzione proletaria anche in uno solo dei paesi progrediti [...] la Russia cesserà in breve di essere un paese modello e sarà di nuovo un paese arretrato [...], nel presente momento storico le cose stanno in modo tale che il modello russo indica a tutti i paesi qualcosa di molto essenziale del loro inevitabile e non lontano avvenire";

e questo qualcosa non è la via democratica, parlamentare, nazionale al... socialismo di cui i predetti furieri si pascono, e pascono il loro pubblico, ma

"l'esperienza della dittatura del proletariato", cioè della "guerra [guerra, si badi, non... dialogo, né soltanto lotta] più eroica e più implacabile della nuova classe contro un nemico più potente, contro la borghesia [...] la cui potenza non consiste soltanto nella forza del capitale internazionale, nella forza e solidità dei legami internazionali della borghesia, ma anche nella forza dell'abitudine, nella forza della piccola produzione; poiché, per sventura, la piccola produzione sussiste tuttora in misura grandissima ed essa genera incessantemente il capitalismo e la borghesia, ogni giorno, ogni ora, in modo spontaneo e su scala di massa", tutti motivi per i quali "la dittatura del proletariato è necessaria [dunque; non qua sì e là no], e la vittoria sulla borghesia è impossibile senza una guerra lunga, tenace, disperata, per la vita o per la morte" (5).

Fingono di ignorare, in secondo luogo, che la critica dell'infantilismo è rivolta a coloro i quali, pur avendo accettato il cardine antidemocratico, antiparlamentare ed antilegalitario della dittatura (e i furieri di oggi l'hanno trentatré volte rinnegato), ne incrinano poi le necessarie fondamenta facendosi i depositari e portatori di un'ideologia, anch'essa (sia pur inconsciamente) democratica, che nega il partito, la centralizzazione, il ruolo dirigente della "previa organizzazione", dunque "la costituzione del proletariato in classe" e per ciò stesso i presupposti della sua "costituzione in classe dominante"; ovvero credono di tutto risolvere ― altro aspetto della "forza d'inerzia" piccolo-borghese ― sostituendo la "frase rivoluzionaria", l'estremismo parolaio, all'ardua ricerca delle soluzioni tattiche direttamente correlate al principio della presa violenta del potere e dell'esercizio dittatoriale di esso. A parte ogni riserva sulla collocazione della nostra Frazione nel campo dell'infantilismo (si è già ricordato che lo stesso Lenin parla di noi confessando di saperne troppo poco), l'Estremismo va considerato ― e così lo considerammo allora noi della Sinistra ― come una vigorosa offensiva contro l'altra faccia ― antiautoritaria, antipartitica, diciamo genericamente "libertaria" ― del democratismo piccolo-borghese; un'offensiva lanciata dopo la liquidazione della sua faccia parlamentare, legalitaria, riformista, in poche righe da pietra tombale. In entrambi i casi, non noi siamo colpiti: noi eravamo agli antipodi delle due deviazioni.

Diciamo di più: nella misura in cui l'antiautoritarismo ed antipartitismo non erano, in ragguardevoli settori della classe operaia specialmente anglosassone, una filiazione diretta e proclamata del vecchio tarlo proudhoniano e bakuniniano, ma una reazione immediata ed inconscia alla putredine dei partiti socialisti e all'accomodante lassismo di alcuni degli stessi partiti autoproclamatisi comunisti pur conservando il vecchio nome sedicentemente glorioso, in quella misura e solo in essa l'"infantilismo" vi era preso a bersaglio come "malattia di crescenza", guaribile ― diversamente dal morbo senile del democratismo ― con metodi anche soltanto "pedagogici" perché espressivo di quel "nobile odio proletario [...] per i politici di classe borghesi" in cui sta "il principio di ogni saggezza" (pag. 69). I furieri dell'opportunismo non conoscono neppure da lontano un simile odio: è sulle radici della loro tradizione ideologica e "culturale" che si abbatte la scure dell'Estremismo!

Non si obietti neppure che qui la vigorosa proclamazione dei princìpi cardinali dei bolscevichi come della Sinistra ― partito, dittatura, terrore ―, insomma dell'antidemocratismo e dell'antiparlamentarismo, risponde a un giudizio della crisi mondiale che ne prospetta imminente lo sbocco rivoluzionario: per Lenin il riconoscimento di quei princìpi non è una professione di fede generica (anche Kautsky, perfino Turati, potevano riconoscerli "a parole"); è un impegno costante di preparazione all'unico snodamento possibile della crisi della società borghese; è la bussola che guida il corso del partito in tutte le sue manifestazioni ― di cui l'attività parlamentare è sempre una delle minori (6) e può, in dati svolti, essere e dover essere sospesa ― vicina o lontana che sia l'insurrezione armata. Le già citate Tesi, come tutti i discorsi al II Congresso, lo ribadiscono con forza, e non è un caso che i furieri dell'opportunismo vi passino sopra, giacché esse dicono per esteso ciò che l'Estremismo aveva premesso in brevi pagine lapidarie ad apertura di volume dandolo per definitivamente acquisito; lo dicono e lo ripetono con tanto maggiore insistenza, in quanto, dalla data di completamento dell'opuscolo di Lenin (12 maggio 1920), i primi contatti coi "pellegrini" in arrivo a Mosca avevano fornito l'ennesima riprova che tale acquisizione non solo non era avvenuta in modo totale e definitivo, ma non era avvenuta affatto!

Note

(1) Poco prima del II Congresso erano stati arrestati in Francia Loriot, Monatte, Souvarine, in Inghilterra la Pankhurst.

(2) E con Frossard, quando, come quest'ultimo riferisce, lo aggredì dicendo: "Non si chiede di far la rivoluzione subito; ciò che importa è la preparazione rivoluzionaria".

(3) Le citazioni sono sempre tratte dal Protokoll des II. Weltkongresses der Kommunistischen Internationale, Hamburg 1921, Feltrinelli Reprint.

(4) Opere, XXXI, pag. 178 ecc.

(5) Opere, XXXI, pag. 14.

(6) É raro che l'..."antidogmatico" Lenin lasci passare un errore teorico. A quegli strani "comunisti di sinistra" che erano i tribunisti olandesi, secondo i quali "quando il sistema capitalistico di produzione è dissestato e la società si trova in stato di rivoluzione, l'attività parlamentare perde a poco a poco d'importanza rispetto alle azioni delle masse", l'Estremismo tanto invocato dai collitorti risponde che questo argomento è "sbagliato sul piano storico e politico" perché "l'azione delle masse ― un grande sciopero per esempio ― è più importante dell'attività parlamentare in ogni situazione [corsivo di Lenin], e non solo durante la rivoluzione o in una situazione rivoluzionaria" (corsivo nostro; cit. pag. 50). Per i collitorti, invece, l'attività parlamentare è l'alfa e l'omega al cui rincalzo, quando va bene, devono correre "le azioni delle masse"; il "grande sciopero", poi, chi lo conosce più, sotto il loro felice regno?

2. Primi contatti con delegazioni operaie occidentali

Sotto questo aspetto, assai più dell'arrivo delle delegazioni dell'inglese Independent Labour Party e del francese PSF, era stato rivelatore quello della delegazione italiana. La decisione di inviarla in Russia risaliva al 3 aprile, e il suo scopo originario ― conformemente all'idea squisitamente opportunistica di andare a cercare nella "patria dell'Ottobre rosso" non un insegnamento politico e una conferma teorica (che non avrebbero avuto bisogno di viaggi... esplorativi, essendo iscritti nei fatti dello stesso Ottobre e nelle opere dei suoi protagonisti), ma un modello di costruzione "tecnica" della società nuova, un brevetto di... ingegneria sociale ― era di "studiare il funzionamento del regime sovietico". Ne facevano parte 13 messi, Serrati e Vacirca per la direzione, Bombacci, Rondani e Graziadei per il gruppo parlamentare, D'Aragona, Bianchi, Marchetti, Colombino, Dugoni, Pavirani, Nofri, Pozzani per la CGL, la Lega nazionale delle cooperative ed altri enti economici locali. Tutti si erano saggiamente premuniti contro il tifo e la fame grazie ad abbondanti scorte di viveri (prima "eccezione nazionale", senza dubbio, gli spaghetti!) e indumenti speciali, addirittura scafandri; come ricorda (e non è il solo) Rosmer, apparivano degni sotto ogni aspetto di una comitiva alla Cook's.

Era una delegazione in assoluta prevalenza "di destra" e, giunta festeggiatissima a Pietrogrado il 6 giugno e a Mosca il 14, lo stesso giorno che figura in calce alla lettera di convocazione del II Congresso (quando ― ricorda Zinoviev ― "non sapevamo che fossero arrivati dei riformisti; avevamo la fiducia più completa in Serrati come in tutte le persone che egli aveva condotto seco; li ritenevamo elementi ancora confusionari, ma la cui devozione alla causa proletaria fosse veramente sincera"), il 16 giugno aveva dovuto ascoltare nella sede del Comitato esecutivo dei Soviet la requisitoria di Bukharin contro il partito francese che si rifiutava di amputare la destra (1) e, il 18, leggere nella Pravda il "saluto" rivoltole dallo stesso Bukharin all'insegna della parola d'ordine: "É l'ora di cacciar via dal movimento operaio italiano il gruppo dei turatiani riformisti!" (2); che era come dire a tre quarti della comitiva: Fuori dai piedi! Lenin nell'Estremismo si era augurato, almeno in questo dando ragione al Il Soviet, che il PSI, da un anno aderente all'Internazionale, si decidesse ad "espellere dalle sue file con ignominia Turati e soci" per "diventare un partito comunista di nome e di fatto"; Trotsky nel già citato brano di Terrorismo e comunismo, altro indimenticabile viatico al II Congresso, aveva scritto le parole di cui sarebbe fatica sprecata suggerire l'attenta lettura ai furieri e storiografi dell'opportunismo:

"Di solito, l'atteggiamento conciliante verso i gruppi kautskiani, longhettisti, turatiani si maschera dietro la considerazione che nei rispettivi paesi l'ora delle azioni rivoluzionarie non è ancora suonata. Ma questo modo di porre la questione è completamente sbagliato. Nessuno pretende dai socialisti inclini al comunismo che fissino un sovvertimento rivoluzionario per le prossime settimane o per i prossimi mesi. Ma quello che la III Internazionale esige dai suoi aderenti è il riconoscimento non a parole ma nei fatti che l'umanità civile è entrata nell'epoca rivoluzionaria, che i più profondi sommovimenti e l'aperta lotta fra le classi attendono tutti i paesi capitalistici, e che il compito dei militanti rivoluzionari è di preparare le necessarie armi ideologiche e i punti d'appoggio organizzativi per questa prossima e inevitabile guerra. Gli internazionalisti che ritengono possibile collaborare oggi con Kautsky, con Longuet, con Turati, di presentarsi alle masse al loro fianco, rinunciano in realtà alla preparazione morale e materiale dell'insurrezione rivoluzionaria del proletariato, a prescindere totalmente dal fatto che questa avvenga un mese o un anno prima, o un mese o un anno dopo. Affinché l'insurrezione delle masse proletarie non si frantumi in una tardiva ricerca della sua via e della sua guida, è necessario che vasti strati proletari imparino sin d'ora a capire tutta l'ampiezza dei compiti che stanno loro innanzi e della loro completa incompatibilità con ogni variante di kautskismo e conciliatorismo. Una vera ala rivoluzionaria, cioè comunista, deve di fronte alle masse contrapporsi a tutti gli schieramenti della indecisione e delle mezze misure, ai docenti, avvocati e cantori del passivismo, e soprattutto rafforzare le proprie posizioni, in primo luogo ideologiche, in secondo luogo organizzative, aperte, semiaperte o rigorosamente segrete. L'ora della separazione formale dal kautskismo aperto o mascherato, o l'ora della sua cacciata dalle file del partito operaio, dipende, si capisce, da considerazioni di opportunità pratica, ma l'intera politica dei veri comunisti dev'essere orientata in questo senso" (3).

Altri due giorni ― lo notiamo unicamente per sottolineare il ritmo incalzante del… corso di pedagogia ―, e i delegati italiani ascolteranno da Lenin, nella già citata riunione dell'EKKI, una nuova denunzia della "putredine dell'ala turatiana [...] che impedisce a tutto il partito di seguire una linea completamente giusta" (come si legge in uno scarno resoconto giornalistico) (4). Non erano parole nuove, per i loro orecchi: le avevano sentite e risentite mille volte da Il Soviet.

E tale è il peso dell'"inerzia storica" che, in ripetuti colloqui con Lenin e Trotsky, Zinoviev e Bukharin, Serrati restò tetragono a Mosca, come già in Italia, nel difendere il lontano Turati e il lì presente D'Aragona; si stizzì che la direzione delegasse per telegrafo al II Congresso, insieme a lui, i già malsicuri Graziadei e Bombacci; brigò invano per estendere il mandato a Vacirca e, almeno con voto consultivo, agli otto confederali; deplorò l'invito dell'EKKI a Bordiga per la Frazione astensionista e a Polano per la Federazione giovanile ― in veste consultiva il primo, deliberativa il secondo ―; prese sotto le sue ali il barbuto segretario della CGL al punto che questi (come ricorda Rosmer), quando non riusciva a cavarsi d'impiccio sotto l'incalzare delle ingiunzioni bolsceviche, cercava e trovava invariabilmente rifugio, da buon destro, nel patriarca del centro massimalista. Organizzatori sindacali e cooperativi, avendo concluso dalla visita al "modello sovietico" che non avevano nulla da apprendere e tutto da insegnare dall'alto della loro saggezza di sudditi civili di paesi civili, se ne tornarono a casa assai prima che il congresso inaugurasse, tra fulmini e tuoni contro l'opportunismo, i suoi lavori: Serrati rimase a… difenderli o, quanto meno, a giustificarne con la loro "innocuità" la presenza nel PSI.

Non si tratta, beninteso, di un "caso personale" (appunto perché non lo era se ne parla qui, dove non si corre dietro al pettegolezzo biografico): chi semmai tendeva ad uscire dal classico solco del massimalismo (fino a che punto, l'avrebbe detto l'avvenire) erano i suoi due compagni di delegazione al congresso, ed egli non aveva tutti i torti di rivendicarne a sé e solo a sé la vera, genuina rappresentanza. Nel suo ostinato rifiuto di dissolidarizzare da Turati si rispecchiava fedelmente un massimalismo per il quale l'azione parlamentare era al centro della vita di partito ― e gruppo parlamentare significava ala destra. Di più, nel suo giudizio sui riformisti. questa considerazione di opportunità pratica pesava meno dell'attestato attivo di buona condotta conferito ad uomini che, come si legge nel rapporto autentico di Serrati all'Internazionale riprodotto nel nr. 1 anno II di Comunismo, "obbediscono alla disciplina del partito [!!!] e si orientano ogni giorno sempre più a sinistra [!!!]". Nella sua insistenza presso D'Aragona perché... salvasse la faccia sottoscrivendo la convenzione costitutiva del Comitato provvisorio dei Sindacati rossi, nucleo della futura Internazionale sindacale rossa, non senza prima avere estorto un compromesso zoppicante e con la riserva mentale che "l'organizzazione sindacale rossa non dovrebbe dipendere dalla Internazionale Comunista, ma essere qualcosa di autonomo, che marci amichevolmente fianco a fianco con essa" (5), si rispecchiava un massimalismo ai cui occhi PSI e CGL ― "rossa" per definizione questa, comunista per definizione quello ― erano come Stato e Chiesa nella tradizione liberale, potenze sovrane ciascuna nell'ambito delle sue funzioni (e fra le quali potevano esistere soltanto rapporti da pari a pari), tuttavia convergenti nel nobile impegno di sostenersi a vicenda quando il "bene di tutti" fosse in gioco. In Russia, la "separazione dal kautskismo aperto o mascherato" era stato un problema da risolvere "con la forza delle armi", a costo di immensi sacrifici virilmente sostenuti; nell'Occidente rappresentato dal massimalismo, non aveva neppure raggiunto lo stadio delle "armi della critica". Diamo almeno atto a Serrati di avere, tenendo duro, reso possibile in seno all'Internazionale, sia pure con ritardo, un giudizio irrevocabile sulla collocazione dei massimalisti nell'area, per eccellenza nemica, del "centro"...

Ma la primavera aveva portato a Mosca un'altra famiglia di mature rondinelle: la famiglia dei delegati dei partiti "ricostruttori" venuti a godersi lo spettacolo di quello che Lenin definirà ironicamente "il sistema sovietico, come piace dire ai sistematici tedeschi, o l'idea sovietica, come dicono i socialisti gildisti britannici" e, in subordine, a far conoscenza con l'Internazionale per valutare la possibilità e soprattutto la convenienza di aderirvi, e le condizioni a tal fine richieste.

Erano i portatori di un altro pericolo denunziato in tutte le tesi e i discorsi del congresso: quello di partiti ansiosi, dopo le pesanti corresponsabilità nel massacro imperialistico, di rifarsi una verginità a buon mercato o mediante sottili operazioni di chirurgia plastica al modo del tedesco USPD, o mediante concessioni demagogiche alle generose impazienze e ai fremiti di rivolta della "base". Tutti avevano sondato, attraverso il Partito socialista svizzero ― specchio fedele, nelle sue attività di intermediazione, della funzione internazionale del proprio paese ―, le possibilità e prospettive di ricostituzione di una Internazionale non... dogmatica, aperta a "tutti i partiti decisi a rimanere fedeli alle fondamenta del socialismo" ― formula tipicamente acchiappa-tutti e non-impegna-nessuno ben degna dei suoi autori, i socialisti francesi riuniti al congresso di Strasburgo (25-29 febbraio) ―, mantenendosi tuttavia le mani libere per trattative in perfetto stile diplomatico con la settaria (orrore!) Internazionale di Mosca. Non c'erano illusioni da farsi, in questo caso, né metodi "pedagogici" da esperire, anche se a Mosca era viva la speranza di staccare frazioni proletarie e classiste di base dai vertici ormai "completamente borghesi", perché legati agli interessi di strati esili ma potenti di aristocrazia operaia, che ci si apprestava a mettere con le spalle al muro. Non si trattava, per i dirigenti del Comintern, né di accoglierli nelle sue file (6) ― se non a condizioni equivalenti al suicidio ― né di indottrinarne i portavoce in viaggio esplorativo; si trattava di affrettare lo scoppio di un bubbone.

Era giunta per prima, in maggio, la missione dell'Independent Labour Party, fresco dell'invio a Berna di un progetto d'Internazionale "ricostruita" abbracciante "tutti i partiti che accettano come basi principali del socialismo la proprietà e l'uso collettivo della terra e dei principali strumenti di lavoro, come dell'industria in generale e di tutto ciò che concerne la questione della ricchezza pubblica" (come arrivarci, attraverso quale via, con quali atteggiamenti di fronte allo stato borghese e alle sue istituzioni, mistero: e sfidiamo a immaginare un partito, anche il più riformista, che non fosse o non sia pronto a giurare su una simile Bibbia!), nel cui seno le sezioni nazionali godessero della "autonomia più completa per ciò che riguarda la libertà di azione e di tattica in ogni paese" (7). Nel suo lungo soggiorno, tuttavia, la delegazione si era scontrata in "interlocutori" coriacei, per nulla sorpresi di vedervi rispecchiato ― come dirà Lenin a commento del suo incontro del 26 maggio ― "il vecchio ascesso", messo ancor più a nudo dalla guerra imperialistica, del "passaggio della maggioranza dei leaders parlamentari e sindacali degli operai dalla parte della borghesia" (8), e aveva dovuto fingere stupore per le accuse rivolte alla Gran Bretagna di promuovere e foraggiare l'aggressione polacca, nonché esprimere sdegno e meraviglia per l'assenza di libertà di stampa, associazione e propaganda nella Russia proletaria assediata! Ebbe almeno il pudore di non battersi il petto alla Cachin, e di tornarsene a casa ancor più salda nella sua fede democratica. Il suo epicedio lo scrisse subito Lenin: "A ciascuno il suo. Ai comunisti il compito di lavorare attraverso il loro partito per illuminare la coscienza rivoluzionaria degli operai [Vladimiro Lenin malato di... "illuminismo bordighiano", o storici dei nostri calzari?]. A coloro che hanno sostenuto la difesa della patria nella guerra imperialistica per la spartizione del mondo [...], la stessa sorte dei Kerenski, dei menscevichi e dei socialrivoluzionari". Il II Congresso non avrà l'imbarazzante "onore" di vedere questa varietà britannica degli indipendenti tedeschi posare a comunista.

Era arrivata buona terza, incaricata di analoghi sondaggi, la missione francese Cachin-Frossard, e qui l'episodio aveva preso una piega tanto cinica quanto melodrammatica. I due pellegrini non erano autorizzati ad esprimere giudizi o prendere impegni, ma solo a chiedere e riferire informazioni: con volubilità pari alla mancanza di princìpi, si erano tuttavia abbandonati a manifestazioni di entusiasmo oratorio per le vittorie bolsceviche e le conquiste proletarie in Russia; alla già citata riunione del 16 giugno a Mosca, quando Bukharin aveva ricordato non solo l'ignominia del socialsciovinismo francese ma i personali trascorsi di Cachin come paladino dell'union sacrée (in cui i bolscevichi, ricorda Serrati di averlo udito proclamare, vedevano "non uno sbaglio ma un delitto"), e Lenin aveva formulato il verdetto: "Fra la III Internazionale e tutta la politica del Partito socialista francese c'è un abisso", dimostrandolo con riferimenti all'attività di stampa e di gruppo parlamentare, all'equivoca azione di Longuet, all'atteggiamento conciliante verso i capi confederali, alla passività di fronte all'arresto per "complotto" di Loriot, Monatte e Souvarine, Cachin era scoppiato a piangere (l'aveva già fatto a Strasburgo "davanti a Poincaré che celebrava il ritorno dell'Alsazia alla Francia!", aveva commentato Rosmer) (9), e si può immaginare che abbia fatto altrettanto nelle successive riunioni del 18 e 29 giugno prima e del 23 e 28 luglio poi, cedendo via via alle incalzanti esortazioni dello stato maggiore del Comintern fino ad impegnarsi (nei limiti che vedremo) a battersi entro il partito per una sua non formale adesione ad esso, a costo ― un costo che gli "interlocutori" moscoviti sapevano doversi necessariamente pagare ― di spezzarlo in due. Soggettivamente, questo progressivo "allineamento" poteva o no essere sincero; comunque, lo circondavano mille riserve. L'incarico affidato dal Partito francese ai suoi messi il 9 marzo era di "prendere contatto col Partito bolscevico russo e con gli organi qualificati della III Internazionale al fine di studiare i mezzi per giungere al ristabilimento dell'Unità Socialista Internazionale [maiuscole nel testo] e raccogliere i dati e le informazioni più precisi sulla situazione della Russia e la sua organizzazione politica, economica e sociale" (10), e nella seduta del 18 giugno Cachin per primo aveva presentato all'EKKI un ritratto ditirambico dell'azione "rivoluzionaria" del PSF, mentre Frossard aveva spiegato che quest'ultimo non era affatto alieno dall'aderire all'IC purché fossero chiarite "alcune modalità di tattica" e, riconoscendo la necessità di concedere "una certa libertà" di movimento alle sezioni nazionali in considerazione delle particolari circostanze in cui erano e sarebbero state chiamate ad operare, si ammettesse per esempio ― e soprattutto ― che "la conquista del potere ad opera del proletariato è concepibile solo mediante un accordo realizzato su basi di eguaglianza fra CGT e Partito"; e aveva aggiunto, come era nel suo mandato, che non poteva né accettare le "misure di ostracismo" chieste dall'Esecutivo a carico di singoli compagni, né ammettere che queste venissero "imposte [al PSF] dall'esterno [l'Internazionale… potenza straniera!]". Nessuno, a Mosca, pensava di convertirli nel giro di brevi anche se radicali "lezioni" di bolscevismo: Longuet, del quale i due pellegrini ripetevano l'apologia, era stato inchiodato al muro dell'ignominia centrista nel famoso articolo di Trotsky (11) del dicembre precedente; e non v'era nessuna probabilità che l'IC considerasse in modo molto diverso i suoi difensori d'ufficio. Restava il problema ― sul quale, e sui suoi rischi, non torneremo ― di collocare una mina nel partito per demolire i baluardi che vi tenevano rinchiusa una "base" proletaria pur sempre combattiva; e l'EKKI tentò di vincolare i due "messi", malgrado forse il loro cinismo, all'impegno di trasmettere al partito ― facendosene non solo i latori, ma i portavoce ― una serie di condizioni draconiane. Per questo tentativo, si sarebbe dovuto pagare il prezzo di esautorare almeno in parte il Comitato per l'adesione alla III Internazionale, l'unico gruppo sia pur esile che si fosse da tempo dichiarato per il comunismo; ma non dimentichi il giovane militante che il Comité, vivaio di forze sinceramente rivoluzionarie, era tuttavia nato su basi malferme, per molti riguardi confuse (cfr. il capitolo IV di questo volume), oscillanti fra l'ortodossia marxista e una tradizione anarco-sindacalista solo superficialmente nascosta dall'entusiasmo per un Ottobre e un "leninismo" visti in chiave di "democrazia operaia" e "sovietismo generico". La delegazione ripartì prima di conoscere il testo definitivo (ed aggravato) delle "Condizioni di ammissione", ma portando nella borsa una "lettera a tutti i membri del Partito socialista francese e a tutti i proletari coscienti di Francia" che traduceva in precise e dure ingiunzioni quelle già formulate da Trotsky sotto forma di domande allorché, premettendo che "l'adesione all'Internazionale Comunista non mira a concedere un'etichetta internazionale ma a fissare compiti di lotta rivoluzionaria; non può dunque fondarsi in nessun caso su reticenze, malintesi ed equivoci", poneva al PSF i quesiti ultimativi: è o no pronto a sconfessare senza riserve e attenuazioni la politica di "difesa nazionale"? ad escludere qualunque partecipazione od anche solo appoggio indiretto a governi borghesi? a lottare contro l'aperto crumiraggio degli scioperi da parte dei dirigenti della CGT? a sostenere i popoli coloniali sotto il tallone dell'imperialismo francese in una lotta senza quartiere contro la borghesia metropolitana ed il suo stato? a cacciare dalle proprie file i "profeti della passività" alla Longuet e alla Blum-Renaudel, alla salsa riformista e alla salsa centrista? (12). Vedremo di quali "reticenze", poco prima di partire, essi circonderanno l'impegno assunto a puro titolo personale di battersi per l'adesione e le sue clausole, e quali reazioni provocheranno le loro parole nei più giovani delegati francesi e in quelli russi; comunque, la linea ormai prefissata era quella, con tutti i suoi pericoli di reviviscenza della destra "ricostruttrice" e in realtà demolitrice, e col grande interrogativo ancora aperto se il bieco fantasma sarebbe stato esorcizzato o da uno snodamento positivo della situazione mondiale o, in caso negativo, da una più stretta vigilanza e da un energico indurimento della centralizzazione e della disciplina ad opera dell'EKKI.

Il quadro delle forze attirate dal campo magnetico russo nell'imminenza del Congresso ― quadro che siamo costretti a seguire nel dettaglio per fornire una chiave alla giusta valutazione dei fatti ― va completato con due testimonianze. L'una riguarda le accanite discussioni svoltesi nelle prime settimane di luglio fra la delegazione confederale italiana e i rappresentanti degli IWW, degli shop stewards, della CNT spagnola diretta da sindacalisti, della minoranza sindacalista della francese CGT, dell'anarco-sindacalista tedesca FAU da un lato, Zinoviev e Losovsky dall'altro, intorno alla questione della costituenda Internazionale Sindacale Rossa. Il resoconto che ne dà Losovsky è rivelatore (13): quando ― in vista della creazione di un "Consiglio internazionale provvisorio dei Sindacati di mestiere e di industria" in antitesi alla Federazione sindacale internazionale (FSI) di Amsterdam, risorta in stretto collegamento col Bureau International du Travail e quindi con la Società delle Nazioni ― i bolscevichi posero il problema di conquistare i sindacati ai princìpi del comunismo per trasformarli in strumenti della lotta per la dittatura del proletariato, i delegati confederali italiani dichiararono (con bella faccia tosta) di essere pronti a propagandare quei princìpi, non però a farne oggetto di pubblica professione di fede; gli anarco-sindacalisti e gli operaisti inglesi e americani sollevarono (più onestamente, bisogna riconoscerlo) il problema di chi dovesse dirigere la dittatura proletaria ― le organizzazioni economiche, di mestiere, d'industria, di fabbrica, come pensavano loro, o il partito, come pensavano i bolscevichi (ovviamente, alcuni delegati di ceppo dichiaratamente anarchico negavano ogni forma di dittatura); infine, confederali italiani e sindacalisti e operaisti delle più diverse provenienze si ritrovarono uniti nel respingere la stretta dipendenza della futura Internazionale sindacale rossa dall'internazionale politica, mentre nuovi contrasti sorsero quando si trattò di stabilire se procedere alla conquista dei sindacati nazionali esistenti o uscirne per creare organismi ritenuti più consoni alle necessità dell'azione rivoluzionaria su scala mondiale (14). Le discussioni, molto aspre, e indicative dell'enorme varietà di posizioni contrastanti in seno al movimento operaio e più particolarmente sindacale riunitosi a Mosca, si trascinarono a lungo, finché, avendo i delegati degli IWW e degli shop stewards mantenute su entrambi i punti le loro riserve (le mantennero, per la verità, anche in sede di Congresso), i delegati italiani, dopo molto esitare da parte loro e premere da parte di Serrati, ottennero che la "convenzione costitutiva" del Consiglio internazionale provvisorio fosse formulata nei termini di un vago compromesso, in cui da un lato si imponeva alle organizzazioni nazionali aderenti di svolgere un'ampia propaganda per le idee della lotta rivoluzionaria di classe, della rivoluzione sociale e della dittatura proletaria "come mezzo transitorio ma deciso [...] per schiacciare la resistenza degli sfruttatori e consolidare le conquiste del governo operaio", cioè di battersi contro la "peste della collaborazione con la borghesia e della speranza in un pacifico trapasso al socialismo" chiamando gli elementi rivoluzionari e classisti del movimento sindacale mondiale ad una lotta frontale contro Amsterdam e, a tutti questi scopi, non predicando la diserzione e la scissione delle organizzazioni nazionali esistenti; dall'altro si stabiliva che tutto questo insieme di attività doveva essere svolto, sotto la direzione del Consiglio, "in stretto accordo e collegamento con il Comitato esecutivo dell'IC", accordo e collegamento realizzati mediante la delega di un membro dello stesso Esecutivo negli organi dirigenti del Consiglio, e viceversa. La genericità delle proclamazioni di principio e degli impegni di azione ad esse corrispondenti, e la posizione di quasi parità fra organo mondiale politico e organo mondiale sindacale, davano soddisfazione alle ben... comprensibili perplessità dei delegati italiani, che infatti sottoscrissero il documento insieme ai Russi, agli Spagnoli, ai Francesi, ai Bulgari, agli Jugoslavi e ai Georgiani; ed è noto che Lenin, quando lo vide, lo giudicò bensì un compromesso sgradevole, ma suggerì di accettarlo: l'importante era aver creato un centro; "la chiarezza verrà poi". (Ciò non impedì ai confederali italiani di esclamare, gongolando: vedete? il patto di alleanza stipulato in Italia fra PSI e CGL è stato elevato a principio e dignità internazionali; e, nei mesi successivi, di procedere allegramente sulla via tracciata da tutto il loro passato, che conduceva non a Mosca ma ad Amsterdam ― come si rinfaccerà loro un anno dopo, al congresso di fondazione dell'Internazionale sindacale rossa).

La seconda testimonianza riguarda la delegazione del Partito socialdemocratico indipendente di Germania (15), venuta a "trattare" con l'IC ― come voleva l'orientamento generale ― e composta (ricorda l'unico testimone oculare della nostra corrente) da "tre ceffi superborghesi, che viaggiavano con l'abito nero e il cilindro diplomatico".

Lo scontro, prima in sede di Comitato esecutivo il giorno stesso del loro arrivo, il 25 luglio, poi in sede di commissione per le condizioni di ammissione, con questi mercanti in cerca di uno sbocco alla loro merce stantia, fu particolarmente violento (16), e si ripeté al Congresso dove si era deciso di ammetterli, come i due colleghi francesi, in veste consultiva. Due della destra e due della cosiddetta sinistra dell'USPD, i delegati si dichiararono d'accordo "in generale" di aderire al Comintern; al modo dei massimalisti italiani, difesero però a spada tratta la tradizione... rivoluzionaria del partito minimizzando l'influenza esercitata in esso da Kautsky (Hilferding, quello, era un'altra cosa!); più o meno tutti, scoprirono nelle pieghe delle 19 condizioni originarie migliaia di pericoli: pericoloso il cambio di nome del partito ― si rischia la messa al bando; pericoloso rendere nota l'esistenza di una rete illegale accanto a quella legale ― si rischia di farsi sopprimere il sacro patrimonio di un centinaio di giornali e chiuderne le preziose redazioni; pericoloso far propaganda nell'esercito ― si rischia la corte marziale; pericoloso insistere troppo sul centralismo ― le masse storcerebbero la bocca (a proposito, i brutti ceffi avevano avuto il coraggio di dichiarare che, se non avevano potuto agire con maggiore efficacia durante la guerra, la colpa era stata della "mancanza di coscienza socialista nelle masse"!); controproducente parlare di violenza e di terrore ― "certe cose si fanno [bum!], non si dicono"! Nel fuoco incrociato di domande, i quattro vacillavano come esili canne al vento di tramontana (17): appariranno (senza... cilindro) al congresso, e la tramontana si trasformerà in ciclone!

Note

(1) La citazione di Zinoviev è da La questione italiana al III Congresso dell'Internazionale Comunista, Roma 1921, pag. 1; quella di Bukharin dal nr. 20 del 15-31 luglio 1920 di Comunismo.

(2) Citato, Iddio ci perdoni, in P. Spriano, Stona del Partito Comunista Italiano, I, Torino 1967, pag. 66.

(3) Appendice in data 17 giugno 1920.

(4) Lenin e l'Italia, Mosca 1971, pag. 293. La seduta era stata così illuminante per Lenin, che due giorni dopo scrisse a Neller-Chiarini di redigere "un elenco dei documenti più importanti e [far] tradurre i documenti importantissimi da cui risulta attestato che i riformisti (e Turati e soci in specie) non accettano né la disciplina né le deliberazioni". (Opere, XLIV, pag. 365).

(5) Protokoll des 2. Kongresses etc., pag. 524.

(6) Quando, in sede di congresso, Münzenberg si levò contro l'ammissione (che credeva ormai decisa) degli indipendenti, Lenin scattò con sdegno: "Chi parla di ammettere l'USPD?". (Protokoll, pag. 306).

(7) Dalla lettera dell'Ufficio di Amsterdam all'ILP, riprodotta ne Il Soviet del 25 aprile 1920.

(8) Lettera agli operai inglesi del 30 maggio 1920, in Opere, XXXI, pagg. 131-132.

(9) A Mosca al tempo di Lenin, cit. pag. 39. Per il resto si veda Comunismo, 15-31 luglio 1920 e Lenin e l'Italia, cit.

(10) L.-O. Frossard, Le Parti Socialiste et l'Internationale, 1920.

(11) Riprodotto nel nostro opuscolo O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale, Milano, 1968.

(12) A proposito del prossimo Congresso Internazionale, in Kommunistische Internationale, 1/12, pagg. 54 segg. La successiva lettera dell'EKKI del 26 luglio, firmata da Zinoviev, Lenin, Rosmer, Serrati e Levi, entrò in maggiori dettagli pratici: cambiamento di indirizzo della stampa, costituzione di cellule comuniste nei sindacati, subordinazione del gruppo parlamentare alla direzione, propaganda nell'esercito, combinazione del lavoro illegale con quello legate, rottura col riformismo, pubblicazione del documento stesso (e dico poco!). Si noti che Serrati tuonò anche a favore dell'espulsione dei massoni, antica piaga dei partiti socialisti; ma che forse il PSI aveva rotto col riformismo, svolto attività illegale, e messo le briglie al gruppo parlamentare?

(13) A. Losovsky, Der Internationale Rat der Fach und Industrieverbände (Moskau gegen Amsterdam), Hamburg 1921, pagg. 36 e segg.

(14) La questione era scottante soprattutto in America, dove l'AFL era effettivamente un'organizzazione gangsteristica, semirazzista, gelosa dei privilegi dell'aristocrazia operaia e, in genere, dei lavoratori di pelle bianca, della quale ai battaglieri "wobblies" (non i soli, del resto) ripugnava di dover far parte.

(15) Come si è già detto (cap. VIII) i due delegati del KAPD, viste le "condizioni d'ammissione", se n'erano già andati.

(16) Un riassunto nei nr. 2 settembre e 10 ottobre della Rote Fahne da cui attingiamo.

(17) Il futuro missus dominicus dell'Internazionale decadente lanciato al recupero di centristi e sottocentristi in Francia e in Italia, Humbert-Droz, fu allora uno dei più decisi nel chiedere l'indurimento delle condizioni di ammissione perché, disse pieno di disgusto, "il centro è il vero prosecutore dello spirito della II Internazionale". Grandezza della Mosca di allora; miserie della Mosca di poi!

3. L'essenziale e l'accessorio del II Congresso

Le brevi Note che precedono, e che restano monche nella vana attesa che i verbali delle commissioni e sottocommissioni e delle sedute dell'Esecutivo vengano finalmente resi pubblici (il pomposo Istituto Marx-Engels-Lenin ha, evidentemente, altro per la zucca!), provano come i bolscevichi si trovassero di fronte a compiti, imposti dalla crisi sociale postbellica, ben più gravi di quelli che probabilmente si attendevano, e come l'assise mondiale comunista di cui stavano per iniziarsi i lavori fosse in realtà l'arena non di un esercito già formato e solo bisognoso di perfezionare i suoi piani di guerra, ma di truppe sparse e scucite da mettere faticosamente in riga per un primo elementare addestramento. L'entusiasmo era grande, la fede ardente, la volontà di battersi sconfinata: ma solo una grande spinta dal sottosuolo della società borghese avrebbe potuto compiere il miracolo, non il primo in quegli anni, di allineare sotto una ferrea guida ― strategica e tattica ― i reparti esteriormente avvicinati di un'avanguardia policroma. Forse il "crogiuolo di un nuovo Ottobre" li avrebbe fusi, imponendo loro di sottoporsi a quel comando unico e centralizzato con sede a Mosca, di fronte al quale, abbandonati a sé stessi, recalcitravano. Solo esili drappelli, di là da secondarie divergenze tattiche, si muovevano nel solco aperto dal '17 russo: l'enorme maggioranza di quella che avrebbe dovuto costituire l'armata rossa del comunismo e del proletariato mondiale brancolava nel buio. Bisognava disciplinarla ― teoricamente, programmaticamente, tatticamente, organizzativamente (1).

Oggi, non è difficile constatare che il tentativo è fallito; ma nessuno ha il diritto, salendo in cattedra, di proclamare che era condannato a priori. E solo pedanti filistei possono chiudere il libro di quei giorni ardenti come se non avesse più nulla da insegnarci: a quella stregua, anche il meeting alla Martin's Hall apparterrebbe ai ferri vecchi. Ma se, nel 1920 come nel 1864 o nel 1850, la rivoluzione può essere sembrata più vicina di quanto in realtà non fosse, la grandezza dei "padri" e dei "figli" del comunismo scientifico sta nell'aver lavorato, nel presente, per il futuro; nell'aver costruito, sulle sabbie mobili di un ciclo che sembrava (e non era) prossimo a concludersi, le fondamenta teoriche dell'edificio di domani. Gli opportunisti gridino pure al paradosso: la forza della nostra dottrina è la sua capacità di scavalcare gli alti e bassi della contingenza anche quando i suoi portatori, impegnati nello sforzo di dominarla, non la dominano.

Commentando nel 1956 il richiamo di Lenin in Stato e rivoluzione alla lettera di Marx a Weydemeyer, 5 marzo 1852, e la sua chiosa: "Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi fino al riconoscimento della dittatura del proletariato", scrivevamo: "É di cristallina evidenza che tutte le vie di preteso passaggio al socialismo che non estendono il riconoscimento della lotta di classe a quello della dittatura, caratterizzano l'opportunismo contro il quale si svolse la battaglia teorica e materiale di Lenin in quegli anni, e che questo è un principio base che vale per tutti i tempi e tutte le rivoluzioni. Tale scoperta originale del marxismo non e una conquista "creativa" dell'esperienza storica [...]; Marx la stabilisce quando non si è ancora vista nella storia una dittatura proletaria, e tanto meno una soppressione delle classi. Lenin ne fa inderogabile principio [...] poco dopo che la prima dittatura stabile ha clamorosamente trionfato ma si esercita tra violentissimi assalti nemici, e sempre molto prima che si veda uno storico esempio, lontano molto oggi ancora, di sparizione delle classi e dello stato" (2). Ebbene, al centro del II Congresso che cos'è se non la questione della dittatura proletaria come ciò il cui riconoscimento ― e solo esso ― distingue il marxista "dal piccolo (e anche dal grande) borghese da dozzina"? É un gioco da ragazzi, oggi, sentenziare: rivoluzione e dittatura rosse erano lontane, nel 1920, forse quanto lo erano nel 1852 ai tempi della lettera "dimenticata" di Marx. Ma Lenin che sale alla tribuna per ricordare l'abc del marxismo non offre ai militanti di allora un biglietto d'ingresso con posto prenotato al festival della dittatura proletaria: indica una inderogabile via lungo la quale si tratta di "prepararsi" ― e duramente prepararsi, giorno per giorno ― a quella che sarà, per tutti i tempi e tutte le rivoluzioni, il "principio base" affermato in teoria e praticato nei fatti. Non parla soltanto per il 1920, più che Marx non parlasse per l'anno diciannove prima della Comune di Parigi: è quello, per chi non si smarrisca nell'accessorio, l'essenziale e il permanente!

É in questa luce che il II Congresso va visto; o non è nulla. É in questa luce che ha la portata di un Ottobre mondiale scolpito nelle sue tesi, nelle sue risoluzioni, nel suo manifesto ai proletari di tutti i continenti, di tutte le razze, di tutte le generazioni. Il movimento rivoluzionario comunista riannoda oggi il filo che allora non poteva non spezzarsi prima ancora che si riuscisse a unirne faticosamente i capi, disgiunti dalla tempesta di una guerra di fronte alla quale erano esplose le contraddizioni latenti in una lunga pace di conquiste fittizie. E l'esile pattuglia erede della Sinistra di allora ha il diritto e il dovere di dire ai giovani militanti: Cercate, sotto il velo delle speranze o, se preferite, delle illusioni di quei mesi, il tesoro dell'"impossibile comunismo"; non quello che si credeva a portata di mano, ma quello di cui si videro e definirono nettamente, vicino o lontano che fosse, le condizioni necessarie. Lasciate agli storici la paccottiglia di espedienti tattici e di risorse organizzative in cui si prolungarono le insufficienze, le immaturità, le pesanti inerzie del passato, e che, per essi, sono l'alfa e l'omega proprio perché non hanno potuto impedire al movimento comunista di precipitare più indietro del '48; riprendete la via additata dai princìpi che vennero allora vigorosamente ribaditi, e ai quali noi cercammo, insieme ai bolscevichi, di dar corpo ed anima ― essi tentando disperatamente di salvarli nel presente, noi sforzandoci di salvarli nel domani. In questo (ma è l'essenziale!) eravamo, anche nel dissenso, l'unica voce concorde.

Note

(1) Non si dimentichi che la lettera di convocazione del congresso per il 15 (poi 19) luglio era rivolta a "tutti i partiti, gruppi e sindacati che hanno ufficialmente aderito all'IC", ai "gruppi e organizzazioni che sono sul terreno dell'IC, ma in opposizione ai partiti comunisti ufficialmente ammessi", a tutti "i gruppi dei sindacalisti rivoluzionari, degli IWW e di altre organizzazioni con cui il Comitato esecutivo dell'IC è entrato in rapporto", nonché alle rispettive federazioni giovanili e femminili: un mosaico assai più che un unico corpo. (Protokoll, pag. 2).

(2) Dialogato coi Morti, ed. il programma comunista, Milano 1956, pag. 33.

4. Un duro banco di prova

Non si possono leggere senza emozione i due resoconti della riunione inaugurale del II Congresso, il 19 luglio a Pietrogrado, in quello stesso Palazzo di Tauride nel quale la voce di un marinaio aveva sommerso le voci tediose dei delegati alla Costituente proclamando: "É tardi, abbiamo sonno, l'assemblea è sciolta"; e della seduta congiunta dei congressisti, del Comitato esecutivo centrale panrusso, del Soviet locale, del Plenum dei sindacati e dei consigli di fabbrica, con la quale il 7 agosto a Mosca si concluse la grande assise del movimento operaio comunista mondiale.

L'emozione, la stessa che provarono allora i delegati al Congresso, non nasce soltanto dal fatto che in quei giorni il filo spezzato dalla guerra e dalla capitolazione dell'opportunismo di fronte agli altari sanguinosi delle patrie in armi si riannodava davvero per la prima volta, né solo dal fatto che a riannodarlo, mentre ardeva e sembrava ormai vittoriosa la guerra contro la Polonia, penultimo capitolo della guerra civile e forse prologo di un generale incendio di classe, fossero i delegati di 37 paesi, tra i quali figuravano ― ancora per la prima volta ― militanti comunisti delle Indie britanniche e olandesi, preziosi gioielli nella corona dello sfruttamento imperialistico, della Turchia e della Persia rinascenti, della Cina e della Corea alla vigilia di poderosi moti rivoluzionari; nasce dall'atmosfera vibrante, ma aliena da qualunque retorica, in cui quei militanti accorsi dai più lontani continenti si sentirono e non potevano non sentirsi avvolti ― qualunque passato avessero alle spalle, qualunque parola stessero per pronunciare o avessero già pronunciato sotto il suo peso, qualunque remora impedisse loro di aderire totalmente e senza riserve al Comintern ― nella terra che aveva visto non solo la fiammata dell'Ottobre, ma l'epopea della guerra civile e di un interminabile ciclo di battaglie senza respiro, su tutti i fronti, contro tutti i nemici.

Non c'era, a Mosca o a Pietrogrado, il clima della vittoria conseguita e del suo meritato godimento, bensì quello di una guerra tuttora in corso, della quale l'"immensa Russia" era e si sentiva soltanto uno dei teatri, dissanguandosi non solo per sopravvivere ma perché i proletari di tutto il mondo potessero affermare la propria volontà di vita, e offrendo ad essi, nella coscienza di averlo a sua volta ricevuto per le vie non appariscenti e non bottegaie della storia della classe lavoratrice, lo stesso dono generoso di sacrifici sopportati a viso aperto in un comune assalto al cielo. Laggiù le parole avevano il peso di fatti materiali; il Lenin alla tribuna disadorna del Congresso aveva lo stesso significato e valore delle due guardie rosse che le fotografie dell'epoca riproducono ai lati del podio; le tesi e le risoluzioni avevano lo stesso timbro dei bollettini di guerra, e il canto dell'Internazionale suonava come la voce prorompente da un sottosuolo intriso di ben altro sangue, sudore e lacrime che nella retorica frusta dei "signori della guerra" borghesi. Forse nessuno meglio di Trotsky nel discorso finale (ed è materialisticamente logico che così sia stato: in lui parlava l'Armata rossa di leggendarie battaglie) ha reso palpabile per le generazioni venture il senso di quei giorni di confluenza ― nel ricevere e nell'offrire fuori da ogni spirito di contabilità a partita doppia, con lo slancio incomparabile di cui può solo dar prova la classe di coloro che non hanno nulla da perdere se non le proprie catene ― di militanti dei più diversi paesi.

Nel ricevere:

"Noi sappiamo quali sono stati i nostri sforzi e i nostri sacrifici, e di essi i delegati della classe operaia del mondo intero hanno ora avuto una conoscenza più diretta. Ma dobbiamo dire che, se abbiamo tenuto duro, è essenzialmente perché sentivamo e conoscevamo l'aiuto crescente che ci veniva dall'Europa, dall'America, da tutti i continenti. Ogni sciopero del proletariato scozzese nella regione del Clyde, ogni sussulto nelle città e nei villaggi d'Irlanda, dove non sventola soltanto la bandiera verde del nazionalismo irlandese, ma la rossa bandiera della lotta proletaria, ogni sciopero, ogni protesta, ogni insurrezione in una qualsiasi città d'Europa, d'America, d'Asia, il poderoso moto degli schiavi coloniali dell'Inghilterra, la diffusione crescente della parola d'ordine centrale ― "Federazione mondiale dei Soviet" ―, e questo che ci ha dato la certezza d'essere sulla via giusta, è questo che ci ha permesso, nelle ore più buie, quando eravamo accerchiati da tutte le parti, quando sembrava che ci si sarebbe strangolati, di risollevarci e dire: "Non siamo soli; con noi è il proletariato d'Europa e d'Asia e del mondo intero, noi non ci arrenderemo, noi resisteremo. E abbiamo resistito".

Nell'offrire:

"Nella nostra fucina moscovita abbiamo acceso con le vostre mani, compagni, un grande fuoco. In questo fuoco abbiamo temprato l'acciaio proletario, l'abbiamo lavorato col maglio della nostra rivoluzione proletaria sovietica, l'abbiamo indurito con l'esperienza della guerra civile, e abbiamo forgiato per il proletariato mondiale una splendida, ineguagliabile spada. Con questa spada ci armiamo, con essa armiamo gli altri. Diciamo agli operai di tutto il mondo: Nel fuoco di Mosca abbiamo battuto e ribattuto un'inflessibile spada: impugnatela, e immergetela nel cuore del capitale mondiale!".

In quella fiamma gli uomini si trasformavano: un Serrati cresciuto nell'atmosfera ovattata di un partito di parlamentari e di organizzatori sindacali poteva in apertura di congresso augurare come prossimo "il giorno in cui l'Armata Rossa proletaria non consisterà più soltanto di proletari russi ma di proletari del mondo intero, in cui tutti i lavoratori uniti dalla coscienza del nobile ideale del socialismo formeranno un unico, grande, invincibile esercito"; un Levi formatosi alla scuola di un cauto "possibilismo comunista" poteva indicare nella prova delle armi in Polonia il banco di prova della solidarietà internazionale fra proletari, il terreno sul quale la classe operaia tedesca e non soltanto tedesca avrebbe espiato l'onta di aver contribuito al tentativo di strangolare la rivoluzione in Ucraina e nel sud della Russia; uno Steinhardt venuto dalla tiepida culla viennese dell'"austro-marxismo" poteva chiamare gli operai dell'Europa benedetta dalla Società delle Nazioni, con il suo corteo di "eroi della II Internazionale", a battersi in difesa dell'Ungheria proletaria contro la quale si erano unite tutte le forze dell'ancien régime, "gli assassini di mestiere in veste di generali e i preti cristiani, i banchieri londinesi e l'aristocratica canaglia rumena, gli usurai francesi e i socialtraditori di tutto il pianeta, i mercenari neri e gli esponenti 'civilizzati' della cultura"; un Gallacher armatosi alla milizia rivoluzionaria nel geloso localismo degli shop stewards committees poteva levare un inno ai reparti centralizzati dell'esercito mondiale comunista; e farlo tutti con la stessa sincerità, con lo stesso ardore di un Marchlevsky o di un Raja induritisi al fuoco di lunghi anni di lotta clandestina e di terrore bianco in Polonia e Finlandia, e di un Roy o un Maring usi alle delizie della civiltà importata nell'Asia coloniale sulla bocca del cannone dalle più antiche potenze capitalistiche. Sorridano, gli "esponenti 'civilizzati' della cultura" borghese, di quello che oggi appare un sogno privo di sostanza; non sorridevano allora il quacchero Wilson, il protestante Churchill, il cattolico Poincaré, il massone Giolitti, il boia Noske, il macellaio Horty. Sorridano: allora, nelle cancellerie, ci si faceva ogni giorno il segno della croce!

Ed è vero che, richiamati al lavoro dalla voce calma e per eccellenza antiretorica di Lenin, le antiche perplessità, i decennali timori, le secolari forze d'inerzia, risorgevano negli stessi militanti; ma nella "fucina moscovita" non si lavorava solo per trasformare loro; si lavorava, in nome e sulla traccia dei morti, per i nascituri, con la stessa tenacia indomita con cui, piegate le forze politiche e militari della controrivoluzione, ci si accingeva ad affrontare le ancor più testarde forze economiche nel sottosuolo della Russia sovietica. Lo storico "obiettivo" può spigolare nelle pagine del gigantesco protocollo del II Congresso le finezze tattiche e le schermaglie polemiche di una contingenza fuggevole: non è lì il fuoco ― ed egli lo sa, perché vi si brucerebbe le dita. Tocca a noi trarre linfa vitale da ciò che il II Congresso ha dato ben al di là del 1920!

218 delegati di una ventina di partiti comunisti, di almeno altrettante frazioni (1) o correnti non ancora costituitesi in partito, di organizzazioni parasindacali o sindacali (2), rappresentanti privi di voto deliberativo di partiti di centro lacerati dal contrasto fra vertici opportunisti e basi oscuramente rivoluzionarie; e, torreggianti su tutti, protagonisti di ogni fase del dibattito, autori e presentatori di tutte le tesi e risoluzioni fondamentali, i ben più numerosi delegati del PCR: che scandalo, per la democrazia! Ebbene, sì, scandalo. Come, per la democrazia, è scandalo la dittatura esercitata in nome della classe dalla sua piccola minoranza cosciente; come è scandalo la stessa rivoluzione; com'era ed è scandalo un Ottobre rosso scoppiato, senza... conta dei voti, in anticipo sugli auspicati Ottobre di un Occidente immerso appunto nel sonno, anzi letargo, democratico ― quasi che le borghesie inglese e francese avessero mai chiesto alla Pizia dell'urna il responso al quesito se attendere che il resto dell'Europa le seguisse prima di compiere la loro rivoluzione industriale o politica e di dettare urbi et orbi gli eterni princìpi del lavoro salariato e dei diritti dell'uomo e del cittadino, ponendosi non per legittimità giuridica ma per forza materiale e determinazione storica all'avanguardia di un mondo ancora tuffato nelle "tenebre" del precapitalismo! E quasi che i rappresentanti di partiti e gruppi attratti dal polo di Mosca non vi fossero accorsi per sentirsi dettare come "primo compito la lotta contro la democrazia e lo smascheramento delle sue imposture" (3)! Quasi che, al loro arrivo, non avessero trovato nelle prime pagine dell'Estremismo, e, dalla prima all'ultima riga, in Terrorismo e comunismo, la denegazione delle stesse fondamenta di quell'ideologia democratica, parlamentare, anticentralistica, nella quale la classe dominante culla la classe dominata! Il resto era materia di controversia; le deduzioni tattiche potevano essere affinate e acuminate grazie al concorso dei militanti comunisti in lotta contro una democrazia mille volte più influente, agguerrita, capillarmente e centralmente dominante con tutte le armi della seduzione e dell'inganno; ma chi se non il partito che aveva completato il ciclo di un duro armamento ideologico prolungatosi per oltre tre lustri passando alla critica delle armi e sbaragliando il nemico, chi se non lo stupendo vivaio di teorici e polemisti, di agitatori e guerrieri, che era il partito di Lenin, poteva e doveva scolpire le fondamenta di principio sulle quali il comunismo mondiale sarebbe risorto in tutta la sua statura, o avrebbe gettato al mondo putrescente del capitalismo non il guanto di sfida, ma la spugna? E non solo scolpirli, ma affermarli fuori da ogni possibilità di discussione?

Non è soltanto nell'interesse di una maggiore organicità ed efficienza dei lavori del II Congresso, che la nostra Frazione aveva auspicato una ripartizione dei grandiosi temi nel senso di "procedere innanzi tutto a un dibattito generale sui princìpi programmatici del comunismo, fissandoli in una ben precisa enunciazione, e quindi, su tali basi, passare alla discussione dei vari problemi d'azione e di tattica che dal Congresso attendevano la loro soluzione" (4). Le questioni tattiche, se così fosse avvenuto, si sarebbero presentate in un ordine più naturale, meno vincolate a questioni locali, più libere da sovrapposizioni e interferenze reciproche, e avrebbero raggiunto un grado ben superiore di omogeneità; soprattutto, la loro approvazione non avrebbe concentrato su di sé quell'attenzione che prima e pregiudizialmente avrebbe dovuto essere riservata all'accettazione incondizionata dei princìpi e del programma. Giacché la discriminante era lì, ed era su quella pietra di paragone che doveva saggiarsi il diritto non solo di chiamarsi (che poco conta), ma d'essere comunisti. Se per noi doveva essere vincolante la tattica, a maggior ragione lo dovevano essere quei princìpi generali e quel programma, da cui essa non può che discendere: a quella barriera era necessario che fossero, fin dall'inizio, inchiodati i portavoce di partiti oscillanti, con un piede ben saldo in un passato democratico e un altro spinto timidamente in direzione del futuro rivoluzionario, internazionalisti nel linguaggio e nell'aspirazione ma ancora uniti da un solido cordone ombelicale all'orizzonte della nazione con tutto il suo armamentario di tradizioni e il suo paludamento di "cultura".

Così non fu né forse poteva essere allora; e la tragedia è che, passato il momento in cui un metodo diverso era o sembrava imposto dalla dura e pressante materialità dei fatti, non lo fu mai più. Ma solo i collitorti dell'intellighenzia al servizio degli sgherri della controrivoluzione possono raffigurare i quattordici giorni fitti di sedute intrecciate a riunioni di commissioni e sottocommissioni come una sola e squallida "tornata" parlamentare in cui si sarebbero cucinati, con dosi sempre più piccanti di molteplici spezie, gli ingegnosi hors-d'oeuvres e le civettuole entrées di una tattica slegata dai princìpi, di una manovra lasciata in balìa di contingenze temporali e locali, di espedienti ispirati al pragmatismo del caso per caso. Il II Congresso ha un solido filo conduttore che ne fa una tappa storica nel cammino della lotta di emancipazione del proletariato: un filo di teoria, di finalità, di princìpi, di programma, e solo in ultimo, mai però a parte, di tattica. Pochi sentirono che a quel filo bisognava allacciarsi, troppi si persero in considerazioni di dettaglio o si irretirono in quisquilie locali e temporali; come stupirsi che ancor meno lo sentano e più vi si perdano oggi?

Note

(1) Il delegato della nostra Frazione giunse a Pietrogrado alla vigilia dell'apertura del Congresso su invito dell'EKKI, come Polano per la Federazione giovanile.

(2) Armando Borghi, dell'USI, non poté arrivare a Mosca prima della chiusura del congresso.

(3) Primo comma delle Tesi sulla questione nazionale e coloniale.

(4) Cfr. Intorno al Congresso Internazionale Comunista, da Il Soviet del 3.X.1920, qui riprodotto a pag. 676.

5. Lungo il filo rosso: princìpi, compiti, prospettive

19 luglio: nel ricordo dei militanti comunisti caduti sotto il piombo nemico, o arrestati dalla sbirraglia all'ordine del capitale, Zinoviev inaugura il Congresso additando il pilastro dell'Internazionale nelle tesi redatte un anno prima da Lenin sul ruolo storico della "cosiddetta democrazia" e confermate dall'infuriare del terrore bianco in tutto il mondo, e riassume i compiti posti alla grande assise del comunismo (non a caso essa si riunisce nella sede del Soviet di Pietrogrado!):

"Come, per vincere la borghesia, i comunisti hanno bisogno nel loro paese, prima di tutto, di un partito forte, possente, centralizzato, un partito fuso in un solo pezzo, così è tempo di adoperarsi per creare una simile organizzazione su scala internazionale. Noi lottiamo contro la borghesia internazionale, contro un mondo di nemici armati fino ai denti, e dobbiamo possedere un'organizzazione proletaria internazionale di ferro, che sappia battere dovunque il nemico, che sappia garantire in ogni momento ad uno qualunque dei suoi distaccamenti l'aiuto più grande possibile, che possa affrontare il nemico contro il quale deve battersi, dotata di tutti i mezzi organizzativi di offesa e di difesa".

Prendendo la parola subito dopo, Lenin traccia un vasto quadro della situazione mondiale e dei contrasti imperialistici che, per ammissione degli ideologi ed economisti borghesi, in particolare di Keynes, la fine della guerra, lungi dall'aver attenuato, tende irresistibilmente ad inasprire, e che spingono le masse dei proletari delle metropoli imperialistiche e dei popoli oppressi delle colonie a scendere in lotta con le armi in pugno. In "queste radici economiche della crisi" è "la ragione fondamentale delle brillanti vittorie dell'Internazionale Comunista" (1). Si tratta di "dimostrare" non più soltanto in teoria che da una simile crisi non c'è via d'uscita per il capitalismo mondiale, ma, attraverso "la pratica dei partiti rivoluzionari, che questi partiti sono tanto coscienti, organizzati, collegati con le masse sfruttate, risoluti e agguerriti, da sfruttare la crisi ai fini di una rivoluzione vittoriosa". La preparazione delle avanguardie comuniste del proletariato al grande compito è appena agli inizi; è necessario indicarle il bersaglio diretto:

"É l'opportunismo il nostro principale nemico. L'opportunismo degli strati superiori della classe operaia non è socialismo proletario ma socialismo borghese. La pratica ha dimostrato che i militanti del movimento operaio appartenenti alla corrente opportunistica, difendono la borghesia meglio degli stessi borghesi. Se non fossero loro a dirigere gli operai, la borghesia non potrebbe sopravvivere. Lo attesta non solo la storia del regime Kerenski in Russia, ma anche quella della repubblica democratica di Germania, guidata da un governo socialdemocratico; lo dimostra l'atteggiamento di Albert Thomas verso il suo governo borghese; lo dimostra l'analoga esperienza degli Stati Uniti e dell'Inghilterra. Questo è il nostro nemico principale e su di esso dobbiamo riportare vittoria. Dobbiamo uscire dal presente congresso con la salda decisione di condurre fino in fondo questa lotta in tutti i partiti. Ecco il compito principale".

Rispetto ad esso, "la correzione degli errori della corrente 'di sinistra' in seno al comunismo" sarà relativamente facile, "mille volte più facile ― comunque ― della lotta contro quella borghesia che, attraverso il riformismo, opera nei vecchi partiti della II Internazionale e orienta tutta la loro azione in senso non proletario ma borghese"; ne sarà il coronamento "l'unione dei proletari rivoluzionari dei paesi capitalistici progrediti con le masse rivoluzionarie dove il proletariato non esiste o quasi, con le masse oppresse delle colonie, dei paesi orientali"; giacché l'imperialismo non potrà non cadere "quando l'assalto rivoluzionario degli operai sfruttati e oppressi di ogni paese, vincendo la resistenza degli elementi piccolo-borghesi e l'influenza di un esile strato di aristocrazia operaia, si unirà all'assalto rivoluzionario di centinaia di milioni di uomini finora rimasti fuori della storia".

In questa prospettiva,

"Possiamo dire con orgoglio che, se al primo congresso eravamo in sostanza solo dei propagandisti, che cominciavamo appena a lanciare al proletariato del mondo intero le idee fondamentali, il nostro appello alla lotta, e ci domandavamo: dove sono gli uomini capaci di percorrere questa strada?, oggi abbiamo dappertutto un proletariato d'avanguardia. Oggi abbiamo dappertutto un esercito proletario, pur se talvolta male organizzato e bisognoso di riorganizzazione. E, se i nostri compagni di tutti i paesi ci aiuteranno a organizzare un esercito unico, nessuna deficienza potrà impedirci di portare a termine la nostra opera. Quest'opera è la rivoluzione proletaria, la creazione della repubblica mondiale dei soviet",

Il filo rosso comincia imperiosamente a snodarsi. Il discorso di Lenin è stato breve e tagliente: le sue Tesi sui compiti fondamentali dell'Internazionale Comunista martellano nei paragrafi I e II i princìpi e il programma che costituiscono i presupposti di esistenza di un "unico esercito proletario" in marcia verso il suo obiettivo storico. Eccone uno stralcio a scorno dei filistei di ieri, di oggi e di domani (2):

I - L'essenza della dittatura del proletariato e del potere sovietico

2. La vittoria del socialismo (come prima fase del comunismo) sul capitalismo esige che il proletariato, in quanto unica classe effettivamente rivoluzionaria, assolva i tre compiti seguenti. Il primo consiste nel rovesciare gli sfruttatori, e anzitutto la borghesia, quale loro principale rappresentante economico e politico; nell'infliggere agli sfruttatori una sconfitta definitiva; nello schiacciare la loro resistenza; nel rendere impossibile qualsiasi loro tentativo di restaurare il giogo del capitale e la schiavitù salariata. Il secondo compito consiste nel conquistare e nel condurre al seguito dell'avanguardia rivoluzionaria del proletariato, del suo partito comunista, non soltanto tutto il proletariato, o la sua stragrande, schiacciante maggioranza, ma anche tutta la massa dei lavoratori e degli sfruttati dal capitale; nell'istruirli, organizzarli, educarli, disciplinarli nel corso stesso di una lotta audace, risoluta, implacabile e condotta con abnegazione contro gli sfruttatori; nello strappare questa schiacciante maggioranza della popolazione di tutti i paesi capitalistici alla sua soggezione nei confronti della borghesia e nell'ispirarle, attraverso l'esperienza pratica, fiducia nella funzione dirigente del proletariato e della sua avanguardia rivoluzionaria. Il terzo compito consiste nel neutralizzare o nel rendere inoffensive le inevitabili oscillazioni tra il proletariato e la borghesia, tra la democrazia borghese e il potere sovietico, da parte della classe dei piccoli proprietari rurali e dei piccoli industriali e commercianti, che, pur costituendo una minoranza della popolazione, sono ancora abbastanza numerosi in quasi tutti i paesi progrediti, e da parte dello strato degli intellettuali, degli impiegati, ecc., corrispondente a questa classe [...].

3. Nella situazione concreta, creata in tutto il mondo, e soprattutto nei paesi capitalistici più progrediti, più potenti, più colti e più liberi, dal militarismo, dall'imperialismo, dall'oppressione delle colonie e dei paesi deboli, dalla carneficina imperialistica mondiale, dalla "pace" di Versailles, qualsiasi concessione all'idea di una pacifica sottomissione dei capitalisti alla volontà della maggioranza degli sfruttati e di un passaggio pacifico, riformistico, al socialismo non è soltanto una manifestazione di estrema ottusità piccolo-borghese, ma è anche un vero e proprio inganno nei confronti degli operai, un abbellimento della schiavitù salariata capitalistica, un occultamento della verità. Questa verità è che, fin da ora, la borghesia più illuminata e democratica non arretra davanti a nessun inganno, a nessun delitto, non arretra dinanzi al massacro di milioni di operai e di contadini, per salvare la proprietà privata dei mezzi di produzione. Solo il rovesciamento violento della borghesia, la confisca delle sue proprietà, la completa distruzione del suo apparato statale, dal basso in alto, degli organi parlamentari, giudiziari, militari, burocratici, amministrativi, comunali, ecc., fino all'esilio e all'internamento degli sfruttatori più pericolosi e ostinati, la più severa sorveglianza sugli sfruttatori per combattere i loro inevitabili tentativi di resistere e restaurare la schiavitù capitalistica, solo questi provvedimenti possono assicurare l'effettiva subordinazione dell'intera classe degli sfruttatori.

D'altra parte, rappresenta un analogo abbellimento del capitalismo e della democrazia borghese e un inganno nei confronti degli operai l'idea, comunemente ammessa dai vecchi partiti e dai vecchi capi della II Internazionale, che nelle condizioni create dalla schiavitù capitalistica e sotto il giogo della borghesia (il quale riveste forme infinitamente varie e tanto più raffinate e al tempo stesso crudeli e implacabili quanto più è civile il paese capitalistico in questione) la maggioranza dei lavoratori e degli sfruttati possa acquisire una chiara coscienza socialista, dei convincimenti e un carattere saldamente socialisti. In realtà, solo quando l'avanguardia del proletariato, sostenuta da tutta la classe, che è l'unica classe rivoluzionaria, o dalla sua maggioranza, avrà rovesciato gli sfruttatori, spezzato la loro resistenza, liberato gli sfruttati dal loro stato di schiavitù, migliorato le loro condizioni di vita a spese dei capitalisti espropriati, solo allora e nel corso stesso di un'aspra lotta di classe sarà possibile istruire, educare, organizzare attorno al proletariato, sotto la sua influenza e direzione, le grandi masse dei lavoratori e degli sfruttati, vincere il loro egoismo, la loro dispersione, le loro debolezze, i loro difetti, generati dalla proprietà privata, e trasformare queste masse in una libera associazione di liberi lavoratori.

4. La vittoria sul capitalismo esige giusti rapporti tra il partito comunista dirigente, la classe rivoluzionaria, il proletariato, e la massa, cioè tutto il complesso dei lavoratori e degli sfruttati. Soltanto il partito comunista, se è realmente l'avanguardia della classe rivoluzionaria, se conta nelle sue file i migliori rappresentanti di questa classe, se è composto di comunisti pienamente coscienti e devoti, educati e temprati dall'esperienza di una tenace lotta rivoluzionaria, se ha saputo legarsi indissolubilmente a tutta la vita della sua classe e, attraverso di essa, a tutta la massa degli sfruttati, se ha saputo ispirare a questa classe e a questa massa una fiducia completa, soltanto questo partito è capace di guidare il proletariato nella lotta più risoluta e implacabile, nella lotta finale contro tutte le forze del capitalismo. D'altra parte, soltanto sotto la direzione di un tale partito il proletariato può dispiegare tutta la potenza del proprio impeto rivoluzionario, annientando l'inevitabile apatia e la parziale resistenza opposta dall'esigua minoranza dell'aristocrazia operaia corrotta dal capitalismo, dei vecchi dirigenti dei sindacati, delle cooperative, ecc., può sviluppare tutta la sua forza, che, in virtù della struttura economica della società capitalistica, è infinitamente più grande della sua entità numerica in rapporto alla popolazione. Infine, solo dopo essersi effettivamente liberata dall'oppressione della borghesia e dell'apparato statale borghese, solo dopo aver conquistato la possibilità effettiva di organizzarsi liberamente (dagli sfruttatori) nei suoi soviet, la massa, cioè l'insieme dei lavoratori e degli sfruttati, potrà spiegare, per la prima volta nella storia, tutta l'iniziativa e l'energia delle decine di milioni di uomini oppressi dal capitalismo. Solo quando i soviet saranno diventati l'unico apparato statale, sarà possibile realizzare la partecipazione effettiva di tutte le masse sfruttate alla gestione dello Stato, dalla quale, anche nella democrazia borghese più progredita e più libera, restano sempre escluse [...].

II - Che cosa si deve fare per prepararsi subito e dappertutto

5. L'attuale fase di sviluppo del movimento comunista internazionale è caratterizzata dal fatto che, nella stragrande maggioranza dei paesi capitalistici, la preparazione del proletariato alla realizzazione della sua dittatura non è portata a compimento e anzi, molto spesso, non è stata ancora intrapresa in modo sistematico. Da questo non deriva che la rivoluzione proletaria sia impossibile nell'immediato avvenire. La rivoluzione è pienamente possibile, perché la situazione economica e politica è eccezionalmente carica di sostanze infiammabili, e sono assai numerosi i motivi che possono accenderle d'improvviso. Esiste poi l'altra condizione per la rivoluzione, oltre alla preparazione del proletariato, cioè la crisi generale di tutti i partiti di governo e di tutti i partiti borghesi. Da quanto si è detto deriva che i partiti comunisti non hanno oggi il compito di accelerare la rivoluzione, ma di intensificare la preparazione del proletariato. D'altra parte, gli episodi indicati più sopra della storia di numerosi partiti socialisti ci costringono a vigilate perché la dittatura del proletariato non venga "riconosciuta" soltanto a parole.

Nel momento attuale, dal punto di vista del movimento proletario internazionale, il compito principale dei partiti comunisti consiste pertanto nel raggruppare tutte le forze comuniste disperse, nel costituire in ogni paese un partito comunista unico (o nel rafforzare e rinnovare i partiti già esistenti) al fine di decuplicare il lavoro di preparazione del proletariato alla conquista del potere statale e precisamente alla conquista del potere nella forma della dittatura del proletariato [...].

6. La conquista del potere politico non mette fine alla lotta di classe del proletariato contro la borghesia, anzi la rende particolarmente ampia, acuta e implacabile. Tutti i gruppi, partiti e militanti del movimento operaio che accettano in tutto o in parte le tesi del riformismo, del "centro", ecc. si schierano inevitabilmente, con l'estremo acuirsi della lotta, o dalla parte della borghesia o tra gli esitanti, o vanno a finire (il che è soprattutto pericoloso) tra gli amici malsicuri del proletariato vittorioso. Perciò la preparazione della dittatura del proletariato non esige soltanto l'intensificazione della lotta contro le tendenze riformistiche e "centristiche", ma anche una trasformazione del carattere di questa lotta. La lotta non può limitarsi a mettere in chiaro gli errori di queste tendenze, ma deve smascherare inflessibilmente, implacabilmente ogni militante del movimento operaio che manifesti tali tendenze, perché in caso contrario il proletariato non può sapere con quali uomini affronta la lotta decisiva contro la borghesia. Questa lotta è tale che ad ogni istante può sostituire ― e, come l'esperienza ha già dimostrato, sostituisce ― all'arma della critica la critica delle armi. Ogni incoerenza o debolezza nel denunciare coloro che si rivelano come riformisti o "centristi" rende subito più forte il rischio che il potere del proletariato venga rovesciato dalla borghesia, la quale domani utilizzerà per la controrivoluzione ciò che oggi sembra ai miopi soltanto un "dissenso teorico".

7. In particolare, non ci si può limitare alla consueta negazione di principio di ogni collaborazione del proletariato con la borghesia, di ogni "collaborazionismo". Ciò che in regime di proprietà privata dei mezzi di produzione è una semplice difesa della "libertà" e dell'"uguaglianza", in regime di dittatura del proletariato, che non potrà mai eliminare completamente d'un sol tratto la proprietà privata, si trasforma in una "collaborazione" con la borghesia che mina direttamente il potere della classe operaia. Dittatura del proletariato significa infatti consolidamento e difesa, ad opera di tutto l'apparato del potere statale, della "non libertà" per gli sfruttatori di perpetuare la loro oppressione e il loro sfruttamento, della "non uguaglianza" tra il proprietario (cioè tra colui che si impadronisce personalmente di determinati mezzi di produzione creati dal lavoro sociale) e il nullatenente. Ciò che fino alla vittoria del proletariato sembra soltanto un dissenso teorico sulla "democrazia" diventerà inevitabilmente, domani, dopo la vittoria, una questione che si risolverà con la forza delle armi. Pertanto, senza una trasformazione radicale di tutto il carattere della lotta contro i "centristi" e contro i "difensori della democrazia" è impossibile anche la preventiva preparazione delle masse alla realizzazione della dittatura del proletariato.

8. La dittatura del proletariato è la forma più energica e rivoluzionaria della lotta di classe del proletariato contro la borghesia. Questa lotta può risultare vittoriosa solo quando l'avanguardia più rivoluzionaria guida la stragrande maggioranza del proletariato. La preparazione della dittatura del proletariato esige quindi non soltanto la denuncia del carattere borghese di ogni riformismo e di ogni difesa della democrazia in regime di conservazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, non soltanto lo smascheramento di simili tendenze, che significano in pratica una difesa della borghesia nelle file del movimento operaio, ma anche la sostituzione dei vecchi capi con comunisti in tutte le organizzazioni proletarie senza eccezioni, non solo nelle organizzazioni politiche, ma anche in quelle sindacali, cooperative, educative, ecc. Quanto più lungo, completo e solido è stato in un paese determinato il dominio della democrazia borghese, tanto più la borghesia è riuscita a collocare nei posti di direzione dei capi e dei militanti che essa ha educato, imbevuto di idee e pregiudizi borghesi e molto spesso comprato direttamente o indirettamente. É necessario eliminare con audacia centuplicata i rappresentanti dell'aristocrazia operaia o degli operai imborghesiti da tutti i posti che occupano, sostituendoli con operai anche più inesperti, purché siano legati alla massa degli sfruttati e godano della sua fiducia nella lotta contro gli sfruttatori. La dittatura del proletariato imporrà la designazione di questi operai inesperti alle funzioni governative di maggiore responsabilità, altrimenti il potere del governo operaio sarà debole e non sarà appoggiato dalle masse [...].

Da questi princìpi generali si deducono i compiti pratici che verranno poi ulteriormente specificati nelle "Condizioni di ammissione" e in altre "Tesi" specifiche: azione rivoluzionaria in parlamento, azione rivoluzionaria nei sindacati, appoggio ai moti rivoluzionari nelle colonie, propaganda rivoluzionaria nell'esercito, combinazione del lavoro legale ed illegale, potenziamento della stampa rivoluzionaria ecc.

Era, doveva essere, il minimo comun denominatore del movimento comunista. Il seguito del congresso, e i suoi postumi, mostrarono quali resistenze (e come tenaci!) si opponessero in tutti i paesi alla sua integrale, incondizionata accettazione. Un minimo esso era, senza riserve, per noi cosiddetti "astensionisti", non solo come base programmatica generale ma come sua applicazione pratica: che peso avevano, al confronto, le divergenze in materia di astensione o partecipazione elettorale? Molti di coloro che votarono quelle Tesi si astennero dal voto sul loro coronamento logico, già chiaro nel paragrafo III e reso ancor più esplicito nelle Condizioni di ammissione: chi era con Lenin e chi contro? La piena concordanza sui princìpi e sul programma ― dimostrata da tutti i capitoli che precedono ― poteva imporre a noi di piegarci alla disciplina internazionale anche sui punti della tattica che non ci sembravano organicamente collegati ad essi; il massimalismo in tutte le sue sfumature doveva respingere insieme i princìpi e il programma, in quanto escludevano ogni attenuazione dei limiti, pur generosamente "allargati", oltre i quali è vietato alla tattica di spingersi! Il massimalismo preferì il salvataggio di coloro che "talora cedendo inconsapevolmente ai desideri e alla pressione delle masse, talora ingannando consapevolmente le masse per conservare la loro vecchia funzione di agenti e ausiliari della borghesia in seno al movimento operaio, danno la loro adesione condizionata, o addirittura incondizionata, alla III Internazionale, mentre in realtà, in tutta la pratica del loro lavoro politico e di partito, rimangono al livello della II Internazionale" perpetuando uno stato di cose che le Tesi definiscono "assolutamente inammissibile, perché immette fra le masse un elemento di corruzione, compromette il prestigio della III Internazionale e fa correre il rischio di nuovi tradimenti simili a quelli dei socialdemocratici ungheresi, che si erano precipitosamente ribattezzati comunisti"; ne volle il salvataggio a costo di respingere l'abe del comunismo riassunto nelle Tesi di Lenin. Potevano bastare per fargli cambiar parere le invettive dell'EKKI nella pausa concessa alla meditazione fra il 19 e il 23 luglio 1920, da Pietrogrado a Mosca, se non basteranno né il semestre né gli anni seguenti? Un anno dopo, quando l'Internazionale Comunista rinnovò il vano tentativo di recuperare almeno un'ala di peccatori sedicentemente pentiti del Partito socialista italiano, la Sinistra scrisse:

"Ogni meccanismo ha una sua legge funzionale che non ammette violazioni. Una tesi somigliante a quella che dimostra l'impossibilità di prendere l'apparato dello Stato borghese e volgerlo ai fini della classe proletaria e della costruzione socialista, prova, tra le conferme molteplici della realtà, che la struttura dei partiti socialdemocratici dell'anteguerra, con le sue funzionalità parlamentaristiche e sindacali, non può trasformarsi in struttura del partito rivoluzionario di classe, organo della conquista della dittatura" (3).

Note

(1) Opere, XXXI, pagg. 205-223.

(2) Del paragrafo III si parlerà più innanzi. I corsivi qui sono nostri. Da Lenin, Opere, XXXI, pagg. 179-185.

(3) Mosca e la questione italiana, in Rassegna comunista, anno 1/5, 30 giugno 1921, pag. 214.

6. Lungo il filo rosso: Partito e Internazionale

Quando, il 23 luglio, il congresso riprese le sedute a Mosca, un altro caposaldo della dottrina comunista venne posto di fronte ai delegati perché non essi soltanto, né il proletariato che essi rappresentavano, ma i militanti comunisti di tutto il mondo ne facessero tesoro: la natura e il compito del partito nella preparazione dell'assalto rivoluzionario, nella conquista del potere, nel suo dittatoriale esercizio.

La questione era scottante non solo perché l'Internazionale aveva convocato a Mosca gli esponenti di organizzazioni operaie e perfino di partiti che notoriamente sottovalutavano o addirittura negavano il ruolo dirigente, se non determinante, dell'organo politico nella rivoluzione proletaria, negando per ciò stesso, a meno di svuotarla di ogni contenuto, la dittatura di classe; ma anche ― e non meno ― perché, come risulta dalle pagine precedenti, si aveva ragione di credere che il concetto non fosse affatto chiaro nemmeno in coloro che, per essersi dichiarati comunisti aderendo al Comintern, non avrebbero dovuto avere né esitazioni né riserve nel sentirlo vigorosamente ribadito.

Poiché le tesi redatte da Zinoviev vennero approvate con varianti secondarie, le riproduciamo nella loro versione definitiva facendole seguire via via da un breve commento per sottolineare come, punto per punto, esse svolgano i temi di principio sui quali ogni pagina di ogni numero de Il Soviet aveva, fin dall'inizio delle pubblicazioni nel dicembre 1918, instancabilmente martellato:

Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria

Il proletariato mondiale è alla vigilia di lotte decisive. L'epoca nella quale viviamo è un'epoca di dirette guerre civili. L'ora decisiva si avvicina. In quasi tutti i paesi in cui esiste un importante movimento operaio, una serie di aspre lotte armate attende la classe operaia. Essa ha più che mai bisogno di una rigida e severa organizzazione. La classe operaia deve instancabilmente prepararsi a queste lotte senza perdere un'ora sola del tempo prezioso.

Se durante la Comune di Parigi (1871), la classe operaia avesse avuto un Partito comunista rigidamente organizzato, anche se piccolo, la prima eroica insurrezione del proletariato francese sarebbe stata molto più forte, e si sarebbero potuti evitare mille errori e debolezze. Le battaglie che attendono ora il proletariato, in una diversa situazione storica, saranno molto più gravide di conseguenze avvenire di quelle del 1871.

Il II Congresso mondiale dell'Internazionale Comunista richiama perciò t'attenzione degli operai rivoluzionari del mondo intero su quanto segue:

1) Il Partito comunista è una parte della classe operaia, e precisamente la sua parte più avanzata, dotata di maggior coscienza di classe e quindi più rivoluzionaria. Esso si forma attraverso la selezione spontanea dei lavoratori migliori, più coscienti, con maggior spirito di abnegazione, più perspicaci. Il Partito comunista non ha interessi divergenti da quelli dell'intera classe operaia. Esso si distingue dalla massa complessiva dei lavoratori per il fatto di possedere una visione generale dell'intero cammino storico della classe operaia e di sforzarsi di difendere, in tutti gli svolti di questo cammino, gli interessi non di singoli gruppi o categorie, ma della classe operaia nel suo insieme. Il Partito comunista è la leva organizzativo-politica, mediante la quale la parte più avanzata della classe operaia dirige sulla giusta via le masse proletarie e semi-proletarie.

2) Finché il potere statale non sarà conquistato dal proletariato e questo non avrà per sempre consolidato il suo dominio salvaguardandolo da una restaurazione borghese, il Partito comunista non comprenderà nelle sue file organizzate che una minoranza degli operai. Fino alla conquista del potere e nel periodo di transizione, il Partito comunista può, in circostanze favorevoli, esercitare una influenza morale e politica incontrastata su tutti gli strati proletari e semi-proletari della popolazione, ma non può riunirli organizzativamente nelle proprie file. Solo dopo che la dittatura proletaria avrà strappato dalle mani della borghesia potenti mezzi di influenza come la stampa, la scuola, il parlamento, la chiesa, l'apparato amministrativo ecc., solo dopo che il definitivo crollo del regime borghese sarà apparso chiaro a tutti; solo allora la totalità o la quasi totalità degli operai comincerà ad entrare nelle file del Partito comunista.

3) Le nozioni di partito e classe devono essere tenute distinte col massimo rigore. I membri dei sindacati "cristiani" e liberali di Germania, Inghilterra ed altri paesi, appartengono indubbiamente alla classe operaia. I circoli operai più o meno considerevoli che ancora seguono Scheidemann, Gompers e consorti, fanno indubbiamente parte della classe operaia. In date circostanze storiche, è anzi possibilissimo che in seno alla classe operaia sussistano numerosi gruppi e strati reazionari. Il compito del comunismo non sta nell'adattarsi a questi elementi arretrati della classe operaia, ma nell'elevare l'intera classe al livello della sua avanguardia comunista. Lo scambio fra questi due concetti ― partito e classe ― può indurre ai più gravi errori e alla peggiore confusione. Per esempio, è chiaro che malgrado gli umori e i pregiudizi di una parte della classe operaia durante la guerra imperialistica, il partito operaio aveva il dovere di reagire ad ogni costo a questi umori e pregiudizi difendendo gli interessi storici del proletariato che imponevano al partito proletario di dichiarare guerra alla guerra.

Parimenti, all'inizio della guerra imperialistica nel 1914, i partiti dei socialtraditori di tutti i paesi, nel sostenere la borghesia del "proprio" paese, si sono sempre e coerentemente appellati alla volontà, orientata nello stesso senso, della classe operaia, dimenticando che, se anche così fosse stato, compito del partito proletario in tale situazione avrebbe dovuto essere di opporsi agli umori della maggioranza degli operai e difendere malgrado tutto gli interessi storici del proletariato. Così pure alla fine del XIX secolo, i menscevichi russi di allora (i cosiddetti economisti) respingevano la lotta politica aperta contro lo zarismo con l'argomento che la classe operaia nel suo insieme non era ancora matura per comprendere la lotta politica. Allo stesso modo, gli indipendenti di destra in Germania hanno sempre giustificato le loro debolezze ed esitazioni col pretesto che "così vogliono le masse" senza comprendere che il partito esiste appunto per precedere le masse e indicare loro la via.

Nella loro possente chiarezza e vigoria, già questi primi accapi segnano una pietra miliare nella battaglia sostenuta dal comunismo, senza esclusione di colpi e sull'arco di lunghi decenni, contro ogni mistificazione democratica e per l'esplicita proclamazione dei caratteri autoritari e centralistici, quindi anti-autonomistici e antipopolareschi, della dittatura proletaria, e perciò, innanzitutto, del suo organo-guida, il partito. Intesi a delimitare senza possibilità di equivoci la posizione dei comunisti marxisti sia da quella dei revisionisti di destra (riformisti, socialdemocratici, laburisti), sia da quella dei revisionisti di sinistra (sindacalisti-rivoluzionari, anarchici), e collimanti punto per punto con quelle della nostra Frazione (1), essi rimangono storicamente fondamentali, tanto più oggi che ovunque dilaga il peggiore opportunismo piccolo-borghese.

É vero che le nostre Tesi, in quanto definiscono il Partito come "organo" della classe, ne precisano la natura e la funzione ― ma sulla traccia della stessa concezione di fondo ― meglio di quanto non risulti dalla formula zinovieviana del partito come parte della classe, evitando così il malinteso (e, come si vedrà in anni più tardi, il pericolo) da un lato di cercare l'essenza rivoluzionaria del partito nella sua composizione sociologica e quindi di mettere sullo stesso piano gli operai militanti nelle sue file e quelli estranei ad esse attribuendo loro egual peso, dall'altro (ma è la faccia opposta della stessa medaglia) di attenuare la distinzione qualitativa tra il partito in quanto depositano di una dottrina e di un programma abbraccianti le finalità ultime e l'intero percorso storico dell'emancipazione proletaria, e la classe nella sua immediatezza statistica e statica. Non era questo il pensiero né dell'estensore delle tesi né in generale dei bolscevichi, come si vede in tutti gli accapi del testo, ma la falsa "bolscevizzazione" di anni venturi, con la sua pretesa di assicurare e mantenere al partito un volto rivoluzionario e marxista poggiandone le basi su cellule di fabbrica e nuclei di soli salariati puri, mostrerà come sia facile cedere alla tentazione di sostituire alla potente visione organica e sintetica del partito una sua interpretazione slavata e tendenzialmente "laburista" giustificandola con la "lettera" di questa o quella frase del testo 1920; interpretazione foriera di un completo snaturamento del concetto proprio del marxismo, giacché l'affermazione che il partito incarna l'avanguardia della classe non lo pone soltanto, rispetto a questa, in una collocazione spaziale più avanzata, ma gli attribuisce una funzione di guida, ben espressa nelle nostre Tesi per cui la classe è in verità classe solo a condizione di esprimere dal proprio seno il partito politico, che ne sintetizza le spinte elementari coordinandole nella direzione di finalità delle quali i suoi componenti o strati singoli non possono avere coscienza.

Il concetto, d'altronde, è svolto con sufficiente chiarezza nella Tesi II, là dove si afferma che il partito può organizzare nelle proprie file solo una minoranza della classe (nonché, osserva non a caso il Manifesto del '48, transfughi di altre classi): perché tutti gli operai aderiscano al partito abbracciandone i postulati programmatici, occorre che la rivoluzione vittoriosa li abbia sollevati dal peso abbrutente del bisogno e abbia distrutto fino all'ultima le cancrene borghesi della stampa, della scuola, del parlamento, della chiesa, dell'amministrazione statale, in un processo non breve né esente da ritorni indietro e ricadute in prevedibili "vandee" proletarie.

Non diversamente la Tesi III, respingendo ogni confusione dei concetti di partito e classe, demolisce l'idea condivisa in pari grado da menscevichi, riformisti, operaisti, spontaneisti ecc., che il partito debba adagiarsi sulla tendenza di volta in volta prevalente tra i lavoratori, e gli assegna vigorosamente il compito di difendere in ogni circostanza e contro tutti ― anche contro strati operai di retroguardia o comunque soggetti ad influenze estranee e distruttive (come, in date situazioni, può accadere alla quasi totalità della "classe statistica") ― gli interessi generali e permanenti, non locali o momentanei, del proletariato: il partito rappresenta la classe ― diremmo più incisivamente noi ― quali che siano le vicissitudini alterne del conflitto sociale (2).

4) L'Internazionale Comunista ha la ferma convinzione che il fallimento dei vecchi partiti "socialdemocratici" della II Internazionale non può in alcun caso essere rappresentato come un fallimento del partito proletario in generale. L'epoca della lotta diretta per la dittatura proletaria dà alla luce un nuovo partito del proletariato il partito comunista.

5) L'Internazionale Comunista respinge nel modo più categorico l'idea che il proletariato possa compiere la sua rivoluzione senza avere un partito politico autonomo. Ogni lotta di classe è una lotta politica. L'obiettivo di questa lotta, che si trasforma inevitabilmente in una guerra civile, è la conquista del potere politico. Ma il potere politico non può essere afferrato, organizzato e diretto se non da un partito politico. Solo se il proletariato ha alla sua testa un partito organizzato e temprato, con finalità nettamente definite e un programma ben preciso sui più immediati provvedimenti nel campo sia della politica interna che della politica estera, solo allora la conquista del potere politico non sarà un episodio fortuito e temporaneo, ma servirà da punto di partenza per un'opera duratura di edificazione comunista della società da parte del proletariato.

La stessa lotta di classe esige parimenti l'affasciamento centrale e la direzione unitaria delle varie forme del movimento proletario (sindacati, cooperative, consigli di fabbrica, attività educative, elezioni, ecc.). Un simile centro unificatore e dirigente può essere solo un partito politico. La rinunzia a creare e rafforzare un simile partito, e a subordinarvisi, equivale alla rinunzia all'unitarietà nella direzione dei singoli distaccamenti del proletariato che avanzano sui diversi campi di battaglia. La lotta di classe del proletariato esige un'agitazione concentrata che illumini le diverse tappe della lotta da un punto di vista unitario e diriga l'attenzione dei proletari, in ogni momento, su determinati compiti comuni alla intera classe; cosa che non può realizzarsi senza un apparato politico centralizzato, cioè all'infuori di un partito politico.

La propaganda dei sindacalisti rivoluzionari e degli aderenti agli "Industrial Workers of the World" (IWW) contro la necessità di un partito operaio autonomo, non ha perciò servito e non serve che di appoggio alla borghesia e ai "socialdemocratici" controrivoluzionari. Nella loro propaganda contro il Partito comunista, che essi pretendono di sostituite esclusivamente con sindacati o con informi unioni operaie "generali", i sindacalisti e gli industrialisti si avvicinano, fino a fiancheggiarli, agli opportunisti dichiarati.

Dopo la sconfitta della rivoluzione 1905, i menscevichi russi hanno predicato per alcuni anni l'idea del cosiddetto congresso operaio, che avrebbe dovuto sostituire il partito rivoluzionario della classe lavoratrice. Gli "operaisti [o laburisti] gialli" di ogni specie in Inghilterra e America predicano agli operai la creazione di informi unioni operaie o di vaghe associazioni meramente parlamentari in luogo del partito politico, nell'atto stesso in cui svolgono una politica in tutto e per tutto borghese. I sindacalisti rivoluzionari e gli industrialisti vogliono combattere contro la dittatura della borghesia, ma non sanno come. Non vedono che la classe operaia senza partito politico autonomo è un tronco senza testa.

Il sindacalismo rivoluzionario e l'industrialismo rappresentano un passo avanti solo in confronto alla vecchia, bolsa, controrivoluzionaria ideologia della II Internazionale, ma in confronto al marxismo rivoluzionario, cioè al comunismo, significano un passo indietro. La dichiarazione del Partito comunista operaio di Germania (KAPD) cosiddetto di sinistra, al suo congresso costitutivo dello scorso aprile, di creare bensì un partito, ma "non un partito nel senso tradizionale del termine", significa una capitolazione intellettuale e morale di fronte alle concezioni reazionarie del sindacalismo e dell'industrialismo.

Con il solo sciopero generale, con la sola tattica delle braccia incrociate, la classe operaia non può ottenere vittoria sulla borghesia. Il proletariato deve ricorrere all'insurrezione armata. Chi ha compreso ciò, deve anche capire che a tal fine occorre un partito politico organizzato e non bastano informi unioni operaie.

I sindacalisti rivoluzionari parlano spesso del grande ruolo di una minoranza rivoluzionaria decisa. Ora, una minoranza veramente decisa della classe operaia, una minoranza che sia comunista, che voglia agire, che abbia un programma, che si proponga di organizzare la lotta delle masse, è appunto il Partito comunista.

6) Il compito più importante di un partito veramente comunista è di rimanere sempre in strettissimo contatto con le più larghe masse proletarie. Per raggiungere questo scopo, i comunisti possono e debbono lavorare anche in associazioni non di partito, ma abbraccianti vasti strati di proletari, come per esempio le organizzazioni di invalidi di guerra in diversi paesi, i comitati "Giù le mani dalla Russia" in Inghilterra, le leghe proletarie di inquilini, ecc. Particolarmente importante è l'esempio russo delle cosiddette conferenze di operai e contadini "senza partito". Tali conferenze vengono organizzate in quasi ogni città, in ogni quartiere operaio e anche nelle campagne. Alle loro elezioni partecipano le più vaste masse anche dei lavoratori arretrati, e nel loro seno si discutono le questioni più scottanti: dell'approvvigionamento, della casa, della organizzazione militare, della scuola, dei compiti politici del giorno, ecc. I comunisti cercano in tutti i modi di influire su queste conferenze "apartitiche" e con enorme vantaggio per il partito.

I comunisti considerano come uno dei loro compiti fondamentali il lavoro organizzativo-educativo sistematico in seno a queste organizzazioni operaie a largo raggio. Ma, per impostare con successo un simile lavoro, per impedire ai nemici del proletariato rivoluzionario di impadronirsi di tali organizzazioni operaie di massa, gli operai comunisti di avanguardia debbono possedere il loro Partito comunista autonomo, un partito compatto che agisca sempre in modo organizzato e che, ad ogni svolto della situazione e qualunque forma assuma il movimento, sia in grado di discernere gli interessi generali del comunismo.

7) I comunisti non rifuggono da organizzazioni operaie di massa non partitiche e, in date circostanze, non temono di parteciparvi e di utilizzarle ai loro scopi neppure se rivestono un carattere apertamente reazionario (sindacati gialli, sindacati cristiani, ecc.). Il Partito comunista svolge incessantemente il suo lavoro in seno a queste organizzazioni e non si stanca di convincere gli operai che l'idea della apartiticità come principio è coltivata di proposito nelle loro file dalla borghesia e dai suoi lacchè, al fine di distrarre i proletari dalla lotta organizzata per il socialismo.

8) La vecchia e "classica" ripartizione del movimento operaio in tre forme partito, sindacati, cooperative è chiaramente superata. La rivoluzione proletaria in Russia ha creato la forma storica fondamentale della dittatura proletaria, i soviet o consigli operai. La nuova ripartizione verso la quale ci avviamo dovunque, è: 1) il partito, 2) i soviet, 3) i sindacati. Ma anche i soviet, come pure i sindacati rivoluzionari, devono essere costantemente e sistematicamente diretti dal partito del proletariato, cioè dal Partito comunista. L'avanguardia organizzata della classe operaia, il Partito comunista, deve dirigere le lotte dell'intera classe tanto sul terreno economico quanto sul terreno politico ed anche culturale; deve essere l'anima sia dei sindacati che dei soviet, come di tutte le altre forme di organizzazione proletaria.

La nascita dei Soviet come forma storica fondamentale della dittatura del proletariato non sminuisce in alcun modo il ruolo dirigente del Partito comunista nella rivoluzione proletaria. Quando i comunisti tedeschi "di sinistra" (si veda il loro manifesto al proletariato tedesco del 14 aprile 1920, firmato "Partito operaio comunista di Germania") dichiarano che "anche il partito si adatta sempre più all'idea dei consigli e assume un carattere proletario" (Kommunistische Arbeiterzeitung, nr. 54), essi esprimono confusamente l'idea che il Partito comunista debba dissolversi nei soviet; che i soviet possano sostituire il Partito comunista.

Quest'idea è radicalmente falsa e reazionaria.

Nella storia della rivoluzione russa, abbiamo attraversato un'intera fase in cui i soviet marciavano contro il partito proletario e appoggiavano la politica degli agenti della borghesia. La stessa cosa si è potuta osservare in Germania. La stessa cosa è possibile anche in altri paesi.

Perché i soviet possano assolvere i loro compiti storici, è invece necessaria l'esistenza di un forte partito comunista che non si "adatti" semplicemente ai soviet, ma sia in grado di spingerli a ripudiare ogni "adattamento" alla borghesia e alla guardia bianca socialdemocratica e, attraverso le frazioni comuniste nei soviet, possa prendere i soviet stessi a rimorchio del Partito comunista.

Chi propone al Partito comunista di "adattarsi" ai Soviet, chi vede in tale adattamento un rafforzamento del "carattere proletario del partito", costui rende sia al partito che ai soviet un servizio quanto mai discutibile; costui non capisce il significato né del partito né dei soviet. L'"idea sovietica" vincerà tanto più rapidamente, quanto più forte sarà il partito da noi creato in ogni paese. Anche molti "indipendenti" e perfino socialisti di destra riconoscono oggi a parole la "idea sovietica". Noi potremo impedire a questi elementi di deformare l'idea del soviet alla sola condizione di possedere un forte partito comunista, che sia in grado di influire in modo determinante sulla politica dei soviet, di trascinare i soviet dietro di sé.

9) La classe operaia ha bisogno del Partito comunista non solo fino alla conquista del potere, non solo durante tale conquista, ma anche dopo il passaggio del potere nelle mani della classe operaia. La storia del Partito comunista di Russia, che da quasi tre anni è al potere, mostra che l'importanza del partito comunista dopo la presa del potere da parte della classe operaia non solo non diminuisce, ma al contrario aumenta enormemente.

10) All'atto della presa del potere da parte del proletariato, il suo partito resta tuttavia, come prima, soltanto una parte della classe operaia. Ma è appunto quella parte della classe operaia che ha organizzato la vittoria: da due decenni come in Russia, da tutta una serie di anni come in Germania, il Partito comunista conduce la sua lotta non solo contro la borghesia, ma anche contro quei "socialisti" che sono gli agenti dell'influenza borghese sul proletariato; esso ha accolto nelle sue file i combattenti più tenaci, più lungimiranti, più evoluti della classe operaia. Solo grazie alla presenza di una così compatta organizzazione della élite della classe operaia, è possibile superare tutte le difficoltà che la dittatura proletaria trova sulla propria strada all'indomani della vittoria. Nell'organizzazione di una nuova armata rossa proletaria, nell'effettiva distruzione dell'apparato statale borghese e nella sua sostituzione con i primi germi di un nuovo apparato statale proletario, nella lotta contro il "patriottismo" locale e regionale, nell'apertura di vie verso la creazione di una nuova disciplina del lavoro in tutti questi campi la parola decisiva spetta al Partito comunista. I suoi membri devono spronare e dirigere con il loro esempio la maggioranza della classe lavoratrice.

11) La necessità di un partito politico del proletariato cessa solo con l'eliminazione completa delle classi. Sul cammino verso la definitiva vittoria del comunismo, è possibile che l'importanza storica delle tre forme fondamentali dell'odierna organizzazione proletaria (partito, soviet, sindacati) si modifichi, e che a poco a poco si venga creando un tipo unitario di organizzazione operaia. Ma il Partito comunista si risolverà completamente nella classe operaia solo quando il comunismo cesserà di essere un obiettivo della lotta e l'intera classe lavoratrice sarà diventata comunista.

Sono qui condannati, come già nelle nostre Tesi, l'errore di stampo anarcoide di identificare il fallimento della II Internazionale con una bancarotta della forma-partito, e quello, comune a kaapedisti, consiglisti e ordinovisti, di pretendere di sostituire quest'ultima con organi immediati, strettamente aderenti al tessuto produttivo e rispecchianti le divisioni per azienda, località e mestiere proprie della società capitalistica; che è un altro modo di ribadire la natura sintetica e il compito centralizzatore del partito, strumento e guida non solo della preparazione rivoluzionaria, ma di quella insurrezione armata alla quale è vano e controrivoluzionario contrapporre come atto risolutivo dello scontro fra le classi lo sciopero generale o, come nella versione insieme sindacalista e massimalista, il cosiddetto "sciopero espropriatore". É per contro riaffermato come compito permanente del partito quello di svolgere un intenso e sistematico lavoro di propaganda e agitazione in seno ad organismi a base più larga come i sindacati e altre forme anche contingenti quali gli allora esistenti comitati per la difesa della Russia, non propugnando (salvo in date condizioni che le Tesi sulla questione sindacale preciseranno) il boicottaggio e la diserzione delle organizzazioni dirette da riformisti, che si tratta invece di conquistare alla direzione comunista; lavoro ovviamente controllato in modo diretto dal partito ed espletato dai suoi gruppi sindacali, mai subordinando la propria organizzazione a organizzazioni estranee.

Ciò vale, del resto, anche per i soviet, che ― come le Tesi ribadiscono a complemento di quelle già da noi riprodotte sulle condizioni di costituzione dei Consigli operai ― rappresentano senza dubbio una nuova forma storica per lo Stato di transizione dal capitalismo al socialismo, ma non scavalcano il partito né lo surrogano nei suoi compiti direttivi e, in sua assenza, sono accessibili non solo all'influsso ma al dominio di partiti e correnti borghesi e piccolo-borghesi, cosicché non è esclusa la possibilità (divenuta un fatto reale nell'Ottobre rosso) che il partito tenda al potere e lo conquisti contro le loro resistenze o titubanze. Poiché comunque i soviet, diversamente dai sindacati, sono organi politici e non soltanto economici, l'antica ripartizione in partito, sindacati e cooperative dev'essere sostituita con la piramide: partito, soviet, sindacati, in ordine di discendenza gerarchica.

Per l'Internazionale, come da sempre per noi, la funzione centrale del partito non cessa infatti con la conquista del potere, anzi è resa più che mai indispensabile da tutto il ciclo ad essa successivo di guerra civile e terrore rosso contro la classe sconfitta e i suoi conati di rivincita all'interno o dall'esterno, e dalla necessità di reagire alle tendenze corporative, centrifughe e autonomistiche che sempre minacciano di spezzare l'unità proletaria, e al patriottismo regionale e locale che insidia la compattezza della dittatura di classe. Il partito in realtà non può sparire, come organo politico, prima che il comunismo abbia cessato d'essere un fine, e il proletariato, grazie al complesso sviluppo della nuova società, abbia abolito, insieme alle altre classi, anche e soprattutto se stesso.

12) Il II Congresso dell'Internazionale comunista non si limita a confermare i compiti storici del Partito comunista in generale, ma dice al proletariato internazionale, sia pure nelle grandi linee, di quale partito comunista abbia bisogno.

13) L'Internazionale comunista è dell'avviso che soprattutto nel periodo della dittatura del proletariato il Partito comunista debba essere costruito sulla base di un ferreo centralismo proletario. Per dirigere con successo la classe operaia nella lunga ed aspra guerra civile necessariamente scoppiata, il Partito comunista deve instaurare nelle proprie file una disciplina di ferro, una disciplina militare. Le esperienze del Partito comunista che per anni ed anni, nella guerra civile russa, ha diretto la classe operaia, hanno mostrato che senza la più severa disciplina, senza un completo centralismo e senza la piena e cameratesca fiducia di tutte le organizzazioni di partito negli organi dirigenti del partito stesso, la vittoria degli operai è impossibile.

14) Il Partito comunista deve essere costruito sulla base del centralismo democratico. Il principio fondamentale del centralismo democratico è l'eleggibilità degli organi superiori da parte degli inferiori, il carattere incondizionatamente vincolante di tutte le direttive delle istanze superiori per le inferiori, e la presenza di un forte centro del partito la cui autorità sia riconosciuta universalmente, per tutti i compagni dirigenti, nell'intervallo fra un congresso del partito e l'altro.

15) Tutta una serie di partiti comunisti in Europa e in America è stata costretta dallo stato d'assedio proclamato dalla borghesia contro i comunisti a condurre un'esistenza illegale. Bisogna aver ben chiaro che, in tali circostanze, ci si trova nella necessità di prescindere dalla rigorosa attuazione del principio elettivo e di conferire agli organi direttivi del partito un diritto di cooptazione, come è avvenuto a suo tempo in Russia. Sotto lo stato d'assedio, il partito comunista non può servirsi in ogni grave questione del referendum democratico (come proposto da una parte dei comunisti americani); è invece costretto ad accordare al suo centro dirigente il diritto di prendere, quando necessario, decisioni importanti per tutti gli iscritti al partito.

16) La rivendicazione di un'ampia "autonomia" per le singole organizzazioni locali di partito indebolisce soltanto le file del Partito comunista, mina la sua capacità d'azione e favorisce le tendenze disgregatrici piccolo-borghesi e anarchiche.

17) Nei paesi in cui la borghesia o la socialdemocrazia controrivoluzionaria è ancora al potere, i partiti comunisti debbono imparare a collegare sistematicamente l'attività legale con quella illegale. A tal fine il lavoro legale deve essere sempre sottoposto all'effettivo controllo del partito illegale. I gruppi parlamentari comunisti, nelle istituzioni statali sia centrali che locali, devono soggiacere completamente al controllo dell'intero partito a prescindere totalmente dal fatto che tutto il partito sia, nel momento dato, legale o illegale. I deputati che in qualunque forma si rifiutano di subordinarsi al partito debbono essere espulsi dalle file dei comunisti. La stampa legale (giornali, case editrici), deve essere sottoposta senza limitazioni e condizioni all'intero partito e al suo comitato centrale.

18) Base dell'intera attività organizzativa del Partito comunista deve essere la costituzione dovunque di un nucleo comunista, per piccolo che sia al momento il numero di proletari e semi-proletari. In ogni soviet, in ogni sindacato, in ogni cooperativa, in ogni azienda, in ogni comitato di inquilini, dovunque si trovino anche tre persone che si schierano per il comunismo, deve essere immediatamente costituito un nucleo comunista. É solo la compattezza dei comunisti che dà all'avanguardia della classe operaia la possibilità di dirigere al suo seguito l'intera classe lavoratrice. Tutti i nuclei comunisti che lavorano in organizzazioni apartitiche devono essere assolutamente subordinati all'organizzazione generale del partito, a prescindere completamente dal fatto che il partito nel momento dato lavori legalmente o illegalmente. Tutti i nuclei comunisti devono essere subordinati l'uno all'altro in base al più rigoroso ordinamento gerarchico, secondo un sistema il più possibile preciso.

19) Il Partito comunista nasce quasi dovunque come partito urbano, come partito di operai di industria abitanti prevalentemente nelle città. Per la vittoria il più possibile facile e rapida della classe lavoratrice, è necessario che il Partito comunista diventi non soltanto il partito delle città, ma anche il partito delle campagne. Il Partito comunista deve svolgere la sua propaganda e la sua attività organizzativa fra i salariati agricoli e i contadini piccoli e medi, e lavorare con particolare cura alla organizzazione di nuclei comunisti nelle campagne.

L'organizzazione internazionale del proletariato può essere forte alla sola condizione che, in tutti i paesi in cui vivono e lottano dei comunisti, si rafforzino le concezioni sopra formulate sul ruolo del Partito comunista. L'Internazionale Comunista ha invitato al suo congresso ogni sindacato che riconosca i princìpi della III Internazionale e sia pronto a rompere con l'Internazionale gialla. L'Internazionale Comunista organizzerà una sezione internazionale dei sindacati rossi che stanno sul terreno del comunismo. L'Internazionale Comunista non esiterà a collaborare con ogni organizzazione operaia non di partito disposta a condurre una seria lotta rivoluzionaria contro la borghesia. Ma l'Internazionale Comunista, nel far ciò, addita ai proletari di tutto il mondo i seguenti princìpi:

1) Il Partito comunista è l'arma essenziale e fondamentale per l'emancipazione della classe operaia. In ogni paese dobbiamo avere oggi non gruppi o correnti, ma un partito comunista.

2) In ogni paese deve esistere soltanto un unico ed unitario partito comunista.

3) Il Partito comunista deve essere costruito sul principio della più rigorosa centralizzazione e, nell'epoca della guerra civile, instaurare nelle proprie file una disciplina militare.

4) Dovunque esista anche soltanto una dozzina di proletari o semi-proletari, il Partito comunista deve avere un suo nucleo organizzato.

5) In ogni istituzione non di partito, deve esistere un nucleo comunista severamente subordinato all'insieme del partito.

6) Nel difendere tenacemente ed energicamente il programma e la tattica rivoluzionaria del comunismo, il Partito comunista dev'essere sempre collegato nel modo più stretto alle organizzazioni operaie di massa ed evitare nella stessa misura il settarismo da un lato e la mancanza di princìpi dall'altro.

Non occorrono lunghi commenti alla parte di applicazione pratico-organizzativa delle Tesi, in cui sono energicamente ribaditi i princìpi di centralizzazione e disciplina, esclusione di ogni autonomia di sezioni o gruppi e integrazione fra attività legale ed illegale, identità di struttura nelle città e nelle campagne e unità del partito in ogni singolo paese (quindi con esclusione dell'aberrante formula di "partito simpatizzante" e di organi politici paralleli aderenti all'Internazionale), rifiuto del noyautage in altri partiti (i "nuclei" o cellule comunisti devono essere costituiti in organizzazioni operaie apartitiche; non sono la base del partito, che resta la sezione territoriale, ma le sue "lunghe mani" in organismi operai esterni ad esso ― proprio l'opposto di quello che si pretese nel 1925 ai tempi della cosiddetta "bolscevizzazione"!) e, infine, condanna sia del settarismo inteso come rifiuto di collegarsi con le masse, sia della mancanza di princìpi ― i due estremi di una concezione deforme da noi sempre denunziata e combattuta. Mette pure conto di notare come la formula organizzativa del "centralismo democratico" non abbia nulla in comune con una rivendicazione demo-elettorale: essa si applica ad un partito i cui princìpi non sono né possono essere materia di consultazione o dibattito, perché costituiscono la sua ragione di esistenza e la base della sua funzione storica.

Nulla più di queste Tesi, che l'Esecutivo volle mettere al centro del II Congresso non solo per motivi contingenti quali la polemica anti-sindacalista ed anti-immediatista in generale, ma come questione di principio, convince per sempre di falso quei partiti i quali pretendono di riallacciarsi al filo della tradizione bolscevica mentre ne distruggono le fondamenta antidemocratiche, antilibertarie, antinazionali. Come osserverà uno dei portavoce del Comintern nel corso della discussione, la necessità del partito e della sua centralizzazione può essere riconosciuta anche da un Noske; il partito la cui struttura centralizzata e la cui funzione sintetizzatrice il comunismo marxista rivendica, è il partito non della conservazione ma della rivoluzione, non del legalitarismo riformista ma della presa violenta del potere, non della democrazia e del parlamentarismo ma della dittatura proletaria apertamente proclamata come parte integrante della dottrina, dei princìpi e del programma, e non come vago e remoto obiettivo (sia pure "transitorio") ma come fattore determinante di tutta la complessa azione preparatoria, sia in fase di avanzata che in fase di riflusso del movimento operaio; il partito non di un singolo paese, meno che mai dei suoi interessi nazionali, ma della classe lavoratrice di tutto il mondo e della sua lotta per definizione internazionale; il partito, infine, non della classe sfruttata nel momento x della sua storia, ma della classe nella direzione storica del suo cammino; anche in questo, dittatoriale e autoritario, dunque antidemocratico. Accettare questo corpo di princìpi e pretendere di poterlo conciliare con una prassi poggiante sulla democrazia, il blocco popolare di più classi, il gradualismo delle cosiddette riforme di struttura, la rivendicazione di particolarità ed interessi nazionali, significa distruggere la potente costruzione rispetto alla quale il partito centralizzato e centralizzatore è un'arma primaria indispensabile; significa porlo al servizio (come già i Noske di tutti i paesi "civili" di fronte alla guerra o alla crisi postbellica) della controrivoluzione.

Alla formulazione di princìpi e postulati invarianti mira anche la parte introduttiva dello Statuto dell'Internazionale Comunista (ma abbiamo già osservato, e lo vedremo ancora, che ognuna delle Tesi "tattiche" non solo li contiene, bensì li ribadisce come fondamenta necessarie delle direttive d'azione in campo parlamentare, agrario, sindacale, non meno che nella importantissima questione nazionale e coloniale), che qui riproduciamo:

Statuti dell'Internazionale Comunista

Nel 1864 venne fondata a Londra l'Associazione Internazionale dei Lavoratori, la I Internazionale. Negli Statuti generali di questa Associazione internazionale dei Lavoratori si legge:

"che l'emancipazione della classe operaia deve essere l'opera della classe operaia stessa, che la lotta per l'emancipazione della classe operaia non è una lotta per privilegi di classe e monopoli, ma per stabilire eguali diritti e doveri e per abolire ogni dominio di classe;

"che la soggezione economica del lavoratore a colui che gode del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, forma la base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione spirituale e dipendenza politica;

"che di conseguenza l'emancipazione economica della classe operaia è il grande fine cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico;

"che tutti gli sforzi per raggiungere questo grande fine sono finora falliti per la mancanza di solidarietà tra le molteplici categorie di operai in ogni paese e per l'inesistenza di una unione fraterna tra le classi operaie dei diversi paesi;

"che l'emancipazione degli operai non è un problema locale né nazionale, ma un problema sociale che abbraccia tutti i paesi in cui esiste la società moderna, e la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica dei paesi più progrediti;

"che il presente risveglio della classe operaia nei paesi industrialmente più progrediti d'Europa, mentre ridesta nuove speranze ed è in pari tempo un serio ammonimento a non ricadere nei vecchi errori, esige la unione immediata dei movimenti ancora disuniti".

La II Internazionale, fondata nel 1889 a Parigi, si impegnò a continuare l'opera della I. Ma nel 1914, all'inizio del massacro mondiale, essa fece bancarotta completa. Minata dall'opportunismo e distrutta dal tradimento dei capi, che passarono dalla parte della borghesia, la II Internazionale crollò dalle sue fondamenta.

L'Internazionale Comunista, fondata nel marzo 1919 nella capitale della Repubblica Sovietica Federale Russa, dichiara solennemente di fronte al mondo intero che si assume di proseguire e condurre a termine la grande opera iniziata dalla I Associazione internazionale dei lavoratori.

L'Internazionale Comunista si è costituita alla fine della guerra imperialista 1914-1918, nella quale la borghesia imperialistica dei diversi paesi ha sacrificato 20 milioni di uomini.

"Ricordati della guerra imperialistica!" è il primo monito con cui l'Internazionale Comunista si rivolge ad ogni lavoratore, dovunque egli viva, in qualunque lingua parli. Ricordati che grazie all'esistenza del regime capitalista un pugno di imperialisti ha avuto la possibilità, nel corso di quattro lunghi anni, di costringere gli operai dei diversi paesi a sgozzarsi a vicenda! Ricordati che la guerra della borghesia ha scatenato nell'Europa e in tutto il mondo la più spaventosa carestia e la più orribile miseria! Ricordati che senza l'abbattimento del capitalismo la ripetizione di simili guerre è non soltanto possibile, ma inevitabile!

L'Internazionale Comunista si prefigge come scopo di combattere con tutti i mezzi, anche con le armi in pugno, per l'abbattimento della borghesia internazionale e la creazione della Repubblica internazionale dei Soviet come stadio di trapasso alla completa soppressione dello Stato. L'Internazionale Comunista considera la dittatura del proletariato come l'unico mezzo che permetta di liberare l'umanità dagli orrori del capitalismo. E l'Internazionale Comunista vede nel potere sovietico la forma storicamente data di questa dittatura.

La guerra imperialistica ha strettamente legato le sorti dei proletari di un paese alle sorti dei proletari di tutti gli altri. La guerra imperialistica ha riconfermato quanto era detto negli Statuti generali della I Internazionale: l'emancipazione dei lavoratori è un problema non locale né nazionale, ma internazionale!

L'Internazionale Comunista rompe per sempre con la tradizione della II Internazionale, per cui in realtà esistevano soltanto uomini di pelle bianca. L'Internazionale Comunista si pone il compito di liberare i lavoratori di tutta la terra. Nelle file dell'Internazionale Comunista si riuniscono fraternamente uomini di pelle bianca, gialla, nera lavoratori del mondo intero.

L'Internazionale Comunista appoggia incondizionatamente le conquiste della grande rivoluzione proletaria in Russia, la prima rivoluzione socialista vittoriosa nella storia mondiale, e chiama i proletari di tutto il mondo a procedere sullo stesso cammino. L'Internazionale Comunista si impegna ad appoggiare ogni repubblica sovietica, dovunque essa venga costituita.

L'Internazionale Comunista sa che, per ottenere più rapidamente la vittoria, l'associazione dei lavoratori, nella sua lotta per la soppressione del capitalismo e la creazione del comunismo, deve possedere un'organizzazione rigidamente centralizzata. L'Internazionale Comunista deve rappresentare veramente, e nei fatti, un partito comunista unitario del mondo intero. I partiti operanti in ogni paese figurano soltanto come sue sezioni. L'apparato organizzativo dell'Internazionale Comunista deve assicurare agli operai di ogni paese la possibilità di ricevere in ogni momento il maggior aiuto possibile dai proletari organizzati degli altri paesi.

A questo scopo, l'Internazionale Comunista conferma i seguenti punti degli Statuti:

1) La nuova Associazione Internazionale dei Lavoratori è costituita per la organizzazione di azioni comuni dei proletari dei diversi paesi tendenti all'unico fine dell'abbattimento del capitalismo, dell'instaurazione della dittatura del proletariato e di una repubblica internazionale dei Soviet per la completa soppressione delle classi e la realizzazione del socialismo, questo primo stadio della società comunista.

2) La nuova associazione internazionale dei lavoratori si chiama "Internazionale Comunista".

3) Tutti i partiti appartenenti all'Internazionale Comunista portano i nomi di: "Partito comunista di questo o quel Paese (Sezione dell'Internazionale Comunista)...".

Occorre altro, a riprova che la massima centralizzazione in partito comunista mondiale unico è inseparabiledall'unicità del principio della dittatura del proletariato come stadio di passaggio al socialismo; e che questo da solo la giustifica e la impone?

Gli articoli successivi degli Statuti svolgono e ribadiscono nella pratica gli stessi princìpi: istanza suprema dell'IC, il Congresso mondiale "che discute e delibera sulle più importanti questioni del programma e della tattica" connesse alla sua attività; organo dirigente negli intervalli fra i congressi mondiali (che si riuniscono regolarmente ogni anno), e di fronte ad essi responsabile, il Comitato esecutivo, la cui sede sarà di volta in volta stabilita dal Congresso, e l'onere principale del cui lavoro peserà sul "partito del paese dove, per decisione del Congresso mondiale, l'Esecutivo stesso risiede"; compito di quest'ultimo, emanare direttive vincolanti per tutti i partiti e le organizzazioni appartenenti all'IC, compreso il diritto di escludere gruppi o persone dei partiti-membri "che violino la disciplina del Congresso"; obbligo per tutti i partiti e le organizzazioni aderenti o simpatizzanti di pubblicare tutti i deliberati ufficiali dell'Esecutivo; costituzione di una sezione sindacale dell'IC, composta dei "sindacati che stanno sul terreno del comunismo e sono riuniti su scala internazionale sotto la direzione dell'IC"; ammissione di rapporti politici fra i singoli partiti solo tramite il Comitato esecutivo, e soltanto in casi eccezionali in via diretta; subordinazione dell'Internazionale giovanile comunista all'IC (che comprende pure una sezione femminile) e al suo Comitato esecutivo; appoggio fraterno da parte dei membri locali dell'IC ad ogni membro della stessa che si trasferisca da un paese a un altro. La discussione sugli Statuti darà ulteriore conferma della difficoltà di assimilarne non tanto i princìpi generali in sé e per sé, quanto le necessarie deduzioni pratiche, che per noi (e per i bolscevichi) erano inseparabili da essi così come quelli non sarebbero princìpi ove non si traducessero nelle corrispondenti norme d'azione, per tutti vincolanti. Che cosa resta, oggi, anche solo di un lembo di quel corpo di statuti?

É chiaro che, nella stessa prospettiva, hanno valore di principio anche le Condizioni di ammissione, i celebri 21 punti fissati dal congresso al termine di accesi dibattiti in sede di assemblea plenaria e, più ancora, di commissione, mentre è altrettanto manifesto che nella stessa impostazione generale dei fini e dei princìpi e già inclusa e spesso già formulata in paragrafi appositi la soluzione dei problemi tattici, per non dire delle basi programmatiche dell'organizzazione internazionale e delle sezioni nazionali ad essa rigorosamente subordinate. Era evidentemente troppo presto, nella situazione generale dell'epoca se non nei voti comuni nostri e dei compagni russi, per codificare i punti di questa gigantesca costruzione sotto i loro diversi ma altrettanto correlati aspetti di dottrina, finalità, princìpi e programma, e non fu sempre felice, perché non abbastanza approfondito, il collegamento a questi anelli primari di tutto l'insieme degli anelli tattici; ma solo una grossolana mistificazione può pretendere e cercar di far credere che un filo conduttore unico non passi attraverso tutte le tesi di principio, e che quelle tattiche non ne siano severamente disciplinate.

La lacuna rappresentata dall'assenza di un corpus organico e completo, di cui noi ci rammaricammo già nel corso del II Congresso, rispecchiava lo stato imperfetto di maturazione del movimento internazionale, non mai una concezione empirica, eclettica e contingentista che elevasse a paradigma quell'assenza di princìpi, quell'affidarsi al caso per caso, quella "libertà di innovazione", quell'agnosticismo di fronte ai dettami imprevisti e imprevedibili della cosiddetta esperienza, in cui Lenin per primo aveva indicato il tratto distintivo dell'opportunismo. Si rilegga il preambolo degli Statuti, e si osi sostenere che una mistificazione del genere, bene espressa dalla formula togliattiana del policentrismo, o da quella (comune a tutte le filiazioni variopinte dello stalinismo) dell'antidogmatismo (nonché di quello strano internazionalismo che si concilierebbe con la ... sovranità nazionale di ogni partito o, peggio, paese "socialista", e sarebbe anzi garantito dalla loro reciproca "non-ingerenza" negli affari altrui), trovi anche solo una remota giustificazione nelle Tesi costitutive del 1920!

Note

(1) Cfr. l'appendice al cap. VII del presente volume.

(2) Cfr. il volumetto Partito e classe, cit.

7. Lungo il filo rosso: il dibattito nel campo multiforme dei princìpi, del programma e delle loro applicazioni tattiche

La lacuna, appunto perché nasceva da cause oggettive, non poteva non riflettersi nel dibattito sia sulle Tesi già illustrate, sia su quelle più propriamente tattiche che riproduciamo più innanzi, e nelle conclusioni che se ne trassero in riferimento al processo di costituzione dei partiti comunisti e alle direttive di azione a tutti impartite come vincolanti. Lo stesso dibattito, serratissimo data la mole dei lavori e l'intreccio di sedute plenarie, di commissione e sottocommissione, oscillò fra elevatissime punte teoriche e di principio e minuzie polemiche contingenti o locali. Era anche questo un effetto da scontare nella difficile gestazione del "partito comunista mondiale unico"; non un ideale da erigere a modello, ma uno stato di fatto subìto nella sua materialità, più forte di qualunque auspicio. Ne rievochiamo i punti salienti in un ordine che meglio ci sembra riflettere il nesso fra i diversi temi, cercando sia di mostrare la continuità del filo dei princìpi ― sui quali mai nessun disaccordo divise noi dai bolscevichi ―, sia di mettere in risalto come le diverse proposte e decisioni tattiche oscillino intorno al filo teso, a volte coincidendo pienamente con esso, a volte rimanendogli al disotto; e, in quest'ultimo caso, di chiarire in che senso, in quali limiti, e perché.

a) Il ruolo del Partito comunista nella rivoluzione proletaria (1).

Può sembrar strano che questo corpo di tesi di principio non solo abbia suscitato scarse discussioni fra militanti di formazione ideologica tuttavia diversa, e sia stato infine approvato all'unanimità: strano solo in apparenza, in realtà consono al basso grado di formazione di una coscienza teorica genuinamente comunista nei gruppi e partiti aderenti. C'è di più: se uno sforzo sincero, anche se debole, di elevarsi all'altezza dei princìpi in esso contenuti venne fatto in quei giorni, lo fu (bolscevichi a parte) da esponenti non tanto dei partiti già formalmente aderenti all'IC, quanto dei gruppi e organizzazioni non rigorosamente marxisti ma animati da forte istinto di classe che aspiravano ad esservi ammessi; e non a caso Lenin, Zinoviev, Trotsky misero il maggiore impegno nello sforzo di chiarire le idee ai secondi con l'arma della persuasione dialettica, invece di affrettarsi a concedere brevetti di ortodossia e investiture organizzative ai primi.

Le Tesi, in origine più brevi e, nella parte polemica, rivolte contro bersagli in prevalenza "russi", erano state completate in sede di commissione con una severa critica dell'immediatismo operaista e spontaneista europeo-occidentale e americano. Ma ciò non impedì a Lenin di spiegare con pazienza al portavoce di un movimento schiettamente proletario e di massa come l'inglese Tanner che, quando gli shop stewards rivendicavano il concetto di dittatura del proletariato come dittatura di una minoranza decisa operante sul terreno dell'azione diretta, ebbene, "se questi compagni sono per l'esistenza di una minoranza che si batta energicamente per la dittatura del proletariato e educhi le masse operaie a questo fine, una tale minoranza non sarà altro, nella sostanza, che un partito"; né valeva appellarsi alle degenerazioni parlamentari dei partiti della II Internazionale, perché "anche noi siamo nemici di un siffatto parlamentarismo e di siffatti partiti politici: abbiamo bisogno di partiti nuovi, di partiti diversi"! A sua volta, rispondendo all'anarcosindacalista Pestaña il quale obiettava l'inutilità di indaffararsi a creare partiti politici, nuclei di una futura armata rossa, perché in ogni caso, come dimostra la rivoluzione francese, un partito e un esercito sorgeranno inevitabilmente nel corso del processo rivoluzionario, Zinoviev argomentò: "É forse questo, oggi che dobbiamo combattere contro un mondo di partiti borghesi armati fino ai denti, un argomento a favore della creazione del partito come puro "risultato" della rivoluzione? Che cosa faremo, durante la rivoluzione? Chi organizzerà le file dei migliori operai all'inizio della rivoluzione? Chi preparerà, elaborerà e diffonderà il programma? [...] Non possiamo aspettare che la rivoluzione arrivi cogliendoci di sorpresa e che, come suo "risultato", si cristallizzi un partito; dobbiamo fin da questo momento, senza perdere un'ora, metterci a costruirlo".

In un certo senso, osservava ancora Zinoviev, la situazione era analoga a quella in cui era sorta la I Internazionale, quando la durezza della repressione borghese dei moti di classe e delle associazioni operaie spingeva anche organizzazioni puramente economiche sul terreno della lotta politica e dell'azione violenta, legittimando lo sforzo di Marx ed Engels di inquadrarle sulla base di una piattaforma teorica e programmatica che esse erano tanto incapaci di darsi quanto pronte ad assimilare, e di indirizzarle verso obiettivi non immediatamente racchiusi nel loro orizzonte grazie a un'energica e centralizzata direzione. Il movimento reale tendeva, come allora, a coincidere col programma del comunismo; e di fronte ad esso i bolscevichi, per bocca di Trotsky, reagivano con un senso di fastidio alla "arroganza marxista" di un Levi secondo il quale, per l'enorme maggioranza dei proletari europei, la questione del partito era già bell'e risolta e il discuterne ancora non poteva servire a far luce e chiarezza in seno all'Internazionale (anche uno Scheidemann e un Kautsky ― gli verrà risposto ― sanno che è necessario il partito: lo sanno tanto bene che l'hanno creato per la classe operaia, poi l'hanno messo al servizio della società borghese e della sua classe dominante!), o di un Serrati che, mentre dichiarava di sottoscrivere le Tesi in omaggio alla vigorosa proclamazione dei princìpi del centralismo e della disciplina contro lo spirito piccolo borghese da cui sono animati "il sindacalismo, l'industrialismo, l'anarchismo, il relativismo", si ostinava a non "far pulizia in casa propria" cacciandone i riformisti contro i quali, non meno che contro gli immediatisti di cui sopra, erano dirette le Tesi ― salvo posare a defensor fidei di fronte al pericolo di un nuovo "possibilismo" annidantesi, a suo dire, nella politica di sia pur limitate concessioni ai contadini medi in Russia, o a quello di sporcarsi le mani lavorando all'interno di organizzazioni apartitiche!

La breve schermaglia, che anticipò successive, energiche strigliate ai "partiti fratelli" dell'Europa occidentale, permise di sottolineare almeno due punti di principio. Il primo è ben chiarito da Zinoviev nella sua replica, e lo giriamo ai moderni "teorici" del policentrismo e della non-ingerenza negli affari altrui:

"Dobbiamo essere un partito comunista unico, con sezioni nei diversi paesi. Questo deve essere il significato dell'Internazionale Comunista. Quando i comunisti russi, spintisi innanzi per primi, si chiamarono non più socialdemocratici ma comunisti, da noi venne fatta la proposta di non chiamarci Partito Comunista di Russia, ma semplicemente Partito Comunista. Dobbiamo essere un unico partito che abbia le sue sezioni in Russia, Germania, Francia, ecc., un unico partito che batta sistematicamente e in piena coscienza la sua via. Solo così giungeremo alla concentrazione completa delle nostre forze; a questa sola condizione ogni gruppo della classe operaia internazionale potrà sempre ricevere, in un dato momento, il massimo aiuto possibile dagli altri".

Il secondo fu svolto da Lenin a proposito della sua tesi sulla opportunità per il nascente partito inglese di aderire al Labour Party; e lo giriamo ai portavoce dell'antidogmatismo e dell'elasticità, anzi della completa libertà, tattica. Quando Tanner e Ramsay, per gli shop stewards, chiesero che la soluzione del problema fosse demandata ai comunisti britannici esprimendo il timore che la III Internazionale cadesse nell'errore opposto della II "diventando troppo dogmatica", Lenin rispose con forza (e noi non potevamo non essere con lui anche se facevamo le nostre riserve sulla sua specifica proposta in rapporto all'Inghilterra):

"Che cosa sarebbe l'Internazionale, se ogni piccola frazione si presentasse qui e dicesse: "Alcuni di noi sono favorevoli, altri contrari; lasciate che siamo noi a decidere "? A che cosa servirebbe allora l'Internazionale, il congresso e tutta questa discussione? .. Non possiamo accettare che la questione riguardi soltanto i comunisti inglesi. Dobbiamo precisare, in linea generale, qual è la tattica giusta"; se non lo facessimo, imiteremmo "le peggiori tradizioni della II Internazionale".

E ancora: se è vero che la maggioranza dei comunisti inglesi ci sarà contro, "dobbiamo forse accordarci immancabilmente con la maggioranza? Niente affatto... Perfino l'esistenza parallela di due partiti per un certo periodo di tempo sarebbe migliore della rinuncia a stabilire quale sia la tattica giusta".

Così ragionava il presunto teorico dell'antidottrinarismo: la tattica dev'essere fissata, ed esserlo internazionalmente, fuori da ogni scrupolo banalmente democratico da un lato, contingentista dall'altro! I teorici dell'"unità nella diversità" cerchino i loro antenati non fra i bolscevichi, ma fra gli immediatisti dell'operaismo inglese ― com'é giusto, dal momento che si richiamano all'ideologia (cui non andava neppure il merito, riconosciuto da Lenin agli shop stewards, di poggiare su un movimento operaio di massa) dell'Ordine Nuovo!

Note

(1) II e III seduta del 23 e 24 luglio. Protokoll, cit., pagg. 57-136. Le Tesi sono già state riprodotte nel paragrafo precedente.

b) Condizioni di ammissione all'Internazionale Comunista.

L'acceso dibattito occupò le sedute VI, VII e VIII del Congresso (1), e si ricollega ai precedente anche se l'ordine di successione dei lavori volle che prima fosse trattata la questione nazionale e coloniale. In mancanza di una dichiarazione teorica e programmatica preliminare, era qui, in effetti, la necessaria pietra di paragone dei partiti che volevano aderire all'IC: se occorre, la loro pietra d'inciampo. É qui che le loro esitazioni, i loro pregiudizi, le loro idiosincrasie, le loro carenze apparvero maggiormente in luce; è qui, inversamente, che bolscevichi e "astensionisti" italiani lavorarono perfettamente all'unisono.

17 in origine, le "condizioni" redatte da Lenin, via via completate, rese più esplicite mediante un diverso ordinamento dei temi, ed inasprite, erano diventate 19 quando si cominciò a discuterne (20 se si tiene conto del penultimo paragrafo del testo finale suggerito dallo stesso Lenin, che però la delegazione russa era disposta a ritirare presentandolo non più come condizione o direttiva, ma come desiderio, e salirono a 21 nel testo definitivo, le due ultime essendo state introdotte reintegrando ― come noi avevamo proposto ― il paragrafo di cui sopra (appunto il 20°), e facendogliene seguire un altro ― il 21° ― del tutto conforme a una nostra precisa richiesta.

Sia l'estensore del testo originario, sia i militanti che collaborarono alla sua definitiva stesura non si nascondevano di dover costituire le sezioni nazionali del "partito mondiale unico" ― per forza di cose, non perché quello fosse il metodo ideale ― o amputando partiti formalmente già ammessi ma esitanti a liberarsi di robuste ali riformiste, o tagliando nel corpo di partiti di centro; sapevano che pericolose titubanze sussistevano se non nelle dichiarazioni programmatiche, certo nell'azione pratica, di partiti nati già da una scissione, e non dell'ultima ora. Era un duro prezzo da pagare: o subirlo, o abbandonare a se stesso il movimento operaio mondiale. Quello che in tale dilemma si poteva e si doveva impedire era che, per un verso, all'accettazione formale dei princìpi costitutivi dell'IC si accompagnasse un'azione pratica da essi discordante e ricalcata sui moduli del passato secondinternazionalista, per l'altro che fossero tollerati o accolti nelle file dei nuovi partiti quei riformisti in vena di pentimenti o quei centristi attratti dalla moda del giorno, la cui presenza o come semplice remora o come fattore di corrosione e sabotaggio avrebbe vietato al partito comunista di rispondere ai suoi compiti storici di "organizzazione di combattimento decisa non solo a propagandare il comunismo ma a tradurlo in atto", di "arma di lotta durante la pace, durante l'insurrezione e dopo l'insurrezione, punto di raccolta di quella parte della classe operaia che è cosciente del fine e vuol combattere per esso" (Zinoviev). La tragica esperienza della rivoluzione ungherese che, "se si offre un mignolo al riformismo, quello ti prende tutta la mano, poi tutta la testa, e infine ti cola a picco", non doveva andare smarrita: l'adesione alla III Internazionale o significava rottura aperta con ogni residuo di riformismo, pacifismo, gradualismo, o non significava nulla; e Zinoviev, nel suo discorso introduttivo, non esitò a dichiarare a nome della delegazione russa, consapevole di quanto ancora separava il movimento operaio dei paesi capitalistici avanzati dalla visione teorica e programmatica integrale del comunismo: "Se dovesse accadere che i nostri compagni italiani od altri chiedano di rimanere collegati, o di collegarsi, ad elementi di destra [come quelli citati al par. 7 delle condizioni], il nostro Partito è pronto a restare completamente solo piuttosto di contrarre legami con elementi che giudichiamo borghesi".

É perciò sciocco considerare quelli che finirono per passare sotto il nome di "21 punti" come una specie di stralcio di codice penale o di "regolamento" amministrativo: come abbiamo già osservato nel capitolo precedente (2), essi fissano altrettante norme di azione strettamente legate ai princìpi e ritenute inscindibili dall'essenza stessa del partito, e in funzione di questi e di quelle tracciano le linee di una struttura organizzativa la cui rigorosa e serrata centralizzazione è assicurata dai pieni poteri d'intervento dell'Esecutivo del Comintern assai più che da una omogeneità di piattaforma reale nella costituzione delle singole sezioni ― omogeneità che si presupponeva imperfetta nella stessa misura in cui il processo di decantazione di nuclei solidamente comunisti era incompleto o tardivo. Resta il fatto di enorme rilievo che, qui per la prima volta, l'Internazionale tracciò a se stessa "quel piano sistematico di azione, illuminato da princìpi fermi e rigorosamente applicato, che è l'unico che meriti il nome di tattica" (secondo l'antica formula dell'Iskra già da noi ricordata) poggiandolo tendenzialmente sulla base di quella "salda organizzazione preparata alla lotta in ogni momento e in tutte le situazioni", senza la quale ― aveva premesso Lenin ― non si può nemmeno parlare di tattica comunista. Se si confrontano le condizioni 2-10 con gli accapi della parte III delle Tesi della Frazione astensionista, è facile constatare come essi combacino quasi punto per punto, con la differenza che i secondi sono inquadrati in una formulazione generale della dottrina, delle finalità, dei princìpi e del programma posti a fondamento di un partito integralmente comunista con tutti i riflessi anche organizzativi che la sua esistenza comporta: differenza di grado o, se si preferisce, storica; ma convergenza di sostanza.

Si tratti della rottura coi riformisti, della denunzia del socialpatriottismo e del socialpacifismo, del lavoro nelle organizzazioni economiche, nell'esercito, nelle campagne, dell'appoggio ai moti insurrezionali nelle colonie, o della stretta subordinazione della stampa e del gruppo parlamentare alla direzione del partito, delle sezioni nazionali all'Internazionale; tutte le direttive fissate ai partiti aderenti sono qui poste come questioni di principio, come obblighi inquadrati in un insieme di esplicazioni tattiche vincolanti ed inscindibili, che delimitano il partito da qualunque altro e lo definiscono come organo di guerra a morte contro la borghesia e i suoi lacché; senza tali caratteri, chiaramente riconoscibili per ogni operaio, anche la centralizzazione e la disciplina sarebbero un guscio vuoto, mentre così fanno tutt'uno con il contenuto dell'azione di classe.

É certo che il procedimento più corretto per giungere ad una redazione completa e definitiva del testo sarebbe stato di lavorare sui princìpi che sottendevano ognuno dei suoi paragrafi per trarne conclusioni destinate ad essere insieme rigide e indiscutibili (e in questo senso noi ci battemmo): ci si arrivò fino a un certo punto per via sperimentale, attraverso lo scontro con le posizioni incarnate e difese proprio lì nel congresso dai socialisti francesi (ed anche, in una certa misura, italiani) e dagli indipendenti tedeschi, più che attraverso una considerazione approfondita delle norme tattiche e organizzative in quanto espressioni di una teoria generale del percorso storico della rivoluzione proletaria e comunista: indiscutibili come norme di azione pratica, le "condizioni" ne risultarono solo parzialmente rigide come norme di costituzione e strutturazione dei partiti, il che ovviamente finì, in prosieguo di tempo, per riflettersi sul grado di osservanza degli impegni tattici. In questa luce, che è nello stesso tempo un doppio limite, vanno visti sia il dibattito, sia il nostro intervento in esso.

Una prima avvisaglia della tempesta che doveva scatenarsi nelle tre sedute plenarie si era avuta, prima della rassegna fortemente critica di Zinoviev sugli sviluppi in seno ai maggiori partiti aderenti o aspiranti all'adesione, allorché delegati francesi e olandesi avevano protestato contro la presenza al Congresso e soprattutto alla commissione per le condizioni di ammissione dei "pellegrini" del PSF e dell'USPD. Lo stesso Radek, riferendosi in particolare ai secondi, aveva completato il rapporto del presidente dell'Internazionale con le parole: "Dopo la seduta della commissione che si occupava delle condizioni di ammissione alla IC, dopo che i compagni tedeschi e francesi avevano dichiarato di aderirvi, noi che ne facevamo parte ci siamo ricordati quasi all'unisono delle parole di Bela Kun dopo la fusione con i socialdemocratici: Ho l'impressione che le cose siano andate troppo lisce! Ebbene, lo stesso sentimento proviamo noi in questo istante". E aveva chiesto che si facesse pulizia nei vecchi partiti "non con la scopa ma col ferro rovente" liquidandone il passato senza rimpianti né riserve prima di convalidare adesioni soltanto verbali e, nella sostanza, menzognere. Il risultato fu un ulteriore indurimento delle clausole; ma, fra la lettera dei "21 punti" e lo spirito in cui vennero interpretati nella soluzione dei diversi problemi posti dall'accettazione o meno di singoli partiti, rimase uno scarto di cui abbiamo già indicato le cause, ma che non per questo giustificò meno le nostre riserve. Le condizioni erano severe ma non a sufficienza, e neppure formulate in modo tale da escludere i classici due passi indietro dopo uno avanti: come osservò il rappresentante della Sinistra al suo ritorno in Italia, "il senso della discussione fu che in massima 'i ricostruttori' potranno entrare sotto certe garanzie nella Internazionale". Il guanto di ferro usato nella polemica senza alcuna attenuazione lo fu assai meno nelle deduzioni pratiche: e se ne pagò il prezzo quando l'onda montante del '20 rifluì e non si ebbe più la forza di riconoscere che i presupposti della relativa "morbidezza" erano venuti meno e bisognava tornare all'antico rigore, sapendo "rimanere soli" e accettando di aspettare fiduciosi ma non passivi che "gli operai presto o tardi capiscano e vengano a noi" come nella tradizione bolscevica riecheggiata dal discorso Zinoviev.

"Ci sono cose, nella storia del movimento operaio, che non si dimenticano", aveva esclamato Radek riferendosi all'opera di salvataggio del regime borghese tedesco svolta dagli indipendenti. E l'eco di queste "cose" risuonava in modo preoccupante non solo nella "cautela" con cui si esprimeva la dichiarazione rilasciata da Cachin in seduta plenaria, ma e soprattutto "nel riserbo, nelle reticenze e, vorrei dire, nelle restrizioni mentali che vi appaiono in luce", come osservò il più vigoroso critico del documento francese, C. Rakovsky. É una dichiarazione che tace completamente sul passato, egli disse, e "la cosa più inquietante non è il silenzio in sé e per sé, non è il pudore di riconoscere i propri errori di fronte a compagni, ma è l'atteggiamento riservato di fronte all'avvenire, di cui è imbevuta tutta la dichiarazione". Dire, come Cachin nell'impegnarsi a difendere le condizioni d'ammissione al suo ritorno in patria: "Nelle condizioni storiche presenti, chi, nel momento della lotta sociale decisiva dovunque divampata, cerca ancora di collaborare con la società borghese, non trova posto nelle file della classe operaia", è sottintendere (3): "Ci sono periodi e congiunture storiche in cui la collaborazione di classe è consentita, e se questa collaborazione c'e stata, ciò è avvenuto perché la congiuntura storica lo imponeva. Poiché oggi le condizioni storiche sono favorevoli alla rivoluzione, noi rinunciamo alla collaborazione; se però domani la borghesia dovesse riprendere forza, se le riuscisse di superare alcune difficoltà, per il socialismo francese da poco fattosi rivoluzionario la congiuntura storica potrebbe modificarsi" e non v'è ragione che il PSF non ricada nell'antico errore.

Quando Cachin prosegue: "Se un giorno la guerra mondiale dovesse ridivampare, la colpa principale ne ricadrà sull'attuale, criminosa politica della borghesia francese", i riformisti saluteranno con gioia le sue parole: "In passato ― diranno ―, le cose stavano diversamente. La responsabilità della guerra non era soltanto della nostra borghesia ma anche dell'imperialismo tedesco; dunque, la nostra politica di difesa nazionale trova, per quanto riguarda il passato, giustificazione piena". E quando si completa il ragionamento in questi termini: "Noi ci rifiuteremo di aver nulla a che fare con questa politica, sia che si tratti della approvazione di crediti sia che si tratti della collaborazione al governo: sapremo ricordarci che in tali condizioni, in cui gli interessi nazionali coincidono con quelli della plutocrazia, il massimo dovere del proletariato è verso la propria classe", quando si ragiona così si ammette la possibilità che "esistano momenti nella società borghese in cui gli interessi della borghesia non coincidono con gli interessi nazionali: altra giustificazione della tattica passata, altra porta aperta per reinfilarla di soppiatto, altro mezzo per giustificare ogni tradimento avvenire". La conclusione, per Rakovsky, poteva essere soltanto una:

"Non sono le condizioni di ammissione a offrirci garanzie: noi dobbiamo considerarle un minimo e, se necessario, inasprirle. Ma l'Internazionale Comunista dovrà assicurarsi un'altra garanzia. Solo creando un vero e proprio centro del movimento internazionale, un vero e proprio stato maggiore della rivoluzione, munito di pieni poteri per dirigere il movimento in tutto il mondo, solo così ci si potrà convincere dell'adempimento delle condizioni di ammissione".

Sarà questo il cardine della soluzione bolscevica: pugno di ferro al centro a salvaguardia contro una sia pur limitata libertà di manovra concessa alla "base". L'avvenire confermerà la nostra prognosi che non solo non basta un centro del più puro diamante per far marciare diritto una periferia malsicura perché eterogenea, o riottosa perché non saldamente ancorata alle fondamenta teoriche e programmatiche su cui poggia "l'istanza suprema", ma che in questa condizione anormale si annida il pericolo, destinato in date fasi a trasformarsi in certezza, che dalla periferia i vizi d'origine si ripercuotano sul centro impedendogli e di funzionare come centro e di rimanere fedele al programma del quale dovrebbe essere ― o cesserebbe di assolvere la sua funzione ― il depositario (4).

Questa stessa preoccupazione, benché teoricamente meno chiara, traspare dalle dichiarazioni dei delegati francesi di gruppi già aderenti al Comintern, nonché da quelle dello stesso Rakovsky e, successivamente, di Losovsky, entrambi bene al corrente delle tradizioni e consuetudini del PSF ora sulla via di Damasco almeno in larghi settori di base.

Il giovane Lefebvre, poi tragicamente perito con i compagni Lepetit e Vergeat nel ritorno da Mosca via Murmansk, rievocando i trascorsi inguaribilmente riformisti della maggioranza del PSF: "La conversione dei compagni Cachin e Frossard è solo un fatto individuale. Essi torneranno in Francia ed esporranno le loro dichiarazioni ad una folla attenta: è da temere che, sotto l'influsso di un lungo passato opportunista e del loro particolare modo di pensare [...], spingendo il partito verso l'Internazionale Comunista essi gli appioppino un programma minimo che avrebbe per noi francesi lo svantaggio di rendere puramente platonica l'adesione all'IC, e per voi, compagni, lo svantaggio ancor più grave di far penetrare nelle vostre file lo spirito di tradimento della II Internazionale. Io affermo che l'atmosfera in Francia è insopportabile. Bisogna mettervi fine. Il cambiamento di opinione di due individui non deve poter esercitare alcuna influenza. Dobbiamo rimanere inflessibili, e io vi assicuro che, se terrete duro, le masse in Francia vi seguiranno senza esitazioni". Guilbeaux: "Non trovo che ci sia molto da rallegrarsi se a Mosca, sotto l'influsso dell'atmosfera rivoluzionaria in cui sono piombati dalla sera alla mattina, i rappresentanti di alcuni partiti di centro si dichiarano per il comunismo. Non metto in dubbio la loro sincerità, ma mi chiedo se, tornati a Parigi nell'atmosfera pestifera del PS o della Camera dei deputati, non ricadranno nei loro errori [...]. Dobbiamo prima creare il ceppo di un solido Partito comunista e attrarre in questa formazione le masse; non aggregarle a noi in modo artificiale [...]. Se, dopo un periodo di prova di 6 o 12 mesi, si volessero ammettere partiti che per anni e anni hanno errato o tradito, temo che alla fine essi saranno in maggioranza nell'IC, e sostituiranno alla sua rossa bandiera un'altra, simile come una goccia d'acqua a quella della II Internazionale". Goldenberg, per la gioventù socialista francese (ma sulla stessa linea si batté lo svizzero Herzog): "Protesto contro il modo artificiale di ammettere nelle file dell'IC elementi che non le sono nemmeno favorevoli [...]. Il proletariato francese ha un solo mezzo per condurre la lotta contro la II Internazionale: formare un partito comunista ben organizzato, contenente unicamente militanti comunisti". Parole sante; ma, perché non restassero soltanto parole, bisognava appoggiare lo sforzo da noi vigorosamente intrapreso per completare ed inasprire le clausole del testo, invece di tacere (come Rosmer) o votare contro (come Goldenberg); bisognava essere poi disposti a battersi a Parigi o a Berlino perché la loro applicazione avvenisse col massimo rigore possibile come facemmo noi in Italia, e, per far ciò, guardare oltre il meschino perimetro nazionale. Non si fece né l'una né l'altra cosa: si strillò a Mosca, si cedettero le armi in Francia.

É qui che, superando gli angusti confini di questioni locali e contingenti, anzi ignorandoli, si inserì l'unico contributo di impostazione teorica generale recato dai comunisti dell'Occidente europeo alla soluzione del problema: il discorso del rappresentante della Frazione comunista astensionista del PSI, integralmente riprodotto al termine di questo capitolo (5). Esso si riallaccia al colpo di barra delle leniniste Tesi di Aprile che, imponendo una definitiva rottura sia con i socialpatrioti, sia con gli opportunisti negatori della necessità dell'insurrezione armata e dell'instaurazione della dittatura come sola via all'emancipazione proletaria, avevano poggiato su basi imperiture i princìpi della costituenda Internazionale Comunista. La fondazione di questa ci aveva ricondotti al marxismo nella sua integrità originaria, mentre l'onda di una situazione potenzialmente rivoluzionaria metteva in moto il proletariato di tutti i paesi e operava nei vecchi partiti socialisti una selezione naturale, una selezione organica. A distanza di quasi tre anni, la rivoluzione batteva il passo o era stata sconfitta, la guerra era finita svuotando della sua attualità il problema della difesa nazionale; in tali circostanze, non era difficile neppure per il più incallito riformista accettare a parole le tesi sulla conquista rivoluzionaria del potere, sulla dittatura proletaria, sul terrore rosso. Il pericolo di un'infiltrazione di elementi di destra e di centro era quindi più che mai grave, e l'IC, alla quale non si poteva chiedere, perché non era in suo potere, né di suscitare la rivoluzione dal nulla, né di precipitare il corso degli eventi, ma di preparare il proletariato alla loro soluzione rivoluzionaria, doveva assicurarsi che l'adesione di gruppi e partiti fosse completa e aliena da riserve, applicando con ancor maggiore fermezza e coerenza nei paesi capitalistici avanzati quella dottrina e quel metodo marxisti che Lenin aveva avuto la forza di ristabilire in tutte le loro implicazioni là dove, come in Russia, i rapporti di classe restavano avvolti nel magma di condizioni sociali preborghesi. In altri termini, in Occidente soprattutto, bisognava essere, nell'impostazione programmatica, tattica ed organizzativa, più bolscevichi degli stessi bolscevichi.

La barriera che si poteva e si doveva erigere contro l'opportunismo in tutti i paesi era costituita dall'unicità e univocità di un programma vincolante per tutti in ognuno dei suoi riflessi organizzativi e tattici: se era stato materialmente impossibile redigerlo, urgeva statuire non già, genericamente come al punto 16 (poi 15), che i partiti aspiranti alla adesione elaborassero un nuovo programma "nel senso [o peggio, come in certe traduzioni, nello spirito] dei deliberati dell'IC e in corrispondenza alle particolari condizioni del paese" (comoda scappatoia, questa ultima, per contrabbandare dalla finestra la putrida merce espulsa dalla porta), ma che ne elaborassero uno "nel quale i princìpi dell'IC siano fissati in modo inequivocabile e pienamente conforme alle risoluzioni dei congressi mondiali" (e quelle del II Congresso contenevano, sia pure in forma non del tutto organica, formulazioni programmatiche e di principio basilari); un programma che non si discutesse né si votasse, perché preesistente a qualunque opinione, "scelta" o inclinazione di singoli, comune a tutti come impegno categorico, liberamente assunto, di milizia politica.

Non si trattava di cavilli giuridici, ma di due cardini della dottrina marxista: 1) le applicazioni tattiche delle basi programmatiche del partito devono essere vagliate e decise internazionalmente; 2) il programma non si accetta "per disciplina" come è lecito e doveroso accettare per disciplina una direttiva contingente; o lo "si accetta o lo si respinge, e in quest'ultimo caso si lascia il partito", perché non è materia di congetture, "scelte" od "opinioni". Sul piano organizzativo, ciò significa: "la minoranza che si dichiara contro il programma dev'essere espulsa" (ovvero, aggiungiamo perché così sarà a Livorno, la minoranza del vecchio partito che sola lo abbraccia si... autoespelle!).

Il seguito della discussione convinse gli estensori delle condizioni di ammissione della necessità di adottare il nostro punto di vista, sia inasprendo il tono della premessa introduttiva, sia dando valore di norma e direttiva vincolante al punto 20 già proposto da Lenin, sia infine aggiungendo il punto 21 in forza del quale "gli iscritti al partito che respingono per principio le condizioni e le direttive dell'Internazionale Comunista devono essere espulsi". Fu una vittoria incompleta, non solo perché non venne approvata la proposta di modifica del punto 15 del testo definitivo che noi suggerivamo ben sapendo (e i fatti ne diedero ampia conferma) che le famose "particolari condizioni del paese" sarebbero state invocate, domani come mille volte ieri, per attenuare e infine rendere inoperante il programma comune in tutto il mondo, né l'ulteriore rivendicazione che gli organi direttivi delle sezioni dell'IC fossero composti integralmente da comunisti provati; lo fu anche perché non potemmo né modificare l'orientamento generale del dibattito, intonato alla prospettiva del "recupero" di larghe frazioni dei vecchi partiti socialisti, né impedire che la discussione si perdesse, fuori dalle questioni di principio, nei vicoli di accuse e contraccuse di sapore troppo spesso personale e contingente. Le modifiche introdotte ― alle quali non si credette di aggiungere il punto suggerito da Serrati e appoggiato con calore da Graziadei sulla incompatibilità fra adesione all'IC e appartenenza alla massoneria (oggetto di memorabili battaglie nel movimento socialista italiano) ―, resero senza dubbio più aspre le condizioni di ammissione, ma è chiaro che la loro efficacia nell'opporre una "barricata insuperabile" al riformismo risorgente dipendeva dalla ferma decisione di applicarle in tutto il loro rigore, specialmente se, come noi ritenevamo a differenza dei bolscevichi, la battuta d'arresto nella marea rivoluzionaria si fosse dimostrata più lunga e tenace di quanto non potesse apparire nei giorni in cui l'Armata rossa minacciava Varsavia e il proletariato dava segni dovunque di impetuoso risveglio dopo le troppe sconfitte subite.

La lotta contro l'opportunismo doveva essere condotta su tutti i fronti e senza quartiere; ma sarebbe stata resa più difficile dall'adozione di mezze misure che o lasciavano socchiusa ai riformisti almeno la porta di servizio, o rischiavano di riammetterli nell'IC tramite questa o quella smagliatura dopo che erano stati messi fuori dal partito di origine ― come appunto avvenne con legittimo compiacimento degli attuali paladini di una variante dell'opportunismo mille volte peggiore di quella massimalista o indipendente di allora; e avvenne a prezzo della liquidazione non soltanto politica ma fisica del partito di Lenin. Il nostro monito doveva essere accolto, se non nel 1920, almeno quando, a partire dall'anno successivo, si riconobbe che le prospettive rivoluzionarie a breve scadenza si andavano allontanando: era, quello, il momento di stringere i freni, non ― come si fece ― di allentarli! L'aver elevato lo stato di necessità 1920 a virtù paradigmatica dell'avvenire segnò il principio della débâcle. La nostra impostazione, se fosse stata integralmente accolta, avrebbe favorito una selezione organica dei partiti, e quindi dell'Internazionale come partito mondiale unico, sulla base del programma; selezione politica di cui le misure organizzative e disciplinari sarebbero state il punto non di partenza, ma di arrivo. Accettata solo in parte, essa prese posto in quell'armamentario di mezzi di inquadramento di forze non del tutto omogenee, il cui successo nel produrre unitarietà di azione e movimento è sempre esposto all'alea sia di condizioni oggettive particolarmente favorevoli, quindi non meccanicamente ripetibili, sia di fattori soggettivi la cui congiunzione in uno stato maggiore compatto ed efficiente, e il cui persistere malgrado vicissitudini alterne, rappresentano nella storia più l'eccezione che la regola. Ma chi, allora, era disposto, sul piano dei princìpi, ad andare fino in fondo? É tipico che, malgrado le accorate proteste levatesi da più settori per l'atteggiamento di almeno relativa tolleranza verso Cachin-Frossard o Crispien-Dittmann assunto dal congresso, un solo delegato si dichiarò apertamente a favore dell'integralità delle nostre proposte, e fu di quelli che in seguito si affrettarono a cambiar parere: lo svizzero Humbert-Droz. Così volevano i tempi...

La bufera scatenata dalla dichiarazione francese si rinnovò, in un clima ancor più acceso, quando presero la parola i delegati dell'USPD, le cui responsabilità nel sanguinoso epilogo dei moti proletari tedeschi, il cinismo della cui destra e il codismo della cui sinistra, la cui doppiezza in entrambe nell'accostarsi all'IC, erano già state vivacemente denunziate da molti oratori, tutti invocanti la necessità di "rivolgersi alle masse dicendo loro come si condanni l'USPD e non ci si attenda dalle sue istanze superiori ma dai proletari iscritti di manifestare il proposito di schierarsi con la Terza Internazionale, i comunisti russi, la Russia sovietica". L'arringa defensionale della "destra", svolta da Crispien e Dittmann fra continue interruzioni, fu tanto sfrontata quanto avvocatesca (e noi la riassumiamo con una certa ampiezza sia per fornire una riprova di quanto si è già scritto in argomento, sia e soprattutto per mostrare come, nelle risposte, la polemica si elevi, impennandosi, al disopra delle schermaglie di minor rilievo per ricordare ai comunisti di sempre l'abc della loro dottrina, che mai dev'essere dimenticata o taciuta per motivi di... opportunità o convenienza). Noi ci siamo battuti contro la guerra ― essi ebbero il coraggio di sostenere ― non meno degli spartachisti, e se, al termine del conflitto, non abbiamo potuto risolvere la situazione come era nell'interesse della classe operaia, se non siamo stati in grado di instaurare quella dittatura del proletariato ch'era già implicita nel programma di... Erfurt, là dove si parla di conquista del potere politico come premessa alla realizzazione del socialismo, gli è che a tanto mancavano i... punti di appoggio necessari ed era impossibile conferire alla azione degli operai e dei soldati, i cui consigli non erano composti in maggioranza di socialisti rivoluzionari, la forma di un'azione coscientemente rivoluzionaria e proletaria (colpa ― si sa ― delle masse!!!). Se d'altra parte accusate i capi indipendenti d'essere opportunisti, dimenticate che alle cariche direttive essi sono regolarmente eletti, e mai lo sarebbero se, come voi sostenete, fossero dei traditori (allo stesso modo, le loro decisioni tattiche esprimono la volontà democraticamente formulata dai congressi: "in alto", che diavolo, si fa ciò che si desidera "in basso"!). Se ci rinfacciate degli errori, ebbene, chi in questa assemblea è senza peccato lanci la prima pietra! Se abbiamo tardato a prendere contatto con l'IC ritenendone prematura la fondazione, è che, prima di svolgere un ruolo internazionale, gli operai devono essere aiutati (i poverini!) a farsi delle idee chiare sulla dittatura del proletariato e sui mezzi per raggiungerla, e a questo fine occorrono tempo e pazienza, né vi si giunge a furia di scissioni che possono essere necessarie, ma sono in ogni caso deprecabili. Se abbiamo firmato il trattato di pace, è perché sulla Germania pesava l'incubo di una miseria crescente, e quelli che possono fare la rivoluzione non sono i proletari completamente impoveriti e "straccioni", ma solo "gli strati operai il cui livello di vita si è potuto relativamente elevare" (le riforme e la piena occupazione, possibilmente con alti salari, al servizio della rivoluzione!); per lo stesso motivo, pur apprezzando come gesto di solidarietà internazionale l'offerta di grano russo, l'abbiamo respinta preferendo accettare il grano (e tutto il resto) promesso dall'America al doppio fine di salvare voi che ne avevate poco e i nostri operai che stavano crepando di fame. Siamo anche noi, e senza esitazioni, per l'uso della forza, ma non possiamo elevare a principio né la violenza né il terrore; ammettiamo che "in date situazioni" siano necessari, ma non dobbiamo farne professione aperta, perché, se lo facessimo, allontaneremmo quei ceti che sono non solo importanti ma vitali per l'esercizio della dittatura proletaria in avvenire. Se, quando eravamo al governo con i maggioritari, abbiamo respinto la missione russa non lasciandole superare il confine, gli è che eravamo... tre contro tre, e che cosa diavolo si pretende che potessimo fare di più? (Bella scoperta, ribatterà Rakovsky: lo sapete ora, voi pretesi marxisti, che la via del ministerialismo è condannata a priori anche soltanto sul piano delle "conquiste" parziali?). D'altronde, quella missione veniva col proposito pubblicamente dichiarato di svolgere propaganda disfattista e rivoluzionaria nell'esercito; e che cosa avrebbero detto gli Alleati, che cosa i generali, che cosa gli alti funzionari statali? E, per concludere, la freccia del Parto: voi dite che siamo opportunisti; ma non lo siete altrettanto voi nel predicare concessioni ai piccoli contadini? Ci accusate di non aver voluto la fusione con gli spartachisti nel dicembre 1918-gennaio 1919; ma non siete voi stessi a sconfessare il "putschismo" dei deliberati del congresso costitutivo del KPD? Lamentate che non ci dichiariamo apertamente per il terrore; ma che cos'altro sosteneva la Luxemburg nel suo "programma della Lega di Spartaco"? Conclusione retorica: "Formulate la vostra risposta come volete; noi abbiamo l'onesta aspirazione, l'onesto desiderio di costruire un fronte comune con l'Internazionale Comunista. Non potete contestare le nostre convinzioni, i nostri sentimenti, la nostra attività rivoluzionaria. Rivoluzionari noi restiamo anche se ci sospettate d'essere opportunisti". Tutto insomma dipende non già da noi, ma da voi: "Se volete la stessa cosa che noi vogliamo, cioè stringere in unità compatta il proletariato di Russia e di Germania, sforzatevi allora, seriamente come noi ci sforziamo [!!!], di trovare nelle ulteriori trattative una via che ci permetta di procedere rapidamente insieme nella comune battaglia contro il capitalismo, per il bene del proletariato mondiale!".

La risposta di Lenin fu breve e tagliente, e noti il lettore come tocchi alcuni dei punti di principio sui quali Il Soviet aveva più di frequente insistito. Quando si pretende d'essere in regola col marxismo perché si è sempre stati per la conquista del potere politico (gli indipendenti si appellavano al programma di Erfurt; i riformisti italiani a quello di Genova!) si "elude la sostanza della questione; si ammette la conquista del potere politico, ma non si ammette la dittatura": si è dei kautskiani! Lo si è una volta di più quando ci si presenta formalisticamente come espressione della volontà delle masse o degli iscritti al partito, sottacendo le tendenze contrastanti da cui sono percorsi gli uni e le altre. Lo si è quando si deplora la scissione, invece di riconoscere che "la classe operaia internazionale si trova ancora sotto il giogo della aristocrazia operaia e degli opportunisti" e che troppo tardi ci si è divisi dai Noske e dagli Scheidemann. Lo si è a maggior ragione quando si afferma (in un linguaggio che "mi domando se sia lecito usare in un partito comunista, un linguaggio controrivoluzionario") che la rivoluzione è possibile solo nel caso in cui la situazione degli operai non peggiori "troppo":

"la vittoria dei proletari è impossibile senza sacrifici, senza un peggioramento temporaneo della loro situazione [...]. Sul piano storico mondiale è vero che, nei paesi arretrati, i coolies cinesi non sono in grado di fare la rivoluzione proletaria, ma in alcuni paesi più ricchi, dove mediante il brigantaggio imperialistico si vive meglio, è controrivoluzionario dire agli operai che devono temere un peggioramento "troppo grande". Bisogna dire il contrario. Un'aristocrazia operaia che ha paura dei sacrifici, che teme di impoverirsi "troppo" durante la lotta rivoluzionaria, non può aderire al partito. Altrimenti la dittatura è impossibile, soprattutto nei paesi dell'Europa occidentale"!

Si è infine dei kautskiani all'ennesima potenza, quando fra violenza e terrore si fa una distinzione "forse possibile in un manuale di sociologia ma non nella pratica politica, soprattutto nelle condizioni tedesche... Non soltanto Kautsky, ma anche Ledebour e Crispien parlano del terrore e della violenza in uno spirito controrivoluzionario. E un partito che si adatti a queste concezioni non può dare il suo contributo alla instaurazione della dittatura".

Ed è vano il tentativo di prendersi la rivincita accusando i bolscevichi di parlare a favore del piccolo contadino e della sua azienda invece di proporre l'immediata socializzazione di tutta la proprietà terriera e di tutte le forme di gestione di essa: è una "concezione pedantesca" che ignora il persistere in regime borghese, accanto alla grande azienda capitalistica a lavoro associato, di un'enorme varietà di forme semifeudali o comunque precapitalistiche, non passibili d'essere immediatamente eliminate; e che ci preclude la possibilità di avere con noi nella rivoluzione i contadini poveri. Pretendete dunque che le vostre "convinzioni rivoluzionarie" siano riconosciute? "Lo contesto nel modo più energico; non nel senso che non vogliate agire in modo rivoluzionario, ma nel senso che non riuscite a pensare da rivoluzionari... Siete imbevuti da cima a fondo di spirito borghese!".

Non si creda che a Mosca la cosiddetta sinistra indipendente abbia avuto da dire molto di più o di meglio della "destra". Se Däumig se la cavò con l'argomento che il suo partito andava giudicato in base non a un equivoco ieri ma ad un limpido oggi in cui "tutto scorreva e fermentava" e quindi, "in una dura lotta contro le resistenze della materia" (!!!), nulla vietava di radicare nelle sue file i princìpi della conquista violenta del potere e della dittatura, Stöcker deprecò l'idea della scissione; del terrore disse che "altro è averne chiara la necessità, altro farne propaganda aperta"; venne di rincalzo a Crispien notando che in periodo rivoluzionario non si potranno certo evitare gravi turbamenti del processo produttivo, ma "in un paese industriale come la Germania, bisognerà attribuire maggior valore al mantenimento della continuità della vita economica, che in un paese agricolo come la Russia". E toccò a Zinoviev richiamare le esperienze non solo della vittoriosa rivoluzione bolscevica ma della purtroppo vinta rivoluzione tedesca ("non c'è una strada, nei quartieri operai delle vostre grandi città, in cui sangue proletario non sia corso... Come potete esitare nella questione del terrore?") e concludere: "Abbiamo bisogno non che ci si genufletta davanti alla rivoluzione russa e all'Internazionale Comunista: dobbiamo avere la certezza che in tutti i paesi si faccia il proprio dovere": in base a questi princìpi e solo ad essi il Comitato esecutivo potrà decidere chi, come e quando, accogliere nelle proprie file.

Prima di Däumig e Stöcker, aveva preso la parola Serrati. Flebile nella parte introduttiva ― col tedioso lamento sulla difficoltà di intendersi dopo un lungo isolamento reciproco, quasi che i marxisti non possedessero un loro linguaggio e si capissero solo in forza di... rapporti umani, e sul complesso d'inferiorità dal quale i congressisti erano vinti al cospetto dei bolscevichi ("Che cosa sono io in confronto al compagno Lenin?"), il suo discorso era stato tutto un'apologia della tolleranza, un inno al vogliamoci-bene: "Si aprano le porte dell'Internazionale a tutti i partiti in grado di fare con noi la rivoluzione [formula larga quanto le braccia della provvidenza], poi si discuta" invece di posare a "maestri che amministrano voti buoni o cattivi ai loro alunni"! Il suo ragionamento era stato degno del materialismo meccanicistico della II Internazionale decadente: Non si tratta di giudicare uomini e correnti (datemi, se ci riuscite, un "sincerometro"!), ma di stabilire se la situazione nel tal paese è o no rivoluzionaria, perché "è la situazione generale che crea gli uomini, non viceversa". In Francia, per esempio, rivoluzionaria essa non è; quindi, suscita "atteggiamenti equivoci e confusi, un cenno del capo a destra e uno a sinistra, senza mai sapere che cosa si vuole". In Germania, per contro, la situazione è rivoluzionaria; quindi l'USPD è meglio del PSF benché peggio del PSI, che da parte sua opera in una situazione di vigilia rivoluzionaria ― e, in tali circostanze, che conta un Turati il quale, dopo tutto, "osserva la disciplina", esercita un'influenza trascurabile (ma guai se dovesse andarsene trascinandosi dietro qualcuno: la reazione, dalla quale egli è deciso a difendere gli operai, ci spazzerebbe via!), ha alle sue spalle un opposizione alla guerra condotta "non solo da pacifista, ma da nemico dell'opportunismo borghese" e, nei discorsi tanto deplorati da Lenin e Zinoviev, ha il coraggio e la scaltrezza di dire alla borghesia: "Vedi? Non sei più in grado di mantenere il potere, di dominare sul popolo: fatti da parte"? Le condizioni 15 e 16 parlano di tener conto delle particolari circostanze di ciascun paese (solo per questo, convinto che l'Esecutivo "le interpreterà in senso lato", io Serrati voterò i 21 punti!): lasciate dunque a noi "la scelta del momento dell'epurazione del partito; tutti vi assicuriamo ― e nessuno, credo, vorrà accusarci di aver mai rotto la nostra parola ― che essa sarà compiuta; ma dateci la possibilità di compierla noi stessi in modo vantaggioso per le masse lavoratrici, per il partito, per la rivoluzione che stiamo preparando!" (con quanta chiarezza di idee e coerenza di azione, si è visto).

La risposta di Lenin, com'é facile immagine, non era stata meno dura che per gli indipendenti tedeschi: il discorso di Serrati "è di quelli che abbiamo già sentito pronunciare nella II Internazionale ― era scattato ― [...] Egli non fa che ripetere ciò che ha detto Crispien" (finalmente! da mesi andavamo ripetendo che il massimalismo era parente prossimo del centrismo indipendente!). Che razza di partito è mai, quello il cui rivoluzionarismo dipende dagli alti e bassi della situazione? "Anche in una situazione controrivoluzionaria si può e si deve condurre una propaganda rivoluzionaria... In ciò appunto risiede la differenza fra comunisti e socialisti". E che c'entra la volontà dei riformisti di difendere il proletariato dalla reazione? "Anche Cernov, anche i menscevichi e molti altri ancora in Russia "difendono" il proletariato; ma non è una buona ragione per accoglierli nelle nostre file"!

Più avanti, Zinoviev dichiarò inaccettabile lo stato di cose che in Italia permetteva ai riformisti di manovrare a piacer loro i sindacati: "Se i capi del PSI lo tollerassero ancora a lungo, noi ci rivolgeremmo, al disopra delle loro teste, agli operai italiani". Due memorabili strigliate; ma è giocoforza riconoscere che, tradotte in pratica, sia in Lenin che in Zinoviev esse non andavano oltre la rivendicazione del "rinnovamento del partito", così come, per l'USPD e il PSF, non andavano oltre la vigile attesa delle decisioni dei loro congressi e il rinvio fino ad allora di un giudizio sulla possibilità di ammetterne o no l'ala secessionista: verdetto, almeno per quest'ultima, sospeso...

La discussione, di cui tralasciamo gli aspetti minori, volgeva alla fine. Contro due soli voti (6) le 21 condizioni vennero approvate: fermissime nelle direttive d'azione, esse risultarono relativamente blande nei criteri posti a base della costituzione dei partiti aderenti. Non è difficile notare le profonde convergenze ma anche i punti di distacco fra il testo definitivo e le richieste contenute nel discorso Bordiga (7). Pur nelle loro lacune e indeterminatezze, le "condizioni" formavano tuttavia una solida base di appoggio su cui lavorare nei mesi venturi; non l'optimum, ma la premessa del suo conseguimento. La nostra Frazione era decisa a considerarle tali: perciò in Italia vi fu Livorno, non Tours, e nemmeno Halle! La tragedia è che tanto non bastò, né poteva bastare, per le sorti dell'Internazionale di Lenin...

Note

(1) Mattina e pomeriggio del 29, e 30 luglio. Protokoll, cit., pagg. 234-401. Le Condizioni sono riprodotte più oltre, pagg. 685-690.

(2) Cfr. pagg. 431-432.

(3) Le repliche a Cachin sono, nel seguito, sempre di Rakovsky.

(4) Si notino d'altra parte le "eccezioni" che limitano i poteri discrezionali d'intervento dell'Esecutivo, e che purtroppo saranno poste al servizio di frettolose ammissioni di interi gruppi di "convertiti".

(5) Pagg. 690-692.

(6) Alle tesi avevano espresso adesione completa Bombacci e Polano, quest'ultimo con la riserva che era difficile "da un lato epurare il PSI, mentre dall'altro si accettano gruppi opportunistici in provenienza dall'USPD e dal PSF"; il primo ― volubile come sempre ― con l'aggiunta che bisognava smembrare tutto il partito, non fermarsi ai Turati o ai Treves!

(7) Entrambi in appendice, pag. 685 segg. e 690-692.

c) I Partiti comunisti e il parlamentarismo.

Gli illustri storiografi del superopportunismo vorrebbero dare a bere al colto pubblico e all'inclita guarnigione che il vero nodo del II Congresso sia stata la questione del parlamentarismo rivoluzionario e che, d'altra parte, la partecipazione alle elezioni e all'attività parlamentare costituisse per Lenin e per i bolscevichi la vera pietra di paragone dei partiti comunisti. Il primo assunto è smentito dal gigantesco corpo di tesi per il II Congresso, che pone al centro di quest'ultimo le questioni di principio della rivoluzione, della dittatura, del terrore rosso e della preparazione necessariamente antiparlamentare del proletariato ad essi; il secondo trova la sua smentita nel preambolo e in tutti i paragrafi delle tesi sul parlamentarismo (1), che collocano l'attività elettorale e parlamentare, svolta in funzione (e solo in funzione) rivoluzionaria, fra le armi e gli strumenti sussidiari e neppur sempre validi della lotta comunista. Nella misura in cui, esigendo che la prassi del parlamentarismo rivoluzionario (cioè con finalità antiparlamentari) fosse dichiarata vincolante con tutte le sue deduzioni pratiche, i bolscevichi ne fecero uno dei banchi di prova dell'efficienza rivoluzionaria dei nascenti partiti comunisti, essi avevano di mira, da un lato, la demolizione dei pregiudizi parlamentari e democratici sopravviventi nel movimento operaio e battuti fieramente in breccia in ogni accapo delle Tesi (il che, per gli illustri storici, non è uno schiaffo ma un sonoro ceffone!), dall'altro lo smantellamento dei pregiudizi inversi, a sfondo anarchico, sindacalista, operaista, in forza dei quali l'astensionismo era poggiato o su considerazioni morali (ripudio del "potere", della "autorità", dei "capi", scrupolo di "purezza", condanna del compromesso in sé e per sé ecc.), o sulla identificazione fra lotta parlamentare e lotta politica in genere, o infine sul rifiuto della stessa lotta politica a favore di quella puramente economica, e del partito a favore dei sindacati (o, contro questi ultimi, dei consigli di fabbrica od altro), oppure facevano un solo fascio di parlamenti e sindacati reazionari propugnandone allo stesso titolo il sabotaggio; più in generale, avevano di mira la critica di quelle correnti alle quali si erano aperte le porte dell'Internazionale nella fiducia di poterle solidamente inquadrare sotto una direzione centralizzata e servirsene come efficace contrappeso ― in quanto schiettamente proletarie ― alle ali "comuniste" di partiti nati dal ceppo infido della II Internazionale e non ancora sbarazzatisi del suo pesante retaggio; correnti che riproducevano in sé per altri versi l'identica malattia democratica, il culto delle masse sovrane o perfino dell'individuo sovrano. In entrambi i casi, i bolscevichi si muovevano sullo stesso terreno nostro, e il dissenso fra noi e loro verteva su questioni che presupponevano l'accettazione senza riserve dei princìpi antidemocratici del comunismo.

Si confrontino le tesi Lenin-Bukharin (e la loro premessa, scritta da Trotsky) con quelle presentate dalla nostra Frazione, come le riproduciamo in appendice (2). Identica è la diagnosi della funzione antirivoluzionaria dell'istituto parlamentare come strumento di governo della borghesia; identica la negazione del parlamentarismo e come "forma del futuro ordine sociale" e "come forma della dittatura di classe del proletariato", e della possibilità di "conquistarlo" per metterlo al servizio della lotta di emancipazione del proletariato; identica la proclamazione che compito del comunismo è la distruzione degli istituti parlamentari e democratici (si vedano in particolare i punti 1-6, par. I, delle tesi dell'IC); identica la condanna dell'"antiparlamentarismo per principio" (punto 16, par. III) come di ogni illusione di "via parlamentare al socialismo"; identico il rifiuto di considerare motivo di scissione nel movimento comunista la questione del parlamentarismo in funzione antiparlamentare ed eversiva o, viceversa, dell'astensionismo come mezzo all'identico scopo, trattandosi in ogni caso di questione sussidiaria rispetto a quelle che definiscono e, nello stesso tempo, reggono il partito di classe (punto 19). Identica infine la condanna dell'"indifferenza" anarchica per quella manifestazione tipica della democrazia borghese che sono le elezioni e il parlamento, giacché il nostro astensionismo postula l'intervento nei comizi elettorali in funzione di attacco politico all'impalcatura democratica del dominio di classe capitalistico e la costante denuncia delle illusioni e mistificazioni parlamentari.

Le tesi Lenin-Bukharin escludono d'altra parte che la partecipazione alle elezioni e al parlamento possa essere elevata a direttiva permanente; e non solo non negano, ma proclamano la necessità, in date circostanze chiaramente specificate, del boicottaggio delle une e dell'altro (punto 17), il che, sia detto per inciso, mette un'altra pietra tombale sulla pretesa dei cosiddetti "leninisti" d'oggi di parlare in nome di... Lenin; essi, se mai ammettono il boicottaggio di Montecitorio e di Palazzo Madama, lo fanno nell'unica prospettiva, esplicitamente esclusa dalle Tesi 1920 che... democrazia e parlamentarismo abbiano bisogno d'essere salvati!

Dove, dunque, si colloca la divergenza? Le nostre Tesi lo spiegano anzitutto (diciamo anzitutto, perché qui è la questione di fondo) nei punti 6-7: la partecipazione alle elezioni e all'attività parlamentare era utile e perfino necessaria, a scopi di propaganda, agitazione e critica, quando il problema della preparazione alla conquista del potere non si poneva come prospettiva unica e diretta; lo è ancora nei paesi in cui la rivoluzione borghese è tuttavia in corso e il parlamento conserva il suo originario carattere di istituto storicamente rivoluzionario in senso antifeudale (Russia 1917, paesi coloniali e "arretrati" 1920 e, in parte, ancor oggi). Nei paesi ad antica tradizione democratica, invece, dove la rivoluzione borghese è da tempo conclusa, non solo tutte le energie del partito e della classe devono essere consacrate alla preparazione dello sbocco rivoluzionario, ma a questo fine devono essere spietatamente sradicate le tradizioni, le abitudini, i pregiudizi, le illusioni connesse alla pratica corrente del parlamentarismo; ivi e in questa fase ― che non si misura né a mesi né ad anni, perché copre l'intero ciclo storico destinato a concludersi con la vittoria mondiale del proletariato rivoluzionario ― il boicottaggio del parlamento (ma l'utilizzo dei comizi a fini di denuncia del lurido mito della "sovranità popolare") si impone perché chiarezza sia fatta nella selva oscura della gigantesca mistificazione tessuta intorno alle dée gemelle "scheda ed urna" come "armi" della conquista del potere.

Le considerazioni d'ordine pratico avevano, rispetto a questa considerazione di principio, valore secondario; quello che né allora né poi si capì è che neppur esse non avevano nulla a che vedere con la "paura di sporcarsi le mani" o di "perdere tempo" o di "correre inutili rischi" o di "compromettersi" anche non volendo; non si capì che rispondevano alla diagnosi essenziale secondo cui, perché i giovani partiti aderenti alla III Internazionale, soprattutto nei paesi di capitalismo stramaturo e quindi di tabe parlamentare incancrenita, rispondessero nei fatti alla propria qualifica di comunisti, tutta l'impostazione tradizionale della loro attività e della loro organizzazione andava non solo "raddrizzata" (come si preoccupano di raddrizzarla le Tesi dell'IC, al par. IV, con tutta una serie di clausole cautelative) ma CAPOVOLTA poggiandola su basi antitetiche a quelle del passato e impegnando tutte le forze su un terreno di lotta non solo antilegalitario ma illegale; cosa impossibile in un Occidente dove la partecipazione elettorale e parlamentare postula l'assorbimento della maggior parte delle energie in un meccanismo che tutto stritola e toglie il respiro. Orizzonti completamente nuovi dovevano essere aperti sia ai militanti comunisti, sia ai proletari in generale; orizzonti ben chiari e, per così dire, ovvi nella Russia zarista, dove due rivoluzioni si accavallavano e ogni attività politica di vera opposizione assumeva subito e di per sé natura, forma e carattere rivoluzionari ― anche nella Duma, per modesto e secondario che fosse quel "teatro di guerra" ―, e che ovvi e chiari sarebbero divenuti anche in Occidente se le ultime bende democratiche fossero state strappate dagli occhi agli operai.

I bolscevichi si preoccupavano ― a ragione ― di riorientare gli "antiparlamentaristi per principio"; non videro ― nella loro ottica di poderosi militanti di una rivoluzione duplice ― che sarebbe stato prima necessario rieducare da cima a fondo i "parlamentaristi per abito mentale e consuetudine", per oneste che fossero le loro aspirazioni anti-democratiche. "La questione cardinale è quella del partito ― dirà Bukharin, relatore per le Tesi dell'IC. Se avete un partito veramente comunista, non temerete mai di mandare uno dei vostri uomini nel parlamento borghese, perché egli saprà come un rivoluzionario ha il dovere di agire". Ma il problema andava rovesciato: non avremo mai un partito "veramente comunista" se non sposteremo di 180° l'asse della sua attività; e non potremo spostarlo se non facendo piazza pulita delle tradizioni, tenaci come la più terribile forza di inerzia, entro le quali essi sono cresciuti e vivono tuttora. Bukharin cercava la garanzia "che il vecchio parlamentarismo ha cessato di esistere" nel fatto che la selezione dai riformisti e dagli opportunisti fosse "già avvenuta"; per noi, conditio sine qua non di tale selezione (nostra tesi 11) era la rottura completa dei legami col parlamento e coi suoi meccanismi, che inoltre rappresentava un'arma di lotta contro i pregiudizi anarcosindacalisti, nati spesso come reazione istintiva alla degenerazione parlamentare del socialismo (tesi 9). I bolscevichi avevano alle spalle una tradizione unicamente rivoluzionaria che potevano trasportare indenne nel settore ultrasussidiario della Duma, organo giovane e, per le condizioni storiche del paese, ancora teatro di non vane battaglie: da noi, non esisteva che una tradizione al 100% parlamentare esercitantesi in istituzioni ormai svuotate di ogni contenuto non diciamo rivoluzionario ma nemmeno politico (come riconosce proprio e specifico dell'epoca imperialistica e tendenzialmente fascista del dominio borghese la premessa di Trotsky alle Tesi dell'IC).

Questi erano i punti nodali della nostra visione del problema: né le Tesi di Lenin-Bukharin, né le argomentazioni dei loro discorsi, poterono convincerci che non eravamo nel giusto; in realtà, esse non risposero neppure ai quesiti che sollevavamo. Il bilancio l'ha tirato la storia: non solo non sono nati partiti comunisti, ma quelli che si dicono tali sono precipitati nel fango di un parlamentarismo nudo e crudo, che non ha nemmeno il pudore di giustificarsi come, sia pur flebilmente, sentivano di dover fare i Turati, i Treves, i Modigliani!

La commissione per la questione parlamentare, presieduta da Trotsky, aveva apportato alcune varianti al progetto di tesi Lenin-Bukharin, completandole con il preambolo già ricordato che è soprattutto una vigorosa denunzia del carattere e della funzione controrivoluzionari degli istituti rappresentativi della borghesia nell'epoca imperialistica ed una critica dell'opportunismo parlamentare dei partiti della II Internazionale e delle sue sopravvivenze in quelli che intendevano aderire alla III. Purtroppo, la discussione (3) aperta dalla sua lettura e dal discorso Bukharin fu in gran parte viziata dall'intrecciarsi alle nostre argomentazioni ― che, come riconobbe il relatore, partivano da premesse teoriche marxiste ― di quelle ingenue, sentimentali o dottrinalmente eterodosse degli "antiparlamentaristi per principio", e, a causa della loro eccessiva insistenza su situazioni locali o su aspetti contingenti del tema, finì per ruotare intorno a questioni di dettaglio pratico, invece di prendere di petto il problema di fondo. Gli stessi bolscevichi, nell'ansia di evitare che "da premesse giuste si deducessero conclusioni sbagliate", o che si affrontassero le gravi e difficili questioni della tattica comunista da un angolo morale, sentimentale e perfino... estetico cadendo nell'idealismo da un lato e nel nullismo dall'altro, persero di vista i punti che avrebbero dovuto costituire il centro di gravità del dibattito: 1) la demolizione di quelle "sopravvivenze di mentalità parlamentare" nei partiti aderenti o ansiosi di aderire all'IC, di cui il discorso Bukharin (4) aveva pur fornito una documentazione schiacciante, 2) l'analisi critica delle loro cause ― premessa per l'adozione di rimedi efficaci a un male riconosciuto cronico o semicronico.

Bukharin credette di vedere "un ponte", sul piano tattico, tra il nostro astensionismo e quello degli "infantilisti di sinistra"; ma ritorsioni polemiche come quella che noi ― a giusta ragione da un punto di vista sentimentale, a torto da un punto di vista politico ― avremmo aborrito dal "contatto fisico" con i borghesi nelle elezioni e al parlamento (il "contatto" da noi denunziato era tuttavia di ben altra natura; si identificava con l'interclassismo a base di tutta la concezione democratica e della sua traduzione in termini di prassi elettorale e parlamentare!), o come l'altra che ci sfidava a provare l'impossibilità logica dell'utilizzo della tribuna di Montecitorio o del Reichstag a fini di propaganda e agitazione antiparlamentare (ma il problema non era "logico"; era storico e dialettico!), queste ritorsioni polemiche da un lato sbagliavano mira, dall'altro giravano intorno alla questione centrale senza sfiorarla, mentre era teoricamente improprio e agli effetti pratici pericoloso, anche se polemicamente suggestivo, equiparare come "istituzioni" l'esercito, in cui tuttavia chiediamo ai comunisti di entrare per minarlo dall'interno, e il parlamento in cui da parte astensionista si pretende che non si debba entrare al fine di distruggerlo (ma l'istituto parlamentare non è soltanto ― ed è già molto ― un organo del dominio di classe borghese; è anche il terreno di coltura di una mistificazione alla quale i proletari si sono rivelati, tramite l'opportunismo, particolarmente vulnerabili!). Il solo argomento a favore del "parlamentarismo rivoluzionario" che potesse addurre Bukharin e infatti addusse, era l'esperienza bolscevica alla Duma zarista (ma il punto era se tale esperienza fosse meccanicamente applicabile all'Occidente marcio di democrazia da più di un secolo!); e la sua esortazione a liberarsi dalle scorie socialdemocratiche per divenire partiti "veramente comunisti" ed essere quindi in grado di uscire illesi dalla prassi elettorale, eludeva il grosso quesito: come ottenere che partiti i quali si trascinavano dietro fino a Mosca la zavorra di "sopravvivenze" parlamentari dure a morire e al cui ingresso in forze nell'IC le condizioni di ammissione, anche nella loro forma definitiva, non opponevano un argine sufficiente (o almeno non lo avrebbero opposto se applicate con eccessiva latitudine), rispondessero infine ai requisiti di organizzazioni "veramente comuniste"?

É su questi temi di fondo che ritornò nel suo rapporto (5) il delegato della Frazione comunista astensionista del PSI: riaffermazione che il nostro antiparlamentarismo derivava, diversamente da quello anarchico o sindacalista, dalla critica marxista della democrazia borghese; impossibilità di mettere sullo stesso piano le condizioni storiche in cui si era svolta l'azione anche, e solo sussidiariamente, parlamentare dei bolscevichi in Russia (condizioni analoghe a quelle del 1848-49 in Germania, quando Marx ed Engels delinearono la prospettiva della doppia rivoluzione) e le condizioni storiche in cui, nell'Occidente a capitalismo avanzato, urgeva indirizzare la classe operaia verso l'obiettivo unico della presa rivoluzionaria del potere e dell'abbattimento dello stato borghese e dei suoi ingranaggi (prima assai di poter iniziare l'opera di soppressione dei rapporti di produzione e quindi anche di proprietà capitalistici) demolendo ogni illusione gradualista e parlamentare e togliendo il terreno sotto i piedi alla reazione istintiva, ma di tipo sindacalista, dell'"antiparlamentarismo per principio" o per orrore dei "capi" o per disdegno dell'"azione legale"; impossibilità di considerare la nostra tattica antiparlamentare alla stessa stregua di chi preconizzava l'uscita dai sindacati; urgenza di selezionare partiti e militanti al vaglio di una posizione non equivoca di fronte alle elezioni e al parlamento, che negli stati capitalistici più evoluti assorbono per forza di cose il massimo delle energie dei partiti trasformandoli in grandi macchine di fabbricazione di voti e mandati; necessità di adottare in questi paesi "una tattica molto più diretta di quella che fu necessaria nella rivoluzione russa"; infine, riaffermazione che la questione non poteva e non doveva portare a scissioni nel movimento comunista mondiale, e assicurazione che, qualunque fosse la decisione del congresso, noi l'avremmo applicata col massimo impegno augurandoci che il consuntivo del "parlamentarismo comunista" risultasse in futuro meno squallido di quello presentato da Bukharin nella sua relazione per riguardo al passato.

Gli interventi che seguirono meritano appena un cenno perché o si limitarono a riferire su esperienze locali positive di azione parlamentare comunista (per esempio in Bulgaria e, secondo i "partecipazionisti", in Inghilterra) o negative (in Inghilterra secondo l'"astensionista per principio" Gallacher, o in Svizzera secondo Herzog), e a sollevare questioni d'ordine pratico per risolvere le quali si potevano proporre risorse tattiche opposte a quelle propugnate (vedi il discorso Murphy), o si rifecero a premesse antimarxiste (come quello del sindacalista tedesco Suchy, per il quale il parlamentarismo era il logico prodotto del... dottrinarismo e settarismo marxista in generale!). Solo nel discorso dello svizzero Herzog le questioni di fondo vennero riprese e collegate alla prospettiva inquietante dell'afflusso nell'IC di intere ali di partiti socialisti frettolosamente orientatesi verso il comunismo ma sostanzialmente legate a tradizioni ultralegalitarie ed ultraparlamentari (PSF, USPD!); anche qui, però, solo di sfuggita. Si può capire che la confusione così venutasi a creare abbia forzato la mano nelle loro repliche a Lenin e Bukharin, ma ciò non toglie che la loro polemica, al solito rovente quanto spregiudicata, eluse il vero nocciolo della questione e scivolò in affermazioni la cui audacia poteva non preoccupare in chi aveva dato mille prove di non perdere mai la bussola dei princìpi, ma aveva il grave difetto di fornire argomenti a eventuali "conclusioni sbagliate" in senso opportunista.

Dire, come fece Lenin riprendendo un accenno polemico di Bukharin, che i Soviet non esistono ancora fuorché in Russia, né si possono creare ad arte, mentre i parlamenti sono lì a portata di mano come prodotti di uno sviluppo storico che non si può eliminare dalla faccia della terra solo perché non si è ancora capaci di scioglierlo con la forza ― e noi abbiamo il dovere di utilizzarli come uno dei tanti mezzi, sia pure sussidiari, per favorire lo snodamento delle situazioni politiche che necessariamente vi si riflettono ―, significa, contro ogni migliore intenzione (il delegato astensionista non esitò a dirlo nella sua replica finale), fornire un'arma provvidenziale a quanti propugnano addirittura la partecipazione comunista a governi borghesi ― mezzo anche questo, senza dubbio, per influire sugli eventi, ma in direzione opposta a quella del comunismo! Dire che anche i sindacati sono opportunisti e come tali rappresentano un pericolo, quindi ― stando alla logica dell'astensionismo ― dovrebbero essere disertati, significa dimenticare sia pure per un momento che, reazionari o no, i sindacati restano organizzazioni di soli proletari; non sono istituti interclassisti nella forma e classisti (borghesi) nella sostanza. Riconoscere la necessità di sollevare gli strati arretrati della classe operaia alla comprensione di ciò che ancora sfugge ai loro occhi, cioè la funzione controrivoluzionaria del parlamento, fornendo loro nei fatti e non soltanto nelle parole la dimostrazione della impossibilità di utilizzarlo come mezzo di emancipazione delle classi sfruttate, è servirsi di una spada a doppio taglio e, peggio, metterla nelle dubbie mani di teorici dell'impiego di ogni mezzo per raggiungere (sedicentemente) il fine: è smentire la nostra tesi fondamentale che il partito ha il compito di precedere le masse, non di seguirle. Rinfacciarci l'ingenuità di credere che gli intellettuali, le classi medie, la piccola borghesia diverranno comunisti non appena il proletariato abbia conseguito la sua vittoria nella rivoluzione, è sfondare una porta aperta per noi e aprirne una a coloro ai quali l'abbiamo sbattuta in faccia; i paladini del corteggiamento delle mezze classi col pretesto che, dopo tutto, esse hanno un peso di cui non possiamo concederci il lusso d'ignorare l'esistenza. Richiamarsi alla situazione "rivoluzionaria" mondiale come sicura garanzia contro la corruzione dei comunisti in parlamento (Bukharin!), significava affidarsi al potere misteriosamente salutifero di contingenze che pure non avevano ancora avuto la virtù di impedire a interi partiti operai di non lasciarsi... corrompere fino al midollo. "Abbasso il parlamentarismo!" gridò Bukharin a chiusura del dibattito anche per fugare le apprensioni di sindacalisti rivoluzionari, shop stewards, IWW: noi sapevamo bene che tale era il suo grido del cuore, ma non bastava il grido più sincero e appassionato per far marciare sulla via diritta coloro che, ne avevamo l'assoluta certezza, comunisti erano soltanto di nome e magari volevano esserlo anche di fatto, ma dovevano percorrere ancora una lunghissima strada e distruggere più di un "vecchio Adamo" in fondo a se stessi prima di diventare tali. Allo stesso modo, sapevamo che l'audacia di alcune battute polemiche non significava nei bolscevichi rinuncia ai princìpi e avallo di tesi come quelle che temevamo sarebbero state appioppate loro; ma il punto è che le parole, come i libelli, habent sua fata, sono anch'esse fatti materiali le cui conseguenze possono sfuggire al controllo di chi le pronuncia ed essere poste al servizio della deformazione completa o parziale del suo pensiero, soprattutto da parte di uomini e gruppi non abbastanza solidi, neppure nell'ipotesi migliore, per concedersi il lusso dell'ardimento polemico senza infrangere la teoria, rinnegare i princìpi, e agire contro l'una e contro gli altri.

Di qui la riaffermazione del nostro dissenso nella replica che pure riproduciamo (6) e che fu accompagnata dalla richiesta che le nostre tesi fossero votate soltanto "dai compagni di orientamento astensionista che le accettano in blocco e nel loro spirito perché condividono le affermazioni marxiste che ne formano l'essenza", non avendo esse "nulla in comune con gli argomenti antiparlamentari degli anarchici e dei sindacalisti". Fu un bell'esempio di "selezione organica" operata in forza e sulla base dei princìpi: mentre le tesi dell'IC vennero approvate con un'ottantina di voti contro undici, per le nostre non votarono che tre delegati: belga, svizzero, danese. Polano, per la gioventù socialista italiana, aveva già dato la sua adesione alle tesi "partecipazionistiche" pur dichiarando di interpretare il pensiero solo di una parte, e non la maggiore, dei suoi compagni; Serrati aveva fatto altrettanto riconoscendovi le tesi sostenute dalla maggioranza del congresso di Bologna ma non perdendo l'occasione per tessere l'ennesima apologia del gruppo parlamentare socialista e della sua leale applicazione del "parlamentarismo rivoluzionario" (7)!

E la questione fu chiusa. Aggiungiamo che il solo partito ad applicare nella lettera e nello spirito il "parlamentarismo alla bolscevica" fu, nel 1921, il PCd'I diretto dalla Sinistra ― non a caso, perché la selezione praticata a Livorno era stata abbastanza drastica per mettere in fuga ogni... "parlamentarista per principio"!

Note

(1) Riprodotte più oltre, pag. 692 segg.

(2) Pagg. 699-702.

(3) Sedute antimeridiana e pomeridiana del 2 agosto. Protokoll, pagg. 404-442.

(4) Integralmente riprodotto nel citato O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale, pagg. 36-41.

(5) Riprodotto più oltre, pagg. 702-706.

(6) Pag. 707.

(7) Da parte sua Goldenberg propose un emendamento sulla necessità del boicottaggio degli istituti parlamentari in periodo rivoluzionario, del tutto pleonastico dato che le tesi Lenin-Bukharin lo proponevano giù in modo esplicito.

d) Il movimento sindacale, i consigli di fabbrica e di azienda e l'Internazionale Comunista.

Il corpo di tesi definitivo su questo importantissimo tema fu il risultato di lunghi dibattiti in sede di commissione, sia perché ― rispetto alla prima e "più ristretta" stesura ― si dovette tener conto dell'evoluzione subita dalle tradizionali forme dell'associazionismo economico operaio in alcuni paesi capitalistici avanzati (e prevedibile altrove in un futuro non lontano in relazione alla fase imperialistica del capitalismo, se la rivoluzione proletaria non fosse intervenuta a troncarne irreversibilmente il ciclo), sia perché la presenza al congresso di organizzazioni economiche (ma non prive di una loro più o meno chiara ideologia a sfondo "neo-sindacalista") invitate a aderire all'IC, non poteva non riflettersi in divergenze di principio su punti vitali della questione, come ben si legge nel rapporto introduttivo di Radek. Di questo stato di fatto le Tesi risentono nello svolgersi non sempre lineare delle argomentazioni e nel loro carattere "aperto", cioè, per alcuni aspetti, volontariamente inconclusivo, mentre l'assenza di una preliminare dichiarazione di princìpi e di una dettagliata critica teorica delle deviazioni e degli errori contro i quali esse sono (ma in forma non sufficientemente esplicita) dirette, non giova né ad eliminare equivoci, né a definire una linea di azione tradotta in direttive nitide e sicure.

Delle controversie e divergenze esplose in sede di commissione, il dibattito in sede congressuale non conserva che l'eco; ma è caratteristico che, mentre nelle sedute del 3 e del 4 agosto l'accordo sulle tesi sembrava raggiunto, in quella del 5 i contrasti conobbero un vivace ritorno di fiamma, costringendo Radek e Zinoviev a ribattere più volte i chiodi che credevano ormai solidamente piantati e infine troncare una discussione che minacciava di divenire interminabile da un lato e improduttiva dall'altro. Le Tesi sono, per gli stessi motivi, costrette a vibrare alternativamente duri colpi a deviazioni contrarie e tuttavia parallele.

Da un lato bisognava riaffermare, contro un "infantilismo" di falsa sinistra secondo il quale la lotta economica dovrebbe considerarsi "superata" a favore della lotta puramente politica, l'inscindibilità della prospettiva rivoluzionaria marxista dalle determinazioni materiali e dai conflitti di classe che ne scaturiscono ― lotte il cui fecondo risultato non sta nel contenuto delle "conquiste" ottenute, sempre precarie sotto la dominazione capitalista, ma nei riflessi positivi dello scontro sulla disposizione della classe operaia a battersi contro il regime del suo sfruttamento, sul senso di solidarietà tra gli sfruttati al disopra delle barriere della divisione del lavoro e dei confini di stato, sulla loro organizzazione su scala sempre più vasta, sulla loro prontezza a superare i limiti della contesa per il salario e per il tempo di lavoro e a mobilitarsi sul fronte dell'attacco politico al capitale ed al suo stato. Bisognava quindi ribadire l'obbligo per i rivoluzionari comunisti di prendervi parte non solo attiva ma trainante, al duplice scopo di rinvigorirle ed estenderle e ― questo l'altro polo della questione ― di propagandare il principio che la lotta economica è di per sé insufficiente e deve trasferirsi sul piano più alto della lotta politica di classe.

Bisognava riaffermare i compiti storici dell'organizzazione economica come problema non di forma ma di sostanza, e porre in risalto sia il suo valore permanente in quanto primo modo di associazione degli operai salariati in base a questa caratteristica generale, e in quanto leva della azione del partito di classe, sia il fatto che, in una situazione di aspre lotte sociali mobilitanti enormi strati proletari, anche il sindacato diretto dai più corrotti riformisti non solo rappresenta per la propaganda e la agitazione un campo fertilissimo e un insostituibile anello di congiunzione fra avanguardia politica e giovani retroguardie politicamente immature, ma può essere conquistato alla direzione del partito rivoluzionario sullo slancio di un movimento reale troppo impetuoso per non travolgere le strutture anchilosate di un'éra di "pace sociale" e i loro vertici passati più o meno direttamente al nemico. Andava correlativamente proclamato che scopo ultimo dei comunisti in tale attività è la trasformazione del sindacato, organo aperto a soli operai, in arma e strumento della rivoluzione e in cinghia di trasmissione delle direttive, oltre che dei princìpi, del partito (Tesi 1-3), giacché solo grazie alla presenza attiva del partito politico di classe esso può diventare, a sua volta, rivoluzionario (1).

Respingendo in linea di principio la scissione sindacale e la pretesa di costruire artificiosamente sindacati in sé rivoluzionari (o tali per la loro forma) in antitesi a quelli dominati dai riformisti (Tesi 4), non si poteva tuttavia ignorare né che, in molti paesi, questi ultimi vietano e reprimono ogni propaganda e agitazione comunista assumendo funzioni di vera e propria polizia ausiliaria borghese, o "si chiudono ermeticamente" alle masse inorganizzate dei manovali semplici, migranti e di colore, ospitando solo l'"aristocrazia operaia" e agendo come fattore non di unificazione ma di divisione della classe; né il fatto che, per reazione a tale stato di cose, si erano costituiti o si andavano costituendo organismi scissionistici, aperti a tutti i salariati, nei quali affluivano i proletari più combattivi e devoti alla causa della rivoluzione (gli IWW contro l'AFL ecc.). Bisognava d'altra parte reagire alla tendenza, diffusa anche in movimenti vicini o affiliati all'IC, a fare della scissione sindacale un dogma, per giunta sbandierato con estrema leggerezza e nella prospettiva erronea di possedere il rimedio ad ogni male in "nuove" forme d'associazione ― per industria anziché per mestiere ecc. ― elevate a feticci come forme per decreto della storia "incorruttibili"; e riaffermare che la scissione può rendersi necessaria e dover essere propagandata dai comunisti, non esitando questi ad assumersene la responsabilità, solo nelle condizioni di cui sopra, e quando, da un lato, sia chiaro alla gran massa degli organizzati che la si promuove non per finalità remote e ad essi per ora incomprensibili, ma per le esigenze della loro stessa lotta economica, dall'altro si abbia la certezza di non isolarsi dal grosso dell'esercito proletario che si tratta non di confinare nel limbo di un'eterna sudditanza alle leggi del capitalismo ― una delle quali è che lo sfruttato debba combattere solo per migliorare la propria condizione, non per infrangerla (si veda il punto 5) ― bensì di elevare all'altezza della battaglia politica contro il modo di produzione capitalistico.

Anche in tal caso, affermano però le Tesi, i comunisti non possono e non devono rinunciare a svolgere un lavoro ― forzatamente illegale ― nelle organizzazioni disertate, e a puntare su di esso, come sulla pressione esterna di organismi nuovi tipo IWW (che hanno il dovere di appoggiare aiutandoli a vincere i pregiudizi sindacalisti in cui perlopiù sono irretiti), per rivoluzionarne le strutture sulla scia di una marea sociale in rapida e travolgente avanzata.

É facile vedere come la convergenza su tutti questi punti con i princìpi sostenuti dalla Sinistra e più volte illustrati in queste pagine fosse totale, anche se nelle Tesi della Frazione (2) essi apparivano inquadrati in una visione teorica più chiara e fissati in formulazioni più esplicite. Di ritorno in Italia, A. Bordiga osserverà nel numero citato de Il Soviet che sarebbe stato opportuno legare la critica dello "scissionismo per principio" alla condanna dell'"erronea concezione generale secondo cui l'azione proletaria poggerebbe, anziché sulla lotta politica del partito per la dittatura proletaria, su un'azione economica di organismi sindacali 'rivoluzionari' che, espropriati i capitalisti, assumerebbero direttamente la gestione della produzione". L'argomento è appena sfiorato nelle Tesi (II/6-7), mentre ne parlò brevemente, ma con molta decisione, Radek nella sua replica del 5 agosto (Protokoll, pag. 621) in piena consonanza con la posizione dal marxismo sempre proclamata che l'opera di trasformazione economica successiva alla presa del potere, dovendo compiersi in funzione degli interessi generali e delle finalità storiche della classe, può solo essere diretta dal Partito, con l'aiuto, è certo, delle associazioni sindacali, mai in subordine ad esse.

L'Internazionale non poteva non prendere atto del vigoroso slancio del moto in parte spontaneo dei consigli di fabbrica, e delle prospettive ch'esso apriva sia all'organizzazione di proletari non ancora sindacati, sia all'estensione capillare della battaglia contro l'opportunismo e per la "subordinazione delle organizzazioni sindacali alla direzione del Partito come avanguardia della rivoluzione proletaria" tramite i gruppi comunisti nelle officine e nelle associazioni di categoria; doveva nello stesso tempo ribadire che i consigli di fabbrica non possono mai sostituire quegli organi centralizzati e a base non locale che sono i sindacati, né prima della presa del potere né, meno che mai, in regime di dittatura proletaria e nella organizzazione economica del comunismo. Doveva far leva sulla lotta da essi ingaggiata per il "controllo della produzione" non però coltivando l'illusione che in regime capitalista i salariati possano effettivamente controllare il meccanismo produttivo, anzi per rendere chiara ai proletari l'esigenza, a questo fine, della preventiva conquista del potere politico ― questione sviluppata nel paragrafo II delle Tesi con minore chiarezza e coerenza che negli articoli de Il Soviet dedicati ad essa, ma in modo che non tollera dubbi (3). I comunisti, inoltre, sono chiamati a partecipare ai consigli di fabbrica e a difenderli contro le dirigenze sindacali che cercano di esautorarli; ma, qualora riescano a conquistare l'organizzazione sindacale, o la dirigano in partenza, ad integrarli e subordinarli ad essa come reparti di un unico fronte di combattimento. Anche qui, ogni feticismo di forme particolari è bandito, pur riconoscendosi il dovere di seguire con vigile attenzione gli sviluppi di qualunque organismo e tipo particolare di associazione sorto dalla dinamica stessa della lotta di classe per valorizzarlo ai fini della battaglia politica finale.

Nell'ultimo paragrafo, le Tesi ribadiscono l'urgenza della direzione centralizzata su scala internazionale delle organizzazioni economiche dichiaratesi per i princìpi della rivoluzione e della dittatura proletaria nel senso del neocostituito Consiglio provvisorio, benché lascino non perfettamente chiarito il principio che la rottura con la centrale di Amsterdam, strumento della Lega delle Nazioni e palladio dell'opportunismo, non smentisce né invalida il criterio di massima dell'esclusione (salvo i casi già detti) della scissione sindacale sul piano nazionale.

Il dibattito, aggrovigliato e piuttosto confuso, mise in rilievo il persistere di divergenze teoriche là dove ci si illudeva di averle superate. Benché solo in brevi interventi, riemersero le storture di cui abbiamo già fatto conoscenza in altri capitoli e che, alla lunga, opporranno insuperabile ostacolo all'adesione all'IC, o alla permanenza in essa, di organismi di tipo sindacalista: negazione che i sindacati in quanto tali possano mai essere rivoluzionari (nei discorsi di Gallacher ed anche di Bombacci, che si meritò un ennesima strigliata; ma non sarebbe stato meglio trarne sin d'allora un giudizio definitivo sul confusionismo massimalista e sulla babele del suo linguaggio... unitario?); affermazione della necessità di distruggerli allo stesso titolo dello Stato borghese (discorso Gallacher) (4); rifiuto di svolgere qualunque lavoro, anche illegale, in sindacati reazionari come l'AFL (discorsi dei delegati americani in genere) o rivendicazione di un'attività intesa ad animarli (chissà come) di "un nuovo spirito" che poi risultava essere lo spirito della... scissione ad ogni costo e in qualunque circostanza; ritrosia ad accettare la costituenda Internazionale sindacale rossa o per avere un concetto non marxista della dittatura del proletariato (discorsi dei delegati degli IWW e shop stewards) (5) o per rivendicarle un'autonomia dall'Internazionale politica pur nell'"amichevole camminare fianco a fianco" (discorso Serrati). I delicati problemi tattici di coordinamento delle diverse forme di lavoro comunista nei sindacati, tradizionali o no, nei consigli di fabbrica od altri, vennero in parte rimessi ad ulteriore esame nell'unica sede in cui avrebbero dovuto, fin dall'inizio, trovare naturalmente il loro posto le organizzazioni economiche genericamente orientate verso l'accettazione dei princìpi della conquista rivoluzionaria del potere e della dittatura del proletariato, cioè l'Internazionale sindacale rossa: per la sua composizione non del tutto omogenea, il congresso non poteva dare di più, e il dibattito svoltosi, le perplessità e le esitazioni persistenti, in qualche caso il rinvio di decisioni finali, sono un'altra prova della complessità dei problemi di fronte ai quali si trovò posta fin dal suo atto di nascita l'Internazionale Comunista (6).

Note

(1) Il termine, preso a sé, è improprio: il sindacato deve non tanto "diventare rivoluzionario", quanto essere "trasformato in arma di lotta per la rivoluzione dal partito politico di classe".

(2) Cfr. pagg. 394-403.

(3) Le Tesi, lucide nel proclamare che rivoluzionario non è il controllo ma la lotta per conseguirlo sotto la direzione del Partito, mancano sia di una critica delle ideologie consiliari che appunto del controllo sulla produzione ― realizzato in regime borghese ― facevano una "conquista rivoluzionaria", sia di un chiaro accenno alla prospettiva, già verificatasi in Germania e prossima a verificarsi in Italia auspice Giolitti, che la borghesia accetti una forma di "controllo sindacale" sull'industria come risorsa conservativa e come manovra di diversione riformistica (cfr. Il Soviet dell'11.XI.1920): danno cioè per acquisito che la lotta per il controllo non possa non svolgersi in lotta politica per il potere. É qui il loro punto debole: una lacuna, non un errore di principio. Cfr. anche il par. 11 a pag. 398.

(4) Cfr. Protokoll, pag. 629.

(5) Questi protestarono inoltre perché nella dichiarazione istitutiva del Consiglio provvisorio internazionale dei Sindacati rossi si escludeva ed anzi si condannava ogni possibile scissione sindacale: i due documenti ― dichiarazione e tesi ― in realtà non combaciano completamente, e diversità di tono e di accento apparvero, nel corso del dibattito congressuale, anche nei discorsi di Radek e Losovsky, a ulteriore riprova che la questione non era stata approfondita in tutti i suoi complessi aspetti.

(6) Le Tesi, che riproduciamo dalla loro versione in lingua tedesca in appendice, valgono fra l'altro a smentire la leggenda oggi diffusa che vi si predichi un'"ubbidienza cadaverica" alle direzioni sindacali opportuniste e vi si escluda ogni scissione, anche quella imposta dal conseguimento di un'organizzazione il più possibile estesa ed unitaria dei salariati, cioè da quello stesso motivo per cui, in linea di principio, la "scissione" in campo sindacale è deprecata.

e) Condizioni di costituzione dei soviet.

Il documento da noi riprodotto in appendice al cap. V, che respinge la "moda" di costituire artificialmente (o progettare sulla carta) i consigli operai ― forma specifica della dittatura del proletariato ― in situazioni non rivoluzionarie, attribuendo loro virtù taumaturgiche ed ignorando il Partito, la cui influenza dominante può sola impedire che degenerino in organi opportunistici e perfino controrivoluzionari come non riuscivano a capire operaisti, consiglisti, ordinovisti ecc. venne approvato senza discussione dopo un breve discorso di Zinoviev.

f) Le questioni nazionale e coloniale.

L'impostazione data al suggestivo problema, posto in vivida luce dall'esplodere di poderosi moti insurrezionali nei paesi soggiogati dall'imperialismo soprattutto nell'Oriente asiatico, rappresenta uno dei vertici più alti del II Congresso.

Partendo dalla solida base dei dati oggettivi dell'evoluzione del capitalismo alla scala del pianeta, essa affida al movimento comunista e alla sua organizzazione mondiale centralizzata il gigantesco compito storico di integrare i movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale soprattutto nelle colonie ― i cui obiettivi non possono non essere democratico-borghesi, ma che vedono alla loro avanguardia le masse contadine affamate di terra e in molti casi un esile ma battagliero proletariato locale ― nella strategia mondiale della rivoluzione proletaria indirizzata al cuore delle metropoli imperialistiche; la fusione e integrazione, in altre parole, delle incipienti rivoluzioni doppie, come nella grandiosa prospettiva marxista del 1848 e del 1850 (Manifesto e Indirizzo della Lega dei Comunisti), con la divampante rivoluzione unica a finalità puramente proletarie. Era un compito a sua volta duplice in riferimento a due fasi diverse ― ma non separate da mitiche barriere ― dell'attacco internazionale alla dominazione delle grandi centrali imperialistiche, massima allora fra tutte l'Inghilterra: non platonica solidarietà "morale" ma appoggio attivo del proletariato metropolitano ai movimenti rivoluzionari armati delle colonie e semicolonie nello scrollare il giogo dei colonizzatori e sfruttatori imperialistici; appoggio del proletariato vittorioso nelle grandi metropoli imperialistiche ai paesi emancipatisi dalla loro soggezione per consentire alle masse contadine e proletarie in quelle aree immense di scavalcare d'un balzo lo stadio economico capitalistico, o di abbreviarne la durata, malgrado l'inesistenza o il basso grado di sviluppo delle condizioni materiali del passaggio al socialismo, grazie alla loro inserzione in un piano economico mondiale unitario diretto dal proletariato di tutte le nazioni (Tesi I/8).

Era una visione grandiosa che, mentre non pretendeva innovare nulla rispetto alla dottrina marxista delle rivoluzioni doppie ― borghesi "trascrescenti" in proletarie, secondo la formula leniniana ―, ne ampliava gli orizzonti estendendone il raggio oltre i tradizionali confini dell'Europa (come il movimento reale tendeva irresistibilmente a superarli prima ancora che la teoria ne codificasse la necessità storica) e trasferendo sull'immensa arena del pianeta quella lotta per la "rivoluzione in permanenza", annunziata da Marx ed Engels nel 1850, la cui direzione politica centrale la storia affida e può soltanto affidare al proletariato e al suo partito, anche se, nelle aree a capitalismo appena nascente nel quadro di rapporti economici in prevalenza precapitalistici, questo si muove alla testa di forze non proletarie quali la piccola borghesia urbana e soprattutto rurale, ed ha come prospettiva immediata una "rivoluzione borghese spinta fino in fondo" (radicale, dunque, nella sua faccia rivolta al passato precapitalistico e alla sua distruzione, ma pur sempre borghese); e diciamo "anche se" perché il proletariato è visto come classe internazionale, non locale né nazionale, e la sua guida politica non può non risiedere, deterministicamente, nelle aree che costituiscono l'epicentro del dominio del capitale e quindi delle risolutive lotte di classe fra proletariato e borghesia.

Era una visione eminentemente dialettica (indigesta quindi per i socialisti legati alle tradizioni della II Internazionale, come lo è per i falsi partiti comunisti di oggi nati sul tronco dello stalinismo), che se da un lato assicurava alla classe operaia delle cittadelle metropolitane del capitalismo più evoluto l'apporto delle masse popolari delle colonie e dei paesi dipendenti, le addossava dall'altro l'onere pesante ma glorioso della loro guida politica e (dopo la vittoria) di un sostegno anche economico, pagato a prezzo dei maggiori sacrifici in nome di un internazionalismo non proclamato a parole ma praticato nei fatti, alle loro eroiche ma disperate battaglie, così come conferiva a queste ultime una dimensione mondiale, non più angustamente nazionale, e un contenuto bensì democratico ma molto più eversivo ― specie in riferimento ai rapporti di proprietà ― di quanto le giovani borghesie dei paesi "arretrati" non prevedessero e, meno che mai, gradissero; non solo perché l'abolizione dell'oppressione nazionale ― nel suo senso reale, non aridamente giuridico ― è possibile soltanto con la vittoria sul capitalismo (Tesi I/4), ma perché, nel quadro di una prospettiva come quella delineata nel breve ma densissimo discorso di Lenin a illustrazione dei princìpi informatori della questione, la forma "nazionale" delle lotte di emancipazione dei popoli oppressi passa in secondo piano rispetto al loro contenuto di grandiose jacqueries spinte al limite estremo dell'autosuperamento grazie all'intervento attivo del proletariato non tanto locale (giacché in molte di queste aree esso era, come è tuttora, quasi inesistente e comunque gracilissimo) quanto internazionale.

La vuota ideologia della "uguaglianza in generale e dell'uguaglianza delle nazioni in particolare", l'illusione piccolo-borghese di una coesistenza pacifica delle nazioni sotto il capitalismo, il nudo e formale riconoscimento ― "cui si limitano i democratici borghesi, si chiamino pure 'socialisti'" ― della parità di diritti e dell'indipendenza e autodeterminazione dei popoli in regime borghese, dovevano, in questa visione, essere definitivamente estirpati in primo luogo nel movimento proletario delle roccaforti imperialistiche, troppo spesso adagiatosi in una stolida "indifferenza" e perfino ostilità verso i conati di ribellione dei popoli colonizzati e in genere dipendenti dalla borghesia del proprio paese (magari dietro lo schermo pretestuoso della loro natura borghese, in realtà a salvaguardia di una condizione cui erano legati l'esistenza e i privilegi dell'aristocrazia operaia) (1), e in secondo luogo negli stessi movimenti di liberazione nazionale dei popoli soggiogati, troppo spesso irretiti in "pregiudizi e diffidenze nazionali" storicamente comprensibili ma ― come il movimento comunista non deve mai cessare di mettere in risalto e denunziare ― subdolamente alimentati nelle grandi masse in rivolta dalla nascente borghesia indigena e dalle forze reazionarie ad essa alleate nell'intento di chiuderne le aspirazioni e gli slanci rivoltosi nell'angusto orizzonte della nazione, del popolo, della razza o, peggio, di un credo religioso (Tesi I/11). Facendo leva non su generici blocchi popolari e nazionali, ma sulle masse contadine, povere e semiproletarie delle colonie e dei paesi dipendenti, e prendendone la testa, l'Internazionale Comunista ne indirizzava le rivolte armate non solo contro l'imperialismo, ma contro la stessa borghesia locale, i grandi proprietari terrieri, l'aristocrazia tradizionale, pronti tutti insieme a servirsene per strappare alla potenza dominante una libertà per quanto limitata e volgersi subito dopo contro gli "alleati di ieri" a salvaguardia della perpetuazione del proprio dominio di classe non esitando a tal fine ad allearsi con l'imperialismo colonialista nella disperata difesa del comune privilegio economico e sociale. E dettava ai proletari e ai comunisti prima di tutto delle metropoli capitalistiche e, in secondo luogo, dei paesi coloniali e semicoloniali il compito ― da realizzare nella più rigorosa autonomia politica ed organizzativa del partito, autonomia che non avrebbe senso se non si traducesse nella delimitazione programmatica dai partiti nazionali borghesi, soprattutto se vestono panni demagogicamente "socialisti" ―, di appoggiare i moti popolari di liberazione, non rifuggendo in dati casi neppure da alleanze temporanee con essi, per orientarli verso soluzioni analoghe a quella della "dittatura democratica operaia e contadina" agitata dai bolscevichi per la Russia zarista ed ora ulteriormente sostanziata dalla nascita del tipico strumento rivoluzionario dei soviet, per spezzare così i fittizi e controrivoluzionari "fronti di tutto il popolo" e questo l'obiettivo vero ― aprire la via, nelle condizioni più favorevoli, al divampare delle lotte di classe e quindi allo sviluppo del movimento proletario.

Delle repubbliche sovietiche eventualmente sorte in questa grandiosa prospettiva, la Russia dei Soviet sarebbe stata il polo di attrazione, e il vincolo federativo istituito con esse, e destinato a trasformarsi in strettissima unione, sarebbe divenuto il palladio di un fronte di lotta ben diverso ― un "fronte" mondiale anticapitalistico ―, di cui la dittatura rossa vincitrice a Mosca e Pietrogrado si sarebbe assunta una volta di più il principale fardello, in nome di quel vero internazionalismo che esige

"primo, la subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese agli interessi di questa lotta su scala mondiale; secondo, da parte della nazione che ha vinto la propria borghesia, la capacità e la volontà di compiere i più grandi sacrifici nazionali per abbattere il capitalismo internazionale" (Tesi I/10).

Che cos'ha di lontanamente comune, questa visione immensa, che non eleva a principio la lotta per l'indipendenza nazionale in sé e per sé, ma la inserisce in quella lotta insurrezionale mondiale proletaria alla cui vittoria è legata la piena risoluzione dei problemi di nazionalità e di razza, e al cui centro stanno quindi i presupposti "della dirigenza della lotta mondiale da parte degli organi del proletariato rivoluzionario, e della suscitazione, mai del ritardo o della obliterazione, della lotta di classe negli ambienti indigeni, della costituzione e dello sviluppo indipendente del partito comunista locale" (2); che cos'ha, questa visione immensa di lontanamente comune con la squallida prospettiva offerta dal sedicente comunismo odierno di marca moscovita o pechinese, immerso fino al collo nei pregiudizi allora irrevocabilmente condannati dell'indipendenza e sovranità nazionale, della coesistenza pacifica, della democrazia cosiddetta progressiva, dei fronti nazionali interclassisti, della non ingerenza negli affari altrui e, supremo bene, del "commercio a reciproco vantaggio", e pronto a distribuire brevetti di... socialismo agli esponenti non solo di borghesie nazionali avide e strozzine, ma di strutture feudali, semifeudali e addirittura tribali (sceicchi, emiri, capitribù) purché genericamente "antimperialiste" in quanto anti... americane (e neppure questo, se a capo degli Stati Uniti c'è un Roosevelt al posto di un Hoover, o un Kennedy al posto di un Nixon!) o perfino soltanto "neutraliste"? La "guerra santa" la cui spada Zinoviev brandì un mese dopo al I Congresso dei popoli d'Oriente a Baku era una guerra di classe nata sul terreno nazional-rivoluzionario e borghese-radicale e travalicante i suoi confini angusti e miserabili per trasportarsi sul terreno rivoluzionario proletario e comunista, per definizione internazionale: era, in accenti nuovi solo per la novità delle sue dimensioni, la "rivoluzione in permanenza" di Marx, mai e poi mai la lotta in difesa dell'eternità del mercato, del commercio, della nazione, delle mille "sovranità" di individui e stati in reciproca gara di "competizione" contrabbandata per pacifica! E che cosa, questa visione gigantesca che strappa il proletariato delle metropoli imperialistiche al veleno della solidarietà con la propria borghesia sfruttatrice di colonie e semicolonie e, richiamandolo alla sua missione di classe liberatrice di tutta l'umanità, gli impone anche per questa via di rompere ogni legame con l'opportunismo, sovrastruttura ideologica di un'aristocrazia operaia prosperante sulle briciole cadute dal banchetto colonialista; che cos'ha essa di comune con l'abietta identificazione dell'internazionalismo proletario con la difesa degli... interessi nazionali nella versione moscovita o pechinese del "comunismo"? E sarebbe mai conciliabile la grandiosa prospettiva del "piano mondiale unico" quando ognuno dei paesi in cui oggi si pretende che sia avvenuta una rivoluzione socialista bada a se stesso e guai se ci si mette il naso, ognuno avendo la sua sovranità e il suo "piano" particolare da eseguire, e appunto per tale possesso fregiandosi del titolo di "edificatore del socialismo"?

Nella loro stesura definitiva, le tesi sono anzi più nettamente scolpite di quelle originarie di Lenin, almeno per quanto riguarda il problema della posizione dei partiti comunisti di fronte ai movimenti di emancipazione nelle colonie e alle loro organizzazioni politiche. Gli emendamenti e le varianti furono il risultato di vivaci dibattiti, in sede di commissione, coi delegati dei giovani partiti dell'Oriente, in particolare dell'India, e offrono un'altra dimostrazione di quanto i bolscevichi fossero pronti a rendere più nitide e dure le posizioni assunte in un primo tempo con relativa cautela (nel legittimo dubbio che il movimento comunista internazionale non potesse, allo stato dei fatti, accogliere e dare di più) quando si trovavano di fronte "interlocutori" decisi a spingersi non diciamo oltre ma nella stessa direzione che del partito russo era stata la grandissima forza e la solida costante nei periodi anche più difficili e soprattutto in questi. Come disse Lenin nel suo rapporto, fu in sede di commissione che si decise di parlare non più, genericamente, di movimenti democratico-borghesi, ma di movimenti "nazional-rivoluzionari", per chiarire (altra botta ai "comunisti" di oggi!) che

"noi, in quanto comunisti, dovremo sostenere e sosterremo i movimenti borghesi di liberazione nei paesi coloniali solo quando tali movimenti siano effettivamente rivoluzionari, solo quando i loro rappresentanti non ci impediscano di educare e organizzare in senso rivoluzionario i contadini e le grandi masse degli sfruttati (3): in assenza di tali condizioni, anche nei paesi arretrati i comunisti devono lottare contro la borghesia riformistica alla quale appartengono anche gli eredi della II Internazionale [e, aggiungiamo, i discendenti dei seppellitori della III - in Cina, in India, in Indocina, in Egitto, in Cile ecc.!]".

Ciò non toglie che i movimenti nazional-rivoluzionari siano democratico-borghesi nelle loro prospettive e nel loro contenuto, "perché la massa fondamentale della popolazione dei paesi arretrati è costituita dai contadini, cioè dai rappresentanti dei rapporti borghesi capitalistici"; sono però forze rivoluzionarie conseguenti appunto come lo erano state nella Russia prerivoluzionaria (e "sarebbe utopistico pensare che i partiti proletari […] possano applicare una tattica e una linea comunista in questi paesi senza stabilire determinati rapporti con il movimento contadino e senza fornirgli un appoggio effettivo") e la loro entrata nell'agone delle lotte insurrezionali non solo crea le condizioni più propizie allo sviluppo delle guerre di classe proletarie, ma provoca un profondo dislocamento delle basi su cui poggia l'incontrastato dominio dell'imperialismo.

Analogamente, le tesi vennero emendate per mettere in risalto la necessità di svolgere un'attiva propaganda a favore della creazione di soviet rurali, espressione di un moto deciso ad intaccare il potere della grossa proprietà fondiaria e delle molteplici piovre di origine precapitalistica prosperanti in dolce simbiosi con i nascenti o già nati rapporti di produzione borghesi e le corrispondenti forme di proprietà, e per "fissare e motivare ― come ripeté Lenin ― la tesi che i paesi arretrati, con l'aiuto del proletariato dei paesi progrediti, possono passare al sistema sovietico e, attraverso determinate fasi di sviluppo, giungere al comunismo, scavalcando la fase del capitalismo".

Le "tesi supplementari" redatte dal delegato indiano Roy e, dopo essere state a loro volta profondamente rivedute, approvate all'unanimità dalla commissione, vennero infine aggiunte a quelle di Lenin soprattutto al fine di chiarire i problemi legati alla delimitazione fra gli schieramenti politici in seno ai movimenti di liberazione nazionale delle colonie, all'appoggio delle loro ali rivoluzionarie popolari e soprattutto contadine, e alla gelosa salvaguardia dell'autonomia politica, programmatica ed organizzativa dei partiti comunisti ― 'anche se soltanto embrionali' ― nelle rispettive aree, giacché la posizione rigorosamente marxista espressa dal testo esclude, al pari dell'"indifferentismo", ogni caduta nel "frontismo": appoggiare "il movimento rivoluzionario democratico borghese ― nella formula di Lenin ― senza mai confondersi con esso".

Un punto vivacemente discusso in sede di commissione fu la pretesa, in particolare di Roy ma anche dei delegati turkestani nel loro entusiasmo di esponenti di alcuni fra i più giovani e battaglieri partiti comunisti asiatici, di spostare l'epicentro della lotta per il comunismo dalle metropoli imperialistiche alle aree arretrate del pianeta, facendo "dipendere dalla vittoria della rivoluzione sociale in Oriente il destino del comunismo in tutto il mondo". A quanto risulta da un breve cenno sul quotidiano (4) pubblicato durante il congresso (il Vestnik vtorogo Kongressa K. I., nr. 1, 27.VII.1920), il delegato indiano, subito rimbeccato da Lenin, era partito da una doppia affermazione: 1) "le sorti del movimento operaio in Europa dipendono interamente dal corso della rivoluzione in Oriente: senza il trionfo della rivoluzione nei paesi orientali, si può ritenere che il movimento comunista in Occidente non conti nulla", perché "è dalle colonie, soprattutto in Asia, che il capitalismo mondiale trae le sue principali risorse e, al limite, i capitalisti europei possono dare agli operai la totalità del plusvalore e attirarli quindi al loro fianco, avendo ucciso in essi ogni aspirazione rivoluzionaria"; "la classe operaia europea non riuscirà ad abbattere l'ordine capitalista finché la sorgente di sovrapprofitti rappresentata dalle colonie non sarà stata definitivamente chiusa"; 2) il proletariato nelle colonie ha già ora il potere di trascinare dietro di sé le grandi masse popolari facendo leva sui loro interessi di classe ― nel primo caso cadendo in eccessi "economistici" e involontariamente rinviando la rivoluzione alle calende greche, nel secondo esagerando il peso della classe operaia in paesi economicamente spesso non ancora neppure alle soglie del modo di produzione capitalistico e implicitamente negando ogni valore ai movimenti democratico-borghesi (la... delusione porterà in seguito Roy ad aderire al partito di Gandhi e Nehru!). Una simile concezione, anticipatrice delle molteplici deviazioni oggi in voga nei gruppuscoli di falsa sinistra e ben definita col termine di "messianismo asiatico", infrangeva in realtà le basi dell'intera visione marxista, giacché, se è vero che la lotta per il comunismo trae vigoroso alimento ed impulso dai moti sociali delle plebi oppresse nelle colonie, ex colonie e semicolonie, qui le premesse materiali del comunismo difettano, né possono essere create dal nulla qualora manchi la vittoria proletaria nei paesi a capitalismo avanzato, i quali restano perciò la chiave di volta, il fattore risolutivo, della strategia mondiale comunista. Sarà proprio un delegato dell'Oriente in risveglio, il persiano Sultan Sade, a confutare in parte (5) dalla tribuna del congresso questa deviazione:

"Supponiamo che in India sia iniziata la rivoluzione comunista. Potranno i lavoratori di questi paesi resistere all'assalto della borghesia del mondo intero, senza l'aiuto di un grande movimento rivoluzionario in Inghilterra e in Europa? Naturalmente no. La repressione della rivoluzione in Persia e in Cina ne è un esempio palmare. Se oggi i rivoluzionari persiani e turchi lanciano all'onnipotente Inghilterra il loro guanto di sfida, non è perché siano più forti, ma perché i banditi imperialisti sono divenuti impotenti. La rivoluzione, cominciata in Occidente, ha reso scottante il suolo anche in Turchia e in Persia, e infuso nuove energie nei rivoluzionari. L'epoca della rivoluzione mondiale è cominciata".

Quello che i teorici e gli storici borghesi, tanto presuntuosi quanto ignoranti, chiamano "l'eurocentrismo marxista", è infatti l'individuazione dei punti nodali nell'evoluzione mondiale dei rapporti fra le classi in quanto riflessi del grado materiale di sviluppo raggiunto dalle forze produttive: la rivoluzione comunista può certo scoppiare dovunque, ed è ben possibile o addirittura probabile che scoppi prima nelle aree arretrate del globo ― l'"anello più debole" della dominazione capitalistica ―, ma può vincere internazionalmente alla sola condizione che il proletariato abbatta lo Stato borghese là dove esistono le condizioni sufficienti (e, oggi, più che sufficienti!) del passaggio diretto, sul terreno economico, al comunismo inferiore e di qui al superiore, e perciò i presupposti della realizzazione del "piano mondiale" delineato da Lenin come via al superamento dello stadio economico e sociale capitalistico in quello che oggi si chiama "il terzo mondo" ― forza attiva, mai avanguardia, del comunismo (non per destino... razziale, ma per determinazione oggettiva), a scorno di tutti i Marcuse di oggi e di ieri.

Il dibattito aperto dal discorso introduttivo di Lenin e dall'illustrazione ad opera di Roy delle tesi supplementari, vide alternarsi alla tribuna delegati dell'India, della Persia, della Corea, della Cina, della Turchia, delle Indie Olandesi, ma anche dell'Irlanda allora in piena lotta armata contro la colonizzatrice e sfruttatrice Inghilterra, e delegati degli Stati Uniti come interpreti "bianchi" del movimento delle popolazioni di colore, tutti intesi non solo ad illustrare i progressi del movimento comunista nelle zone "arretrate" del globo, ma a sottolineare (come fece pure Radek in un breve intervento) l'enorme apporto dei moti insurrezionali delle nazionalità oppresse al processo di corrosione delle basi mondiali dell'imperialismo, e quindi anche alle prospettive di successo della rivoluzione proletaria nei punti-chiave della sua dominazione, nonché la necessità di rompere irrevocabilmente con le tradizioni secondinternazionalistiche di cattedratica "indifferenza" o addirittura di avversione del movimento operaio a questo "nuovo orizzonte".

Appunto quelle tradizioni trovarono eco ― guarda... caso! ― nei discorsi pronunziati dai massimalisti italiani fra i roventi clamori del congresso. La posizione assunta da Graziadei, maestro nell'arte di dire e non dire, è certo la più sottile: egli non respinge l'impostazione generale del problema, che anzi dichiara di condividere (non senza aggiungere il fronzolo, caro al suo revisionismo teorico, della gongolante "constatazione" che Lenin mostra così di sapersi servire con maestria "dell'unica parte [!!!] del marxismo che non sia lecito toccare: il metodo" e, appunto perciò, di cogliere con estrema lucidità gli aspetti "concreti" della situazione mondiale post-bellica) benché metta in guardia (e fin qui non a torto) contro l'applicazione meccanica e indifferenziata dello stesso metro di valutazione storica dei problemi di nazionalità ai paesi ad alto sviluppo capitalistico e a quelli arretrati; ma, provocando una sacrosanta bordata di proteste, pretende che non ci si sbilanci nelle direttive da impartire ai comunisti nelle colonie e semicolonie, invitandoli a prestare ai movimenti rivoluzionari di liberazione non un "appoggio", ma un "interessamento attivo" ("è una frase wilsoniana", scattò in risposta l'irlandese Mac Alpine, "che non significa nulla come tutte le frasi di questo signore; è un metodo mascherato per espungere completamente questa idea, e ricorda i metodi usati dalla II Internazionale!"), a contrarre con essi non già "temporanei legami" nel senso di un "cammino comune", ma solo (oh, l'azzeccagarbugli!) "rapporti temporanei". É nel discorso Serrati, tuttavia, che affiora in particolare la sordità secondinternazionalistica per un problema posto in modo e con accenti così drammatici dalla stessa storia. Se egli non ha torto (anche gli opportunisti dicono a volte cose giuste!) nel chiedere che certe formulazioni vengano meglio precisate per dissipare il rischio di interpretazioni estensive ed evitare che prestino il fianco in Europa a sviamenti in senso sciovinista e nazionalista o, nel proporre alleanze con forze e partiti non proletari, "indeboliscano la coscienza di classe del proletariato", assume invece una posizione apertamente antidialettica e antimarxista proclamando che "l'azione di liberazione nazionale intrapresa da gruppi borghesi-democratici, anche quando ricorre al mezzo dell'azione armata, non è mai un'azione rivoluzionaria; essa viene intrapresa a favore di un imperialismo nazionale in formazione [!!!] o nel contesto della lotta dell'imperialismo capitalistico di un altro Stato contro quello precedentemente dominante", e negandole ogni funzione rivoluzionaria anche in senso borghese, sia pure "inconseguente", se non vi interviene il proletariato; cade poi nell'arroganza e nello "sciovinismo da grande potenza" tipici del socialismo tradizionale (6) quando aggiunge che il pericolo di smarrire il giusto orientamento di classe nel seguire una politica non ben definita di alleanze ed accordi è molto maggiore "nei paesi arretrati che in quelli più progrediti, perché nei primi il proletariato non possiede ancora una salda coscienza di classe e spesso segue ciecamente i suoi capi", come se sul banco d'accusa del congresso non si trovassero proprio quei partiti occidentali che riflettevano nel loro opportunismo o addirittura sciovinismo l'estrema vulnerabilità di larghi strati della classe operaia dei paesi capitalisticamente più evoluti all'influenza di ideologie non-proletarie ed anti-proletarie, e come se non si trattasse appunto di risvegliarne la coscienza di classe assopita od offuscata spingendoli a solidarizzare con le plebi oppresse dal loro Stato! La sua proposta (si noti che, come rilevava Zinoviev, il direttore dell'Avanti!, pur avendo più volte manifestato il suo dissenso, si era rifiutato di partecipare ai lavori della commissione e di esporvi il suo punto di vista: anzi, inviperito per l'intransigenza dell'Esecutivo nel chiedere la radicale amputazione della destra del partito italiano, era rimasto assente da ogni commissione), la sua proposta che ci si limitasse ad esprimere ai "popoli gementi sotto il giogo degli stati imperialistici, nella loro lotta contro gli sfruttatori, la nostra piena ed operante simpatia", dichiarando poi che "il proletariato, nella sua lotta contro l'oppressione del capitale, ha il diritto [!] di avvalersi di insurrezioni nazionali per trasformarle finalmente in rivoluzione sociale", suscitò un'altra e più sonora tempesta di indignazione: "chi crede che sia reazionario aiutare i popoli arretrati nella loro lotta nazionale" dimenticando che tali popolazioni, "il cui sviluppo economico-politico non ha potuto spingersi molto innanzi, devono percorrere fasi rivoluzionarie storicamente diverse da quelle dei popoli europei", chi questo crede "è egli stesso reazionario e parla un linguaggio imperialistico", gli gridò Roy; e il rappresentante di un paese per eccellenza imperialistico e sfruttatore di colonie come l'Olanda non esitò a bollare come "inaudito" il suo discorso. Sia detto a onore della coerenza di Serrati, egli si astenne dal voto sulle Tesi: è invece difficile stabilire quanti le approvarono per poi mettersele sotto i piedi o per deformarle in senso volgarmente democratico e pacifista.

Nel ragionamento serratiano non parlava, beninteso, un "fatto personale": in Italia come in Germania, il centrismo rotto ad ogni compromesso in patria assumeva pose "ortodosse" ed... estremiste a carico dei "lontani" moti d'indipendenza nelle colonie e nei paesi avvolti nelle nebbie della "barbarie"; transigente al 1000/1000 con la propria destra parlamentare e sindacale, esso sventolava la bandiera dell'intransigenza nei confronti di forze certo non proletarie ma, come la piccola borghesia radicale urbana e rurale nell'Europa del '48-'50, pur sempre eversive almeno in funzione antifeudale. Serrati si appellava alle vigorose campagne anti-irredentiste del socialismo italiano nel primo quindicennio del secolo: ma, nel '48, chi se non Marx ed Engels avevano indicato, per esempio, nel distacco di Trieste dall'Impero asburgico una rivendicazione specifica del movimento radicale e, con esso, del movimento operaio, e avevano coperto di ignominia i falsi democratici-rivoluzionari che se n'erano lavate le mani? E chi se non Marx ed Engels si erano battuti contro "l'indifferenza" verso i moti di liberazione delle colonizzate Polonia e Irlanda, assunta col pretesto che si trattava di moti dichiaratamente borghesi e democratici, anche se violenti e perfino terroristici? La verità è che nella visione massimalista-indipendente tutto l'edificio marxista era capovolto: niente "compromessi" là dove il proletariato si scontra in dati della realtà oggettiva non meccanicamente superabili mediante una rivoluzione pura; mille "compromessi" là dove la storia ha divorato ogni fase rivoluzionaria-borghese! In poche parole: Niente rivoluzione di nessun genere.

Il delegato della Sinistra non intervenne nel dibattito, e gli illustri storici fanno gran caso della sua successiva dichiarazione a Il Soviet di condividere alcune delle riserve di Serrati. Ma basta leggere quel brano, dove si precisa che l'attitudine assegnata "al movimento comunista rivoluzionario, espressione delle masse dei proletari salariati, di fronte agli interessi dei popoli delle colonie e dei paesi arretrati ― come di fronte agli interessi dei vari strati della popolazione rurale ―, rappresenta innegabilmente una rettifica di tiro nel metodo dell'intransigenza classista come è stata finora accettata dalla sinistra marxista", e ai successivi contributi teorici della Sinistra astensionista su questo tema (per esempio, e soprattutto, Il comunismo e la questione nazionale (7) e il par. 10 della II Parte delle Tesi di Lione) (8), per convincersi che, se pretendono di scoprire una divergenza di principio nella questione nazionale (e agraria) fra noi e i bolscevichi, i dotti signori una volta di più barano spudoratamente. Le nostre riserve riguardavano i difficili problemi di una tattica che, qui più che altrove, corre sul filo di un rasoio e rischia ad ogni passo di smarrire la bussola dell'interpretazione marxista dei fatti storici e del comportamento dei rivoluzionari comunisti di fronte ad essi. L'indeterminatezza delle formule tattiche è fonte (l'abbiamo sempre sostenuto) di possibili, gravi sbandamenti, non solo nell'azione ma anche nei princìpi. Noi condividevamo e condividiamo senza riserve l'impostazione generale del problema; sappiamo e abbiamo sempre proclamato che il marxismo vede e distingue con mirabile chiarezza le fasi successive (e diverse) del processo storico capitalistico, quindi anche del suo superamento, e che, in particolare, esso riconosce e non nasconde mai che in date fasi (appunto quelle delle rivoluzioni doppie) il proletariato deve assumersi internazionalmente compiti non suoi ma, rispetto al modo di produzione difeso dai "nemici dei suoi nemici", pur sempre rivoluzionari, o, nell'ipotesi meno ottimistica, aiutare a condurli a buon fine; sappiamo e abbiamo sempre sostenuto che non solo non è marxista ma è antimarxista ridurre tutti i contrasti interni del regime attuale, sempre e dovunque, al solo antagonismo proletariato/borghesia. La difficoltà sorge per noi nell'arduo campo delle applicazioni tattiche, e basta leggere attentamente le Tesi 1920 per riconoscere che in esse il problema non ha ancora raggiunto una sistemazione compiuta, tale da segnare una traccia il più possibile sicura in un campo le cui asperità non devono essere mai dimenticate così come non devono mai essere eluse: quale il limite fra il "camminare insieme" e "l'allearsi" sia pure "temporaneamente"? quale il limite fra entrambi e il geloso mantenimento dell'autonomia del partito comunista, presupposto essenziale dell'appoggio ai movimenti nazional-rivoluzionari? fino a che punto un movimento di indipendenza nazionale conserva il suo carattere "nazional-rivoluzionario" e invece lo perde a favore di un semplice "democratismo borghese"? quali legami devono intercorrere fra movimento nazional-rivoluzionario nelle colonie e movimento proletario comunista nelle metropoli, e si potrà mai attenuare il ruolo primario di quest'ultimo senza che il ruolo rivoluzionario del primo ne soffra? Porre questi interrogativi non è un lusso teorico: cinque e sei anni dopo il II Congresso, lo stalinismo mostrerà in Cina come sia esile (e facile da spezzare) il diaframma fra le convergenze e perfino le alleanze esperite nella più rigorosa autonomia, e la capitolazione di fronte a partiti dichiaratamente borghesi come il Kuomintang di Sun Yat-sen e, peggio, di Ciang Kai-scek, ossia la subordinazione degli obiettivi rivoluzionari del potente moto contadino e operaio cinese a interessi volgarmente nazionali e democratici, capitolazione e subordinazione che troveranno il loro luttuoso epilogo in uno dei più atroci bagni di sangue proletario e contadino a favore della conservazione dello status quo non solo capitalistico-cinese, ma imperialistico-mondiale. Analogamente, le Tesi non chiariscono i problemi estremamente ardui posti alla tattica comunista dalle diverse condizioni materiali e dal diverso rapporto tra le forze di classe in aree gia invase dal capitalismo o invece solo alla vigilia di esserlo e, ancor più, in aree già pienamente borghesi: per fare un solo, tipico esempio, nella stessa Europa grande-capitalistica restavano e in parte restano tragicamente insoluti problemi di oppressione nazionale, classico fra tutti quello dell'Irlanda ― per il marxismo, e da un secolo, palla di piombo ai piedi del movimento operaio inglese ―; il pericolo era ed è (come noi avvertimmo nell'articolo citato più sopra) di estrapolare questi casi-limite applicandoli, come nel 1923, alla Germania ultracapitalistica, e trarne pretesto per "appoggiare" come potenzialmente rivoluzionaria la agitazione nazionalista e perfino nazista contro l'occupazione francese della Ruhr e contro le clausole jugulatorie della pace di Versailles.

Per gli opportunisti, il problema di questi trabocchetti non si pone ― ci sono caduti dentro, e ci sguazzano ―; non così per i marxisti, e noi, pienamente concordi nel riconoscere rivoluzionarie le insurrezioni nazionali-conseguenti, cioè "borghesi fino in fondo", avevamo non solo il diritto ma il dovere di mettere in guardia contro le prevedibili sbandate di partiti dalle basi teoriche oscillanti e dalla dubbia composizione organizzativa nell'applicare alla "lettera" (e quindi male) tesi fondamentalmente ineccepibili (9). Non dice nulla agli "storici" il fatto che sia stata la nostra corrente, nel 1924-26, a rivendicare per prima l'organica integrità dell'impostazione strategico-tattica del problema nelle tesi di Lenin contro ogni tendenza (Cina!) ad alterarne i cardini ― cioè il ruolo preminente del partito mondiale comunista nella direzione dei moti nazionali e coloniali e la rigorosa salvaguardia della sua autonomia sul piano locale non meno che internazionale? che sia stata essa a gettare per prima l'allarme sulla falsa trasposizione della grandiosa prospettiva 1920 al caso di paesi ultracapitalisti, in cui "la questione nazionale e l'ideologia patriottica sono diretti espedienti controrivoluzionari, tendenti al disarmo di classe del proletariato" (Germania 1923)?

Note

(1) Nel suo discorso Lenin, richiamandosi allo spirito "jingoistico" da cui era dominata l'aristocrazia operaia inglese e che spingeva il comune lavoratore a ravvisare un tradimento nell'aiuto ai popoli asserviti nelle loro insurrezioni contro la dominazione britannica", aggiunse che la tradizione di indifferenza della II Internazionale, maschera di una effettiva ostilità verso i moti coloniali, sopravviveva ("e noi dobbiamo affermarlo ad alta voce"} perfino nella "maggioranza dei partiti che intendono aderire alla III Internazionale"!

(2) Dalle nostre Tesi di Lione, 1926: cfr. il giù citato volume In difesa delta continuità del programma comunista, pag. 111.

(3) In altri termini, come spiegano le stesse Tesi, quando esiste un partito comunista locale indipendente in grado di operare in quanto tale!

(4) Se ne vedano degli stralci in Le marxisme et l'Asie, 1853-1964, a cura di H. Carrère, Parigi 1965. La posizione originaria di Roy sarà spinta all'estremo dell'assurdo da Sultan Galiev con la sua teoria che il solo vero proletariato si trova nei paesi sottosviluppati ed è quindi necessaria una "dittatura delle colonie e semicolonie" sulle metropoli industriali...

(5) Diciamo in parte, perché il problema non è solo quello della sopravvivenza di rivoluzioni vittoriose in aree arretrate, ma è soprattutto quello delle condizioni del loro "passaggio al comunismo".

(6) Come si vede anche dal senso di fastidio con cui Serrati, presiedendo la seduta, invita un delegato che parla delle lotte dei proletari di colore in America a tagliar corto...

(7) In Prometeo, anno I, nr. 4 del 15.IV.1924.

(8) Vedi In difesa della continuità del programma marxista, pag. 111.

(9) "La tesi dell'Internazionale Comunista per la guida, da parte del proletariato comunista mondiale e del suo primo stato, del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, appare [...] come il risultato di un vasto esame della situazione e di una valutazione del processo rivoluzionario ben conforme al programma nostro marxista [...] Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire, sempre e dovunque, in senso opposto alla tendenza nazionale: il che non significherebbe nulla e sarebbe la negazione "metafisica" del criterio borghese. Il metodo marxista si contrappone a questo dialetticamente, ossia parte dai fattori classisti per giudicare e risolvere il problema nazionale. L'appoggio ai movimenti coloniali, per esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe [come pretendeva... Serrati] che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati, con una opera indipendente di formazione ideologica e organizzativa, si chiede l'appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti della metropoli" (Comunismo e questione nazionale, cit.). Troppo presto si perderà questa solida bussola!

g) La questione agraria.

Analoghe considerazioni valgono per le tesi redatte da Lenin e variamente emendate dalla commissione Marchlevsky sulla questione agraria.

Il problema che qui si affronta va ben oltre i termini un po' meschini ai quali lo ridusse Graziadei nel suo breve discorso (applicare il metodo marxista del "minimo sforzo" valutando bene gli avversari e facendo loro concessioni atte a facilitare la presa del potere e, a rivoluzione avvenuta, il suo mantenimento!), ma investe sia le condizioni obiettive in cui, in regime capitalista, si svolge la produzione agricola, e che determinano a loro volta la struttura complessa della popolazione contadina, sia le condizioni obiettive in cui, appunto perciò, la dittatura proletaria vittoriosa procederà nelle campagne all'impianto di una gestione sociale collettiva non tanto nella "proprietà" del suolo (che è il problema minore) quanto nel suo modo di sfruttamento. Come è antimarxista ignorare il fatto che, sotto il capitalismo, il passaggio alla grande azienda a lavoro associato è nell'agricoltura infinitamente più lento, meno esteso e radicale, che nell'industria, per cui la piccola e media gestione familiare ed artigiana nelle sue molteplici forme sussiste ed è destinata a sussistere a lungo malgrado il suo carattere intrinsecamente antieconomico, ed è assurdo pensare che la rivoluzione proletaria debba, per realizzarsi, attendere la sua scomparsa; come, per lo stesso motivo anche se da un angolo dialetticamente capovolto, è antimarxista ipotizzare il passaggio immediato alla gestione sociale collettiva della piccola e media azienda contadina e dello stesso latifondo, passaggio che sarà invece immediato nel caso della grande azienda agricola capitalistica, ed è per contro perfettamente marxista proclamare che, immediatamente espropriate le grandi aziende agricole capitalistiche, si darà in esercizio la terra a chi la lavora in un vasto settore anche tecnicamente impervio ad una immediata gestione sociale collettiva; così è fuori del marxismo ridurre lassallianamente a un blocco unico, e uniformemente controrivoluzionario, tutto il policromo ventaglio di strati sociali divisi da interessi contrastanti (anche se collimanti nel comune attaccamento a un passato pre-capitalistico quanto a modo di conduzione e quindi anche a modo di ragionare ― o sragionare) che corre sotto il nome di "classe contadina".

Fulcro del comunismo rivoluzionario nelle campagne è e rimane il vasto ceto dei salariati agricoli, dei gloriosi braccianti, sia perché i loro interessi e le loro battaglie stanno sullo stessissimo piano di quelle dei salariati di industria, sia perché su di essi poggerà appunto perciò in regime dittatoriale proletario la gestione collettiva dell'agricoltura negli spazi ― più o meno estesi a seconda del grado di sviluppo economico, ma in Occidente immensi ― in cui lo stesso capitalismo ci fa involontariamente dono dei presupposti materiali di un così grandioso trapasso; ma ciò non significa che il marxismo non abbia nulla da dire ai coltivatori parcellari, ai piccoli e piccolissimi affittuari e coloni, perfino ai piccoli contadini, non per basse ragioni di... cucina elettorale ma per motivi anch'essi materiali nel duplice senso che la scopa della dittatura non può oggettivamente spazzarli via d'un colpo con la loro piccola schiappa sudata e taglieggiata eppur sempre viva e vitale, e che il proletariato urbano e rurale può trarne appoggio nella sua battaglia di classe contro un nemico che troppo spesso sfugge al loro occhio velato da pregiudizi ancestrali, ma di cui sentono duramente il peso nelle manifestazioni esterne del suo spietato dominio (rendita fondiaria, usura, imposte e via discorrendo). Né d'altra parte il proletariato può chiudere gli occhi sull'importanza e sulla possibilità se non di guadagnarli tutti e stabilmente alla sua causa, di neutralizzarne le resistenze, prevenzioni e ubbie incancrenite anche in frange sfumanti nella vasta e mal definita area di quello che le Tesi 1920 chiamano il contadiname medio, o ignorare per converso il feroce potenziale controrivoluzionario annidantesi negli strati abbienti di contadini che pur lavorano in parte con le loro braccia, e che si tratterà prima o poi di combattere a mano armata.

Proprio il volumetto edito nel 1921 dal PC d'Italia allora diretto dalla Sinistra (1) è una brillantissima confutazione dei tradizionali pregiudizi del socialismo tipo II Internazionale denunciati a Mosca, e un classico esempio di corretta impostazione marxista del problema, che anzi riconduce ai suoi veri termini con tanta maggior chiarezza in quanto fa perno sull'elemento cruciale dell'azienda più che su quello della proprietà, distinzione che le tesi dell'IC non mettono in luce, col risultato di far sembrare esclusa quella nazionalizzazione immediata del suolo, che pure appartiene in teoria, come mille volte ricordato da Lenin sulle orme di Marx, alle rivendicazioni radicali borghesi, non ancora socialiste, e che può attuarsi senza pregiudizio del modo di gestione non-associato della piccola e piccolissima azienda, persistente per qualche tempo e in date aree ― sotto il controllo centrale e la razionale direzione, beninteso, della dittatura proletaria.

Le nostre "riserve" si collocavano dunque su un piano totalmente diverso sia da quello di Graziadei, secondo il quale da un lato le Tesi smentivano (e ciò, a suo parere, recava acqua al mulino del revisionismo teorico a lui tanto caro) "la tendenza alla eliminazione totale dell'azienda contadina di tipo familiare in regime capitalista" sedicentemente postulata come legge meccanica da Marx, dall'altro, in nome dell'abile opportunismo tattico di cui si sarebbero fatte portavoce, avrebbero dovuto spingersi più innanzi nelle concessioni non solo ai contadini medi ma addirittura ai grandi proprietari terrieri, promettendo loro... una rendita vitalizia in cambio della messa a disposizione della dittatura proletaria vittoriosa dei loro esperti e delle loro capacità tecniche superiori (!!!); sia da quello di Serrati, che aveva ragione, in linea di principio, di chiedere che non si usasse un'eccessiva condiscendenza verso i piccoli contadini presi in blocco (2), dimenticando o sottovalutando il peso che hanno nelle campagne i partiti e le associazioni a sfondo clericale reclutanti il proprio seguito appunto nelle loro file, e anticipando con eccessivo ottimismo lo schierarsi del contadiname minuto a fianco dei salariati agricoli in sciopero, ma dava prova della solita mentalità antidialettica (e quindi mostrava di aver torto in pratica) nel respingere qualunque apporto dei contadini poveri e poverissimi alla rivoluzione proletaria e negandone l'accessibilità, prima di questa, ad una propaganda che, senza nulla mutare o nascondere dei suoi obiettivi, mettesse in risalto gli enormi vantaggi che al tormentatissimo ceto dei piccoli coltivatori non potrà non offrire la soppressione ― possibile solo grazie alla presa del potere da parte del proletariato ― dei mille gravami connessi alla persistenza dei diritti di proprietà borghesi e di tutte le altre forme di parassitismo sociale.

Il problema era un altro, e lo stesso volumetto del 1921 lo chiarisce. Le Tesi 1920, in quanto (malgrado le varianti introdotte in sede di commissione soprattutto per insistenza dei delegati tedeschi ― i quali d'altra parte non avevano da proporre nulla di molto più radicale, giacché lo stesso programma agrario 1919 dello Spartakusbund restava al disotto delle esigenze del movimento operaio nel mondo occidentale a capitalismo avanzato) riflettevano prevalentemente lo schema della situazione agricola e dei rapporti di classe nelle campagne in Russia, davano di questi ultimi una rappresentazione non diciamo statica ma insufficientemente dinamica; vedevano cioè in una prospettiva non breve ― come era naturale in ambiente di "rivoluzione doppia" ― la rottura, anticipata con estrema lucidità e fermezza da Lenin, della provvisoria "saldatura" e perfino alleanza fra proletariato urbano e rurale da una parte e coltivatori "in proprio" (l'"idra piccolo-borghese" della NEP!) dall'altra; rottura i cui tempi e la cui profondità dipendono non da banali calcoli di convenienza, ma dallo stato reale dei rapporti di forza, e avverrà a distanza più o meno ravvicinata a seconda del grado di sviluppo economico generale delle diverse aree del pianeta, e in ogni caso, nell'Occidente pienamente capitalistico (e in alcuni dei suoi paesi soprattutto), assai più vicina che altrove, e in forma molto più violenta.

Questa constatazione non toglie nulla alla perfetta "ortodossia" dei princìpi informatori delle tesi, e non giustifica minimamente il falso "sinistrismo" di cui si ammantano gli opportunisti o, viceversa, la loro corsa all'arruffianamento del piccolo e medio contadiname nello stile d'oggi, ma esige nel partito proletario, ferma restando la necessità di una specifica propaganda in seno a quei ceti vuoi per attirarne la parte più misera o meno impregnata di pregiudizi piccolo-borghesi, vuoi per neutralizzarne temporaneamente l'altra, la chiara consapevolezza di doversi muovere su un terreno minato, pieno di contraddizioni e tanto fertile in date fasi del percorso rivoluzionario, quanto irto di difficoltà e resistenze in altre, e quindi la prontezza a passare da una tattica di paziente convinzione, "educazione" e direzione ad una di attacco, repressione e perfino estirpazione violenta (3).

Come si legge nell'opuscolo citato, le Tesi 1920, "dettate dalla esperienza russa, appaiono come tesi internazionali troppo moderate, nel senso che nei paesi industriali la lotta contro il ricco e il medio contadino potrà cominciare più presto"; ma, se qualcuno può giudicarle "troppo prudenziali [...], ciò non autorizza che i peggiori ignoranti dell'opportunismo a immaginarle compilate dando di frego alla dottrina marxista per far parlare la reale convenienza politica".

La rotta verrà il giorno in cui l'Internazionale Comunista decadente baratterà quello che noi chiamammo "l'aiuto prezioso della rivolta del contadino povero" alla rivoluzione proletaria per un rapporto di parità o quasi-parità fra le due classi, dimenticando che del rivoluzionamento dei rapporti economici, sociali e prima ancora giuridici nelle campagne il proletariato resta il vero protagonista, per il fatto "di non essere soltanto, come il contadino, una vittima del sistema dei rapporti di produzione borghesi, ma il prodotto storico della loro maturità a cedere il passo ad un sistema di rapporti nuovi e diversi" (Tesi di Lione, parte II, par. 10), e che le conclusioni tattiche di Lenin nella complessa materia poggiavano appunto perciò su due presupposti cruciali e inseparabili: da un lato, l'intangibilità della "preminenza ed egemonia della classe operaia nella condotta della rivoluzione", dall'altro la "differenza fondamentale tra i rapporti fra proletariato e classe contadina e i rapporti fra proletariato e ceti medi reazionari dell'economia cittadina espressi soprattutto dai partiti socialdemocratici". E chi erano questi ultimi ceti, se non gli "elementi grigi" a recuperare i quali, nell'atto di scandalizzarsi del cosiddetto "possibilismo bolscevico" verso il contadiname povero, tanto si indaffaravano i Serrati e C., difendendone o addirittura salvandone l'espressione politica, cioè il riformismo parlamentare e confederale dei Turati e D'Aragona? (4)

Ancora una volta, toccherà alla Sinistra difendere l'essenziale del II Congresso contro i cinici profittatori postumi dei punti formalmente deboli del suo apparato accessorio. E questo, ancora una volta, non dice nulla agli "storici"?

Note

(1) A. Bordiga, La questione agraria, Libreria Editrice del PCd'I, Roma 1921, riprodotto in Reprint/Feltrinelli.

(2) Nella sua foga di... ortodosso, Serrati mise l'intero ceto dei piccoli contadini nel novero dei profittatori di guerra arricchitisi sul sangue versato al fronte dai proletari (il che, se poteva esser vero per alcuni, ignorava l'enorme sacrificio di vite imposto alla grande maggioranza della popolazione agricola dalla carneficina 1914-18, e l'estesa proletarizzazione ad essa seguita) suscitando le proteste del giovane e ardente Lefebvre. É strano però (ma conforme agli umori diffusi del congresso) che quest'ultimo non abbia accennato neppure di scorcio al gretto e tenace conservatorismo dei contadini piccoli-proprietari soprattutto del suo paese ― non motivo, beninteso, per eliderli dalla visuale di lotta dei comunisti, ma ragione sufficiente per non prendere sottogamba la durezza e le "ambivalenze" del lavoro rivoluzionario nelle campagne. La debita strigliata a Graziadei venne impartita da Sokolnikov, sebbene, anche qui, dall'angolo di una prognosi troppo... idilliaca dei rapporti fra proletariato vittorioso e popolazione agricola.

(3) L'esposizione classica degli aspetti solo apparentemente contraddittori della tattica comunista nei confronti della policroma "classe contadina" è, notoriamente, La questione contadina in Germania e in Francia di Engels, ma si veda pure la poderosa sintesi della questione negli Estratti e commenti critici a "Stato e Anarchia" di Bakunin, di Marx, ora tradotti in italiano nel volume K. Marx e F. Engels, Critica dell'anarchismo, Torino 1972, pagg. 334-356, dove il problema è lucidamente collegato a quello della "successione delle forme economiche" condizionanti ogni "rivoluzione sociale radicale" e non sostituibili con la "volontà".

(4) Quanto alla "comprensione" dei problemi specifici della dittatura proletaria in Russia da parte dei massimalisti, si noti che, nella seduta del 23 luglio, in perfetta sintonia con gli indipendenti tedeschi, Serrati aveva... sinistreggiato criticando le concessioni ai contadini medi in Russia, quasi che in un paese a rivoluzione doppia, per giunta arretratissimo nelle campagne, la dittatura proletaria, come gli rispose Trotsky, potesse ― in mancanza di quella rivoluzione nei paesi capitalistici evoluti che massimalisti e indipendenti si guardavano bene dal preparare ― non far concessioni alla "barbarie delle condizioni materiali" ereditate dal passato!

h) Compiti dell'Internazionale Comunista e Statuti

Purtroppo, anche il dibattito sulle Tesi relative ai compiti dell'IC eluse le questioni di principio poste da Lenin nei due paragrafi iniziali dando per acquisito ciò che in realtà per la maggioranza dei delegati restava quanto meno confuso. L'attenzione si concentrò invece sul paragrafo III, in cui erano indicate le linee direttive di una "correzione della linea e in parte della composizione dei partiti che aderiscono o vogliono aderire all'IC" (1).

Era in realtà il punto più controverso delle Tesi e, nello stesso tempo, quello in cui era inevitabile che le incertezze dei partiti attratti verso la III Internazionale non soltanto riaffiorassero, ma influissero sulle decisioni finali del congresso. L'impostazione generale era quella ormai nota: aperto riconoscimento che alcuni dei partiti staccatisi dalla II Internazionale e disposti ad aderire, condizionatamente o incondizionatamente, alla III erano ancora ben lontani dall'accettare e tradurre in pratica i princìpi fondamentali di quest'ultima; rifiuto quindi di ammetterli immediatamente nelle sue file, e rinvio di ogni decisione sulla possibilità di accoglierne le ali dissenzienti a dopo che i deliberati del II Congresso e del Comitato esecutivo dell'IC fossero stati resi pubblici e ampiamente discussi, gli elementi i quali "continuavano ad agire nello spirito della II Internazionale" fossero stati espulsi e tutti gli organi periodici del partito risultassero affidati a redazioni esclusivamente comuniste; mandato imperativo all'EKKI di ammettere i detti partiti, o loro frazioni, solo dopo essersi assicurato che i 21 punti fossero effettivamente adempiuti; opportunità per i comunisti in minoranza negli organismi dirigenti di tali partiti, o di partiti analoghi, di rimanervi se e fin quando fosse loro consentito di propagandarvi i princìpi della dittatura proletaria e del potere sovietico e di criticarne gli elementi opportunisti e centristi; appello a gruppi e partiti come il KAPD da un lato, gli IWW e gli Shop stewards committees dall'altro, perché aderissero alla III Internazionale in considerazione del fatto che "le loro idee sbagliate sono dovute meno all'influenza di elementi provenienti dalla borghesia [...] che all'inesperienza politica di proletari pienamente rivoluzionari e legati alle masse"; necessità infine di svolgere un'intensa propaganda fra i proletari anarchici avviati a una graduale comprensione della necessità della dittatura e del terrore.

Nel quadro di tale impostazione, fu oggetto di dibattito particolarmente acceso il problema delle modalità di costituzione del Partito comunista in Inghilterra. Come per la situazione interna del PSI (argomento cui accenneremo poi), non solo la decisione presa, per le ragioni che abbiamo cercato lungamente di chiarire, non ottenne, né poteva ottenere, il nostro consenso, ma la nostra Frazione la giudicò particolarmente infelice. Ne accenniamo sia per ribadire i motivi del nostro disaccordo, sia per ristabilire i giusti termini ― troppo facilmente ignorati dagli storici dell'opportunismo ― nei quali la questione venne posta da Lenin.

La situazione di fatto in Inghilterra, come la presentano sia l'Estremismo sia il discorso di Lenin del 6 agosto, era schematicamente la seguente: da un lato, gruppi come gli Shop stewards committees e la Workers Socialist Federation, che per lunga tradizione si muovevano nell'ambito di concezioni fondamentalmente anarco-sindacaliste e comunque antipartito, non potendosi quindi per l'Internazionale come per noi considerare marxisti, ma nella cui fiera lotta contro l'opportunismo laburista e nella cui avversione alla prassi parlamentare si esprimeva quel "nobile odio proletario" in cui "è il fondamento di ogni movimento socialista e comunista" (2); dall'altro, un piccolo nucleo di partito come il British Socialist Party che professava, almeno a parole, i princìpi-cardine marxisti del partito di classe, della dittatura e del terrore, ma che aveva assunto in varie occasioni atteggiamenti a dir poco equivoci e, nello stesso congresso, si era attirato i fulmini di Lenin per un certo penchant democratico.

In tali circostanze, il primo problema che i bolscevichi si posero, in coerenza con tutta l'impostazione seguita prima e durante il congresso, fu di inquadrare forze così gracili e malsicure in un unico partito politico nel quale la presenza di proletari estremamente battaglieri e animati da quel forte istinto di classe di cui è un aspetto inseparabile il disgusto del parlamentarismo, controbilanciasse l'eccessiva condiscendenza verso il Labour Party e i suoi rappresentanti parlamentari e sindacali da parte dell'unico gruppo che mostrasse di condividere i princìpi generali della III Internazionale e, soprattutto, di riconoscere il ruolo centrale del partito nella rivoluzione proletaria. Come in tutto il congresso, la tendenza dei bolscevichi fu anzi di far leva molto più sui primi che sui secondi, nella convinzione che, col favore di una situazione sociale internazionale montante e grazie a una energica direzione centrale a Mosca, le vecchie remore persistenti nell'una e nell'altra ala dell'avanguardia proletaria inglese sarebbero state vinte e superate. L'appello agli shop stewards e alla Pankhurst affinché si unissero al British Socialist Party (BSP), di cui si negava che meritasse la qualifica di "irrimediabilmente riformista" datagli da Gallacher nel suo breve intervento, ma dal quale si esigeva un radicale cambiamento di tattica nel senso "di un'agitazione più efficace e di un'azione più rivoluzionaria", toccò anzi proprio nel discorso di Lenin accenti che non è irriverente chiamare "patetici"; e come stupirsene, ricordando la testimonianza (indubbiamente sicura perché collimante con l'episodio già ricordato della polemica Trotsky-Levi) secondo cui, a MacLaine il quale si vantava di concordare senza riserve sui compiti del partito e sull'azione da svolgere in parlamento e all'interno dei sindacati riformisti, Lenin aveva risposto in sede di commissione: "No, non è così facile, e se credete così è perché siete ancora impregnato del verbalismo socialista che era in voga nella II Internazionale e che s'arrestava sempre di fronte all'azione rivoluzionaria" (3)? Ancora una volta, occorreva attingere al potenziale rivoluzionario di gruppi "che non sono ancora un partito", per rinnovare le strutture di un gruppo costituitosi in partito ma "troppo debole e ignaro di come si deve condurre l'agitazione fra le masse": non v'erano, nell'immediato, alternative. Ed è un fatto che il Partito comunista britannico nacque, non discutiamo ora se bene o male, intorno a uomini come Gallacher o Tanner piuttosto che MacLame o Quelch.

Molto più difficile, e risolto in modo assai discutibile, era il problema di aiutare i gruppi (giacché più di gruppi che di partiti si poteva parlare, anche nel caso del BSP) a superare lo stadio di minuscole sette, prive o quasi prive di stabili legami con le grandi masse, con l'enorme esercito di lavoratori inquadrato nelle Trade Unions e per loro tramite, almeno in larghissima parte, nel partito laburista, e impotenti sia a far sentire loro la propria voce, sia a muoversi su un piano politico anziché puramente agitatorio da un lato e accademicamente "intellettuale" dall'altro. É noto che a questo fine Lenin propugnò l'adesione al Labour Party del Partito comunista che si sperava nascesse dalla fusione dei 5 o 7 gruppi già ricordati, e ciò con l'argomento che il partito laburista non era "un partito nel senso corrente del termine", ma un raggruppamento non rigido di organizzazioni sindacali abbracciante qualcosa come 4 milioni di iscritti, e tale da consentire, appunto in forza della sua struttura elastica, una certa libertà di propaganda, agitazione e perfino critica rivoluzionaria.

Ovviamente, una tale proposta non poteva essere approvata da noi per ragioni sia di metodo che di fatto: ragioni di metodo, perché ― come osservava Il Soviet nel nr. 28 dell'11 novembre 1920, facendo proprie le critiche dello svizzero Le Phare ― la richiesta di aderire a un organismo completamente screditato agli occhi dei proletari di avanguardia per la sua costante politica di conciliazione in tempo di pace e di unione sacra in tempo di guerra, quand'anche fosse stata accolta avrebbe avuto effetti disorientanti proprio là dove la massima chiarezza era imposta dalla tenacia di tradizioni antipartitiche ed apolitiche (oltre che per il motivo di fondo che il noyautage, perfettamente normale e persino imperativo in organismi sindacali e di massa, è invece distruttivo della ragion d'essere del partito di classe se praticato in seno a partiti politici); ragioni di fatto, perché l'interpretazione del Labour Party come puro aggregato di Trade Unions era smentita dalla reale natura di un'organizzazione che riuniva bensì vaste federazioni di mestiere, ma per inquadrarle sotto la direzione politica di "un sinedrio di piccoli borghesi controrivoluzionari" (come dirà Il Soviet del 3 ottobre 1920) deciso ad aggiogarle alla classe dominante ed al suo Stato, mai, in ogni caso, a tollerare l'attività di critica e propaganda rivoluzionaria indicata da Lenin come pregiudiziale.

La storia dei mesi successivi scioglierà il nodo mostrando che il Labour Party non intendeva per nulla al mondo aprire le porte a elementi sovversivi; ma ciò non toglie che la decisione del II Congresso ― ispirata ad una tattica audace di cui, in Russia, la situazione sociale e politica da una parte e la solidità delle basi teoriche del partito bolscevico dall'altra avevano permesso di evitare i terribili rischi ― ebbe sul processo di formazione di un nucleo comunista in Inghilterra, già malsicuro alle origini e condannato a muoversi in un ambiente di aristocrazia operaia saturo di molteplici suggestioni democratiche, effetti decisamente negativi e lasciò cicatrici non facili da rimarginare. Indubbiamente, qui più che altrove Lenin e l'Internazionale si trovavano di fronte al dilemma o di abbandonare a se stesso un movimento operaio battagliero anche se confuso, o indicargli le possibili vie al superamento di pesanti inerzie storiche e tradizioni fortemente radicate: era, in forma più acuta, lo stesso dilemma di fronte al quale si trovavano in altri paesi, ma che appariva tanto più grave in quello che costituiva il cuore stesso della dominazione mondiale dell'imperialismo: la Gran Bretagna. Non tacemmo allora, e abbiamo mille ragioni in più per non tacere oggi, che la direttiva tracciata apparteneva al novero delle risorse tattiche più sottili e nello stesso tempo più pericolose suggerite da Lenin, e il cui tallone d'Achille risiedeva nell'impossibilità di applicarle senza correre il rischio di perdere il filo dei princìpi passando con rapidità fulminea ― la stessa rapidità con cui la scena politica russa, nella prospettiva storica di una doppia rivoluzione, mutava volto quasi di giorno in giorno ― da audaci accostamenti a raggruppamenti ai quali ben si attagliava il nome, almeno per breve ora, di "compagni di strada" a violente rotture, come avevano fatto magistralmente ― ma in tutt'altre condizioni ― i bolscevichi; l'impossibilità soprattutto di applicarle evitandone le conseguenze fatali in un ambiente di capitalismo avanzato e di democrazia più che centenaria e senza la solida base di una forte preparazione e tradizione marxista.

Non gongolino però gli opportunisti, quasi che l'"agilità tattica" allora suggerita fosse l'antenata e la pronuba della loro "assenza di princìpi". Il discorso col quale Lenin giustificò la sua tesi è un esempio di come, anche nelle rotte più ardite, egli non perda mai la bussola della dottrina, non cancelli mai la linea di divisione fra sé e il nemico, non baratti mai come ideale quella che è soltanto una dura realtà da guardare in faccia per poterla superare avendone tratto vantaggio, mai avendo capitolato di fronte ad essa. Quando MacLaine credette di appoggiare la sua tesi con l'argomento che il Labour Party era l'"espressione politica degli operai sindacalmente organizzati", Lenin insorse con una frase che mai dovrebbe essere dimenticata dai marxisti:

"É un'opinione sbagliata contro la quale reagiscono, fino ad un certo punto, in modo pienamente legittimo, gli operai rivoluzionari inglesi [...]. Beninteso, il Partito laburista è composto per la maggior parte di operai. Ma che un partito sia o non sia realmente un partito operaio non dipende soltanto dall'essere composto di operai, ma anche dalle caratteristiche dei suoi dirigenti, dal contenuto della sua attività e dalla sua tattica politica. Soltanto quest'ultimo elemento permette di stabilire se ci troviamo di fronte a un partito politico del proletariato. Sotto questo profilo, che è l'unico giusto, il Partito laburista è un partito interamente borghese, perché, sebbene composto di operai, è diretto da reazionari ― anzi dai peggiori reazionari ― nel senso e nello spirito della borghesia".

Se dunque Lenin proponeva al partito comunista inglese, quando si fosse costituito, di aderirvi, era in base agli stessi criteri in forza dei quali i comunisti hanno il dovere di lavorare nei sindacati anche "i più reazionari" al fine di collegarsi alle grandi masse proletarie ed elevarle con una vigorosa propaganda e agitazione all'altezza della lotta politica; dunque, perché considerava il Labour Party alla stregua di un aggregato di organizzazioni economiche a larghissima base. Era un errore; ma, in quel breve squarcio di discorso, sono contenute tesi di principio che vanno ben oltre la contingenza, e che toccherà alla Sinistra di difendere entro e contro l'Internazionale decadente allorché, sfidando gli strepiti della destra e riallacciandosi al solido filo rosso del 1920, ribadirà che: 1) il partito di classe non è definito dalla sua composizione statisticamente e sociologicamente "operaia", come sciaguratamente si pretese ai tempi della cosiddetta bolscevizzazione cadendo in quella che noi chiamammo ― anticipatamente suffragati dal verdetto marxista di Lenin ― una concezione "laburista" del partito, bensì dalla direzione in cui si muove, dal suo programma e dalla sua tattica; 2) la socialdemocrazia non è l'ala destra del movimento operaio ma l'ala sinistra della borghesia, come fu detto al congresso di Roma del PCd'I discutendosi dell'equivoca parola d'ordine del "governo operaio", e come ad una Internazionale che quel solido filo andava smarrendo parve fosse "infantile" sostenere.

Quando d'altra parte la Pankhurst, rifacendosi qui come altrove ad argomenti secondari invece di prendere di petto la questione centrale, obiettò: "Se saremo dei veri rivoluzionari e aderiremo al Partito laburista, quei signori ci espelleranno", Lenin reagì nuovamente: "Ma non sarebbe affatto un male!", come già nell'Estremismo aveva scritto che la prospettiva di perdere qualche seggio in parlamento qualora gli Snowden e Henderson avessero respinto la nostra mano fuggevolmente tesa per poi ritirarla subito e combatterli, non solo non ci doveva spaventare ma doveva al contrario essere salutata come una vittoria, lo scopo della tattica suggerita essendo di dimostrare coi fatti agli operai che fra noi e gli opportunisti nessun ponte può mai essere costruito e che mai in nessun caso Westminster sarà il nostro campo di battaglia!

Provino gli esperti in tattica "elastica" delle Botteghe Oscure a dimostrare che anche un ultimo esile ponticello li ricollega a Lenin: essi, i teorici dei fronti popolari e nazionali, dell'unità fra tutti i partiti "operai", della via democratica e parlamentare al socialismo! Anche nelle pieghe ambigue delle proposte di soluzioni tattiche più discutibili e perfino condannabili, Lenin ha lasciato al movimento comunista avvenire un tesoro di dottrina al quale attingere non solo per non ricadervi, ma per vedere con sempre maggior chiarezza in tutto il difficile percorso della propria esistenza di partito antidemocratico, antiparlamentare, antiopportunista, e solo a questa condizione rivoluzionario: quel tesoro, essi l'hanno buttato a mare e mai si sognerebbero di ripescarlo! Sono questi fasci di luce nell'ombra incerta della contingenza a fare del II Congresso una parte inscindibile del patrimonio teorico e programmatico del comunismo rivoluzionario: il resto appartiene alla fragile "ora che volge" e ha lo stesso carattere "interlocutorio" del lungo e non conclusivo dibattito sulla consistenza del partito comunista unificato sorto proprio in quei giorni in America, e già diviso senza che si potesse giudicare quale delle due ali, unitaria o scissionista, fornisse un minimo di "carte in regola" con l'Internazionale rivoluzionaria. Nel mondo anglosassone, ancor più che in quello latino e centro-europeo, il partito comunista non aveva ancor superato lo stadio di pallida larva: l'interrogativo non era dove e come avrebbe fatto i primi passi, ma se possedesse la bussola senza la quale gambe e testa seguono immancabilmente la via sbagliata. E la bussola era il filo rosso mille volte dipanato da Lenin, e mille volte perduto, se mai l'avevano afferrato, dai pur combattivi e generosi proletari accorsi ad offrire il proprio contributo alla gigantesca battaglia su tutti i fronti e sotto tutti i cieli del pianeta, sostenuta a Mosca. Quando si riflette che nel dibattito sugli Statuti, al termine di quindici giorni di martellante riaffermazione dei princìpi del marxismo rivoluzionario, rifecero capolino negli stessi partiti da un anno aderenti all'IC gli antichi dubbi sul centralismo, la struttura gerarchica, la disciplina delle sezioni verso gli organi dirigenti del Comintern come dei militanti verso le sezioni, la necessità di una rete illegale di partito, l'aperta proclamazione dei princìpi della violenza di classe, della dittatura e del terrore, si può ben capire che i bolscevichi gridassero: Fatevi le ossa nel duro scontro con l'opportunismo e alla severa scuola della teoria, prima di chiamarvi comunisti; poi ne riparleremo!

Note

(1) Lenin, Opere, XXXI, pagg. 190-194.

(2) L'"estremismo" malattia infantile del comunismo, cit., pag. 69.

(3) Rosmer, cit., pag. 67.

8. La questione italiana, una pietra di paragone

Della questione italiana si erano occupate, con severi giudizi sulla tolleranza verso la destra da parte della direzione del PSI, le Condizioni di ammissione; ne riparlerà il Manifesto lanciato al termine del congresso; ne avevano ripetutamente accennato Lenin in risposta a Serrati, Zinoviev nella rassegna introduttiva dei partiti aderenti o... postulanti, Bukharin nel discorso di presentazione delle Tesi sul parlamentarismo rivoluzionario; e il direttore dell'Avanti! non aveva battuto ciglio neppure di fronte alle più aspre rampogne al PSI. Le direttive dell'Internazionale erano rimaste quelle già dette: la scissione doveva essere effettuata senza indugi, amputando il partito della sua ala riformista; il partito stesso, così "rinnovato", doveva, conformemente alle Condizioni di ammissione e in genere ai deliberati del congresso, mostrarsi all'altezza dei compiti affidati ai partiti comunisti dal ciclo storico aperto dalla rivoluzione d'Ottobre e dalla fine della guerra, ciclo che i bolscevichi ritenevano prossimo a uno snodamento rivoluzionario soprattutto in Italia. Come abbiamo più volte ripetuto, era una soluzione minima, che concedeva al massimalismo una fiducia condizionata nel senso che l'Esecutivo dell'IC si riservava di giudicarne il "corso nuovo" non appena un congresso straordinario avesse sancito non già un'adesione formale al Comintern ma una piena aderenza ai suoi princìpi e al suo programma; soluzione sostanzialmente analoga a quella proposta dalla mozione sul "Rinnovamento del Partito" emanante dalla sezione torinese del PSI, apparsa sull'Ordine Nuovo e letta da Terracini al consiglio nazionale di aprile, alla quale infatti, nel progetto di Tesi sui compiti dell'Internazionale Comunista, al par. 17, Lenin faceva riferimento come base sulla quale il partito si dovesse muovere nel prossimo avvenire.

Nella seduta del 6 agosto, tuttavia, Serrati si impennò: tutto aveva digerito, sia pure con riserva; ma non era disposto a digerire quella che suonava critica, anzi condanna della direzione massimalista per la sua insistenza nel coprire e tollerare la destra. Avrebbe perciò votato contro (anche a causa del modo in cui si era impostata la questione inglese e americana, aggiunse per rivestire di una foglia di fico intransigente il nocciolo ultratransigente del dissidio). Si era alla vigilia della chiusura del congresso e a mezzo mese di distanza dal ritorno in patria: si fiutava l'aria non più di Mosca o Pietrogrado ma di Milano, covo del riformismo parlamentare e sindacale, ed egli cominciava a investirsi della parte che i giovani francesi avevano temuto sarebbe stata assunta dai Cachin-Frossard nella mefitica atmosfera parigina; la parte che egli stesso reciterà poco dopo in Italia rinnegando i 21 punti e correndo al salvataggio del riformismo turatiano.

Non era l'unico. In sede di commissione, Graziadei, che fino a Livorno si adoprerà per costruire un'ultima "passerella" di recupero di almeno una parte del centro massimalista, aveva fatto le sue brave riserve sul tono della leniniana tesi 17 ("mi sembrava ― dirà al suo ritorno ― che la direzione del PSI e il segretario Gennari non venissero, nella forma, trattati coi riguardi che merita la loro opera, tenendo anche conto delle gravissime difficoltà della situazione" (1) e aveva chiesto che lo si ammorbidisse per favorire l'allineamento sulle posizioni dell'IC del nucleo più sostanzioso possibile del vecchio partito. E fu ancora lui a proporre una nuova dizione della tesi 17 sui compiti dell'Internazionale Comunista che, mentre eliminava ogni equivoco circa una sanzione da parte di quest'ultima alla corrente dell'Ordine Nuovo (2), rendeva omaggio formale ai deliberati del congresso di Bologna e alla sua maggioranza:

"...Il II Congresso dell'IC, riconoscendo che la revisione del programma votata l'anno scorso dal Partito socialista italiano nel suo congresso di Bologna segna una tappa molto importante nella sua trasformazione verso il comunismo [frase in origine mancante] e che le proposte presentate dalla sezione di Torino al Consiglio nazionale del Partito e pubblicate nel giornale l'Ordine Nuovo dell'8 maggio 1920, corrispondono ai fondamentali princìpi del comunismo, prega il PSI di volere, nel prossimo congresso da tenersi in conformità ai suoi statuti e alle condizioni generali di ammissione all'Internazionale Comunista, esaminare le suddette proposte e tutte le decisioni dei due congressi dell'IC, con speciale riguardo al gruppo parlamentare, ai sindacati e agli elementi non comunisti nel partito [dizione originaria: "...al fine di correggere la linea del partito e di epurare il partito stesso, e in particolare il suo gruppo parlamentare, dagli elementi non comunisti"]".

Tanto però non bastava a Serrati, il quale insistette che fra i due testi non esisteva alcuna differenza se non forse agli occhi di un azzeccagarbugli, entrambi significando aperta sconfessione dell'operato della direzione del partito e dell'Avanti!, cosa che Zinoviev si affrettò a confermare, e la nuova dizione passò, contro il voto di Serrati, nella sua forma diluita ma nella sua sostanza non equivoca.

Da parte nostra ― e lo dicemmo ― la questione non era né di forma né di stile, e tutte le parole di Lenin, Zinoviev e Bukharin stavano ad indicare condanna non solo della destra ma del suo avvocato difensore, il centro massimalista. Che così fosse, risultò anche dalla lettera che l'Esecutivo dell'Internazionale sottopose il 10 agosto alla delegazione italiana e le consegnò poi, nella sua stesura definitiva e rafforzata, il 27. Qui le reticenze graziadeiane erano scomparse, e al partito, proprio perché ufficialmente aderente all'IC, si imponeva con durezza tanto maggiore di uscir dall'equivoco: ad esso, "entrato fra i primi nella III Internazionale, è tanto più indispensabile fissare con assoluta nettezza la linea della propria tattica e vincere al più presto la nefasta resistenza derivante dalle colpe volontarie o involontarie" del passato, dal fatto d'essere "contaminato da elementi riformisti o liberali borghesi che, nel momento della guerra civile, sono destinati a trasformarsi in veri agenti della controrivoluzione, in nemici della classe proletaria", e alla cui influenza si deve se "non è il Partito che guida le masse, ma le masse che spingono il Partito"; il movimento comunista internazionale, che vede addensarsi sull'Italia le prime nubi annunziatrici della tempesta rivoluzionaria, non può tollerare che "il partito proletario si trasformi in un corpo di pompieri chiamato a spegnere la fiamma della rivoluzione, quando questa prorompe da tutti i pori della società capitalistica". Basta, dunque, con le esitazioni: "Il nemico è nelle vostre stesse case [...], liberate il Partito dall'elemento borghese, e allora, ma soltanto allora, la disciplina di ferro del proletariato e del suo partito condurrà la classe operaia all'assalto delle fortezze del capitale!".

La lettera, che pone "in modo ultimativo la questione dell'epurazione del Partito, senza di che il Comitato esecutivo non potrebbe assumersi di fronte al proletariato internazionale la responsabilità della sua sezione italiana", prevede certo come prossima una situazione rivoluzionaria purtroppo ancora lontana (l'occupazione delle fabbriche, iniziatasi due giorni dopo, segnerà piuttosto il suo riflusso che la sua apertura), ma la critica del PSI, delle sue pesanti remore, della sua capitolazione di fronte all'opportunismo parlamentare e confederale, del suo nullismo in tutte le manifestazioni della lotta di classe, per quanto "infantili, spontanee, non organizzate" esse siano, come "l'importantissimo movimento dei consigli di fabbrica" (a chi se non al Partito spetta di "porre rimedio a tali deficienze?"), queste e altre critiche vanno ben oltre la contingenza e il giudizio sui suoi possibili sviluppi, per investire il problema generale e permanente della natura e dei compiti del partito di classe, ed è in funzione di questo problema ― non, come nella ricostruzione fantastoriografica, della fiducia di avere con sé l'enorme maggioranza del PSI (la lettera del 27 agosto, firmata Zinoviev e Bukharin, proclama: "Noi non corriamo dietro al numero; non vogliamo avere delle catene ai piedi") ― che l'Internazionale vorrà fermamente Livorno. Il fatto è che il partito italiano divenne, dopo il II Congresso, un banco di prova: lì ― non in partiti che un giorno forse avrebbero aderito all'IC, ma in un partito che ne faceva parte da più di un anno ― era la pietra di paragone della rottura col passato. La diagnosi della situazione politica e sociale italiana poteva, in Lenin e nei suoi compagni, essere, come indubbiamente era, troppo ottimistica (in sede di commissione, noi avevamo messo in guardia contro eccessive illusioni in merito, e lo scatto di Bukharin documentato da uno scarno riassunto di verbale in polemica con il delegato astensionista (3), alla cui lettura gli storici vanno in brodo di giuggiole, mostra soltanto come il "dovere dell'ottimismo" possa in date circostanze far velo alla chiarezza ― ma non è una colpa!); il problema dell'organo partito restava integro, confermata o smentita che fosse la diagnosi. Mosca chiedeva a brevissima scadenza la scissione dalla destra: per noi la soluzione era insufficiente; per il massimalismo, era eccessivamente drastica. Se l'Internazionale, dopo aver patrocinato la via meno... chirurgica, riconobbe con noi che il taglio doveva finalmente essere spietato non risparmiando, insieme alla destra, il centro, non è solo perché si trovò di fronte una dura maggioranza unitaria fieramente decisa a non accettare imposizioni non diciamo dalle supreme istanze organizzative e disciplinari dell'IC, ma dai princìpi di cui esse erano ― e dovevano essere ― le esecutrici come ne erano le depositarie (è noto che nell'autunno Lenin iniziò una vigorosa campagna anti-Serrati); è soprattutto perché trovò nella nostra Frazione, divenuta il catalizzatore delle forze oscuramente attratte verso il programma comunista, il punto d'appoggio per l'applicazione nella forma più conseguente ― chiamiamola pure: più bolscevica ― dei deliberati del congresso mondiale.

Il nodo (e ci si consenta di anticipare in sintesi quello che risulterà da un successivo volume) è proprio qui: il resoconto dei dibattiti che abbiamo cercato di dare seguendo il filo rosso dell'essenziale per sfrondarne l'accessorio, mostra come lo "stato maggiore del comunismo" riunito intorno a Lenin, partito da una piattaforma minima nel redigere tesi destinate a guidare un movimento che sapeva mondialmente impreparato ad assimilarle nella formulazione più rigida e come tale più rigorosa, non solo non esitò un attimo a brandire lo scalpello per disegnarne con maggiore crudezza i tratti inconfondibili, ma lo fece con lo slancio e l'entusiasmo di chi si ritrova nel proprio elemento, non appena vide schierato sul fronte dell'intransigente fermezza di cui aveva dato esempi memorabili in un triennio di guerra civile un duro nocciolo ― anche piccolo, purché duro ― di militanti decisi a riprendere la sua bandiera. Era stato così per le condizioni di ammissione, per le tesi sulla questione nazionale e coloniale, per gli statuti, perfino per le tesi sul ruolo del partito nella rivoluzione proletaria, per quelle sindacali e agrarie, e per alcuni paragrafi di quelle sul parlamentarismo ― tutte martellate a poco a poco dalle mani congiunte di militanti comunisti di avanguardia nello spirito della tradizione bolscevica, e quindi marxista, fino ad assumere la forma più netta compatibile con gli inevitabili condizionamenti della storia. Oscuramente forse, l'avanguardia comunista occidentale e perfino asiatica aveva allora restituito all'avanguardia russa almeno una parte della linfa vitale che, in mesi densi come decenni, ne aveva ricevuta. Doveva essere così non solo a Mosca, ma dovunque, nell'opera che su quel piedestallo di granito si trattava di portare innanzi nel costruire l'organo della rivoluzione e della dittatura, il partito. Avevamo scritto prima del congresso, ripetemmo durante e dopo le sue riunioni a Mosca come ne Il Soviet (4), che la questione parlamentare non rappresentava per noi che un aspetto del problema del partito, mai la nostra discriminante: lavorammo dunque in Italia perché ― come ci eravamo solennemente impegnati a fare ― il partito nascesse nella più stretta aderenza alle tesi e condizioni della Internazionale, senza attenuazioni né riserve. Non solo non chiedemmo investiture, ma dichiarammo che, se a qualcuno spettava di dirigere il partito alla cui costituzione avremmo dedicato tutte le nostre energie, non era a noi ma al gruppo che con Misiano, in aprile, aveva sostenuto le posizioni più vicine, nella questione italiana, a quelle del II Congresso, senza cedimenti all'ordinovismo come senza incertezze in materia di "purificazione". Quando gli astensionisti torinesi proposero che ci si costituisse immediatamente in partito, il comitato centrale della Frazione reagì con fermezza: l'Internazionale aveva deciso che si rimanesse nel partito fino al congresso; la disciplina internazionale sulla base dei princìpi proclamati e ribaditi a Mosca era per noi una questione di principio anche se date soluzioni tattiche non ci convincevano appieno. E fummo noi, nel primo numero (14 novembre) de Il Comunista, organo della neocostituita frazione comunista del PSI, la cosiddetta "Frazione di Imola", a scrivere, riaffermando i princìpi del centralismo e della disciplina internazionale:

"Occorre sopprimere la tendenza individualistica, personalistica che vive e si sviluppa fra noi. Occorre saper obbedire per essere obbediti [...]. I comunisti vogliono eseguire degli ordini". Ci eravamo impegnati ad accantonare la pregiudiziale astensionista: e l'accantonammo in nome della adesione incondizionata ai princìpi. In nome di essi, lottammo perché il Partito nascesse nelle condizioni migliori, cioè sulla base dell'applicazione la più radicale possibile dei 21 punti e di tutto ciò che li sottendeva.

Il grande interrogativo che assilla le menti pensose degli storici ― come mai la vera iniziativa nel costituire e, subito dopo, nel dirigere il partito passò, consenziente l'Internazionale, all'ex Frazione comunista astensionista ― non ha quindi bisogno di Pizie o Sibille per trovare risposta: l'onere di una scissione non interrotta a metà, ignara di "passerelle", fedele alla lettera e allo spirito delle tesi del II Congresso, così come del resto la esigevano i fatti ― non tanto l'aperta ribellione della destra, che era scontata per tutti, quanto l'aperta connivenza con essa del centro dopo il rientro di Serrati, che solo per noi non era una sorpresa ―, questa scissione sarebbe stata il frutto della nostra decisione di costruire su tutto il corpo di princìpi, finalità, programma e tattica del II Congresso; o ― come risulterà chiaro da un successivo volume ― non sarebbe avvenuta mai. I bolscevichi avevano trovato nel piccolo ma agguerrito nucleo della nostra Frazione l'arma per condurre fino in fondo quella lotta contro l'opportunismo che era stata splendidamente la loro: non ebbero esitazioni e ci appoggiarono, essi che, se le cose fossero andate come in Francia, avrebbero potuto (e dovuto) far leva, obtorto collo, sui Graziadei o sui Misiano. Nulla di simile essi trovarono né nel partito tedesco prima di Halle, né ai margini del partito francese prima di Tours: coloro che in anni seguenti strillarono, ed oggi strillano, perché in Germania si erano aperte le porte a troppi indipendenti, e in Francia si era accettato che il partito nascesse da una scissione sciaguratamente "a destra", nell'un caso e nell'altro preparando il terreno alle peggiori delusioni nascoste dietro il velo di successi puramente numerici, non seppero e non sapranno mai rispondere alla nostra domanda: Dov'erano in Francia e in Germania le forze di un'altra Livorno? e se c'erano, perché cedettero le armi? chi levò la sua voce affinché la porta non si aprisse ai falsi convertiti, per accogliere invece solo i militanti in nome di un programma accettato senza arrière-pensées, da difendere e praticare in blocco? É facile ma assassino, oggi, gridare all'"opportunismo" di un'Internazionale il cui stato maggiore non chiedeva di meglio che di possedere un esercito pronto a seguirlo fino in fondo e invece trovava solo gracili pattuglie costituzionalmente timorose di andare più in là di metà strada! Non v'è, al II Congresso e nel periodo cruciale che lo seguì, un solo esempio di ritrosia in Lenin o Trotsky a scolpire in tratti più nitidi, più taglienti, più inesorabili i lineamenti teorici, programmatici, tattici, organizzativi del partito mondiale unico del comunismo rivoluzionario, ogni volta che alla loro mano ferma, alla quale tuttavia non si poteva né si sarebbe dovuto chiedere il miracolo, si stringeva una mano altrettanto ferma, cosciente di doverla sostenere con tutte le forze nell'ora che sembrava quella del facile trionfo ed era invece la vigilia del "giorno più lungo" prima della sconfitta.

Conosciamo l'obiezione inversa: l'Internazionale sancì Livorno, poi se ne rammaricò. Ma è un'obiezione che non si accorge d'essere una conferma. É vero: quella Livorno che era stata salutata come il primo ed unico esempio di scissione "alla bolscevica", sarà poi deprecata come il frutto maledetto del "settarismo di sinistra" ― lo sarà da un'Internazionale che dall'Occidente, tramite i partiti alla... Tours, aveva assorbito tutti i veleni della democrazia e appunto perciò si apprestava ad offrire inerme la testa al cappio del boia Josif Visarionovic Stalin. Ancora una volta, chi all'infuori di noi levò la sua voce nell'ora della tragedia? chi difese una Vecchia Guardia che era rimasta troppo spesso sorda ai nostri ammonimenti (quando non ci aveva addirittura combattuti), ma che nel 1926 come nel 1920 rappresentava nel presente, essa sola, il futuro del movimento comunista? Il filo rosso può smarrirsi; ma nei grandi svolti della storia, i suoi capi immancabilmente si ritrovano nelle stesse mani. A noi il privilegio, dovuto non a meriti nostri ma ad un concorso di circostanze obiettive, di aver visto più lontano ― e l'orgoglio, se non di aver potuto andare più innanzi sulla strada che i bolscevichi avevano tracciata riscoprendola nel patrimonio universale del marxismo, di non aver mai ceduto alla lusinga di tornare indietro. Non avete potuto impedire il disastro!, ghigna l'opportunista in panni accademici. É vero, rispondiamo; ma non abbiamo accettato, che è il primo passo per rinascere, di considerarlo una sconfitta del marxismo. E questa, malgrado tutto, è una battaglia vinta!

A chi ci chiedesse come avrebbe potuto essere l'Internazionale di allora se, per ipotesi assurda, il movimento operaio mondiale fosse riuscito a dare più di quel che diede, noi, che di Livorno conoscevamo tuttavia i limiti obiettivi, abbiamo il diritto di rispondere: Come se ne applicarono i princìpi, il programma, il metodo di organizzazione al Congresso di Livorno! A chi ci chiedesse come soltanto potrà essere l'Internazionale di domani, abbiamo il diritto di rispondere: Come doveva essere, e non fu, perché non venne ai bolscevichi l'appoggio fraterno di una avanguardia comunista mondiale all'altezza del loro insegnamento, a Mosca nel luglio-agosto 1920 e nel gennaio 1921 a Livorno. Non è questione di... benemerenze personali o, peggio ancora, nazionali, ma di esigenze di vita, le sole che valgano, del movimento proletario.

Perciò abbiamo eretto la questione italiana, piccola in sé come era modesto il teatro sul quale si snodò, a pietra di paragone ed epigrafe commemorativa del II Congresso. Avesse voluto la storia che fosse la questione tedesca, non saremmo qui a ritessere faticosamente la trama del passato per aprirci ancor più faticosamente la strada del futuro: l'avremmo forse già percorsa fino alla vittoria!

Note

(1) Intervista all'Avanti! del 24.VIII.1920.

(2) La delegazione italiana osservò che il testo originario di Lenin poteva suonare investitura dell'"Ordine Nuovo" ― cioè di un gruppo "ribelle", protestarono Serrati, Graziadei e Bombacci ― o della sezione torinese, cioè, protestò Polano, di un nucleo astensionista. Anche in questi rilievi fa capolino la preoccupazione unitaria: solo il nostro delegato pose la questione sul terreno dei princìpi osservando che la peculiare ideologia dell'Ordine Nuovo, sulla quale Lenin e Bukharin ammisero di non essere bene informati, contraddiceva alle fondamentali tesi del II Congresso. Il testo perciò fu rivisto come appare innanzi. Ciò non impedisce agli storici di parlare di "avallo della mozione ordinovista", e a Rosmer di "ricordare" come, avendo Lenin chiesto a Bordiga di esporre le posizioni dell'ordinovismo, egli lo fece così "onestamente che Lenin si convinse ancor più che l'"investitura" (questi filodemocratici guardano sempre con nostalgia alla feudale "accolade"!) doveva essere data a... Gramsci e compagni! Dai bolscevichi ci divideva una questione tattica; gli ordinovisti si muovevano fuori del solco della teoria, del programma e dei princìpi: una piccola differenza, per gli storici e furieri dell'opportunismo...

(3) Cfr. l'impagabile Spriano, cit., pagg. 76-77.

(4) Cfr. pagg. 728-730.

9. Epilogo

"I socialisti governativi e paragovernativi dei diversi paesi ― concludeva il Manifesto scritto da Trotsky che, con il suo discorso del 6 agosto, coronò splendidamente il II Congresso ― ricorrono a mille pretesti per accusare i comunisti di provocare con la loro tattica intransigente l'intervento della controrivoluzione e così contribuire a stringerne le file. Quest'accusa politica non è che una tardiva ripetizione dei piagnistei del liberalismo. Quest'ultimo, infatti, sosteneva che la lotta indipendente del proletariato spinge i privilegiati nel campo della reazione.

Verità incontestabile! Se la classe operaia non attaccasse mai le basi del suo dominio, la borghesia non avrebbe bisogno di rappresaglie. Lo stesso concetto di controrivoluzione non esisterebbe, se la storia non conoscesse la rivoluzione. Se l'insurrezione del proletariato porta inevitabilmente con sé l'affasciamento della borghesia per l'autodifesa e il contrattacco, ciò dimostra soltanto che la rivoluzione è la lotta fra due classi inconciliabili, che può terminare soltanto con la vittoria definitiva dell'una o dell'altra.

"Il comunismo respinge con disprezzo la politica consistente nel mantenere le masse in uno stato di passività spaventandole col knut della "controrivoluzione". Al caos e allo sfacelo del mondo capitalistico, che nella tensione delle sue ultime energie minaccia di distruggere la civiltà umana, l'Internazionale Comunista oppone la lotta unita del proletariato internazionale, l'abolizione di qualunque proprietà privata dei mezzi di produzione, la trasformazione dell'economia nazionale e mondiale in base a un piano economico unitario, stabilito e diretto dalla solidale comunità dei produttori.

"Sotto la bandiera: Dittatura del proletariato e sistema sovietico, che unisce i milioni e milioni di lavoratori di tutti i continenti, l'Internazionale Comunista seleziona, estende, organizza le proprie file nel fuoco della lotta.

"L'Internazionale Comunista è il Partito dell'insurrezione armata del proletariato internazionale. Essa esclude tutti i gruppi e le organizzazioni che apertamente o velatamente addormentano, demoralizzano o indeboliscono il proletariato; incita il proletariato a non inchinarsi di fronte agli idoli della legalità, della difesa nazionale, della democrazia, dietro i quali si nasconde la dittatura borghese.

"L'Internazionale Comunista non può neppure accogliere nelle proprie file le organizzazioni che, mentre riconoscono nei loro programmi la dittatura del proletariato, conducono una politica basata sull'attesa di una soluzione pacifica della crisi storica. Il puro e semplice riconoscimento del sistema sovietico non risolve nulla. L'organizzazione del potere dei soviet non possiede nessuna virtù taumaturgica. La forza rivoluzionaria risiede nel proletariato stesso. É assolutamente necessario che esso si elevi fino all'insurrezione e alla conquista del potere; soltanto allora l'organizzazione sovietica mostrerà i suoi pregi come arma insostituibile in mano al proletariato.

"L'Internazionale Comunista esige l'espulsione dalle file del movimento operaio di tutti quei dirigenti che sono legati alla borghesia da una collaborazione diretta o indiretta, che l'hanno direttamente o indirettamente servita. Abbiamo bisogno di capi che non siano legati alla borghesia da nessun altro rapporto che quello di un odio mortale; che chiamino e guidino il proletariato ad una lotta instancabile; che siano pronti a dirigere nella battaglia un esercito d'insorti; che non si fermino atterriti a metà strada e che, qualunque cosa avvenga, non temano di colpire senza pietà chiunque pretenda di trattenerli.

"L'Internazionale Comunista è il Partito internazionale dell'insurrezione e della dittatura proletarie. Essa non conosce fini e compiti diversi da quelli dell'intera classe lavoratrice. Le pretese arroganti delle piccole sette, ognuna delle quali vorrebbe salvare la classe lavoratrice, sono estranee e avverse allo spirito dell'Internazionale Comunista. Essa non offre ricette universali od esorcismi; si appoggia alle esperienze mondiali della classe operaia nel passato e nel presente, le purifica dai loro errori e sviamenti, ne generalizza i risultati, adotta soltanto le formule valide per l'azione di massa.

"Organizzazioni di mestiere, sciopero economico e politico, elezioni parlamentari e comunali, tribune parlamentari, agitazione legale ed illegale, punti d'appoggio segreti nell'esercito, lavoro nelle cooperative, barricate ― l'Internazionale Comunista non respinge nessuna delle forme di organizzazione generate dallo sviluppo del movimento operaio, e non ne considera nessuna presa a sé come panacea universale [...].

"Nei tempi in cui, sotto l'egida della II Internazionale, erano quasi esclusivamente legali, i metodi di organizzazione e di lotta di classe soggiacevano, in definitiva, al controllo e alla direzione della borghesia, i cui agenti riformisti imbrigliavano la classe rivoluzionaria.

"L'Internazionale Comunista strappa le redini dalle mani della borghesia, conquista tutte le organizzazioni, le unisce sotto una guida rivoluzionaria, e con esse addita al proletariato un unico fine: la conquista violenta del potere, per la distruzione dello stato borghese e l'instaurazione della società comunista.

"In tutta la sua attività, animatore e guida di moti insurrezionali, organizzatore di gruppi clandestini, segretario di sindacati, agitatore nei comizi o in parlamento, dirigente di cooperative, combattente sulle barricate, il comunista rimane il militante disciplinato del Partito comunista, il suo indomito lottatore, il nemico mortale della società capitalistica, delle sue basi economiche, delle sue forme statali, della sua menzogna democratica, della sua religione, della sua morale; è il soldato pronto ad ogni sacrificio della rivoluzione proletaria, l'instancabile araldo della società nuova.

"Operai e operaie! V'è sulla terra un'unica bandiera sotto la quale meriti di combattere e morire: la bandiera dell'Internazionale Comunista!".

Era questo il messaggio che i delegati avrebbero dovuto riportare nelle loro terre di origine; sulla base delle sue certezze e dei suoi comandamenti avrebbero dovuto sorgere e muoversi d'ora innanzi le sezioni del Comintern.

Il movimento comunista mondiale toccava quello che abbiamo chiamato a buon diritto lo zenit; ma quel punto segnava al tempo stesso un bivio. O, come era nelle speranze, la marea della guerra di classe continuava a salire trascinando nel suo impeto le forze esitanti e malfide e schierando sullo stesso fronte di battaglia delle Tesi del II Congresso, comunisti se non di fatto almeno d'istinto e affiliazione, i militanti di un ceppo tuttavia eteroclito, e da Mosca l'Internazionale diretta dallo sperimentatissimo stato maggiore bolscevico riusciva a tenere saldamente in pugno le redini di sezioni nazionali agenti come parti inscindibili di un solo esercito in marcia, o l'impostazione dei problemi organizzativi e tattici doveva essere riveduta non certo per stravolgerla (perché non v'era in essa rottura coi princìpi) ma per sollevarla alle vette ardue, e perfino vertiginose, delle formulazioni più possenti della dottrina marxista. In una certa misura, si sarebbe dovuto ricominciare daccapo, potando inesorabilmente nella selva troppo rapidamente infoltitasi dei nuovi partiti, riconducendoli al duro e ristretto nocciolo "bolscevico" nella dottrina e nel programma e dando loro direttive di azione più taglienti e di più sicura efficacia a lungo termine anche se non di successo immediato. Se così non si fosse proceduto, quella che nel 1920 poteva essere la felice congiunzione del movimento reale con la coscienza e la volontà del partito si sarebbe capovolta nel disperato tentativo di affermarsi di una volontà priva del proprio supporto materiale; anzi, poggiante su un supporto con essa inconciliabile.

Purtroppo così avvenne; e in anni che passarono veloci ― non nel senso pettegolo degli opportunisti, che cercano nella labilità di "situazioni" a breve scadenza l'oroscopo delle proprie direttive e perfino della propria dottrina, ma nel senso ben più profondo di quelle inversioni nel ciclo delle lotte di classe in cui le conquiste ottenute a prezzo dei più duri sacrifici in giorni e mesi nei quali il tempo sembra arrestarsi precipitano e, nel crollo, ognuna se ne trascina dietro altre ed altre ancora ― la gigantesca costruzione, salda nelle sue basi e serrata nel concatenamento delle sue membrature, cedette al peso di forze periferiche che si era cercato di dominare prima che fosse troppo tardi, ma contro il cui ostinato ritorno non ci si era ― né forse sarebbe stato possibile nell'urgere di ore critiche ― sufficientemente premuniti.

In quella stessa seconda metà del 1920 che, contro ogni apparenza (non ripeteremo, per non voler sembrare a tutti i costi dei profeti, la nostra prognosi tutt'altro che "ottimistica"), segnava in tutta Europa un primo giro di boa a favore della classe dominante, nacquero i due più grossi partiti comunisti d'Occidente, quello unificato tedesco e quello francese; troppo tardi ci si accorse che l'averli lasciati nascere con più di uno strappo alle condizioni di ammissione voleva dire essersi legati ai piedi la duplice palla di piombo di un partito oscillante fra un legalitarismo estremo e fuggevoli vampate di attivismo del genere della "teoria dell'offensiva", ma fondamentalmente orientato verso la linea mediana di un cauto "possibilismo" e verso rinnovate nostalgie unitarie, nel caso del VKPD, e di un partito del tutto parlamentare nel caso del PCF, l'uno e l'altro al disotto dei compiti fissati in tutte le tesi del II Congresso, l'uno e l'altro dilaniati da lotte interne e bisognosi ad ogni nuovo trimestre di vigorosi richiami all'ordine e di brusche quanto radicali epurazioni. A cavallo fra il II e il III Congresso svanì, perché ne erano venute a mancare le basi materiali, la speranza di convogliare sotto la direzione dell'Internazionale kaapedisti e wobblies, dissidenze inarco-sindacaliste e shop stewards, mentre nel marzo 1921 si accendeva e si spegneva in un nuovo olocausto un'altra poderosa impennata proletaria tedesca, spezzatasi contro lo scoglio non tanto ― come si giudicò allora ― dell'"avventurismo" (rimasto del tutto teorico) del VKPD, quanto della mancanza di omogeneità nelle sue sfere dirigenti e nella sua base gonfiatasi con l'apporto della cosiddetta "sinistra" indipendente.

La coscienza che la crisi postbellica del capitalismo era almeno temporaneamente superata, e che dall'affannosa difensiva la classe dominante passava al contrattacco, dominò il III Congresso: di fronte allo scandalo di partiti ipertrofici ma passivi nei più vitali campi d'azione (classici i casi del PC cecoslovacco, forte di 300.000 iscritti, dieci volte quanti gli effettivi del partito bolscevico nei giorni della presa del potere, ma privo di qualunque influenza fra le grandi masse salariate e alieno da qualunque attività sindacale, e del PC francese, tetragono ad ogni richiamo al dovere di lottare contro il colonialismo, l'armée, le glorie nazionali) o inclini a ridestarsi dal letargo in bruschi e sconsiderati soprassalti barricadieri (classico il caso del partito tedesco, inerte di fronte ai primi albori dei fatti di marzo e subito dopo lanciatosi freneticamente nella mischia con parole d'ordine a dir poco insurrezionali, per poi ricadere nella solita prassi conciliante), si richiamò fermamente il movimento internazionale alla necessità di legarsi alle masse operaie in lotta per la difesa del pane e del posto di lavoro minacciati dalla controffensiva borghese ― necessità male e pericolosamente espressa da quella formula di "conquista della maggioranza" che Lenin ebbe poi cura di spiegare nel senso rnarxisticamente corretto di conquista di una solida influenza sul proletariato attraverso l'agitazione politica e la direzione di grandi lotte economiche, ma che era fin troppo comodo interpretare, e fu interpretata, in senso volgarmente democratico e semiparlamentare. La morsa dalla quale a Mosca si sperava di uscire grazie ad una possente avanzata proletaria nell'Europa centro-occidentale e forse alla sua congiunzione coi moti rivoluzionari per l'indipendenza nazionale nelle colonie stava per richiudersi, assumendo in Russia, mancata la grande "occasione" del 1919-1920, un aspetto infinitamente più insidioso che nel triennio o quasi di guerra civile: era stato arduo battere sul campo gli eserciti bianchi e alleati nel quadro di una situazione mondiale di aspre lotte di classe; lo sarebbe stato mille volte di più (Lenin lo aveva ripetuto e lo ripeterà con martellante insistenza fino alla morte) piegare l'"idra piccolo-borghese" della piccola produzione, prima disciplinandola, poi stanandola dagli innumerevoli pori nei quali si annidava nell'immenso spazio della Russia contadina, attraverso quella nuova, meno gloriosa, più soffocante (e tanto più difficile se le prospettive di rivoluzione e presa del potere in Europa si allontanavano sia pure di qualche anno) guerra civile che si chiamò la NEP ― una guerra prevista come inevitabile sin dall'ottobre 1917, ma la cui durata si sarebbe enormemente abbreviata o addirittura ridotta al minimo, e le cui asprezze sarebbero state enormemente attutite, se le "due metà spaiate di socialismo" si fossero, come non si erano, ricongiunte.

Fu allora che il "bivio" da noi temuto con allarme e denunziato come un pericolo fatale contro cui urgeva prepararsi si venne profilando prima vagamente, poi in forma sempre più drammatica. La società borghese dava segni inequivocabili di riconsolidarsi, dopo la grave scossa del primo dopoguerra, proprio quando era più urgente accelerare la conquista del potere in Europa per evitare in un breve scorrere d'anni o la caduta violenta dello Stato sovietico, prima grande e duratura conquista del movimento operaio e comunista mondiale, o la sua degenerazione a Stato capitalistico; i partiti comunisti non riuscivano non solo a vincere la loro battaglia, salvo in tentativi subito repressi, ma nemmeno ad estendere in modo decisivo la loro influenza sulle grandi masse prevalentemente inquadrate nei partiti socialdemocratici e di centro: da questo dilemma si credette di poter uscire ― pur senza attenuare la battaglia polemica contro quelli che Lenin, Trotsky e tutti i bolscevichi avevano definito i veri puntelli del regime capitalistico, i variopinti partiti della socialdemocrazia che proprio allora, risollevando la testa via via che la risollevava la classe dominante, lanciavano una nuova e spietata campagna contro il comunismo e contro la Russia rivoluzionaria ―, ricorrendo ad espedienti tattici (ma a poco a poco anche strategici, atti a spostare verso i partiti della III Internazionale strati proletari rimasti finora sordi alla loro propaganda ed agitazione ma premuti da assillanti problemi immediati, cui non riuscivano a porre rimedio neppure le consumate arti del minimalismo sindacale riformista: espedienti il cui impiego era tanto più rischioso ― e si dimostrò tanto più fatale ― in quanto era lasciato alla discrezione di partiti di composizione instabile, ben diversi nella loro struttura e nella loro azione pratica da quello che le condizioni di ammissione, le tesi, il manifesto del II Congresso esigevano; e ne aggravava le funzionali propensioni accomodanti, democratoidi, parlamentaristiche (1), rendendoli sempre meno idonei a fornire ai compagni russi impegnati nella più terribile delle loro battaglie (ancor oggi ignorata come tale dai presunti rappresentanti del "marxismo occidentale" o... "autentico"!) l'appoggio indispensabile ad una tempestiva "rettifica di tiro"; sempre più atti ― proprio al contrario ― ad ammorbarli di peste manovriera.

All'Esecutivo allargato del febbraio-marzo 1926, il delegato della Sinistra Comunista italiana, ripercorrendo le tappe di un cammino che dalla grande luce del 1920 e del II Congresso aveva portato allo squallore degli anni preludenti all'infame carnaio stalinista, ebbe a dire che l'esperienza russa aveva dato al movimento comunista internazionale l'apporto cruciale e definitivo della restaurazione dei fondamenti teorici del marxismo rivoluzionario; non aveva potuto fornire invece quello di una soluzione completa e pienamente soddisfacente dei problemi tattici, soprattutto per le aree di capitalismo avanzato. Tale soluzione andava ricercata non fuori di quell'"apporto definitivo", ma sulla sua traccia, in un'accentuazione, non in un attenuazione, dei rigidi confini da essa segnati nei confronti dei nostri avversari, quando, sulla sua base, i bolscevichi avevano condensato i "princìpi" del comunismo rivoluzionario nel binomio dittatura-terrore rosso. Proprio in quell'Estremismo che gli opportunisti pretendono di sfruttare contro di noi mentre è "la condanna di ogni futuro rinnegato", Lenin aveva scritto, saldando la critica della democrazia all'individuazione delle sue radici materiali:

"Le classi sono rimaste e rimarranno in vita ancora per anni, dappertutto, dopo la conquista del potere da parte del proletariato [...]. Sopprimere le classi non significa solo cacciar via i grandi proprietari fondiari e i capitalisti ― questo lo abbiamo fatto con relativa facilità ― ma significa anche eliminare i piccoli produttori di merci, che è impossibile cacciar via, che è impossibile schiacciare, con i quali bisogna accordarsi, che si possono (e si devono) trasformare, rieducare solo con un lavoro organizzativo molto lungo, molto lento e cauto. Essi avvolgono il proletariato, da ogni parte, in un ambiente piccolo-borghese, lo penetrano di quest'ambiente, lo corrompono con esso, lo sospingono continuamente a ricadere nella mancanza di carattere, nella dispersione, nell'individualismo, nell'alternarsi di entusiasmo e depressione che sono propri della piccola borghesia. Il partito politico del proletariato ha necessità del centralismo più severo e della massima disciplina interna per opporsi a questi difetti, per svolgere giustamente, con successo, vittoriosamente, la funzione organizzativa (che è la sua funzione principale). La dittatura del proletariato è una lotta tenace, cruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica ed amministrativa, contro le forze e le tradizioni della vecchia società. La forza dell'abitudine di milioni e decine di milioni di uomini è la più terribile delle forze. Senza un partito di ferro, temprato nella lotta, senza un partito che goda della fiducia di tutti gli elementi onesti della classe, senza un partito che sappia interpretare lo stato d'animo delle masse e influire su di esso, è impossibile condurre a buon fine questa lotta. Vincere la grande borghesia centralizzata è mille volte più facile che "vincere" milioni e milioni di piccoli proprietari, i quali, mediante la loro attività quotidiana, continua, invisibile, inafferrabile, dissolvente, perseguono gli stessi risultati che sono necessari alla borghesia e che restaurano la borghesia. Chi indebolisce, sia pur di poco, la disciplina ferrea del partito del proletariato (in particolare nel periodo della dittatura proletaria) aiuta di fatto la borghesia contro il proletariato" (2).

La terribile "forza dell'abitudine", di cui Lenin anticipava la caparbia resistenza nel faticoso processo di trasformazione economica nelle campagne russe, agiva sui partiti dell'Occidente cresciuti in un secolare ambiente democratico: bisognava spezzarla inasprendo i termini e irrigidendo i confini della tattica rivoluzionaria. I metodi adottati dalla fine del 1921 in poi andarono nel senso opposto: per avvalorarli, si usarono a torto le esperienze della politica bolscevica in Russia, uscendo dalla giusta linea storica. Le ipotesi di convergenze con altri partiti, piccolo-borghesi e perfino borghesi, erano fondate sulla situazione in cui il potere zarista metteva tutti quei movimenti fuori legge e li costringeva a lottare insurrezionalmente. In Europa non si potevano proporre, sia pure a scopo di manovra, azioni comuni che sul piano legalitario, fosse esso parlamentare o sindacale. In Russia brevissima era stata nel 1905 e in pochi mesi del 1917 l'esperienza di un parlamentarismo liberale e quella stessa di un sindacalismo ammesso dalla legge; nel resto d'Europa un cinquantennio di degenerazione aveva fatto di quei campi il terreno favorevole all'assorbimento di ogni energia rivoluzionaria e all'imprigionamento dei capi proletari al servizio borghese. La garanzia consistente nella fermezza di organizzazione e di principio del partito bolscevico era cosa ben diversa da una garanzia data dall'esistenza del potere statale proletario in Russia, che per le stesse condizioni sociali ed i rapporti internazionali era il più esposto ad essere travolto nella rinunzia ai princìpi ed alle direttive rivoluzionarie.

In conseguenza la sinistra della Internazionale, cui appartenne la grande maggioranza del Partito comunista d'Italia fino a che la reazione non lo distrusse praticamente (favorita soprattutto dall'errore di strategia storica), sostenne che si dovessero in Occidente scartare del tutto le alleanze e le proposte di alleanza ai partiti politici socialisti e piccolo-borghesi (tattica del fronte unico politico). Ammise che si dovesse tendere ad allargare l'influenza sulle masse intervenendo in tutte le lotte economiche e locali ed invitando i lavoratori di tutte le organizzazioni e di tutte le fedi a dare ad esse il massimo sviluppo, ma negò risolutamente che si potesse mai impegnare l'azione del partito (sia pure in dichiarazioni pubbliche benché non nelle intenzioni ed istruzioni all'apparato interno) a subordinarsi a quella di comitati politici di fronte, di blocco e di alleanza fra più partiti. Ancor più vigorosamente respinse la sedicente tattica "bolscevica" quando prese la forma del "governo operaio", ossia del lancio della parola d'agitazione (divenuta alcune volte pratico esperimento con esiti rovinosi) per la presa parlamentare del potere con maggioranze miste di comunisti e socialisti delle varie sfumature.

L'esperienza del metodo tattico seguito dall'Internazionale dal 1921 al 1926 fu negativa, e, ciò malgrado, in ogni congresso (IV, V ed Esecutivo allargato del 1926) se ne dettero versioni più opportunistiche. Alla base del metodo era il canone: cambiare la tattica secondo l'esame delle situazioni. Con pretese analisi si scorgevano ogni sei mesi nuovi stadi del divenire del capitalismo, e si pretendeva ovviarvi con nuove risorse di manovra. In fondo sta in ciò il revisionismo, che è stato sempre "volontarista"; ossia, quando ha constatato che le previsioni sull'avvento del socialismo non si erano ancora avverate, ha creduto di forzare la storia con una prassi nuova, ma con ciò ha anche cessato di lottare per lo stesso scopo proletario e socialista del nostro massimo programma. La situazione esclude oramai la possibilità insurrezionale, dissero i rifornisti nel 1900; è nullismo aspettare l'impossibile: lavoriamo per le possibilità concrete, elezioni e riforme legali, conquiste sindacali. Quando tale metodo falli, il volontarismo dei sindacalisti reagì imputandone la colpa al metodo politico ed al partito politico, e preconizzò lo sforzo di audaci minoranze nello sciopero generale condotto dai soli sindacati per ottenere uno svolto. Non diversamente, allorché si vide che il proletariato occidentale non scendeva in lotta per la dittatura, si volle ricorrere a surrogati per superare l'impasse. Ne avvenne che, passato il momento di squilibrio delle forze capitaliste, non mutarono la situazione obiettiva e il rapporto delle forze, mentre il movimento andò indebolendosi e poi corrompendosi: così come era avvenuto che i frettolosi revisionisti di destra e di sinistra del marxismo rivoluzionario erano finiti al servizio delle borghesie nelle unioni di guerra. Fu sabotata la preparazione teorica e la restaurazione dei princìpi quando si ingenerò confusione tra il programma della conquista del potere totale al proletariato e l'avvento di governi "affini" mediante appoggio e partecipazione parlamentare e ministeriale dei comunisti: in Turingia e Sassonia tale esperienza terminò in farsa, bastando due poliziotti a gettar giù di scanno i rappresentanti comunisti nel governo.

In lampi di intuizione, le punte avanzate del partito bolscevico sentirono la gravità del pericolo: se l'ultimo anno di vita di Lenin è tutto un grido di allarme lanciato dal letto di morte sull'angosciosa minaccia del riflusso entro il partito di suggestioni non proletarie ed anticomuniste sotto la pressione delle forze economiche prorompenti dalle viscere delle campagne russe (e delle città a poco a poco assediate dal piccolo commercio, dallo strozzinaggio, o anche solo dalla stanchezza di lunghi anni di tensione disperata, per non parlare della "deproletarizzazione" della stupenda classe operaia nei grandi centri della rivoluzione di Ottobre), in quello stesso anno Trotsky, che pure ci eravamo trovati e ci troveremo ancora di fronte nella difesa delle tattiche elastiche e delle manovre a zig-zag, ebbe a tratti coscienza di un'analoga minaccia esterna, quella del cedimento dei partiti comunisti "fratelli" al canto delle sirene socialdemocratiche o socialdemocratoidi non debellate nelle nostre stesse file nel processo troppo frettoloso e, nella sua audacia, controproducente, della loro genesi. Ripubblicando nel 1923, sotto il titolo Questioni fondamentali della rivoluzione (3), i suoi saggi 1920 e 1921 Terrorismo e comunismo e Fra imperialismo e rivoluzione, nella coscienza che "in campo teorico non si può continuare a vivere degli interessi del vecchio capitale", ché anzi "l'elaborazione teorica delle questioni di fondo della rivoluzione [...] è per noi oggi più urgente e necessaria che mai" (stava per spuntare l'alba del praticismo staliniano, del disprezzo della teoria, dell'antidogmatismo all'insegna del giorno per giorno), Trotsky, pur difendendo la tattica del fronte unico come "la politica necessaria per i partiti comunisti degli stati borghesi in questo periodo preparatorio", (e preparatorio nel senso che le "prospettive rivoluzionarie immediate del 1918-1920 sono, per così dire, retrocesse in lontananza, le lotte delle grandi potenze sociali hanno assunto un carattere lento e tedioso, senza che nello stesso tempo le spinte sotterranee cessino neppure per un momento di farsi sentire e minaccino un'esplosione ora militare, ora di classe, ora nazionale"), scrisse: "Questa politica si impone come necessaria [...] ma non si possono chiudere gli occhi sul fatto che essa cela in sé senza possibilità di dubbio i pericoli dello svuotamento e perfino della completa degenerazione dei partiti comunisti, se da un lato il periodo di preparazione si trascina troppo a lungo e, dall'altro, il lavoro quotidiano dei partiti occidentali non viene fecondato da un pensiero teorico attivo che abbracci in tutta la sua ampiezza la dinamica delle fondamentali forze storiche" (4).

Poco dopo, scoppiata nel glorioso partito bolscevico la prima grande crisi, Trotsky ne vide con acutezza ― anche se non sempre con diagnosi esatta ― i risvolti interni; non giunse ad afferrare il nesso fra "lo svuotamento" prima, la "completa degenerazione" poi dei partiti comunisti occidentali, e il loro vizio di origine, la selezione rimasta a metà nelle loro file, le manovre tattico-strategiche in sé devianti, e rese ancor più tali dalla "sovrapposizione a strutture organicamente legate a funzionalità parlamentari e sindacali" (e, come tali, pressoché indistinguibili da quelle della II Internazionale), loro incautamente imposte o suggerite. Il gigante di Terrorismo e comunismo si ritroverà nei due anni successivi a difendere da solo i cardini internazionali ed internazionalisti della tradizione bolscevica le cui basi aveva, contro ogni migliore intenzione, collaborato a minare: e con lui si leverà troppo tardi ― contro uno schieramento internazionale di falsi comunisti ritornati a galla col favore sia dei tempi, sia di sbandate dal diritto cammino degli anni di folgoranti vittorie, e pronti a seppellire al canto della democrazia l'Internazionale della dittatura proletaria e del terrore rosso ― la vecchia guardia bolscevica. Entrambi soccombettero; non potevano non soccombere.

Giacché, soprattutto nello svolto decisivo del 1923-1924 (forse più decisivo ancora del drammatico 1926), a compromettere il risultato del difficile lavoro di selezione degli elementi rivoluzionari dagli opportunisti nei vari partiti e paesi si erano aggiunti gravi errori, in seguito divenuti prassi corrente e infine incancrenita, nel delicato ma vitale campo della organizzazione (5). Si credette di procurarsi nuovi effettivi ben manovrabili dal centro con lo strappare in blocco ali sinistre ai partiti socialdemocratici. Invece, passato un primo periodo di formazione della nuova Internazionale, questa avrebbe dovuto funzionare stabilmente come partito mondiale, e alle sue sezioni nazionali i nuovi proseliti avrebbero dovuto aderire individualmente. Si vollero guadagnare forti gruppi di lavoratori; invece si patteggiò coi capi disordinando tutti i quadri del movimento, scomponendoli e ricomponendoli per combinazioni di persone in periodi di lotta attiva. Si riconobbero per comuniste frazioni e cellule entro i partiti socialisti e opportunisti, e si praticarono fusioni organizzative; quasi tutti i partiti, anziché divenire atti alla lotta, furono così tenuti in crisi permanente, agirono senza continuità e senza limiti definiti tra amici e nemici con conseguenze a dir poco rovinose.

Più grave ancora fu che, contro tutto quanto voleva la tradizione marxista e bolscevica, contro tutti i deliberati del II Congresso, si impose ai partiti aderenti di capovolgere le basi della propria organizzazione poggiandola sul luogo di lavoro anziché sulla sezione territoriale. Come si è osservato già più volte, con ciò si restringeva l'orizzonte dell'organizzazione di base, che risultava composta di elementi tutti dello stesso mestiere e con paralleli interessi economici, mentre la naturale sintesi delle varie "spinte" sociali nel partito e nella sua unitaria finalità veniva meno e finiva per essere unicamente espressa dalle parole d'ordine portate dai rappresentanti dei centri superiori, per lo più divenuti funzionari con tutte le caratteristiche proprie dei loro equivalenti nei vecchi partiti ed organi sindacali. La cosiddetta "bolscevizzazione" fu in realtà il preludio della graduale e infine precipitosa sbolscevizzazione dei partiti comunisti, del loro inaridirsi, del loro decadere da un lato ad un "miope praticismo" privo della linfa vitale del "pensiero teoretico attivo", dall'altro al livello di organizzazioni "laburiste", chiuse nell'angusto perimetro della fabbrica e di questioni contingenti, cieche e sorde ai grandi problemi teorici e politici mondiali e, per entrambe le ragioni, pronte ad essere maneggiate come materiale inerte da un apparato non più solidamente ancorato ai princìpi, o meglio, sempre più conquistato a princìpi opposti a quelli sui quali si era costruita e per i quali si era battuta l'Internazionale degli anni gloriosi. La nostra opposizione a questo stravolgimento dei sani criteri marxisti di strutturazione e conduzione dei partiti non ebbe nulla in comune con rivendicazioni fasulle di "democrazia interna"; si trattava di combattere una profonda divergenza di concezione sulla deterministica organicità del partito come corpo storico vivente nella realtà della lotta di classe; di una deviazione radicale di principio, che rese i partiti incapaci di antivedere e fronteggiare a tempo il sottile e insidioso pericolo opportunista.

Non a caso, del resto, la "svolta" organizzativa, parallela a svolte tattiche sempre più eclettiche e infine apertamente devianti, coincise (1925) con gli inizi della grave crisi interna del Partito russo. Il grande dilemma posto dalla storia e formulato con straordinaria franchezza da Lenin nel 1917 come nel 1921 ― "o sottoporremo al nostro controllo e alla nostra verifica il piccolo borghese, il piccolo produttore contadino, o egli abbatterà inevitabilmente e immancabilmente il nostro potere operaio, come abbatterono la rivoluzione i Napoleoni e i Cavaignac che sorgono appunto sul terreno della piccola proprietà" ―, giungeva proprio allora al suo terribile nodo, il nodo di ogni rivoluzione doppia impossibilitata a trascrescere in rivoluzione proletaria sul terreno economico in assenza della rivoluzione internazionale pura. "Anche se le rivoluzioni proletarie che si preparano dovessero tardare" ― aveva aggiunto Lenin ― sarebbero bastati alla vittoria "dieci, venti anni di buoni rapporti con i contadini" (e buoni nel senso che il controllo esercitato su di essi dalla dittatura proletaria non si capovolgesse nel suo contrario) (6), ma a due condizioni imprescindibili ― che il Partito russo rimanesse integro sul filo della sua tradizione rivoluzionaria ed internazionalista, nella gelosa salvaguardia del suo patrimonio teorico e programmatico, e che, soprattutto, in difesa disperata di questa tradizione e di questo patrimonio, presupposti della sua esistenza, si levassero i partiti del Comintern.

Al 1925, le due condizioni erano venute progressivamente a mancare. Nel suo Testamento, Lenin aveva messo il dito sulla piaga parlando dell'anomalia di un partito "poggiante su due classi" solo temporaneamente avvicinate. Ora, la "leva" sconciamente aperta nel suo nome dopo la sua morte alterò anche socialmente la fisionomia del bolscevismo, sommergendo il duro nocciolo della Vecchia Guardia e della gioventù rivoluzionaria sotto lo spessore ottuso di masse grigie di provenienza contadina unicamente interessate allo status quo, mentre, fuori dei confini, l'eclettismo tattico e la revisione organizzativa avevano reso ancor più lontani e difformi dai requisiti 1920 i "partiti fratelli". Quando, al già citato Esecutivo allargato del febbraio-marzo 1926, la Sinistra chiese che la "questione russa", divenuta ormai tragicamente bruciante, fosse discussa e risolta non nel chiuso (e nel segreto) del Partito russo, ma in sede di Congresso mondiale, secondo la corretta scala gerarchica che poneva le sezioni nazionali, compresa quella russa, sotto l'organo politico internazionale, e lo Stato della rivoluzione vittoriosa più sotto ancora, sollevò bensì coraggiosamente una questione di principio valida per tutti i tempi e da non mai dimenticare, ma, quando anche la richiesta fosse stata accolta (e naturalmente non lo fu), che cosa altro sarebbe allora potuto uscire da un consesso addomesticato di partiti degeneri, servilmente accodati al carro del padrone nello stile di una bolscevizzazione falsa e bugiarda? La "grettezza contadina" paventata e denunciata da Lenin gravava col suo peso fisico sul Partito russo; l'atonia democratica piccolo-borghese gravava col suo peso ideologico e organizzativo sui partiti occidentali nati malamente nel 1920-1921 e peggio cresciuti negli anni successivi.

Fu relativamente facile, a Mosca, trasformare il dibattito politico con Trotsky (e con la finalmente insorta Vecchia Guardia) in un'oscena rissa di maneggioni di partito incarnanti l'inerzia storica e l'ottusità piccolo-borghese contro l'audacia e il rigore dei rivoluzionari; lo fu ancor più trasformare l'Esecutivo allargato successivo (novembre-dicembre) in un coro servile di applausi alla liquidazione, con gli uomini dell'Ottobre, degli stupendi "insegnamenti del 1917". Toccò poi al braccio secolare di uno Stato agente in funzione non più della rivoluzione mondiale, ma della introduzione del capitalismo in Russia e della sua accumulazione originaria, schiacciare i "ribelli". Il ciclo gloriosamente apertosi nel 1917-1920 volgeva al tramonto ― in nome, come si vedrà ben presto (7), della democrazia con tutto il suo armamentario strategico e tattico antiproletario. Oggi ancora, ne paghiamo il terribile scotto.

* * *

Il resto è fuori del filo rosso della tradizione marxista; è la squallida storia della controrivoluzione staliniana, della suprema bestemmia del "socialismo costruito in un paese solo", dei fronti popolari e nazionali, del ministerialismo, del policentrismo, per finire nell'attuale infamia di partiti che si appellano a Marx e a Lenin dopo averli trasformati non solo in "icone inoffensive" ma in turpi coperture di tradimenti mille volte più cinici di quelli dei Noske e dei Kautsky di lontana memoria.

Il nemico socialdemocratico che ci si era tirati in seno si era finalmente presa la sua rivincita: neppure noi, nel lanciare il nostro allarme al II Congresso, avremmo potuto prevedere una così devastatrice sconfitta. Ma è importante capire che le sue origini risalgono ad una rottura della tradizione bolscevica, forse inevitabile nella stretta di una fase storica come quella di cui abbiamo cercato di ricostruire le pesanti remore, ma dalla quale si sarebbe potuto salvare almeno il germe di una meno difficile e lunga ripresa, se non si fosse smarrito il senso dell'inconciliabilità fra noi e i labour lieutenants of the capitalist class, socialdemocratici e centristi insieme, e dell'abisso scavato dalla storia fra comunismo e democrazia. Se oggi la più infame genia di servitori del capitale può vantare impunemente quanto sconciamente di discendere in linea diretta da Marx e da Lenin, è solo perché ― non lo dimentichino le giovani generazioni proletarie ― non soltanto quella tradizione è stata bruscamente spezzata, ma, per impedirle di rinascere, la controrivoluzione in veste staliniana ha dovuto distruggere fisicamente il partito che ne era stato in anni di splendore il depositano geloso nella teoria e nell'azione: al suo cannibalismo non sarebbero bastate le esecuzioni e le deportazioni di un Thiers dopo la Comune di Parigi!

Questo va ribadito con forza: il movimento rivoluzionario marxista può rinascere solo a patto di riallacciarsi al filo spezzato della dottrina, del programma, delle finalità, dei princìpi ribaditi al II Congresso di Mosca, in tutti i testi e le proclamazioni che lo precedettero e lo accompagnarono, e, nello stesso tempo, delle deduzioni tattiche e organizzative che allora non si ebbe la forza ― come noi auspicavamo ― di trarre fino alle conseguenze estreme dal nesso, tuttavia riconosciuto inscindibile, fra ognuno degli anelli della poderosa catena di cui si compone l'organo della rivoluzione proletaria ― il partito di classe, il partito comunista mondiale. Perciò, quel filo, l'abbiamo riportato in luce dalle scorie della contingenza, riannodandone i capi al disopra di un cinquantennio che si era aperto in una luce sfolgorante e si è chiuso nelle tenebre di un conformismo servile, di una codarda ossequienza al fatto compiuto. É su quella sola traccia, salvata nella sua integrità dal generale naufragio, che sarà possibile risalire la china verso un nuovo ciclo di rivoluzioni, vendicatrici dell'Ottobre rosso come di tutti i militanti caduti, noti ed oscuri, dell'emancipazione proletaria.

Note

1) Si ricordi l'articolo Mosca e la questione italiana, cit. a pag. 580.

(2) Cit., pag. 35 (cap. V).

(3) In tedesco Grundfragen der Revolution, ora in Reprint/Feltrinelli.

(4) Ed estese l'allarme al partito bolscevico, minacciato dai due pericoli solo apparentemente opposti di un "miope praticismo ad un polo, di un agitatorismo [ci si consenta il termine] che scivola sulla superficie di tutte le questioni, all'altro", richiamando i compagni, con parole che potrebbero essere state ed essere ancor più oggi le nostre, al dovere indilazionabile di difendere e salvaguardare nei fatti la continuità della tradizione teorica marxista. Op. cit., pagg. XI-XII. Nel 1924, sarà questo il tema centrale de Gli insegnamenti di Ottobre.

(5) Per un riesame critico delle successive forme assunte ― prima sul piano tattico, poi su quello strategico e infine anche dottrinale ― dalla incipiente "terza ondata opportunistica" del movimento operaio, si veda In difesa della continuità del programma comunista, cit., e in particolare le Tesi caratteristiche del Partito, parte III, pagg. 149-160, da cui in parte attingiamo.

(6) Per tutta la complessa questione, si veda il nostro testo Bilan d'une révolution, 1957.

(7) Non a caso le grandi "purghe" del 1936 e seguenti coincisero con l'ingresso nella Società delle Nazioni e i fronti popolari all'estero e con l'emanazione della "costituzione più democratica di tutto il mondo" all'interno. É nel Pantheon del democratismo ― quando mai lo si capirà? ― che deve trovar posto il mausoleo a Stalin. Ben lo sapeva la "Chicago Tribune" del 16.V.1943 quando, unendosi al coro della stampa democratica occidentale per il definitivo seppellimento del cadavere del Comintern, esclamava: "Stalin ha ucciso i dervisci della fede marxista. Ha giustiziato i bolscevichi il cui regno era il mondo e che volevano la rivoluzione universale...".

FINE

Archivio storico 1952 - 1970