Storia della Sinistra comunista Vol. III - Parte seconda
Dal II al III Congresso dell'Internazionale Comunista. Settembre 1920 - giugno 1921

II. Italia: il mese della grande illusione

L'occupazione delle fabbriche

Prima di entrare nel vivo della complessa fase preparatoria della scissione di Livorno, è opportuno - come nei due volumi precedenti - dare un rapido sguardo alla situazione sociale in Italia nella seconda metà del 1920, in cui, a parte episodi minori, campeggia la clamorosa vicenda dell'occupazione delle fabbriche. Ed è su questo tema che dobbiamo soffermarci con una certa ampiezza, non come prova ulteriore dell'organica incapacità del PSI di prendere la testa di un preludio di rivoluzione (che non ci fu), ma anzitutto come dimostrazione, apparsa sempre più chiara in elementi fin allora esitanti della corrente massimalista, dell'impossibilità di convivere più a lungo nel vecchio, impotente e sclerotico partito e, quindi, dell'inevitabilità della scissione; poi come vivente illustrazione delle tesi di principio sulla via obbligatoria alla presa rivoluzionaria del potere, sostenute da coloro che, viceversa, di questa inevitabilità erano non da allora convinti.

Poiché intorno all'episodio si sono già all'epoca creati troppi miti, occorre subito precisare, prima di tutto, che esso si colloca in una situazione internazionale non di avanzata ma di riflusso, più o meno marcato nei diversi paesi, delle lotte operaie. In Germania, dopo le grandi battaglie di marzo, bisognerà aspettare un anno prima di assistere a qualcosa di lontanamente paragonabile ai moti dell'immediato dopoguerra. In Francia, la repressione dello sciopero ferroviario e generale del maggio segna, come in Cecoslovacchia la fine dello sciopero generale di dicembre, l'inizio di un lungo periodo di letargo, e comunque di stasi, sociale. In Gran Bretagna, lo sciopero minerario dell'inverno 1920-21 illuminerà di fulgidi ma sussultori bagliori un orizzonte fattosi grigio dopo le battaglie di strada e di fabbrica del 1918-20: il 1926 dello sciopero generale è ben lontano. In Italia, il vertice della combattività proletaria era stato raggiunto, su scala nazionale, nell'estate 1919 (moti contro il carovita); sul piano più ristretto delle fabbriche e su scala soltanto regionale, nell'aprile '20 con lo sciopero "delle lancette".

In entrambi i casi, il proletariato era partito all'attacco e, soprattutto nel primo, si era scontrato nelle strade e nelle piazze con le forze dell'ordine. A breve distanza dai moti di Ancona e dalla loro repressione, e dai tumulti seguiti al vittorioso sciopero dei tranvieri a Roma in luglio, l'occupazione delle fabbriche si presenta invece - secondo punto - con i caratteri tipici di un'azione paradossalmente moderata di difesa: sono gli industriali, con la loro intransigenza, a forzare la mano ai capi della FIOM; è come estremo mezzo di pressione sulla controparte e in funzione difensiva, che questi ricorrono prima all'ostruzionismo, poi all'occupazione, decidendovisi inoltre senza grande convinzione e meno che mai con entusiasmo, "come semplice Ersatz [cioè surrogato] dello sciopero divenuto troppo difficile", ovvero come "mezzo più economico per imporre il nuovo contratto collettivo di lavoro" (1).

Imponente, il moto fornirà ammirevoli prove di solidarietà, abnegazione e disciplina operaia, ma - terzo punto - resterà imprigionato entro le mura dei posti di lavoro, e, nonostante il numero enorme di partecipanti, terminerà relativamente in buon ordine, senza che si siano registrati veri e propri scontri in piazza. Clima di festa più che di battaglia all'inizio; di bocca amara più che di rabbia alla fine: l'interludio passa come un sogno intessuto di illusioni, prima fra tutte l'illusione - alimentata negli operai dall'opportunismo - di aver "conquistato il potere" per aver preso possesso delle fabbriche anziché degli organi politici centrali e periferici del dominio borghese, col risultato di uscirne politicamente sconfitti e anche sindacalmente insoddisfatti (o gabbati).

Colti di sorpresa dall'estensione del moto e dalle conseguenze oggettive della linea di condotta assunta di fronte al padronato, i dirigenti riformisti della FIOM e, ultimi arrivati, della CGL - quarto punto - ne tengono tuttavia sicuramente in mano le redini dal primo all'ultimo giorno, liberi di stabilirne i metodi e di fissarne le scadenze, mostrando nei fatti come sia la destra sindacale e politica a dominare, se occorre a colpi di ricatti, il centro massimalista teoricamente a capo del partito, paralizzando con la sua complicità il movimento e condannandolo ad esaurirsi per mancanza di prospettive prima ancora che l'azione congiunta del bonzume e del governo lo conduca a placida fine (2). Parallelamente, infine, il governo (che gli industriali accusano di eccessiva debolezza) tiene saldamente in un pugno la situazione politica e sociale mobilitando il minimo appena appena indispensabile di forze dell'ordine, e lasciando astutamente che lo slancio operaio si spenga per assenza di ossigeno: verrà allora il momento di concedere agli occupanti una semi-vittoria immediata nella certezza di poterla barattare contro la garanzia di un loro fatale arretramento dalle posizioni conquistate nel prossimo futuro.

Non a caso, del resto, la conclusione del moto coincide con l'inizio della vera e propria offensiva fascista, scatenatasi contro un avversario reso vulnerabile proprio dal suo ripiegamento su se stesso, cioè sui posti di lavoro, e indebolito dai frutti amari della sostanziale sudditanza al riformismo. Il guanto di velluto giolittiano e il pugno di ferro squadrista si sostennero a vicenda: tutta la loro forza risiedeva nella debolezza oggettiva e soggettiva dell'avversario.

Il fatto è che, se è vero che in settembre la tensione sociale mostrava d'essere ancora così forte da sembrar vicina al punto di rottura, a neutralizzarne i coefficienti rivoluzionari avevano provveduto da tempo - a parte fattori oggettivi come il logorio e la conseguente stanchezza seguiti a lunghe battaglie spesso infruttuose, e l'incertezza crescente del posto di lavoro - sia il perenne e sempre coerente disfattismo riformista, sia il vaniloquio, l'inconcludenza e il codismo del massimalismo serratiano nei confronti della destra. La fine non certo gloriosa dell'occupazione delle fabbriche era quindi obbligata, e tale sarebbe rimasto nel prossimo avvenire qualunque episodio delle lotte di classe se si fosse permesso all'equivoco unitario di sussistere.

Solo ponendosi da questo punto di vista, che non è di arrogante svalutazione, ma di necessario ridimensionamento di un moto intorno al quale nacquero allora tante illusioni o, nell'ipotesi più benevola, semplificazioni, e ancor oggi abbondano le mistificazioni (3), si possono capire sia gli sviluppi dell'azione nei mesi di agosto e settembre 1920, sia le loro ripercussioni politiche su una fascia non indifferente del vecchio partito socialista. Perciò, una sua ricostruzione e, insieme, valutazione critica è anche premessa necessaria alla comprensione, in molti dei suoi aspetti, della fase conclusiva del processo di costituzione del Partito comunista d'Italia.

1. - Dalle origini della vertenza all'ostruzionismo

Le origini della vertenza sono d'ordine strettamente rivendicativo (4). Il concordato di Roma, sottoscritto a conclusione dello sciopero di agosto-settembre 1919, aveva lasciato aperto sia il problema della fissazione su base uniforme dei minimi di paga, sia quello dell'aumento del salario in rapporto alla crescita progressiva e sempre più vertiginosa del costo della vita. Il congresso metallurgico di Genova, di cui si parla alle pp. 379-380 del nostro precedente volume, aveva infine dato mandato al C.C. della FIOM di redigere un memoriale da presentare alla controparte sull'insieme delle rivendicazioni salariali e normative ritenute indilazionabili. Si trattava in sostanza - citiamo, senza entrare nei particolari, da un articolo di G. Guarnieri sull'Avanti! del 27 e 29/VI/'20 - di "unificare, compatibilmente con le esigenze delle diverse industrie, i sistemi di retribuzione vigenti; di perequare le paghe e le tariffe di cottimo delle diverse categorie tenendo conto delle particolari condizioni delle diverse industrie e del costo della vita delle singole regioni; di stabilire un sistema di indennità caroviveri razionale; di elevare i salari attuali per renderli adeguati al costo della vita". Presentato il 19/VI alla Federazione industriale con la dichiarazione d'essere pronti ad attendere "sereni e fiduciosi, senza impazienze e senza movimenti impulsivi, l'esito delle trattative", il memoriale ottiene cinque giorni dopo la risposta che, secondo la controparte, esso "vulnera gli attuali concordati al punto di costituire una sostanziale denuncia dei patti in vigore", e l'invito alla FIOM di valutare più seriamente le condizioni dell'industria, che sono tali - a sentire il padronato - da non poter sostenere neppure in parte l'onere dei miglioramenti economici richiesti.

Del periodo compreso fra il 23 luglio e il 20 agosto (data di inizio dell'"ostruzionismo" decretato dalla FIOM in seguito all'ultimo e definitivo no pronunciato dalla Confindustria il 13 dello stesso mese) interessa qui non tanto seguire la cronaca - che è tutta un alternarsi di scambi epistolari e di riunioni, separate o congiunte, fra i partners sociali -, quanto rilevare la posizione assunta da ciascuno di essi, in anticipazione di quello che sarà, durante e subito dopo l'occupazione delle fabbriche, il loro modo costante di atteggiarsi. Gli industriali non hanno dubbi né nel respingere in blocco le rivendicazioni economiche operaie come incompatibili con la situazione oggettiva dell'industria e, quindi, gli argomenti di statistica comparata addotti in loro appoggio dai rappresentanti della classe operaia, né nel rifiutarsi - evidentemente, per menare il can per l'aia - di discutere tali argomenti separatamente dal contenuto dei memoriali inviati a breve distanza dall'anarco-sindacalista USI e dalla cattolica CIL, in parte dissimili sia nell'analisi, sia nelle conclusioni, da quello della FIOM, o di controbatterli mediante una propria analisi dello stato generale dell'economia.

Dettano questa posizione di assoluta intransigenza i portavoce della grande siderurgia e della meccanica soprattutto automobilistica, a loro volta legati a ben noti gruppi finanziari; ingigantitisi durante la guerra a furia di commesse statali, ora essi hanno fretta di riconvertirsi, nel quadro di una fragile economia di pace all'interno, e di una concorrenza spietata sul mercato mondiale all'esterno, col duplice strumento antioperaio di una drastica riduzione dei salari e di una forte contrazione e redistribuzione della manodopera. Si arroccano quindi su una posizione di rifiuto totale non tanto perché ritengano eccessive le pretese delle organizzazioni sindacali operaie, quanto perché non vedono l'ora di farla finita con quelle che considerano la tracotanza, l'invadenza e la riottosità di un sindacato verso il quale sostengono che il governo, e in esso soprattutto il presidente del consiglio Giolitti, mostrino una tolleranza eccessiva nell'illusione di spegnere gli ardori sovversivi delle masse cointeressandole alle sorti dell'economia e delle istituzioni nazionali tramite la CGL e le sue dipendenze sotto controllo riformista. è lo stesso gruppo - ufficialmente gli Jarach e i Rotigliano (5), sotto gli Agnelli, in un primo tempo, e i Perrone, sempre - che mal tollera gli exploits di politica fiscale riformista del governo (6), invoca il ritorno ai sani principi della disciplina e dell'ordine nella società e sul posto di lavoro, e a questo fine incoraggia e, se occorre, finanzia il fascismo ancora imberbe come forza potenzialmente nazionale di conservazione, auspici sul piano pubblicistico gli Albertini, gli Amendola, gli Einaudi, ecc., futuri astri... dell'antifascismo democratico.

Da parte sua, la FIOM non si spinge oltre un atteggiamento di cauta difesa. Dopo tutto, essa non è insensibile ai problemi di "compatibilità" fra richieste di miglioramenti salariali e normativi e situazione delle aziende; lungi dal rinfocolare i contrasti di classe, il suo memoriale tende "a limitare le cause dei conflitti fissando dei criteri perché ad ogni sensibile aumento del costo della vita corrisponda un automatico miglioramento dei salari" (come scrive l'Avanti! del 31/VII in risposta ad una relazione Jarach); da lei, fin dall'inizio della vertenza, giunge agli operai l'invito ad osservare "la più assoluta disciplina", attendendo con serena fiducia che le trattative giungano in porto.

Non stupisce quindi che, emanando il 20/VIII l'ordine di passare dalla sospensione del lavoro straordinario (già decretato il 26 luglio) al "rallentamento di attività nell'esecuzione dei lavori", cioè al famoso ostruzionismo, invece di proclamare lo sciopero generale per le ragioni già dette (7), la FIOM si preoccupi di scusarsi del passo compiuto, tanto di fronte agli operai ("Voi sapete che dobbiamo ricorrere a questo mezzo di offesa [!!] contro il padronato, perché alle nostre giustificate domande di miglioramenti è stato opposto il più reciso rifiuto [...] Abbiamo fatto tutto il possibile per fare accettare pacificamente e ragionevolmente le vostre rivendicazioni; ma quando, dopo aver confutato gli argomenti degli avversari sulle condizioni dell'industria, ci preparavamo a trattare le richieste contenute nel memoriale, ci è stato risposto che il memoriale non si poteva discutere. Dovevamo rinunciare al memoriale? Sarebbe stato un tradimento verso la massa operaia che ha fiducia nella nostra organizzazione. Abbiamo dunque accettato la battaglia, sicuri di interpretare il vostro sentimento e di avere il vostro appoggio"), quanto di fronte all'opinione pubblica, alla quale la FIOM si premura di spiegare come essa vada alla lotta "convinta di difendere non solo l'interesse degli operai ma anche quello di tutto il paese" (parole oggi condite in tutte le salse; allora pronunciate di rado e con un certo imbarazzo) contro un pugno di esosi "gruppi industriali che temono la concorrenza solo perché hanno aziende mal dirette, e gestite da cricche le quali vogliono far servire di sgabello alla soddisfazione delle loro mire politiche e speculative le industrie in loro possesso" (8). Certo, essa fa la faccia feroce adombrando l'eventualità di occupare le fabbriche, sicura com'é (si legge nell'ordine del giorno citato alla nota 8) che "tutti i metallurgici sapranno difendere con ogni mezzo - compresa la violenza - il diritto al lavoro e di entrare e rimanere in officina contro ogni deliberazione avversa degli industriali"; ma, da un lato, gli ordini impartiti per l'attuazione dell'ostruzionismo sono, sì, di "lavorare meno", ma anche di "lavorare bene", cioè nel più rigoroso rispetto della proprietà, dei suoi diritti e delle esigenze della produzione, dall'altro l'obiettivo massimo verso il quale si crede di poter indirizzare la vertenza è adombrato nella parallela invocazione di un'"ampia inchiesta" e dell'"immediato controllo dello Stato e degli operai sull'industria siderurgica e su tutte le aziende che lavorano per lo Stato, in particolare quelle che, pur godendo concessioni privilegiate di materie prime dallo Stato, minacciano proprio ora migliaia di licenziamenti, corrispondono salari inferiori a quelli delle industrie libere e avversano costantemente ogni rivendicazione operaia" - il celebre controllo sotto egida statale che, divenuto lungo la strada "paritetico", sarà fatto balenare agli operai come conquista "rivoluzionaria" e la cui promessa servirà di pretesto per liquidare a tamburo battente, quasi esattamente un mese dopo, l'occupazione delle fabbriche (9).

L'ostruzionismo, provocando un ulteriore irrigidimento degli industriali, decisi a subordinare la ripresa delle trattative a un rapido ed integrale ritorno alla normalità nei rapporti di lavoro ed al rispetto da parte operaia del codice non scritto di comportamento in fabbrica, minacciando in caso contrario di procedere alla serrata di tutti gli stabilimenti, chiama per la prima volta in scena il governo, protagonisti per ora il ministro del lavoro Arturo Labriola, l'ex sindacalista-rivoluzionario riconciliatosi col nemico nr. 1 del proletariato e abilmente scelto da Giovanni Giolitti per ricoprire il cruciale dicastero, il sottosegretario agli interni Camillo Corradini e, su tutti imperante, lo stesso Giolitti. Il trio ha lucida coscienza sia dei rischi impliciti in "atti impulsivi" e "decisioni avventate" della Confindustria, sia della fondamentale disponibilità a trattare dei sommi duci della FIOM e della CGL: tesse quindi - tramite anche i prefetti Lusignoli a Milano e Taddei a Torino - una fitta trama di contatti soprattutto con gli esponenti sindacali e politici del riformismo, proponendo uno scambio fra cessazione dell'ostruzionismo e ripresa delle trattative, e trovando sostanzialmente favorevole a questa come ad altre proposte Bruno Buozzi e decisamente contraria l'irriducibile accoppiata Jarach-Rotigliano; non per questo perde la pazienza, né si lascia indurre, come vorrebbero gli industriali, ad uno spiegamento di forze armate di cui vede lucidamente i pericoli (10).

Le pressioni del governo e dei due prefetti maggiormente coinvolti nel tentativo di conciliazione risultano però vane: il 30 agosto, a Milano, l'officina Romeo chiude i battenti; di rimbalzo, la sezione milanese della FIOM ordina di sua iniziativa la presa di possesso di circa 300 officine metallurgiche della zona. Ma è ancora l'organizzazione industriale a passare all'attacco disponendo, il 31, la serrata generale, da attuarsi "secondo le modalità che saranno deliberate dai singoli consorzi", e dichiarando che "solo dopo definitivamente cessato attuale stato anomalo ed illegale di cose, organizzazione industriale, pur richiamandosi alle considerazioni esposte nella prima fase delle trattative, è disposta a riprendere in esame le domande delle organizzazioni operaie": risoluzione "non ragionevole e neppure patriottica", si affretta a dir loro Lusignoli; minaccia "intempestiva" da parte di "alcuni industriali" che non hanno "ben misurato la situazione e i suoi pericoli", dirà più tardi Giolitti. Ragione di più per non aggravare la situazione con prove di forza governative; ed ecco il presidente del consiglio sparire (apparentemente) dalla scena rifugiandosi a Bardonecchia, in attesa che i contendenti si spezzino da sé le corna. Sarà, come è stato detto, il suo "capolavoro".

2. - L'occupazione: prima fase

Come la serrata si generalizza non risparmiando quasi nessuna azienda (almeno nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova), così è immediata e generale, in risposta, l'occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze. Si tratta di un'azione che non ha nulla di concertato (la CGL a tutta prima non ne sa nulla), e che appunto perciò colpisce per prontezza, decisione e disciplina: non a torto è stato scritto che "forse in nessun altro momento della storia del movimento operaio [italiano, ovviamente] si è avuta una comunicatività così pronta e spontanea nel corso di una lotta" (11). La direttiva di estendere l'occupazione parte bensì, il 1° settembre, dalla FIOM; ma il Manifesto pubblicato da quest'ultima invita gli operai a "seguire l'esempio dei compagni milanesi nelle zone nelle quali gli industriali tenteranno la serrata"; sono quindi i lavoratori stessi, non aspettando, per agire, che agiscano gli industriali, ad occupare tutte e comunque le officine metallurgiche: di propria iniziativa, come se un'unica voce fosse circolata con la rapidità di un baleno dall'una all'altra estremità della penisola. Essi non concepiscono l'occupazione nel senso limitativo della loro organizzazione di categoria, dunque come semplice mezzo di pressione ("Speriamo - dice il comunicato FIOM della stessa data - che la tenacia degli operai nel restare al loro posto di lotta e di sacrificio finirà con l'indurre gli industriali a fare altri [!!!] passi verso la soluzione della vertenza"): oscuramente, sentono di andare in guerra e, in questa prospettiva, di dover occupare delle posizioni di forza, e non lasciarsele sfuggire. Non hanno la preoccupazione di giustificarsi di fronte all'opinione pubblica, come la FIOM nel suo appello al Paese dello stesso giorno ("Le officine sono nelle mani degli operai solo per evitare al Paese il prolungarsi di una vertenza che, per le promesse fatte in precedenza, deve essere risolta in pochi giorni, risparmiando al Paese altre agitazioni, ed agli operai inutili sacrifici"): si muovono di colpo, come un sol uomo, senza squilli di tromba, quasi in silenzio; sono loro ad occupare le fabbriche, a presidiarle, a farle funzionare, a emettere le prime disposizioni organizzative, ad allargare il raggio del movimento quando ancora i capi si chiedono se o no lasciarlo circoscritto ad una sola categoria (e per quanto tempo cosi lo lasceranno!), mentre le direttive centrali sui modi e sui termini dell'occupazione tardano a venire o non vengono affatto, né dalla FIOM né dalla CGL (che guarda con mal celata diffidenza l'azione della consociata), e mentre rimangono loro oscuri gli scopi ultimi perseguiti dai massimi organi sindacali e politici della classe.

Dal 1° al 4 settembre, oltre 400.000 lavoratori - saranno, poco dopo, mezzo milione - prendono possesso "in modo straordinariamente pacifico" (12) degli stabilimenti metallurgici e, in qualche caso, chimici, tessili ed altri; lo fanno, sia nei grandi agglomerati industriali (il 30 ag. Milano e Roma, l'1 sett. Torino, il 2 Genova, Bologna, Firenze, Napoli), sia in centri minori del Veneto, della Liguria, della Toscana (Livorno, Piombino), delle Marche ecc., in gradi e con peculiarità differenti a seconda della composizione sociale e del peso relativo dei diversi sindacati in loco, ma con grande omogeneità di fondo quanto al modo di procedere e senza che si segnalino incidenti di rilievo o sequestri di dirigenti e di tecnici, e neppure casi di sostanziale rallentamento della produzione.

Questa atmosfera di serena disciplina è del resto favorita dal contegno vuoi dei dirigenti sindacali, vuoi dei rappresentanti dei pubblici poteri. Dei primi basti dire che non cessano di sperare in un componimento pacifico della vertenza (e vi si adoperano, benché senza successo, in frenetici abboccamenti con membri del governo e loro emissari locali), dando l'impressione - tutt'altro che lontana dal vero - di essersi trovati in mano un'arma tagliente di cui esitano a servirsi, se non a scopi di ordinaria amministrazione (13). Quanto al governo, la sua linea è tanto semplice, quanto coerente:

"Come per lo sciopero del 1904 - scriverà Giolitti nelle sue "Memorie" - ero fermamente convinto che il governo dovesse anche questa volta condursi come si era condotto allora: lasciare cioè che l'esperimento si compiesse fino a un certo punto, perché gli operai avessero modo di convincersi dell'inattuabilità dei loro propositi, ed ai caporioni fosse tolto il modo di rovesciare su altri la responsabilità del fallimento. Questa convenienza politica più larga e più lontana coincideva con le convenienze immediate di polizia. Io fui allora accusato di non essere ricorso all'uso della forza pubblica per fare rispettare la legge e impedire la violazione del diritto privato; di non avere, insomma, né impedito l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai, né provveduto a cacciarli in altro modo dopo che l'occupazione era avvenuta. Ma, ammettendo anche che io fossi riuscito ad occupare le fabbriche prima degli operai, ciò che sarebbe stato per lo meno assai difficile considerata l'ampiezza e universalità del movimento, mi sarei trovato nella assai poco comoda posizione di avere pressoché la totalità delle forze di polizia, Guardie Regie e Carabinieri, chiusi nelle fabbriche, senza quindi i mezzi di mantenere l'ordine pubblico nelle strade e nelle piazze […] Se poi, più tardi, fossi ricorso alla forza pubblica per costringere gli operai a lasciare le fabbriche occupate, ne sarebbe nato un vasto e sanguinoso conflitto" (14).

Come si vede, militavano a favore della politica di "neutralità" adottata dal governo, del suo "stare a vedere" - in armi, sì, ma senza colpo ferire -, considerazioni sia economiche, sia e soprattutto politiche. Quanto alle prime, dato e non concesso che i dirigenti sindacali avessero auspicato il movimento - come mostrava di credere Giolitti - col proposito deliberato di arrivare all'"esercizio diretto dell'attività produttiva", v'era nel presidente del consiglio "la chiara e precisa convinzione che l'esperimento non avrebbe potuto a meno di dimostrare agli operai l'impossibilità di raggiungere quel fine, mancando ad essi capitali, istruzione tecnica, e organizzazione commerciale, specie per l'acquisto delle materie prime e per la vendita dei prodotti che fossero riusciti a fabbricare" (15). Quanto alle seconde, che erano in realtà le prevalenti, esse appaiono chiare dal testo prima citato sol che si riesca a leggerne il senso non banale né fortuito, ma fieramente di classe: nei conflitti sociali, specie se aspri ed estesi, la partita si gioca, quindi si vince e si perde, "nelle piazze e nelle strade"; se ciò vale per il governo, vale a maggior ragione per i lavoratori; se a qualcuno si deve lasciare da parte governativa che si "chiuda nelle fabbriche" sono gli operai: facciano pure: è lì che il movimento è destinato non a fiorire, ma a soffocare (16). Per una "logica" che solo agli immediatisti riesce incomprensibile, la posizione di Giolitti e del suo governo (di cui fa parte, e come ministro della guerra!, un altro transfuga del movimento operaio, Ivanoe Bonomi) è simmetrica, su un piano - beninteso - opposto, a quella di un marxismo non adulterato. Proprio la corrente astensionista, nel valutare ed apprezzare i motivi di fondo che avevano animato i primi esperimenti di occupazione di fabbriche nel gennaio-febbraio precedenti, aveva ammonito che "la fabbrica sarà conquistata dalla classe lavoratrice - e non solo la rispettiva maestranza, che sarebbe troppo lieve cosa e non comunista - soltanto dopo che la classe lavoratrice tutta si sarà impadronita del potere politico": il problema non era quindi di "prendere la fabbrica", ma di "prendere il potere", ovvero prendere quella in funzione di questo (17). Inversamente, per l'organo supremo della borghesia, il problema era di difendere il potere a costo di perdere, per il momento e nella certezza di recuperarla più tardi, la fabbrica.

Di qui la direttiva impartita da Giolitti a Corradini il 2 settembre da Bardonecchia (ne citiamo una: le altre sono sostanzialmente identiche): "Credo riguardo questione metallurgica convenga che azione governo si manifesti meno che è possibile [...] Occorre insomma molta calma e astenersi da iniziative non necessarie" (18). Di qui l'insistenza dei prefetti Lusignoli e Taddei perché gli industriali recedano dalla loro intransigenza. Di qui l'ordine alle forze di polizia e dell'esercito che mantengano "in ogni circostanza" un "contegno calmo e misurato" (19); ordine impartito assumendosi, non v'é dubbio, un certo numero di rischi, soprattutto per quanto riguarda la possibile evoluzione degli umori delle grandi masse, ma ben sapendo: 1) che la situazione non consente alternative; 2) che l'apparente debolezza del momento si dimostrerà la grande forza della fase conclusiva dello scontro.

La verità è che, qualunque giudizio formuli a posteriori sui propositi dei dirigenti operai e sulle speranze nutrite dai lavoratori, Giolitti conosce fin troppo bene con chi ha a che fare. Da una parte, sa che il fronte padronale è lungi dall'essere compatto nella sua intransigenza; dall'altra, sa che nelle forze politiche e sindacali responsabili della direzione del movimento non solo non c'é la volontà di spingerlo fino ai limiti di una prova di forza decisiva fra le classi, ma c'é al contrario la ferma decisione di evitarla. Nel loro orizzonte, o l'occupazione serve come mezzo potente di pressione in una vertenza che deve restare economica, come pensa Buozzi (ed è perfino in dubbio se convenga estenderla ad altre categorie), o, come pensano D'Aragona e C. per la CGL e Treves-Turati-Modigliani e C. per il PSI, solleva il problema - politico anche se formulato in termini sindacali - del controllo sull'industria e, di là da esso, dell'accesso per via democratica al potere (20); eventualità da discutere, certo, non da scartare a priori, anzi da caldeggiare pilotandole. In entrambi i casi, le fabbriche si occupano, da parte dei sindacati, a titolo strumentale e temporaneo ("Voi siete nelle officine! - sentenzia il già citato proclama del Comitato di agitazione alle Commissioni interne ecc. del 4/IX. - Queste sono un pegno formidabile, che il proletariato cederà solo quando sarà sicuro della sua situazione"), parallelamente alle trattative che si è ansiosi di proseguire anche se gli industriali fanno orecchie da mercante, sollecitando - ove occorra - l'intervento conciliativo del governo. Si assiste così ad una scena dietro le quinte che non è a tre, ma a due: a Roma e a Milano, non solo non cessano ma si infittiscono gli incontri a quattr'occhi fra rappresentanti del governo ed esponenti sindacali (Buozzi e D'Aragona in primo luogo) e politici riformisti (Treves e Turati), tutti interessati a "comporre subito vertenza" e "non alieni discutere con desiderio trovar via d'uscita", per esempio moderando le richieste di aumenti salariali "in proporzione vantaggi ottenuti in conseguenza funzionamento cooperative et magazzini di consumo [proposta poi lasciata cadere] nonché istituzione commissione mista per risoluzione altre questioni". Il governo, in poche parole, sa con chi è possibile un dialogo ragionevole; non perde tempo a rincorrere chi non ha orecchie per sentire. Non ignora che il movimento ha il suo tallone d'Achille non nell'ostentata intransigenza padronale, ma nell'aperta transigenza confederale, e batte per intanto su quel ferro: il resto, prima o poi, verrà da se.

Intanto, il fatto d'essere giunti di colpo, non incontrando resistenze degne di nota, all'occupazione delle fabbriche, e di non aver lasciato sul campo - in quei primi giorni - che un morto (nella zona di Sestri Ponente; i solenni funerali si svolsero senza incidenti), cullava gli operai - non è un rimprovero che gli si fa; non poteva essere altrimenti, nella specifica situazione di allora - in un falso senso di sicurezza e, agli inizi, addirittura di vittoria, quasi che una rivoluzione incruenta avesse dato loro, insieme agli stabilimenti, il potere. Non stupisce quindi né l'atmosfera di tripudio - controllato, tuttavia, mai chiassoso - che, come testimoniano gli stessi giornali borghesi, regnava nelle fabbriche occupate, né l'impegno con cui le maestranze si dedicarono "di preferenza" (parole di un rapporto ufficiale) alla "organizzazione tecnica del lavoro", assumendosi gli oneri di solito spettanti ai padroni e ai loro staff e dando prova di una capacità di organizzazione e di un'inventiva da far arrossire una classe avvezza a ritenersi indispensabile al buon andamento delle aziende e, in genere, della produzione. Ma è appunto su questo stato d'animo, su questa autodisciplina spinta fino ai limiti della abnegazione nel tentativo di mantenere in moto l'apparato produttivo con l'appoggio entusiastico di Camere del lavoro, sezioni e circoli socialisti, organizzazioni dei ferrovieri, cooperative di produzione e di consumo, e sotto il comando - tutt'altro che lassista - delle commissioni interne e della stessa federazione sindacale, su questa fiducia in sé avulsa da considerazioni di potere reale, è insomma sull'illusione di aver piegato la classe avversa con l'atto stesso di sostituirla al timone non dello Stato ma del luogo di lavoro, che giocheranno governo e riformismo nel liquidare, nel giro di poche settimane, il movimento.

Passata la prima euforia, sorsero infatti problemi, da un lato, di approvvigionamento delle materie prime e di smercio dei prodotti, dall'altro e soprattutto di pagamento del salario e, non è dir poco, di difesa delle posizioni occupate (insomma, di armamento), e venne naturale agli occupanti di porsi il quesito: Limitare il moto alla categoria, o estenderlo a tutte? E che fare di stabilimenti occupati che gli industriali continuano a rivendicare come propri, minacciando l'iraddiddio adesso che non li hanno in mano, figurarsi poi il giorno che dovessero riprenderseli? Più che la stanchezza e la delusione, destinate ad affiorare più tardi, fu l'impazienza e, in non pochi casi, la collera a prendere il posto della festa e dell'entusiasmo alla fine della prima settimana di occupazione; fu di questo nuovo umore, parallelo alla crescente irritazione e intransigenza padronale, che i vertici dello Stato da una parte e i trepidanti vertici sindacali sotto direzione riformista dall'altra, non poterono non preoccuparsi.

Dalla Camera del Lavoro di Milano parte (21) la richiesta di una convocazione degli "Stati generali del proletariato" (cioè dei rappresentanti di tutte le C.d.L. insieme ai dirigenti della CGL e del PSI) perché sia lanciata la parola d'ordine dell'estensione del movimento a tutte le fabbriche non metallurgiche, esigenza posta oggettivamente dagli sviluppi della situazione, largamente sentita dalle maestranze e apertamente proclamata dagli anarco-sindacalisti dell'USI, promotori per il 7/IX a Sampierdarena di un convegno appunto su questo tema (21 bis). In tali condizioni la richiesta non poteva che essere accolta, e la riunione venne fissata per il 4 e 5 a Milano, sede, è vero, di una delle più combattive e radicaleggianti Camere del Lavoro, ma anche roccaforte teorica e pratica del riformismo politico e sindacale.

Ebbe così inizio la cruciale settimana in cui, parallelamente alla svolta governativa dalla cauta neutralità all'intervento diretto, la CGL, rimasta fin allora spettatrice in un certo senso distaccata di un'iniziativa emanante non da lei in quanto organo sindacale supremo, ma da un'organizzazione di categoria, e di un movimento che rischiava di sfuggire al controllo di chi l'aveva promosso o, quanto meno, avallato, lavorò abilmente per avocarne a sé la direzione, riconducendolo sul binario obbligato della sua tradizione politica e organizzativa. Se si è potuto parlare, personalizzando i fatti della storia, di "capolavoro Giolitti", è altrettanto lecito parlare, sul versante operaio, di "capolavoro D'Aragona".

Alla riunione del 4-5, il segretario della CGL va apparentemente senza un'idea precisa degli sviluppi possibili della situazione, non diciamo poi un piano: è come se intervenisse non per far delle proposte, ma per ascoltarne, salvo esprimere (senza impegno!) il proprio giudizio. Dietro il tono a volte perfino dimesso, si nasconde tuttavia una linea di condotta sicura, consistente nel lasciare che gli altri vuotino il sacco delle loro aspirazioni, velleità, idee, e dimostrino nei fatti di non saper che cosa vogliono o, se lo sanno, di non essere disposti ad assumersi la responsabilità della sua attuazione. Il trionfo di ciò ch'egli ha già in mente, ma di cui non parla se non per vaghi accenni, verrà non appena saranno lampanti la confusione, l'indecisione o il vaniloquio degli "estremisti" intervenuti nel dibattito, e ferma invece la decisione riformista, la sua.

4 settembre: presenti la maggioranza del CD della CGL, di un'esile rappresentanza della Direzione socialista e di una delegazione delle principali CdL del Nord e del Centro, oltre che, ovviamente, della FIOM, riunione essenzialmente interlocutoria. Nella generale perplessità, gli intervenuti si interrogano a vicenda, senza riuscire a tracciare prospettive chiare e decise. Buozzi ritiene che la vertenza abbia carattere sindacale e possa mantenerlo ancora per qualche giorno, a meno che risulti impossibile fare le paghe ("cosa scabrosa che non si risolve che con la rivoluzione"); è del parere che "con un buon concordato la si potrebbe risolvere", e che "oggi come oggi" i metallurgici se la sentono "ancora di andare avanti da soli": poi... si vedrà. Si associa quindi, nel suo possibilismo, alla mozione della CdL di Torino, che contiene bensì l'impegno a "scendere in lotta con tutte le proprie forze, con tutti i mezzi richiesti dallo svolgimento della situazione", ma rinvia a condizioni per ora soltanto ipotizzabili la decisione di estendere la lotta, di cui dà, del resto, una versione riduttiva. Infatti (vi si legge), "sentito come sia probabile che l'offensiva padronale, che è in preparazione, possa implicare l'intervento di tutta la classe padronale in aiuto degli industriali metallurgici", i proponenti si impegnano a "far seguire la stessa sorte degli stabilimenti metallurgici a tutti gli altri i cui padroni si comportassero in modo da arenare o boicottare il movimento metallurgico", ma solo a queste, e solo nell'ipotesi suddetta.

Intervengono quindi i portavoce sia della prevalente tendenza moderata, favorevoli a lasciare le cose come stanno in attesa che i fatti diano loro ragione, sia della tendenza estrema, grosso modo massimalista-di-sinistra, fautori non solo dell'estensione generale del moto ma della sua politicizzazione (non escluso il via alla rivoluzione… per alzata di mano). Così debole è tuttavia la fiducia di questi ultimi in se stessi, e così scarsa la loro convinzione, che non appena il segretario del partito Gennari riassume il parere della Direzione nei termini che: "Non è conveniente in un documento pubblico svelare tutte le nostre batterie [...] Vedremo entro alcuni giorni cosa farà lo Stato e cosa farà il proletariato e vedremo se saremo trascinati o se invece il proletariato ci darà affidamenti, e allora passeremo alla lotta politica", essi "si inchinano", nonostante l'evidente codismo di una tale dichiarazione.

Abilmente, D'Aragona "non parla come segretario confederale". Prepara però con molta sottigliezza il terreno a quella che sarà definita da lui stesso pochi giorni dopo come la posizione ufficiale della CGL, compresi gli argomenti a suo sostegno, che sono poi quelli (come vedremo nel capitolo successivo) di tutta la destra riformista del PSI. Scegliamone due, trascurando quelli più smaccatamente demagogici. Primo: "Non credo che la conquista di un miglioramento salariale accontenterebbe il proletariato"; dunque, alle richieste economiche occorre "aggiungerne una di carattere politico per trasportare la vertenza dal terreno sindacale particolare a quello generale" - e sarà quella (per ora taciuta) del "controllo sindacale sull'industria". Secondo: "É convinto che se dessimo disposizioni di possesso generale delle fabbriche, tutti agirebbero", ma attenti: "per farle funzionare occorre anche il possesso delle banche, cosa un po' più difficile e per impedire la quale interverrebbe certamente il governo. E sarebbe questa una situazione ben grave, e domando chi si assume questa responsabilità". Che poi sia "necessaria l'estensione della presa di possesso a quelle fabbriche che negano le materie prime, e questo in accordo con le organizzazioni locali", egli ne conviene (e, a quanto risulterà il 9 sett., disposizioni in questo senso vennero date dalla segreteria della CGL subito dopo il convegno): ma non si pretenda di più.

Infine, uscendo dai limiti della questione puramente sindacale: è possibile in Italia la rivoluzione (nel senso bolscevico della parola), di cui si è parlato anche in quella sede? Citiamo la risposta non perché crediamo che avesse senso il quesito postogli proprio allora, ma perché essa anticipa una delle risposte correnti del riformismo: la rivoluzione in Italia "é spiritualmente preparata, la borghesia ne è mezza convinta; il soldato andrà col più forte. Ma il dilemma è nelle materie prime; entro quindici giorni non vi sarà più il carbone, indi chiusa la produzione […] Vogliamo fare la rivoluzione nel mentre ci troviamo di già fra le difficoltà presentateci dalla semplice presa di possesso degli stabilimenti?" E, anticipando la mossa ad effetto di cui si servirà pochi giorni dopo per assicurare la vittoria definitiva delle tesi riformiste sulla condotta ulteriore dell'occupazione: "Io non mi sento di assumere delle responsabilità che si risolverebbero nel massacro del popolo, e me ne vado anche perché sento che per dirigere occorre la maggiore disciplina e mi accorgo che questa manca in voi". Senso diffuso di panico: la riunione si avvia al suo anticlimax. Nel giro di un'ora, si stabilisce che le direzioni della CGL e del PSI, dopo aver discusso separatamente, riferiscano l'indomani pomeriggio sulle conclusioni raggiunte; che entrambe siano convocate a Milano per il giorno 8; che il 9 si riuniscano al completo CD confederale, Direzione socialista e Gruppo parlamentare; che il 10 si aduni il Consiglio nazionale della CGL. In attesa, il movimento prosegua sul binario attuale (22): e D'Aragona "non se ne va".

5 settembre, ore 15: D'Aragona dà lettura della mozione concordata fra le due direzioni. Il lungo documento ravvisa "nell'atteggiamento del padronato metallurgico il proposito di opporre un cieco e sordido egoismo di classe alle incessanti e prementi esigenze di miglioramento materiale e morale del proletariato", dichiara "l'incondizionata solidarietà" del convegno alle maestranze in lotta e "plaude al loro contegno risoluto". Ribadito l'impegno "ad agevolare la risoluzione della vertenza economica", proclama:

"Qualora, per l'ostinazione padronale e per la violazione della neutralità da parte del governo, non si giungesse ad una soddisfacente soluzione del conflitto, il convegno esprime il parere che il conflitto stesso, non potendo più essere circoscritto ad una sola categoria sindacale, debba essere affidato alla Confederazione Generale del Lavoro e alla Direzione del Partito, perché chiamino ed impegnino tutto il proletariato nella lotta contro il padronato che, per i propri bisogni particolaristici, compromette le superiori esigenze della produzione nazionale.

Perciò viene proposto agli organi competenti che alla lotta sia in tal caso dato l'obiettivo del controllo sulle aziende per arrivare alla gestione e alla socializzazione di ogni forma di produzione".

Accontentati tutti: via libera alle trattative; generalizzazione del moto soltanto in caso di un loro fallimento; obiettivo ultimo, ma proprio ultimo, in tal caso, controllo sulle aziende; fine remoto di questo, gestione collettiva della produzione. Gli organi competenti sindacali e politici siedano in permanenza a Milano: nel frattempo, wait and see, stare alla finestra: vigili, ma fermi. Le "superiori esigenze della produzione nazionale" lo esigono!

L'ambiguità verbale della mozione congiunta rispecchia e insieme alimenta le tensioni da cui è caratterizzato il momento politico e sociale. Essa auspica la ripresa delle trattative: ebbene, il periodo fra le riunioni del 4-5 e quelle del 9-11 vede moltiplicarsi i contatti dei mediatori governativi con D'Aragona e Buozzi, Turati e Treves, da un lato, e gli esponenti dell'ala moderata degli industriali, ai quali ora si unisce Giovanni Agnelli, dall'altro. La minaccia, sia pur condizionata, di estendere il movimento e di trasferirlo sul terreno politico fornisce d'altra parte al padronato metallurgico più intransigente il pretesto per rifiutarsi esplicitamente di riprendere le trattative qualora le fabbriche non vengano sgomberate e i responsabili di danni e violenze puniti, e dà nuova esca allo stato d'animo da vigilia dell'apocalisse di cui si fa eco specialmente il Corriere della Sera e che ben si rispecchia nella conversazione telefonica tra Albertini a Milano e Amendola a Roma del 15 settembre (23), mentre la stessa minaccia rinfocola la spinta operaia all'occupazione un po' dovunque di nuove fabbriche non metallurgiche, e l'illusione in questo o quello stabilimento di essere alla vigilia della "grande journée", anche per la sensazione che il fronte proletario si stia allargando, prove ne siano l'appoggio dei ferrovieri alle fabbriche occupate vuoi per la consegna delle materie prime, vuoi per l'avvio a destinazione dei prodotti, e i primi clamorosi esempi di occupazione delle terre nel Meridione. Infine, il governo si mostra sempre più insofferente della cocciutaggine degli industriali, e timoroso che essa spinga gli operai non solo a puntare i piedi, ma ad armarsi (24).

Su questa tela di fondo, agitata da moti e tendenze contraddittori, si svolgono le riunioni del 9-11/IX, decisive per gli ulteriori sviluppi e, infine, la conclusione del movimento.

9 settembre: riunione plenaria tra CGL e Direzione socialista. Apre Buozzi per informare che le trattative sono a un punto morto, avendo gli industriali posto come pregiudiziale la consegna delle fabbriche e la fine di ogni ostruzionismo, e per esprimere lo stato d'animo di "perplessità" in cui versano tutti i dirigenti della FIOM. Dopo una breve discussione sulle possibili vie di uscita sul piano delle trattative, scoppia la "bomba" Gennari. Prendendo lo spunto dall'agitazione in corso dei ferrovieri, il segretario del PSI dichiara a nome della Direzione che la situazione è divenuta nel giro di pochi giorni "di carattere eminentemente politico", non potendosi pensare "né che gli industriali cedano, e neppure che gli operai acconsentano senza serie concessioni", concessioni che gli industriali metallurgici, impegnati in una vera e propria "offensiva di avanguardia", non sono comunque disposti a fare se non, forse, a condizioni rovinose per "il paese" e, in particolare, per il proletariato. Propone quindi un o.d.g. che così conclude:

"Posta in tal modo la lotta, per volontà stessa della borghesia, sul terreno politico e di difesa delle organizzazioni di classe e delle conquiste finora ottenute; contro la minaccia dell'aggravarsi del danno protezionistico; contro il tentativo di paralizzare e sospendere la produzione industriale solo perché le fabbriche sono sottratte alla schiavitù del capitale - convinti che tale difesa non può essere compiuta dallo Stato borghese ma affidata solo al proletariato delle officine e dei campi - la Direzione del partito, con l'assistenza della CGL, avoca a sé la responsabilità e la direzione del movimento, estendendolo a tutto il paese e all'intera massa proletaria; invita il Gruppo parlamentare, con tutti gli organismi del partito e le organizzazioni aderenti alla Confederazione, con la disciplina dei momenti più gravi e con la maggior fermezza, a dar esecuzione a tutti i deliberati che verranno presi dai massimi organismi".

Lo stesso Gennari illustra molto confusamente il piano di quella che chiama una "rivoluzione all'inverso" (cioè prima economica, poi politica, anziché prima politica, poi economica, come vorrebbe la dottrina): "occupazione mano mano delle fabbriche"; proclamazione del carattere di stabilità dell'occupazione stessa, "non come ostaggio ma come vera presa di possesso, estendendo questa alle miniere, ai depositi di nafta, di materie prime, ecc."; accordi con i ferrovieri per i rifornimenti da fabbrica a fabbrica e con i marinai per impedire la fuga all'estero del naviglio; costituzione di organismi atti a regolare gli scambi e ad assicurare i finanziamenti; stretti contatti col proletariato agricolo in vista del lancio della parola d'ordine di occupazione delle terre. A questo punto,

"il governo sarà costretto ad uscire dalla neutralità, inquantoché la borghesia interverrà con le sue forze nella lotta. Questo sarà l'inizio dell'atto rivoluzionario. Ed ecco l'atto politico. Occorre preparare tutto l'organismo, costituzione immediata dei soviety, lotta a carattere comunista (all'esordio potranno essere dei comitati rivoluzionari). Sul terreno rivoluzionario dovremmo dire al Mezzogiorno: occupate i municipi, atto che è nelle tradizioni di quelle plaghe. L'occupazione dei comuni porterà alla sostituzione dei municipi con i soviety, trascineremo in tal modo tutto il proletariato agricolo. Così dovrà pure venire risolto il problema degli inquilini. Conclude sostenendo che la lotta per le ragioni suesposte deve passare dal campo economico a quello politico. Ciò nell'interesse superiore della collettività, assicurando il funzionamento pacifico della proprietà se lo concedono, violento se si oppongono" (25).

Sospesa e rinviata al pomeriggio, la seduta si riapre con un episodio che i riformisti abilmente sfruttano contro l'o.d.g. della direzione massimalista, piovuto dal cielo su un'assemblea ancora ferma alla "mozione concordata" del 5, su un CD confederale a tutto disposto fuorché ad impegnarsi nella preparazione di uno sbocco rivoluzionario, su un partito impreparato moralmente e materialmente a sostenerne il peso; un o.d.g. cosi poco convinto di se stesso, da proporsi, come vedremo, al voto del vertice sindacale convocato per il giorno dopo!

Venuta a riferire sulla "situazione politica, sindacale e difensiva" della città, e per avere a sua volta dei "chiarimenti", la rappresentanza torinese, consapevole della delicatezza della situazione e, a giusta ragione, diffidente sia dei vertici confederali, sia della direzione del partito (specie dopo l'amara esperienza dello sciopero di aprile), si esprime così per bocca di Togliatti, portavoce della sezione socialista locale:

"Se vi fosse un attacco contro le officine la difesa è pronta e sarebbe efficace; non così l'attacco. La città è circondata da una zona non socialista; per arrivare a trovare delle forze proletarie che aiutassero la città si dovrebbe arrivare sino a Vercelli e a Saluzzo. Vogliamo sapere se si arriva ad un attacco violento ed insurrezionale, vogliamo sapere quali sono i fini che si vuol raggiungere. Non dovrete contare su un azione svolta da Torino sola. Noi non attaccheremo da soli: per poterlo fare occorrerebbe una azione simultanea delle campagne e soprattutto un'azione nazionale. Noi vogliamo essere assicurati su questo punto perché non vorremmo impegnare altrimenti il nostro proletariato".

E ancora, reagendo al fuoco di fila di domande sulle capacità di difesa e di offesa del proletariato torinese e chiedendo che si considerino i problemi da un angolo nazionale, non locale:

"Voi avete la carta del gioco; voi dovete indicarci. In aprile eravamo meglio disposti che non ora. Del resto, la situazione attuale non l'abbiamo cercata, ci è stata imposta" (26).

A queste più che legittime preoccupazioni (condivise da tutti i delegati di Torino: "Difesa possiamo farne, offesa saremmo vinti - dice ad esempio Bensi per la federazione provinciale -. Vi sono degli stabilimenti bene armati, altri ben poco". E poiché si è parlato così alla leggera di rivoluzione: "Occorre franchezza e sincerità. La rivoluzione, se deve esservi, deve essere italiana, altrimenti le due città più spinte, Torino e Milano, saranno sopraffatte. Manca la preparazione"), i sommi duci sindacali non danno per ora nessuna risposta; ma se le ricorderanno per attingervi argomenti nel tentativo - riuscito in pieno - di invertire il corso impresso al convegno con incredibile demagogia dalla inattesa sortita della Direzione socialista.

Per intanto, essi si ritirano a discutere a porte chiuse l'o.d.g. presentato da Gennari ed esprimere un parere collegiale. Risparmiamo ai lettore un resoconto degli interventi dei massimi calibri confederali, da Baldini a Quaglino, da Baldesi a Buozzi e a Reina, limitandoci a riprodurre le parole di Baldini che tutti li riassumono: "L'ordine del giorno della Direzione è la logica conseguenza di tutta la predicazione consigliata e svolta dalla Direzione stessa. Essa deve forzatamente cercare una soluzione che possa apparire rivoluzionaria. Noi, invece, organismi sindacali, la dobbiamo respingere, perché esporremmo le nostre organizzazioni ad una sicura disfatta". Conclusione esposta da D'Aragona: Ritenendo impossibile "un atto violento di conquista del potere", la CGL "é collegialmente contraria al concetto di cedere la direzione del movimento alla Direzione del partito" e favorevole invece ad attenersi alla mozione congiunta del 5 settembre.

Qualche lume in più sui propositi di azione della CGL viene dallo stesso D'Aragona. Egli "non pensava che si potesse arrivare alla presa di possesso. Ora che ci siamo, si deve cercare di mantenere l'agitazione su un binario forte", e ciò significa sovvenzionare gli operai in lotta e porre decisamente sul tappeto (se non basta, con la minaccia di estendere l'agitazione) la richiesta al governo e al parlamento del controllo sindacale sull'industria: "La forza d'Italia, la sola sua ricchezza - spiega, dando nel patetico - sono i 40 milioni di braccia. A queste braccia occorre dare un potere e accordare ad esse una testa. La sostanza è in una soluzione da parte del governo che investa gli operai di un potere di controllo". Lo sbocco del movimento è cosi prefigurato; anzi, prefissato.

Seduta notturna fra Direzione socialista e CGL. Battibecco fra Gennari, che sottovaluta l'opinione espressa dai torinesi (questi "provinciali" che "vedono la questione solo attraverso la loro regione") e ribadisce, pur col solito possibilismo, l'o.d.g. della Direzione, e D'Aragona, il quale trae dalla relazione Togliatti la conferma che "un'azione a mano armata ci porterebbe ad essere soffocati" (27) e chiede alla Direzione del partito se è disposta ad "accedere a un'azione meno attiva di quella proposta" in modo da poter "incanalare" il movimento "per vie graduatorie, e questo soprattutto per impedire la reazione", ripetendo che "dovremo chiedere l'acquisizione [delle fabbriche] alla collettività solo allorquando disporremo di forze sufficienti". Insistendo a sua volta sulla tesi che "il controllo non basta; occorre qualcosa di più... Noi intendiamo fare un movimento risolutivo, non democratico, ma che tenda alla socializzazione", Gennari propone che la Direzione si ritiri a sua volta per esprimere un parere collegiale su quanto è stato detto dai dirigenti confederali, e al suo rientro dichiara che "quanto riferito dalla prima delegazione di Torino non preoccupa per nulla la Direzione stessa"; comunque, per una decisione definitiva… si può aspettare l'indomani. "Dalla discussione che dovrà avvenire nel Consiglio nazionale [della CGL] esciranno dei lumi [...]. Dovrà esso dire e giudicare se il movimento debba essere mantenuto sul terreno economico o portato, come giudica la Direzione del partito, sul terreno politico". è l'implicita rinuncia a sostenere la propria tesi; è la prima capitolazione del partito, con le sue velleità rivoluzionarie, di fronte al sindacato con il suo realismo gradualista. La seconda capitolazione verrà a breve distanza.

3. - La svolta

Indipendentemente dal corso involuto e spesso squallido del dibattito, è certo che ad una svolta, in un senso o nell'altro, l'occupazione delle fabbriche doveva arrivare. Non si poteva andare avanti estendendo il movimento, senza incappare nelle mille difficoltà messe e rimesse in luce da D'Aragona (28) e, di là da queste, senza porre la questione della proprietà dei mezzi di produzione e dei prodotti e, quindi, del potere politico: in questo senso aveva ragione la Direzione del partito. Solo che essa nulla aveva fatto per preparare il partito e le masse alla soluzione che ora, con leggerezza pari alla demagogia, improvvisamente prospettava, ben sapendo di spiccare un salto nel buio e di doversi quindi, prima o poi, tirare indietro cedendo il campo ai promotori di una soluzione sindacale concordata col governo e suscettibile di liquidare il movimento prima che fosse troppo tardi e il disastro diventasse inevitabile: in questo senso camminavano sul sicuro i dirigenti confederali. Il massimalismo doveva necessariamente battere in ritirata; con ciò stesso, segnava il proprio autosmascheramento, dava la prova palmare della propria demagogia e della propria impotenza.

Aperto la mattina del 10, il Consiglio Nazionale della CGL è chiamato, attraverso i delegati in quanto portavoce dello stato d'animo e delle condizioni di lotta degli operai nei gangli vitali del movimento, a scegliere fra quelle che D'Aragona chiama "tre vie" [corsivi nostri]:

"O si accetta di limitare l'agitazione alla stretta cerchia dei metallurgici nel campo del loro memoriale, dicendo ai metallurgici di trovare una soluzione sulla base del memoriale presentato... Oppure allargare l'agitazione sulla base delle deliberazioni da noi prese nel convegno di sabato e domenica scorsa [4 e 5 sett.], cioè, pur sostenendo l'agitazione dei metallurgici, estendere l'agitazione per ottenere per tutte le categorie provvedimenti che investano tutte le classi lavoratrici di maggiori poteri negli stabilimenti. Altra via che abbiamo davanti a noi è quella di allargare l'agitazione sino ad arrivare alle ultime conseguenze" (29).

Non è ormai più il caso di seguire i particolari e delle relazioni svolte, e dei dibattiti, e delle proposte eventualmente fatte dai delegati (30). Basti dire che: 1) a prendere posizione sono i fautori soltanto di due "vie", la seconda e la terza e, a giudicare dai rispettivi interventi, le due ali si equilibrano: nella votazione finale, prevarrà la seconda; 2) gli elementi estranei alla CGL invitati al convegno vengono subito ed esplicitamente esclusi dal voto: è il caso dei portuali genovesi di capitan Giulietti e degli anarchici, i quali ultimi nel già ricordato convegno del 7 a Sampierdarena si erano pronunciati per l'estensione del moto decidendo di occupare il porto - senza dubbio simbolico - di Genova, ma si erano poi lasciati convincere da un messo della CGL, un loro compagno inviato d'urgenza, a rinviare la decisione in attesa del convegno confederale del 10, dove l'occupazione generale - si disse loro - sarebbe stata decisa di comune accordo con tutte le forze proletarie d'Italia, e furono doppiamente beffati, primo perché li si fece intervenire a puro titolo consultivo, poi perché la decisione, data per sicura, non ci fu e il tempo perduto non poteva ormai più essere riguadagnato; 3) lo stesso dibattito dimostra l'enorme confusione regnante soprattutto fra gli "estremisti", per i quali "estensione del movimento" si identifica, pari pari, con rivoluzione, e rivoluzione con presa di possesso di tutto fuorché del... potere politico. Le tensioni, comunque, sono fortissime: è chiaro per tutti che le masse attendono impazienti una soluzione che non si limiti ad una serie di sia pur ragguardevoli miglioramenti economici.

Il vero nodo della riunione è nei discorsi mattutini e pomeridiani di D'Aragona e, assai più flebili, di Gennari. Nel suo primo intervento, il segretario della CGL sostiene: 1) La lotta non può più mantenersi sullo stretto terreno della competizione economica sulla base del memoriale FIOM: bisogna darle il significato di una lotta "per la conquista di una maggiore affermazione di diritto degli operai nel campo della fabbrica". 2) Che significa ciò? Significa il "controllo sindacale" su tutta l'industria, non solo sulla metallurgia, "con lo scopo di far conoscere meglio agli operai il funzionamento della produzione, perché gli operai investiti di queste capacità possano procedere più celermente alla conquista di ulteriori diritti, alla gestione diretta e alla socializzazione". 3) Il controllo sull'industria è indubbiamente "una riforma nei rapporti esistenti fra capitale e lavoro, cioè modifica la situazione dei rapporti in cui si trovano ora i lavoratori in confronto ai capitalisti". Ciononostante, noi riteniamo che l'agitazione per il controllo debba rimanere ancora sul terreno sindacale e, quindi, essere diretta dalla CGL:

"non si tratta che di un allargamento dell'agitazione, che non deve d'ora innanzi interessare i soli metallurgici, ma tutte le altre categorie".

Gennari ribatte che si è creata, "all'infuori della nostra volontà", una situazione rivoluzionaria, alla quale dobbiamo dimostrare di essere pari, "qualunque possano essere i nostri schemi", estendendo il movimento a tutta la massa e chiedendo "il massimo obiettivo", che è quello di "tendere a stabilire nuovi rapporti fra capitale e lavoro fino ad arrivare alla realizzazione dell'idea comunista", ivi compresa, ovviamente, la presa di possesso della terra. Ne segue che il movimento deve essere diretto dal Partito "con la collaborazione cordiale della CGL" e senza interferenze del Gruppo parlamentare (31). A questa linea di fondo si ispira l'ordine del giorno Schiavello-Bucco, che sarà votato in concorrenza con quello proposto da D'Aragona. Esso dice:

"Il Consiglio Nazionale della CGL, constatato che la situazione creatasi nel paese in seguito all'agitazione dei metallurgici non ammette soluzioni di natura economica, ed ha creato uno stato d'animo nella classe lavoratrice che, superati gli interessi di categoria, assurge ad alte aspirazioni di carattere politico, demanda alla Direzione del Partito l'incarico di dirigere il movimento, indirizzandolo alle soluzioni massime del programma socialista, e cioè la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio".

La mozione D'Aragona, dopo aver ripetuto che "la causa della mancata soluzione logica del conflitto deve ricercarsi nella caparbietà industriale", che il terreno della competizione sulla base del memoriale dei metallurgici è ormai superato e "il momento storico non consente più gli attuali rapporti tra padronato e lavoratori", conclude [corsivi nostri]:

"Approva le deliberazioni prese nel Convegno di Milano su proposta della CGdL e della Direzione del PSI, delle quali fa proprie le conclusioni, decidendo che la direzione del movimento sia assunta dalla CGdL con l'ausilio del Partito Socialista. Decide: che obiettivo della lotta sia il riconoscimento da parte del padronato del principio del controllo sindacale sulle aziende, intendendo con questo aprire il varco a quelle maggiori conquiste che devono immancabilmente portare alla gestione collettiva e alla socializzazione, per risolvere così in modo organico il problema della produzione. Il controllo sindacale darà alla classe lavoratrice la possibilità di prepararsi tecnicamente e di potersi sostituire (con l'unione delle forze tecniche ed intellettuali) con la propria autorità nuova a quella padronale che volge al tramonto. Incita i lavoratori del metallo a resistere con tutte le proprie forze sulle posizioni conquistate; richiama le organizzazioni tutte al rispetto delle disposizioni emanate e da impartirsi dalla CGdL, ed invita la Direzione del Partito a valersi dei suoi organi perché la definitiva soluzione del conflitto dei metallurgici porti ad ottenere che gli stabilimenti di questa industria tornino in gestione diretta delle maestranze, nell'interesse della collettività".

Conclude con un monito severo ad ogni organizzazione sindacale affinché concorra ad aiutare i metallurgici nelle forme che saranno stabilite, ricordando loro, inoltre, "che sarebbe tradimento il non rispetto alla più rigida disciplina".

Non si è però ancora giunti al voto. Il Consiglio deve prima ascoltare, fra le altre mozioni "rivoluzionarie in senso riformista", un discorso di Modigliani, il quale, per esorcizzare lo spettro di un dissenso incolmabile fra organo politico e organo sindacale, si ingegna a dimostrare che i due o.d.g. proposti non sono affatto in contraddizione: siamo tutti convinti di trovarci in periodo rivoluzionario e di essere ormai alla vigilia di realizzazioni socialiste: ebbene, il controllo sulle aziende proposte dalla CGL, "prima riforma radicale dei rapporti fra padronato e lavoratori", non è altro che "il secondo passo che noi compiamo verso la meta che ci siamo fissata". Consenziente, D'Aragona si premura poco dopo di affermare che "effettivamente siamo in periodo rivoluzionario", che il fatto di mettere all'ordine del giorno il controllo sindacale "é già un grande passo", e che il controllo stesso è "una semplice tappa" sul cammino verso il socialismo. E, avendo ribadito Gennari che la guida del movimento, essendosi questo spostato sul terreno politico, deve essere affidata alla Direzione del partito, si lancia nell'ultima, decisiva orazione. La divergenza, egli dice, non è sui fini ultimi ma sulla "valutazione del momento e delle forze che disponiamo":

"La direzione del partito crede che il momento sia maturo per un'azione a fondo, che il momento sia maturo per un atto rivoluzionario per la conquista del potere politico, per l'instaurazione della società comunista e per la dittatura del proletariato. - Noi non crediamo che il momento sia maturo. Questa è la divergenza, e l'abbiamo lealmente, onestamente dichiarato alla direzione del partito. E siccome sentiamo che, quando si iniziano movimenti come questo, è necessario che ci sia la maggior coesione fra gli organismi rappresentativi del proletariato, abbiamo detto alla Direzione del partito: o troviamo la possibilità di accordi, o, altrimenti, bisogna decidere nel senso che o l'uno o l'altro degli organismi deve assumere la responsabilità della direzione del movimento.

Noi non possiamo accedere alle vostre idee. Noi non possiamo accettare la valutazione del momento che fate voi. Voi credete che questo sia il momento per far nascere un atto rivoluzionario; ebbene, assumetevi la responsabilità. Noi, che non ci sentiamo di assumere la responsabilità di gettare il proletariato al suicidio, vi diciamo che ci ritiriamo e diamo le nostre dimissioni. Sentiamo che in questo momento è doveroso il sacrificio delle nostre persone; prendete voi la direzione del movimento, perché cosi sarete più sicuri di trovare nella CGL un'azione completamente in accordo col vostro pensiero e la sicurezza che l'organo che dovrà dirigere il proletariato abbia lo stesso concetto e gli stessi scopi vostri".

E giù con patetiche dichiarazioni sulla necessità che in certi momenti "si facciano sparire le proprie persone" perché non siano d'inciampo; sull'impossibilità di "resistere alle forze della borghesia" qualora si portasse tutto il proletariato in piazza; sul dovere, comunque, di marciare uniti come vuole il patto di alleanza fra PSI e CGL e, infine, sull'esigenza della massima disciplina, "perché se domani noi assumeremo la responsabilità di questa battaglia e poi troveremo che le camere del lavoro faranno quel che vorranno, voi capirete che non ci possiamo assumere questa responsabilità, perché non possiamo essere responsabili degli atti altrui". Finale da mozione degli affetti:

"Io mi auguro che voi che qui rappresentate il proletariato d'Italia sentiate la solennità del momento e la responsabilità. Voi dovete dire onestamente, col vostro voto, coraggiosamente il vostro pensiero: se credete che in questo momento dobbiamo portare le nostre falangi allo sbaraglio in un'azione a fondo", o se, tenuto conto della reale efficienza delle nostre forze, "siete per un azione graduale che marcia pure verso il fondo".

Così, una volta dichiarato da Buozzi che la federazione metallurgica si asterrà dal voto per non influire sulle deliberazioni che il Consiglio è chiamato a prendere, si passa alle urne: l'o.d.g. D'Aragona riscuote 591.245 si, quello Bucco-Schiavello 409.569; la maggioranza è di 181.676, gli astenuti 93.623. Nonostante tutto lo sfoggio di retorica, non si può dire che il vertice confederale abbia ottenuto una schiacciante vittoria.

Eppure, ecco l'altro e decisivo colpo di scena. Si alza Gennari, e ricordando che, secondo il patto di alleanza, "per tutte le questioni di natura politica si deve cercare un accordo fra la direzione del partito e la confederazione generale del lavoro: quando tale accordo non è raggiunto, la direzione del partito può assumere direttamente la responsabilità di avocare a sé la direzione del movimento, e la confederazione si impegna a non ostacolare il movimento", dichiara: "In questo momento la direzione del partito non intende valersi di tale facoltà [...] Di fronte alle necessità inderogabili della lotta, prende atto del voto del consiglio nazionale della confederazione e dichiara di fiancheggiare il movimento, riservandosi eventualmente il diritto di avocarne a sé la direzione per mutate circostanze".

Così, senza neppure spiegare i motivi del gesto, e con tutta l'aria di aver fretta di allontanare da sé l'amaro calice di assumersi la guida del moto, la Direzione massimalista abdica. La CGL non può che porgerle i suoi ringraziamenti:

"Noi eravamo sicuri che la direzione del partito non poteva abbandonare la nostra organizzazione in un momento così grave e difficile. Noi possiamo assicurare la direzione del partito che, quando essa crederà opportuno di assumere la responsabilità completa della direzione del movimento, noi, così come oggi abbiamo offerto tutte le forze confederali, lo faremo anche quel giorno".

Va a finire che gli eroi dell'abnegazione sono loro! (32)

4. - La fine

Se il successo ottenuto dalla CGL nell'avocare a sé la direzione del moto fece tirare un respiro di sollievo sia ai vertici del massimalismo, cosi liberati dall'amaro calice di responsabilità storiche alle quali si sapevano impari, sia ai pazienti mediatori governativi, convinti che la rivoluzione fosse stata davvero alle porte e che sarebbe divenuta realtà se la palma della vittoria al Consiglio nazionale della CGL fosse arrisa agli "estremisti" e, per essi, alla Direzione del partito; e se l'annunzio di una svolta verificatasi così "in dolcezza" nel movimento segnò l'inizio di un frattura sempre più profonda nel blocco già più o meno unito degli industriali, a tutto vantaggio dell'ala moderata della Confindustria; se l'esito del convegno di Milano fu accolto con delusione e rabbia da una parte della classe operaia ma non poté non essere accolto invece con un senso rassegnato di soddisfazione da quanti, fra i lavoratori, sentivano di più il peso della mancata corresponsione della paga e dell'incertezza dell'avvenire; se tutto questo è vero, è anche vero che di primo acchito l'idea, d'altronde formulata in modo così vago, del controllo sulle industrie non mancò di sollevare dubbi e perplessità non solo nei suoi più diretti avversari (primo fra tutti il Corriere della Sera con i suoi Albertini ed Einaudi, che subito gridarono allo scandalo), ma, in parte, nello stesso presidente del consiglio. In una lettera al solito Corradini in data 12/IX, questi aveva indicato come "soluzione definitiva della questione industriale" una forma di "interessenza operai nell'industria con partecipazione utili, anche occorrendo sotto forma azioni godimento, e soprattutto partecipazione di rappresentanti operai nei Consigli di Amministrazione, cosicché conoscano le vere condizioni delle industrie e l'ammontare degli utili" (33), un po' come vedevano le cose gli uomini della CIL e del Partito popolare di Don Sturzo. Ora il controllo di cui parlava la mozione conclusiva del Consiglio nazionale della CGL implicava qualcosa di più, e di pericoloso, perché lesivo del sacro principio della proprietà. E fin dove si sarebbe esteso?

In questo interludio, misto di sollievo e di preoccupazione, toccò specialmente a Turati diradare gli ultimi dubbi di Giolitti e compagnia. Non sì conoscono i verbali dei frequenti contatti avuti da lui come da Treves e da altri in quei giorni con esponenti centrali o periferici del governo: il nocciolo tuttavia della posizione da lui sostenuta risulta da una sua lettera un po' più tarda (19 sett.) a Camillo Corradini, il quale gli aveva scritto preoccupato che i Consigli di fabbrica eventualmente da istituire ai fini del controllo togliessero "la direzione della vita interna e della disciplina alla direzione delle fabbriche, emanazione degli industriali". Ebbene, Turati, con una chiarezza che non si sarebbe potuta permettere parlando o scrivendo in pubblico, risponde che non solo non è il caso di "troppo impensierirsi della frase sul controllo delle fabbriche", inevitabile dato l'andamento e il carattere politico assunto dalla vertenza, ma un simile sbocco,

"se sappiamo ben manovrare, potrà essere un risultato universalmente utile. Forse mai una rivoluzione economica, potenzialmente assai più profonda che non appaia alla superficie, sarà stata fatta con così piccolo dispendio di forze e con minori sacrifici. Al buon esito di questa lotta è legato, forse più che non paia, il rinascimento economico, e quindi anche finanziario, del Paese. Spero di poter aggiungere un nuovo capitolo al mio Rifare l'Italia (34) […] Il punto difficile - e il veramente più importante - è questo: che il nuovo congegno sia formato con tale spirito, da stimolare e non da inceppare la produzione, ossia - che è psicologicamente la stessa cosa - da elevare il senso della dignità del lavoratore come cointeressato e come compartecipe alla produzione 'a beneficio della collettività' (impiego la frase dei nostri ordini del giorno). In altre parole: collaborazione del lavoro con l'impresa (e non antagonismo e lotta meccanica demolitrice); e collaborazione del lavoro e dell'impresa con l'interesse pubblico e dei consumatori, più o meno rappresentato dallo Stato" (35).

Scendendo nei particolari, Turati propone la convocazione immediata della Camera investendola della questione; in caso di resistenza degli industriali, la presa di possesso delle fabbriche da parte dello Stato a titolo di sequestro conservativo; il controllo affidato non ai consigli di fabbrica, ma ai sindacati, "avviandoli a collaborazioni e a visioni più vaste, nell'interesse nazionale"; l'aggiunta, nei futuri organi di controllo, oltre alle rappresentanze del capitale e del lavoro, di quella dello Stato "come rappresentante degli interessi generali e particolarmente dei consumatori, come moderatore degli interessi in contrasto, e per i suoi interessi fiscali". Fossero o no gli stessi, alla lettera, i piani dei dirigenti massimi della CGL, lo spirito ne era il medesimo (e i lettori ne facciano tesoro: è qui tutta la filosofia del riformismo non solo di allora ma, a maggior ragione, di oggi). Il 14, la CGL aveva già trasmesso al governo il seguente, rassicurante documento:

"La CGdL, presa in esame la questione della produzione in Italia, ha constatato che, per avere un maggior gettito di prodotti, assolutamente necessario a ristabilire l'equilibrio fra consumo, assai accresciuto per i maggiori bisogni e per le nuove condizioni di vita, e produzione, assai diminuita per vari coefficienti procurati dalla guerra; per ridurre le importazioni e conseguentemente agevolare il ristabilirsi del corso normale dei cambi, nonché per evitare che una imperfetta conoscenza delle condizioni dell'industria permetta agli industriali asserzioni incontrollabili e agli operai richieste di miglioramento che potrebbero anche non essere consentite, occorra modificare i rapporti fino ad ora intercorsi fra datori di lavoro ed operai, in modo che questi ultimi - attraverso i loro sindacati - siano investiti della possibilità di conoscere il vero stato delle industrie, il loro funzionamento tecnico e finanziario, e che possano a mezzo delle loro rappresentanze di fabbrica - emanazione dei sindacati - contribuire all'applicazione dei regolamenti, controllare l'assunzione e i licenziamenti del personale, e favorire così il normale svolgersi della vita di officina con la disciplina necessaria. Per ottenere tale scopo la CGdL ritiene indispensabile procedere immediatamente alla costituzione di una commissione a rappresentanza paritaria, la quale stabilisca in maniera particolareggiata metodi e modi di applicazione del principio del controllo delle aziende" (36),

dove balza agli occhi la volontà della CGL d'essere parte integrante del processo di risanamento dell'economia nazionale, di cointeressare alle sorti di quest'ultima la classe operaia, di svolgere funzioni disciplinari in fabbrica, e di concepire il controllo come puro mezzo di informazione degli operai, anche perché... non chiedano troppo, "compatibilmente" - oggi si direbbe - con le esigenze generali e l'interesse collettivo del Paese.

Rassicurato da questa parte, e confortato sull'altro versante dall'orientamento conciliante di un solido gruppo di industriali e finanzieri (Agnelli e Falck, Conti e Toeplitz, ecc.), Giolitti comunica ai dirigenti delle due organizzazioni finora nemiche il desiderio di incontrarle a Torino, dove egli sì troverà di ritorno da un convegno con il primo ministro francese ad Aix-Les-Bains (viaggio messo in particolare risalto come prova dell'immutata serenità del capo del governo circa la situazione interna, checché ne pensino gli Albertini, gli Amendola e tanti altri). L'invito è accettato, e le due delegazioni fanno, non solo simbolicamente, il viaggio nello stesso treno. A Torino, le prime battute dell'incontro sembrano escludere ogni prospettiva d'accordo, finché lo stesso Giolitti non taglia corto dichiarando che "occorre dare ai lavoratori il diritto di conoscere, di imparare, di elevarsi, di essere insomma posti in condizioni di concorrere a stabilire l'andamento dell'azienda e assumere una parte di responsabilità" (37). Di rincalzo, D'Aragona svolge gli stessi concetti a sfondo patriottico-produttivistico che abbiamo sentito formulare da Turati, e la discussione, prima di raggiungere il punto di rottura, è di nuovo troncata dal presidente del consiglio, che sottopone alle parti la bozza di un decreto legge bell'e pronto per la nomina di una commissione paritetica (6 e 6 membri) incaricata di "formulare le proposte da sottoporsi al governo per la presentazione di un progetto di legge sul controllo sindacale" (38). Le delegazioni non possono che aderire: affare fatto!

Il "colpo di fulmine" coglie a Milano gli industriali in seduta di consiglio: la levata di scudi è quasi generale, ma l'assemblea si lascia infine convincere ad accettare "il principio di un controllo sull'industria aperto in base a provvedimenti legislativi, quando esso non stabilisca né monopoli né prevalenza per le organizzazioni sindacali e significhi collaborazione e corresponsabilità dei vari elementi della produzione", collaborazione e corresponsabilità che Turati e D'Aragona hanno già più volte assicurate. Saggiamente, alcuni industriali fra quelli che mal digeriscono la soluzione infine raggiunta pensano, in ogni caso, che la legge sul controllo sarà, è vero, depositata in parlamento, ma non sarà neppure discussa: rimarrà nel cassetto della presidenza. E così fu!

Superato lo scoglio del controllo sindacale, almeno come "principio", le questioni economiche vengono rapidamente risolte grazie ad un accordo raggiunto il 19 a Roma, che (si badi bene) accoglie solo in parte le originarie richieste operaie in materia di salario, e sarà quindi giudicato insoddisfacente da buona parte delle maestranze, specie se raffrontato alla durezza dei sacrifici sostenuti e alle speranze alimentate in una così coraggiosa ed impegnativa battaglia: comunque, sugli aumenti e sui minimi di paga, sul pagamento dello straordinario, sul caroviveri, sulle ferie annuali e sulle indennità di licenziamento una linea mediana viene tracciata, mentre la questione dei licenziamenti e delle punizioni viene risolta dando un colpo alla botte e l'altro al cerchio, cioè decretando che tutto il personale rimanga al suo posto, ma deferendo a speciali commissioni paritetiche il giudizio (e relativa eventuale punizione) di casi particolari di indisciplina o violenza; analogamente, saranno pagate le giornate di ostruzionismo, ma circa il pagamento o meno di quelle di occupazione decideranno le direzioni aziendali dopo un attento esame della situazione in cui, a sgombero avvenuto, si troveranno le imprese. Viene infine istituita la famosa e, come risulterà, del tutto vana commissione paritetica, non senza rinnovate assicurazioni cigielline di volontà di collaborazione per il bene e nell'interesse del Paese (39).

Il 21-22/IX, al congresso straordinario della FIOM, il concordato di Roma suscita accese discussioni: passa infine a maggioranza un o.d.g. Buozzi che lo approva, addita nell'esercizio del controllo una via mediante la quale "il proletariato potrà più efficacemente e più prontamente difendere i suoi diritti e il suo lavoro entro le officine, ed impadronirsi di tutti gli elementi di produzione che varranno ad accrescere la sua capacità tecnica e a rendere più rapida e radicale [udite! udite!] l'azione dei sindacati per la soppressione del padronato", e decide di "sottoporre al referendum di tutti gli operai il [suddetto] ordine del giorno", invitando "gli operai stessi a restare al loro posto fino a che l'organizzazione non abbia dato ordine di sgombero". Si deve però notare che un o.d.g. risultato minoritario e di ispirazione anarcosindacalista, "premesso che il movimento degli operai metallurgici aveva assunto l'aspetto di un vero movimento espropriatore, lusingando le speranze rivoluzionarie degli operai, che intravedevano nell'allargamento dell'occupazione a tutte le industrie, compresi i servizi pubblici, la realizzazione immediata delle aspirazioni comunistiche [il che era vero, ma denotava anche un grado elevato di generosa ingenuità]; premesso che queste speranze vennero frustrate dal voto emesso dal Consiglio nazionale del 10-11 c.m. che manteneva sul terreno sindacale il movimento, e di cui il verbale di accordo di Roma è la logica conseguenza", dichiarava di "subire il medesimo (riservandone agli operai la ratifica)", a condizione però che fosse almeno corredato da garanzie contro ogni genere di rappresaglia, il rifiuto di pagare agli occupanti la produzione effettuata durante l'occupazione, ecc.

In realtà, se le decisioni dei convegni del 4-5 e del 9-11 avevano esercitato sulle grandi masse un effetto disorientante e, per ciò stesso, deprimente, la conclusione della vertenza trovò queste stesse masse in uno stato d'animo di diffusa stanchezza, sul quale pesavano come fattori oggettivi di scoramento e di inerzia il mancato pagamento dei salari, il timore di rappresaglie e licenziamenti (che infatti si verificarono, in barba ad ogni clausola del concordato), la sensazione di aver sudato lavorando disciplinatamente senza alcun costrutto e nello stesso tempo costringendo le punte avanzate e più politicizzate del movimento a "subire", certo, il fatto compiuto, ma anche ad insorgere contro una condotta politica del movimento che frustrava illusioni a lungo e con grande leggerezza intrattenute dai dirigenti, senza d'altra parte conseguire risultati soddisfacenti neppure sul terreno strettamente economico. Mozioni di censura dell'operato dei vertici della FIOM e della CGL piovvero sia da Torino, sia da Milano e da Genova; al tradimento non gridarono soltanto gli anarco-sindacalisti; a Milano i massimalisti di sinistra fortemente rappresentati nella CdL protestarono con vigore contro il modo con cui si era prima condotta e poi conclusa la vertenza; a Torino si ebbero i soli - benché limitatissimi - episodi di violenza e di scontri di strada (con qualche morto e numerosi feriti) registratisi in tutto il settembre; nella stessa città la collera per come si erano comportati durante tutta l'occupazione delle fabbriche i vertici sindacali e politici riformisti e massimalisti suggerì alla sezione astensionista (40) il passo falso di chiedere la scissione immediata dal PSI (vedi anche, per maggiori particolari, il capitolo successivo), e un po' dovunque manifestazioni di malumore e di dissenso si registrarono nelle settimane successive. Lo stesso referendum vide, si, la vittoria delle tesi confederali, ma su un numero di votanti di gran lunga inferiore al numero degli iscritti ai sindacati, non parliamo poi dei partecipanti all'occupazione: a Torino, i prevalsero solo di strettissima misura. Che tuttavia la tendenza diffusa fosse di chiudere un esperimento sentito ormai come fallito, risulta dal fatto che lo sgombero ordinato subito dopo dalla FIOM avvenne dovunque in buon ordine fra sventolii di bandiere rosse e inni rivoluzionari. L'occupazione era stata pacifica: pacifica, ma in uno stato d'animo inverso, fu l'uscita dalle fabbriche. Il cerchio si era chiuso.

Stanchezza e apatia da un lato, collera impotente dall'altro: come stupirsene? Se era stato ingenuo illudersi che un movimento le cui caratteristiche abbiamo cercato di illustrare nel modo più obiettivo potesse avere uno sbocco rivoluzionario, era però lecito aspettarsi quanto meno che un'azione di quella vastità, di quella spontaneità, di quella compattezza, di quella disciplina si concludesse con risultati economici ben più consistenti, e con conquiste sul terreno normativo ben più tangibili, di quelli di cui la FIOM e la CGL avevano la faccia di menare vanto, nascondendosi dietro l'illusorio paravento di un "controllo" destinato a rivelarsi in ogni caso una lustra (il decreto legge del febbraio 1921 morì di morte naturale alla Camera, prima ancora che si cominciasse a discuterlo) e che, quand'anche avesse visto la luce, avrebbe assolto un solo compito concreto - quello di favorire non il sovvertimento ma la conservazione dell'ordine costituito.

Si deve dire a questo proposito che il "mito del controllo" non solo, mentre durava l'occupazione ed esso era agitato come semplice parola d'ordine, ebbe di per sé l'effetto di indebolire il movimento cullandolo nell'illusione di disporre di forze irresistibili proprio quando, sul terreno reale della lotta, perdeva di slancio, ma continuò ad esercitare un'azione soporifera per settimane e mesi dopo che le fabbriche erano state sgomberate, via via che i dirigenti politici e sindacali socialisti si sbizzarrivano in speculazioni sulle forme, gli obiettivi e il significato del controllo, e così ne mantenevano vivo e caldo il fantasma (41).

In altri termini, se, a vertenza ancora aperta, la parola d'ordine del controllo sindacale era servita a seminare di fatali illusioni la già difficile via del movimento di difesa operaia, nel periodo successivo allo sgombero essa contribuì a ritardare la ripresa delle lotte di classe nel momento stesso in cui la borghesia, dopo aver fatto buon viso al metodo "indolore" di governo dei contrasti sociali, spostava il baricentro delle sue simpatie e dei suoi appoggi verso i teorici e i praticanti del metodo sbrigativo della violenza aperta: il fascismo nella sua veste più brutale, quella squadrista.

Lo Spriano può parlare, a proposito del concordato di Roma, di "successo notevole" della FIOM: in realtà, anche solo sul terreno rivendicativo, se si pensa alla portata enorme dell'agitazione, fu una sconfitta, e tale fu sentita, o con rassegnazione o con rabbia, da coloro che vi avevano attivamente partecipato. L'occupazione delle fabbriche ebbe quindi immediati riflessi sul processo di maturazione, in una minoranza dei massimalisti, del riconoscimento della necessità della scissione: essa aveva dimostrato la completa sudditanza del massimalismo alla destra riformista, l'irresponsabilità massimalista nel predicare la rivoluzione senza far nulla per preparare ad essa il partito e la classe operaia, la confusione nelle questioni generali e particolari di principio nella quale esso nuotava, l'incapacità di intervenire negli stessi movimenti rivendicativi per imprimere loro una maggiore incisività ed estensione; aveva dimostrato che, con la duplice palla al piede di un riformismo orientato (anche se con mille esitazioni) verso la partecipazione ministeriale e, comunque, "intrinseco" (come è stato detto di Turati) alla politica giolittiana e, in genere, democratico-liberale, quindi incline a liquidare anche le forme più elementari di lotta sindacale, e di un massimalismo vacuo ed imbelle al servizio della destra, non solo la preparazione rivoluzionaria, ma la stessa difesa delle condizioni di vita e di lavoro degli operai, sarebbero ormai state impossibili. Per molti che erano rimasti sordi alla propaganda del Soviet e in genere degli "astensionisti", fu quello il banco di prova definitivo della giustezza, se non altro, della rivendicazione di una rottura irrevocabile con il PSI.

Ma intanto, il movimento era stato costretto a rifluire e, come sempre, il riflusso lasciò dietro di sé delusione, smarrimento, demoralizzazione.

Dai primi inizi della vertenza a fine luglio, attraverso l'ostruzionismo e l'occupazione delle fabbriche, fino allo sgombero di queste ultime e ai suoi strascichi, il movimento era corso parallelo ad una serie di attacchi delle forze dell'ordine e alle prime avvisaglie di incursioni fasciste, senza che i sindacati pensassero a saldare le due manifestazioni di protesta e di difesa operaia. Chiusi nella fabbrica con scarse possibilità e incitamenti a guardare al di là delle sue mura, diretti dai teorizzatori dell'avvenuto "superamento" dello sciopero, specie se generale, e della pacificazione fra le classi, i lavoratori ebbero poca e scarsa nozione dell'assassinio di 4 operai il 2 il 3 agosto a Millesimo e Savona, dei 3 proletari uccisi in scontri con la polizia a Firenze il 29 durante una manifestazione contro la politica governativa verso la Russia, e assistettero senza che nessuna direttiva giungesse dalla CGL e dalla FIOM per un'azione di solidarietà allo sciopero di protesta, durato dal 2 all'8 settembre, in tutto il Friuli-Venezia Giulia, contro il divieto ad opera delle Autorità, "per imposizione - scrive l'Avanti!, ed. torinese, del 5 sett. - dei fascisti", di un comizio politico (il 6 i carabinieri devastano il Circolo socialista e la CdL; squadristi aggrediscono G. Passigli); ignorarono probabilmente che l'1/IX a Napoli era stato ucciso un portuale e che, il 23, era stata devastata la CdL di Pola. A sgombero avvenuto, gli scontri si infittirono, e la resistenza si afflosciò ancor più: attentato a V. Vacirca l'11/X, sciopero generale il 14 in difesa della Russia bolscevica con assalto fascista al Lavoratore a Trieste, e feriti ad opera della forza pubblica a Milano e Brescia; 21 morti e 30 proletari feriti per altri motivi a S. Giovanni Rotondo (Bari) lo stesso giorno; sparatorie della polizia sulla folla a Bologna il 15; assassinio del deputato socialista Scarabello a Verona il 4/XI dopo un comizio fascista ed assalto al Comune "rosso".

Lo stesso mese di novembre segna l'inizio dell'offensiva squadrista - non più saltuaria, ma in grande stile - nella Pianura Padana e nella Venezia Giulia - incendio del Lavoratore, distruzione della C.d.L di Fiume, ecc. -, scatenatasi proprio in base alla convinzione dell'indebolimento del movimento operaio, della demoralizzazione seguita alla fine dell'occupazione delle fabbriche, e dell'euforia diffusa nel PSI dalle vittorie conseguite alle elezioni amministrative (cfr., più avanti, i cap. III e, soprattutto, VII). Anche questo - e non è poco! - va messo in conto della sciagurata "gestione" socialdemocratico-massimalista dell'occupazione delle fabbriche.

5. - Il lascito dell'occupazione delle fabbriche

In polemica indiretta col trotskismo, uno dei nostri primi testi di partito (42) annota: "É priva di senso la pretesa analisi secondo cui vi sono tutte le condizioni rivoluzionarie ma manca una direzione rivoluzionaria. è esatto dire che l'organo di direzione è indispensabile, ma il suo sorgere dipende dalle stesse condizioni generali di lotta". Ciò vale, in tutto e per tutto, nel caso dell'occupazione delle fabbriche e del mito, creatosi intorno ad essa non solo in larghi strati della sinistra massimalista e di gruppi operaisti e spontaneisti, ma nella stessa Internazionale, della "rivoluzione mancata". Scrive giustamente il Cortesi: "Anche riguardo all'occupazione delle fabbriche - anzi, soprattutto riguardo ad essa perché il settembre 1920 è rimasto nella tradizione politica di parte operaia e anche in certe interpretazioni storiografiche come il momento della occasione perduta, l'acme dell'offensiva di classe nel dopoguerra - non si può fondare un discorso sulle possibilità rivoluzionarie esistenti in quei giorni e con quella data attrezzatura di lotta. Il problema è da osservare invece dall'angolo visuale dell'assenza di ogni tentativo rivoluzionario e di ogni preparazione rivoluzionaria, sia sul piano della dirigenza socialista e sindacale, sia sul piano della strategia, della tattica, della esperienza che devono precedere di lunga mano l'atto di forza e che riguardano un numero considerevole di militanti, nel contesto più vasto delle masse proletarie e popolari" (43).

Mancavano quelle che abitualmente si chiamano le condizioni oggettive e soggettive dell'attacco rivoluzionario - la classe operaia era (e si dimostrò allora come negli anni immediatamente successivi) pronta alla difesa e fermamente decisa a sostenerla; ma non era né preparata materialmente all'offensiva, né sollecitata ad intraprenderla da una situazione sociale montante; la classe dominante, ripresasi dallo choc seguito alla fine della guerra, poteva contare su un apparato statale diretto con intelligenza da un Giolitti in vena riformista ma ben disposto sia a tollerare, sia a coccolare e foraggiare il fascismo; le forze dell'ordine, rafforzate dalla Guardia regia, avevano dimostrato di saper fare, senza tanti complimenti, "il proprio dovere"; l'onda del malcontento popolare tendeva a rifluire nell'atto in cui i successi elettorali e parlamentari socialisti creavano nelle file proletarie una mortifera illusione di vittorie già assicurate. Mancava nello stesso tempo - ma anche questo era un aspetto dell'immaturità della situazione - la guida politica rivoluzionaria; l'assoluto prepotere della destra riformista nel PSI e l'impotenza ammantata di demagogia del massimalismo paralizzavano, condizionandola ad ogni pié sospinto, qualsiasi reazione di classe, anche elementare e confusa, all'offensiva capitalistica; la stessa direttiva dell'"occupazione" legava le mani alla classe lavoratrice in generale e, a maggior ragione, alle sue ali più battagliere, chiudendole nella prigione del luogo di lavoro invece di lanciarle, volenti o nolenti, nella piazza, contro i commissariati e le prefetture, come la nostra corrente aveva indicato se veramente il proposito fosse stato di arrivare ad uno sbocco rivoluzionario. Di questa situazione negativa era cosciente soprattutto la frazione astensionista, la cui "martellante polemica", dice ancora giustamente il Cortesi (e lo citiamo come testimone non di parte nostra), "non si fondava sopra la possibilità immediata della rivoluzione [...] ma sulla creazione degli strumenti che in date condizioni [mai presentate, aggiungiamo noi, come esistenti allora] potessero esserne la guida e la garanzia di vittoria sul piano della forza" (44) e che, d'altra parte, aveva tanto denunziato per tempo il criminoso nullismo massimalista come ostacolo non meno grave dell'opportunismo gradualista e riformista sulla via della rivoluzione, quanto aveva disperso le illusioni circa il valore in sé rivoluzionario dei consigli di fabbrica e circa l'identificazione della presa del potere con l'occupazione del luogo di lavoro (45). Benché in modo assai meno chiaro e, soprattutto, meno tempestivo, mostrarono di rendersene conto gli stessi militanti di formazione "ordinovista" che pure, trovandosi in uno dei punti nodali del movimento - Torino -, avrebbero dovuto buttarcisi a capofitto, e a giusta ragione (ripetiamolo) non lo fecero. Di Togliatti, e della sezione torinese del Psi di cui egli era un esponente, si è visto; ma perfino Gramsci, pur baloccandosi al primo inizio dell'occupazione con frasi come: "le gerarchie sociali sono spezzate, i valori storici sono invertiti", o: "la prima cellula della rivoluzione proletaria che scaturisce dalla situazione generale con la forza irresistibile dei fenomeni naturali", e che "oggi, domenica rossa degli operai metallurgici, deve essere costruita dagli operai stessi" (46), e pur riprendendo a vertenza conclusa la tematica consiliare - come noteremo nel prossimo capitolo -, vide lucidamente, nei giorni "caldi" dell'occupazione, l'impasse in cui la direzione riformistico-massimalista del movimento e, insomma, l'assenza del partito rivoluzionario comunista mettevano i lavoratori (47); "pessimista" (come egli stesso si definirà quattro anni dopo, rievocando quei giorni (48)) sulla sorte che attendeva l'intera agitazione, si adoperò - come risulta da testimonianze di Battista Santhià, riferite da G. Bosio nell'introduzione al volume più volte citato, e di Alfonso Leonetti nel numero speciale anch'esso già citato della rivista Il Ponte, entrambe sicuramente attendibili - per trattenere gruppi di operai coi quali era in contatto sia dal cullarsi in illusioni di facili sbocchi rivoluzionari, sia dal lanciarsi in iniziative spericolate, quando la FIOM portava "gli operai a condurre una lotta fuori della legalità senza pensare alle conseguenze, senza pensare ad armarli" (come dirà ad occupazione finita) e mentre non v'era alcuna "certezza che anche nel resto d'Italia si sarebbe lottato ugualmente [... e che] la Confederazione, secondo il suo solito, non avrebbe lasciato addensare a Torino, come nell'aprile, tutte le forze militari del potere di Stato" (come scriverà un anno dopo (49)).

Non è solo vero che fin dall'inizio "il gruppo considerato il più 'scalmanato', e tanto criticato per i fatti di Torino dell'aprile, quello dell''Ordine Nuovo', si mostra più che scettico, preoccupato dall'imminente lotta, per il modo come vi si avvicina e per il momento in cui sta per aprirsi"; è vero che esso, come gruppo organizzato e, soprattutto, come nucleo dirigente, a cominciare proprio da Gramsci, non ebbe alcuna parte direttiva negli sviluppi del movimento, anche perché una crisi profonda lo aveva investito alla fine di luglio, praticamente sciogliendolo dopo che la polemica Tasca-Gramsci (50) l'aveva già profondamente incrinato.

Fu, si badi, una crisi a nostro avviso salutare, anche se non priva di incertezze, che vide la grande maggioranza del gruppo ordinovista attestata sul fronte della lotta per la costituzione del partito di classe (i Terracini, i Togliatti, i Leonetti, i Tasca) e un esile drappello capeggiato da Gramsci appartatosi in una posizione sostanzialmente di puro studio e propaganda intorno ai temi caratteristici dell'ordinovismo.

L'occasione era stata offerta dalle elezioni per la nuova Commissione esecutiva della Sezione socialista torinese, in vista della quale, il 24/VII, vennero redatte due mozioni, una dei "comunisti elezionisti", che ottenne 141 voti con conseguente elezione alla CE di Montagnana, Roveda, Togliatti, Terracini, l'altra dei "comunisti astensionisti", che riscosse 54 voti, mentre un gruppo di 7, fra cui Gramsci, Santhià e Viglongo, si limitò a presentare una "semplice dichiarazione" alla quale andarono 17 suffragi. Brevemente, si può dire che la prima si muova sulla traccia della (tutt'altro che "ordinovista", come abbiamo dimostrato altrove (51)) mozione "Per un rinnovamento del Partito Socialista", invocando l'"epurazione" del partito ("condotta - si sostiene ancora - senza spirito settario, ma con la massima energia", rifuggendo sia da una scissione immediata, sia da "numerose espulsioni"); esclusione di tutti gli appartenenti all'ala destra e al centro del partito da qualsiasi carica direttiva; disciplina "ferrea"; avvio di stretti contatti con le altre sezioni e federazioni in modo che si possa giungere "anche alla scissione senza pericoli gravi per la compagine del movimento socialista politico ed economico"; esigenza di porre all'ordine del giorno la questione dell'armamento del proletariato; costituzione e rafforzamento dei Consigli di fabbrica, di cui si afferma "il valore rivoluzionario", ma più che altro come mezzo, unitamente ai gruppi comunisti nelle fabbriche e nei sindacati, per la conquista dell'organizzazione sindacale, sottraendola alla influenza dei socialdemocratici e non propugnandone la scissione; partecipazione alle elezioni "non illudendo le classi lavoratrici sulla possibilità di riforme immediate e concrete, ma per fare un'affermazione politica, per strappare un'altra posizione alla borghesia e per gettare le basi degli organismi essenziali della futura società" (formulazione ancora ben lontana da quella che darà al problema il II congresso mondiale, non diciamo poi da quella del Soviet); provvedimenti per ridare vitalità e slancio ai circoli educativi, al quotidiano, all'attività di studio e propaganda "delle soluzioni comunistiche dei 5 problemi fondamentali della vita operaia: pane, casa, vestito, scuola, libertà", e così via.

Della mozione astensionista è da dire soltanto che riprende i cardini fondamentali delle "Tesi" votate da poco al Convegno della Frazione: costituzione del Partito comunista come obiettivo prioritario; eliminazione dei "riformisti e controrivoluzionari" dal PSI; conquista dei sindacati e degli organismi proletari in genere; sollecita creazione dei gruppi comunisti nelle organizzazioni operaie; agitazione antimilitarista; propaganda dei principi "sui quali si fonderà il sistema di rappresentanza dei Soviet"; intensa propaganda fra i piccoli contadini; astensione da ogni competizione elettorale, per le note ragioni; convocazione di "convegni di rappresentanti comunisti tra le diverse organizzazioni e tra gli operai di città e di campagna per creare l'unità di pensiero e di azione" (punto peraltro assai confuso, che ritorna nella mozione già ricordata del 21/IX per la costituzione immediata del PC) "sviluppando a mezzo di essi una attiva propaganda per la creazione dei Consigli di fabbrica, Consigli agricoli e di azienda" (evidente eco del consiglismo dal quale gli astensionisti torinesi erano in parte influenzati, anche se, a loro volta, riuscivano a condizionarlo), ecc.

Si tratta di mozioni, comunque le si giudichi, di battaglia, di milizia politica, di espressione di tendenze reali che invece la "semplice dichiarazione" di Gramsci e compagni molto superficialmente giudica "informi", dissenzienti su "elementi secondarissimi di tattica" e organizzate sulla "base fittizia" di tali punti di dissenso e, peggio, sullo sviluppo di una "attività settaria e intrigante, ispirata ai rancori e alle beghe che durante la guerra hanno dilacerato il partito". Le conclusioni che essa ne trae sono nette e chiare: "Il nostro gruppo ha voluto rimanere staccato dalle due frazioni per cercare di rompere il cerchio magico in cui si esauriscono le migliori energie del proletariato. Continuando a rimanere staccati, non partecipando alla contesa per il potere della Sezione, intendiamo iniziare il lavoro di organizzazione di un gruppo disinteressato che non ha da offrire al proletariato, per la sua emancipazione, né consiglieri comunali, né dirigenti sindacali, ma vuole lavorare nel campo dell'azione di massa: per i gruppi comunisti di fabbrica e di sindacato, per i Consigli operai, per l'unità proletaria minacciata nella sua compagine a causa delle incertezze dei dirigenti socialisti". Assume quindi il nome, difficilmente conciliabile con la pretesa di "lavorare nel campo dell'azione di massa", di "gruppo di educazione comunista", bene indicativo degli scopi e dei metodi perseguiti dal "nucleo" di qualcosa che non è né vuol essere di partito, ma è l'organo mal definito di una non meglio definita "unità proletaria" (52).

É quindi comprensibile, da un lato, che l'azione della tendenza maggioritaria della Sezione si sia identificata, durante l'occupazione delle fabbriche, con le posizioni critiche di un massimalismo di sinistra destinato a confluire nel PC d'I a Livorno e, dall'altro, che Gramsci si sia limitato, nello stesso periodo, ad appoggiare il movimento da una posizione anch'essa critica, non pretendendo in alcun modo di imprimergli l'indirizzo ch'era stato per più di un anno la bandiera dell'"Ordine Nuovo". Ma ciò spiega anche come e perché, pur aderendo in ottobre (come vedremo nei prossimi capitoli) alla neo-costituita Frazione comunista del PSI, lo stesso Gramsci abbia continuato fino a Livorno a rimasticare da solitario i temi dell'ordinovismo classico e non abbia dato alcun contributo sostanziale, né di azione, né di pensiero (diversamente dai suoi ex-compagni di gruppo) al lavoro preparatorio della scissione di Livorno e della costituzione del partito (53).

Quanto agli anarchici, è vero che, nel manifesto dell' 11/IX, giunte le prime voci delle decisioni prese nei convegni dei due giorni precedenti a Milano, essi invitarono gli operai, "qualunque cosa stiano per decidere i dirigenti", a non cedere le fabbriche né consegnare le armi ("una imprevista possibilità viene prospettata dalla occupazione delle fabbriche: quella di compiere una grande rivoluzione, senza spargimento di sangue e senza disorganizzare la vita nazionale. Non lasciamola sfuggire"); è vero che, nel corso dell'agitazione, si erano fatti promotori, sebbene inascoltati, di un "fronte proletario rivoluzionario". In pratica, tuttavia, essi non poterono far altro che inchinarsi all'inesorabile piega assunta dagli eventi, non avendo comunque la forza di modificarne i termini; le testimonianze postume di Errico Malatesta e di Luigi Fabbri (54) confermano che, anche a loro giudizio - malgrado gli appelli lanciati in tutta sincerità ai proletari -, l'ora della grande occasione era passata, né era possibile richiamarla in vita.

Nella ridda dei "se" (che cosa sarebbe accaduto se...? che cosa si sarebbe potuto ottenere se...), allora sollevati dal fatto stesso dell'occupazione delle fabbriche, è certo che non pochi "massimalisti di sinistra" si orientarono verso il costituendo partito comunista nell'acuta e tormentosa, ma errata, sensazione che una situazione rivoluzionaria fosse davvero esistita e che il massimalismo si fosse smascherato appunto per la sua incapacità di prenderne la testa. Del resto, a conclusioni analoghe era giunta, in un primo momento, anche l'Internazionale, e basti ricordare le parole di Losovsky nella lettera del 23.VIII. 1920 alla CGL ("Chi, in Italia, ostacolò il movimento rivoluzionario così brillantemente iniziatosi? Chi... disorganizzò il movimento rivoluzionario delle masse?") o di Kabakčev al Congresso di Livorno (vedi cap. V: ma dello stesso abbaglio furono temporaneamente vittime anche Lenin e Trotsky). Non così la pensavano gli astensionisti e, come si è visto, gli stessi "torinesi" (55): in particolare i primi si rifiutarono di servirsi contro i massimalisti, neanche a scopo polemico, di tale argomento.

La vera lezione e, potremmo dire, il vero lascito politico dell'occupazione delle fabbriche fu, da una parte, la conferma che la classe operaia italiana, sebbene indebolita da lunghi anni di lotte mal dirette, o non dirette affatto, possedeva ancora straordinarie capacità di resistenza all'attacco nemico, e, dall'altra, che l'autentico "cervello" del partito pseudorivoluzionario in Italia e delle organizzazioni immediate ruotanti intorno ad esso era il riformismo, di cui il mastodonte massimalista si limitava a reggere le staffe, subendone costantemente il diktat. Questo stato di cose bloccava ogni serio tentativo non solo di preparazione rivoluzionaria a ben più feconde situazioni future, vicine o lontane che fossero, ma anche di semplice difesa delle posizioni operaie, nell'atto stesso in cui incoraggiava illusioni e suscitava aspettative basate sulle sabbie mobili dell'incredibile faciloneria e leggerezza dei dirigenti del PSI. Per il bene della stessa resistenza economica al giogo del capitale, l'"equivoco massimalista" - ben più rovinoso dell'"inequivocabile opportunismo" della destra riformista (56) - doveva essere infranto.

Di ciò si convinsero i migliori elementi proletari che, pur digiuni di preparazione teorica e rimasti fin allora ben lontani dalle posizioni lungamente e caparbiamente sostenute dal Soviet, sì orientarono verso la scissione del vecchio partito appunto in seguito alla dura esperienza del settembre 1920. Che a tanto si sia giunti sulla pelle degli operai illusi e beffati, è senza dubbio doloroso. Ma le vie della storia sono anche queste. Ed è un fatto che, per molti dei proletari d'avanguardia affluiti prima nella Frazione comunista del PSI nell'ultimo trimestre del '20, poi nel PC d'I, con tutto l'ardore, la dedizione e la collera accumulate in lunghe battaglie, l'esperienza dell'occupazione, con lo scoppio della vescica massimalista e il tramonto delle illusioni consigliste, rappresentò un'ultima e decisiva scuola di guerra del comunismo: la loro adesione fu spontanea ed istintiva; la coscienza teorica venne dopo, ma sulla sua base.

L'occupazione delle fabbriche non ha dunque lasciato altro retaggio? Ebbene, proprio la nostra corrente, che ad essa partecipò nella pur lucida coscienza del punto d'approdo che le era necessariamente riservato, non esita a dire che si tratta di un retaggio magari negativo, ma grandioso!

Note

(1) A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, l'Italia dal 1918 al 1922, Bari, 1972, p. 125. L'argomento che i 60 giorni di sciopero dell'autunno precedente avevano lasciato non solo delusi ma deboli e impotenti i metalmeccanici, e quindi spuntata in generale l'arma dello sciopero, sarà uno dei pezzi forti dell'autodifesa confederale al X Congresso della Resistenza, V della CGL, a Livorno, 26-28 febbr. e 1-3 marzo 1921. Il proclama della FIOM del 4 settembre alle Commissioni interne, ai Fiduciari, ai Compagni, aveva già detto, significativamente: "Lo sciopero ci ha lasciati senza la forza che oggi abbiamo".

(2) Il lettore ricorderà dal Il volume di questa Storia che alla riunione del 20-22 giugno a Genova la FIOM aveva tratto dall'esito infelice dello "sciopero delle lancette" il pretesto per un rafforzamento della disciplina di tutti gli organi di difesa operaia verso il sindacato e per un energico richiamo all'ordine di ogni forza e tendenza localista e centrifuga. Non sembri quindi un paradosso, se mai i consigli di fabbrica e organi analoghi si dimostrarono impotenti come durante quella che avrebbe dovuto essere, in teoria, la loro "grande occasione".

(3) Non stupisce l'epitaffio di Massimo Salvadori (Cinquant'anni dopo nel numero speciale, 31 ott. 1970, dedicato dal Ponte al 1920, La grande speranza, l'occupazione delle fabbriche in Italia, p. 113): "L'importanza vera dell'occupazione del settembre 1920 fu di avere posto concretamente in discussione il potere di una classe sociale nel luogo dove più totale ed essenziale è questo potere nella nostra epoca, nella fabbrica". Per questi patiti della "democrazia dei produttori", il potere del capitale si trova dovunque fuorché dove realmente è - nello Stato, specie se democratico. Chiudetevi dunque nella galera delle fabbriche, operai: "l'importanza vera" del moto di 65 anni fa sta… nell'essersi condannato preventivamente alla sconfitta, in onore e gloria della democrazia!

(4) Per tutta questa parte, cfr. in particolare L'occupazione delle fabbriche. Relazione del C. C. della F.I.O.M. sull'agitazione dei metallurgici italiani, luglio-agosto-settembre, Torino, 1921. Ma vedi anche F. Magri, La crisi industriale e il controllo operaio, Milano, 1922.

(5) è di quest'ultimo la frase pronunciata al termine della riunione confindustriale del 10-13 agosto: "Gli industriali sono contrari alla concessione di qualsiasi miglioramento. Da quando è finita la guerra essi hanno continuato a calare i pantaloni. Ora basta e [rivolto ai metallurgici] cominciamo da voi". Così nel ricordo di B. Buozzi, L'occupazione delle fabbriche in Almanacco Socialista Italiano, Parigi, 1935, p. 79. Sull'atteggiamento degli industriali, cfr. in particolare V. Castronovo, La grande industria: giochi d'interessi e linea di fondo, nel numero cit. de Il Ponte, pp. 1198-1221.

(6) I provvedimenti relativi alla nominatività dei titoli, all'incameramento dei sovrapprofitti di guerra, alle imposte sulla ricchezza e sul lusso ecc. rispondevano, secondo Giolitti, al criterio che, se si voleva arrivare - come poi si arrivò - all'abolizione del prezzo politico del pane, occorreva che lo Stato dimostrasse prima "la sua capacità ad imporre sacrifizii, necessari al bilancio dello Stato, alle classi più fortunate, e specialmente a coloro che avevano fatto la loro fortuna nella guerra, questo esempio di giustizia sociale essendo necessario per acquetare le masse e togliere gli argomenti più impressionanti alla propaganda dei loro agitatori". (Memorie della mia vita, Milano, 1922, p. 590). Astuzia del leader borghese, ottusità degli individui borghesi!

(7) Mezzo anno dopo, la stessa FIOM spiegherà che l'arma dell'ostracismo era stata scelta perché "allo sciopero gli industriali sarebbero stati in grado di opporre una lunga resistenza, mentre da parte degli operai e dell'organizzazione non sarebbe stato materialmente possibile sostenere i sacrifici di uno sciopero che fosse durato qualche mese" (L'occupazione delle fabbriche. Relazione del C.C. della F.I.O.M., ecc., cit., p. 22). Va ascritto a merito degli anarchici di non aver seguito la FIOM nel vincolare le richieste operaie ad un giudizio sulla loro compatibilità con la situazione dell'industria: alla riunione di agosto con gli industriali, essi dichiarano che "i lavoratori non hanno nessuna responsabilità delle conseguenze or liete or funeste di questo [cioè del vigente] ordinamento sociale, e non possono tener conto in nessun modo delle condizioni dell'industria monopolizzata e gestita da coloro che considerano gli operai come merce, anziché come uomini che hanno il diritto di vivere e di godere il frutto del proprio lavoro" (cit. in A. Borghi, La rivoluzione mancata, 1964, p. 141). A parte la formulazione, per noi discutibile, del concetto, esso esprime una sana posizione di classe, l'unica, in realtà, che fosse legittimo assumere.

(8) Citazioni, nel primo caso, dal comunicato del CC della FIOM agli operai metallurgici apparso sull'Avanti! del 20/VIII e, nel successivo, dall'o.d.g. approvato a chiusura del Congresso straordinario della stessa FIOM, tenutosi il 16-17/VIII, ivi, numero del 18/VIII.

(9) Già il 31 agosto, scrivendo sull'Avanti! un articolo intitolato La battaglia dei metallurgici, Gino Baldesi proclama: "Il proletariato, se gli industriali non vogliono accettare un'inchiesta esauriente svolta da rappresentanti operai, deve far valere la propria forza - con tutti gli organi a disposizione - perché lo Stato prenda esso la iniziativa di risolvere un problema che per la sua complessità, per la qualità di persone che compromette, per l'avvenire stesso del lavoro in Italia, non può essere lasciato alla mercé di chi fra la 'tranquillità di centinaia di famiglie' e quel tal buon andamento degli stabilimenti, preferisce quest'ultimo al solo scopo del salvataggio degli interessi di un gruppo di persone".

(10) Per l'azione svolta dal governo, si veda soprattutto l'ampia documentazione contenuta nel III cap. e in tutta l'appendice del volumetto di P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, Settembre 1920, Torino, 1968.

(11) E. Soave, L'occupazione delle fabbriche e i problemi del partito e della rivoluzione, in Rivista storica del socialismo, fasc. 24, aprile 1965, p. 176.

(12) P. Spriano, op. cit., p. 62, pienamente confermato dai rapporti dei prefetti e dagli articoli della stessa stampa borghese.

(13) Nella riunione del Consiglio Direttivo della CGL del 23 sett., Terracini osserverà che l'errore dei capi sindacali era stato "di impegnarsi con un mezzo di lotta del quale non si prevedeva il risultato". Ciò valeva soprattutto per la FIOM; e sarà la CGL, come presto vedremo, a cavarle le castagne dal fuoco.

(14) Op. cit., pp. 588-589. Al Senato dirà: "Come potevo impedire l'occupazione? Si tratta di 600 manifatture dell'industria metallurgica. Per impedire l'occupazione avrei dovuto mettere una guarnigione in ciascuno di questi opifici, nei piccoli un centinaio di uomini, nei grandi alcune migliaia: avrei impiegato per occupare le fabbriche tutta la forza della quale potevo disporre! E chi sorvegliava i 500.000 operai che restavano fuori delle fabbriche? Chi avrebbe tutelato la pubblica sicurezza nel Paese? Forse dovevo, avvenuta l'occupazione, far sgomberare le fabbriche? Era la guerra civile". (Cit. in Spriano, op. cit., p. 38).

(15) Memorie della mio vita, cit., p. 588. Che i dirigenti operai non prevedessero affatto di arrivare all'"esercizio diretto dell'attività produttiva" (cioè, in pratica, alla rivoluzione) è per noi scontato. Ma è interessante sentirlo dire, con gli argomenti che ritroveremo pari pari in seguito, dagli stessi protagonisti. Eccone un esempio, a proposito di quello che sarà il Consiglio nazionale della CGL il 10-11 settembre: esso, dominato dai riformisti, ritenne "che proclamare in Italia la rivoluzione per instaurare la dittatura proletaria e il comunismo significasse scatenare tutte le forze della reazione contro il proletariato, il quale difficilmente avrebbe potuto vincere, anche affrontando tutti i sacrifici di sangue necessari. E anche se fosse stato possibile vincere, riteneva si dovesse prevedere il blocco da parte dei paesi stranieri che forniscono all'Italia le materie prime che le mancano: conseguentemente la fame e la miseria più terribile per i lavoratori. Concludeva quindi il Consiglio Direttivo confederale col proporre di approfittare della battaglia dei metallurgici per chiedere, a nome di tutto il proletariato, la concessione del controllo sindacale sulle aziende, impegnando tutte le forze proletarie a mobilitarsi in appoggio al movimento se il padronato e il governo si fossero opposti alla riforma" (Buozzi ne L'occupazione delle fabbriche. Relazione del CC della Fiom, etc., cit., p. 32).

(16) In un dispaccio del 10 sett. a Corradini, Giolitti non si limiterà a constatare che "situazione è meno grave di quel che appare, perché grande maggioranza operai non ha tendenze violente", ma aggiungerà, con acuto senso di classe: "é gran fortuna che siano nelle fabbriche" (cit. in De Rosa, Storia del Partito popolare, Bari, 1954, p. 137). Ancora una volta, le lezioni migliori vengono dai nemici, Massimo Salvadori e C. permettendo. Lo stesso senso di classe ispira il cronista del Corriere della Sera del 31/VIII là dove definisce "reclusi volontari delle officine" gli occupanti delle prime fabbriche milanesi. Proprio così: reclusi volontari, prigionieri di se stessi!

(17) Prendere la fabbrica o prendere il potere?, ne Il Soviet del 22.II.1920, riprodotto nel II volume della Storia della Sinistra Comunista, pp. 176-177: ma si veda pure, ibid., pag. 398, il punto 11 della II parte delle Tesi della Frazione. Gli storici d'ufficio a sentire i quali la nostra posizione in materia differiva sostanzialmente da quella dell'Internazionale, leggano questo brano di Losovsky nella sua Lettera aperta alla CGL (in Avanti! del 25 nov. 1920): "Occupare una fabbrica, impadronirsi di uno stabilimento è molto facile. Ma è difficilissimo conservare questa fabbrica, questo stabilimento, giacché il capitalismo è tutto un sistema che trova la sua espressione completa nello Stato contemporaneo, e finché il potere con tutto il suo apparato - polizia, funzionari, imposte, ministero, esercito, flotta ecc. - resta nelle mani delle classi dominanti, l'impossessamento delle fabbriche e degli stabilimenti non è effettivo, non potendo esistere una contraddizione duratura fra condizioni economiche e politiche. Politica ed economia sono uno, e chi vuole impadronirsi delle fabbriche deve, prima di tutto, conquistare il potere, distruggere la borghesia come classe".

(18) In appendice al volume citato di P. Spriano, p. 183.

(19) Da una lettera di Lusignoli ai comandanti le legioni dei carabinieri e della guardia regia riprodotta in G. De Rosa, op. cit., pp. 134-135, nota. In essa si avvertiva che "la situazione creata dalla occupazione degli stabilimenti industriali da parte delle maestranze è di una delicatezza eccezionale. Un incidente qualsiasi determinato da avventatezza o da impulsività di un agente potrebbe cagionare ripercussioni e reazioni non soltanto locali, ma anche nazionali, e compromettere la tranquillità del Paese". Ciò non significa che le forze dell'ordine non fossero opportunamente mobilitate: a questo, come all'eventualità di una militarizzazione dei ferrovieri (cfr. P. Spriano, cit., p. 93), aveva pensato per tempo il ministro della Guerra, l'intramontabile Ivanoe Bonomi, già ministro nel 1916-17, poi capo del governo nel 1921-22, infine risorto in veste di presidente del consiglio nel 1944-45, allora abilmente recuperato da Giolitti a fianco, e come pendant, dell'omologo Arturo Labriola.

(20) In questo senso, ha ragione Tasca di scrivere: "I dirigenti della FIOM [ma avrebbe dovuto aggiungere: e della CGL in generale] hanno scelto la via del minimo sforzo: pensano che l'occupazione delle fabbriche provocherà l'intervento del governo e alcuni di essi carezzano anche -senza confessarlo- la speranza che l'occupazione abbia uno sbocco politico con la partecipazione dei socialisti al potere" (op. cit., p. 115). In che cosa consiste del resto, per i teorici e i pratici del riformismo, "la rivoluzione"? Come dirà, al Congresso di febbraio-marzo '21 della CGL, lo stesso D'Aragona: "Noi siamo in periodo rivoluzionario perché siamo in un periodo in cui il proletariato ha la possibilità [...] di ottener molto di più di quello che si poteva ottenere in periodo normale. Ma è un'azione che si svolge gradatamente. Il periodo rivoluzionario ci consente di ottenere gradatamente dei vantaggi e dei miglioramenti di carattere economico e morale" (Resoconto stenografico del X Congresso della Resistenza, V della CGL, a Livorno, 26-28 febbraio e 1-3 marzo 1921, p. 254).

(21) Cfr. G. Maione, Il biennio rosso. Autonomia e spontaneità operaia nel 1919-1920, Bari, 1975, p. 247.

(21 bis) In agosto, l'USI aveva aderito all'ostruzionismo, pur non ritenendolo adeguato alla gravità del momento, "per non dividere le forze operaie", e, in vista del suo prossimo superamento con l'occupazione delle fabbriche, aveva additato la necessità di una presa di possesso simultanea degli stabilimenti, da attuarsi "con prontezza, prima ancora di esserne cacciati con la serrata" e da difendersi poi "con tutti i mezzi" (le fonti in Spriano, op. cit., pp. 44-45). Aveva perciò appoggiato l'occupazione, apportandovi - soprattutto in Liguria - un forte coefficiente di dinamismo nel senso dell'allargamento e approfondimento della lotta, vista come momento rivoluzionario e quindi, da considerarsi con il senso di responsabilità di cui la FIOM dava cosi debole prova; fortemente minoritaria, non poteva tuttavia che subire l'orientamento altrui e, come vedremo, lasciarsene intrappolare proprio sul terreno dell'estensione del moto. Lo diciamo senza ironia: il condizionamento riformista era purtroppo generale. Per un'analisi della posizione dell'USI durante la vertenza, cfr. in particolare G. Bosio, La Grande Paura. Settembre 1920. L'occupazione delle fabbriche nei verbali inediti delle riunioni degli Stati generali del movimento operaio, Roma, 1970, pp. 52-60.

(22) Le frasi via via riportate provengono dai verbali della riunione cosi come sono letteralmente riprodotti in G. Bosio, op. cit., e precisamente, nell'ordine, a pp. 75, 74, 75, 76-77, 83, 86, 83-84, 90, 84. Che i verbali siano alquanto sgrammaticati è ovvio; che siano fedelissimi nessuno può garantirlo, almeno nei dettagli. Ma sono l'unica fonte disponibile.

(23) In P. Spriano, op. cit., appendice, pp. 201-206. L'allarme è tale che, per esempio, Milano afferma: "Per non farla [la rivoluzione] l'unico mezzo è di dare il potere alla Confederazione del Lavoro". Roma chiede: "E per fare che cosa?" Risposta: "Il consiglio di fabbrica, tutto quel che vorranno... Ma insomma, almeno verrà un ordine... Ci sarà qualcuno che si impone agli industriali… agli operai". Un'idea fra le tante, si capisce; ma significativa. Finita l'occupazione, Albertini sonderà Turati e Treves nella speranza che accedano all'idea di formare essi un nuovo governo che almeno funzioni!

(24) La scoperta di un certo numero (esagerato dalla stampa) di "arsenali" in alcune fabbriche, da un lato suggerì al governo misure prudenziali di mobilitazione, pur nel rispetto di una politica di massima cautela, dall'altro ribadì in Giolitti la convinzione che fossero stati gli industriali ad accumulare armi per sbaraccare l'inviso governo dell'"uomo di Dronero", e che si dovesse premere a tutti i costi sulla loro ala moderata per giungere al più presto ad una soluzione concordata della vertenza (cfr. su questo punto, in particolare, G. De Rosa, op. cit. pp. 135-137, con documentazioni d'archivio).

(25) In Bosio, op. cit., pp. 97-100. Se, anche in seguito, daremo largo spazio a citazioni, non è per pignoleria o per... sfoggio di conoscenza dei testi, ma per fornire elementi documentati o documentabili per quella valutazione delle forze politiche in campo, che sarà particolare oggetto del capitolo successivo. Si noti che un manifesto della Direzione "ai contadini e ai soldati" (cfr. Avanti! del 7/IX) aveva già lanciato, demagogicamente, l'ammonizione: qualora suonasse l'ora decisiva, "impadronitevi dei municipi, disarmate i carabinieri, formate i vostri battaglioni insieme con gli operai, marciate verso le grandi città".

(26) Sulla questione dei "torinesi", ordinovisti o no, torniamo più avanti.

(27) Non manca, già allora, la figura del "pentito". Zirardini "si augurava che il movimento fosse rivoluzionario, ma la doccia venuta da Torino lo spinge ad aderire a questo [del 5 sett.] ordine del giorno", invece che a quello della Direzione del partito. "Cambia così il suo punto di vista". Al Congresso confederale del febbraio-marzo 1921, D'Aragona coglieva al balzo l'occasione dell'intervento Togliatti per ribadire l'impossibilità di portare il movimento, allora, fuori delle fabbriche, e posare con ciò a marxista... ortodosso: "Ma la lotta che si doveva fare era proprio la lotta per le strade, perché avere in mano le officine è avere in mano poca cosa" (pp. 253-254 del Resoconto stenografico citato più sopra).

(28) Si veda in particolare G. Bosio, op. cit., pp. 111-112.

(29) In G. Bosio, op. cit., p. 119.

(30) Si può forse accennare solo alla proposta Tasca (invero peregrina), appoggiata da Chignoli (il quale ritorna, confermandole, sulle valutazioni di Togliatti circa lo stato di preparazione del proletariato torinese), di chiedere che l'industria metallurgica sia affidata "ad un consorzio sulla base dei sindacati". Si sarebbe così avuta "una presa di possesso non più vaga e generica", ma realizzata "attraverso un nucleo costituito", col vantaggio di non "correre l'alea di decisioni affrettate" come quelle proposte dalla Direzione e ispirate al gusto delle improvvisazioni proprio del massimalismo.

(31) Per i due discorsi qui riassunti, cfr. G. Bosio, op. cit., pp. 142-148.

(32) Per tutta questa parte, cfr. G. Bosio, op. cit., pp. 148-165. I due organismi, politico e sindacale, tornano a riunirsi il 12, ma per discutere di questioni tecniche e far quattro chiacchiere su che cosa sarà esattamente il controllo sindacale...

(33) Citato in De Rosa, op. cit., p. 139. Aggiungeva Giolitti: "Credo che gli industriali più intelligenti" almeno "di Torino accetterebbero".

(34) Allusione al famoso discorso cosi intitolato del 23/V/1920, di cui nel II volume di questa Storia, pp. 378-379, abbiamo riportato un brano fra i più significativi.

(35) La lettera di Turati, e quella precedente di Corradini, sono riprodotte in G. De Rosa, pp. 140-143, op. cit. I corsivi sono nostri.

(36) Riportato in Avanti! del 14/IX e Battaglie sindacali del 21. Corsivi nostri.

(37) Cfr. Relazione della FIOM etc., op. cit., p. 41.

(38) Fonte, come per l'o.d.g. di cui più sotto, in P. Spriano, op. cit., pp. 128-129-130, dove si leggono pure gustose testimonianze dell'epoca sul panico suscitato dalla notizia in ambiente confindustriale, almeno nell'ala conservatrice o, comunque, poco convinta degli effetti positivi del controllo, se mai fosse stato instaurato, e più ancora della semplice promessa di instaurarlo.

(39) Il comunicato della presidenza del consiglio diramato subito dopo la conclusione dell'accordo inizia cosi: "Premesso che la CGL ha formulato la richiesta di modificare i rapporti finora intercorsi fra datori di lavoro ed operai in modo che questi ultimi, attraverso i loro Sindacati, siano investiti della possibilità di un controllo sulle industrie motivato con l'affermazione che con simile controllo è suo proposito di conseguire un miglioramento nei rapporti disciplinari fra datori e prenditori d'opera, subordinato ad un aumento della produzione al quale è a sua volta subordinata una severa ripresa della vita economica del Paese; premesso che la Conf. gen. dell'industria non si oppone a sua volta a che venga fatto l'esperimento di introdurre un controllo per categorie d'industria ai fini di cui sopra": e ciò pare che basti. Lo stesso giorno, in un'intervista a La Stampa, D'Aragona rispondeva alla domanda se il controllo sindacale avrebbe avuto per effetto una diminuzione degli scioperi: "Si, anche questo avverrà, perché diminuiranno le contese e i dissidi, e il lavoro potrà avere maggiore sviluppo. Le serrate e gli scioperi saranno armi che potranno essere usate solo in occasione di gravi dissidi". Insomma, era scoppiata la pace sociale! A sua volta, il Comitato di agitazione della FIOM vanta in un comunicato del 20 "le notevoli conquiste" in campo "economico e morale" ottenute dai metallurgici, e "l'inestimabile diritto" (al controllo, evidentemente) conquistato dalle diverse categorie di industria, che é, dice, "indizio della loro completa emancipazione dalla servitù capitalistica"!

(40) è significativo che tale decisione, subito sconfessata dal CC della Frazione (come si vedrà nel cap. III), sia stata presa in sede di assemblea straordinaria "nel ridotto della Camera del Lavoro" e in seguito al "voto espresso dai suoi fiduciari rappresentanti degli stabilimenti" riuniti il giorno prima alla Fiat - chiaro segno di una levata di scudi non limitata ai soli appartenenti alla Frazione in quanto tale. Va pure notato che i firmatari si basavano da un lato sulla considerazione che "la situazione creata alla massa dal movimento attuale è il risultato delle incertezze e del disorientamento del nostro Partito, per l'equivoca condotta mantenuta dalla data del congresso di Bologna in poi", dall'altro sulla constatazione "che la Direzione del Partito ha fatto completa dedizione del suo diritto, abbandonando (come sempre nel passato) un vasto movimento di carattere altamente politico nelle mani di un organismo economico che, pur aderendo al partito, dissente completamente da quanto forma lo spirito del programma comunista di Mosca": il che era esatto, ma non giustificava un atteggiamento viziato a sua volta da tendenze localistiche ed autonomistiche, contrastanti con le tesi invocate con tanto zelo del II Congresso mondiale.

(41) Non seguiremo questa girandola di elucubrazioni, di cui del resto si ritroverà l'eco nel capitolo successivo. Basti ricordare gli articoli di F. Turati e di F. Pagliari nei numeri 16-30 sett. e, rispettivamente, 1-15 ottobre di Critica sociale, di O. Baldesi e di G.M. Serrati nei numeri del 29 e del 30 sett. dell'Avanti!, e l'editoriale di Battaglie sindacali del 21 settembre. Aggiungiamo che un progetto Baldesi sul "controllo operaio" venne presentato alla CGL il 23 ottobre; che un dibattito sullo stesso tema tenne occupata la direzione del PSI il 3 novembre, e che della questione si trattò lungamente in sede di Consiglio direttivo della CGL il 16 nov. in riferimento alla presentazione del progetto di cui sopra al Ministero del lavoro, nonché alla risposta da dare alla "lettera aperta del compagno Losovsky" (vedi, anche per questo, il capitolo successivo). E qui ci fermiamo per non allungare una lista già più che sufficiente, ma tutt'altro che completa, rinviando il lettore al paragrafo 4 del capitolo III, dove la questione del controllo viene ripresa dal Soviet, con ampi riferimenti alle teorizzazioni allora in voga. Aggiungiamo che uno degli argomenti diffusi a sostegno del "controllo sindacale" fu quello dell'applicazione del "principio dell'equo salario [!] piuttosto al capitale che al lavoro", con avocazione dell'"extraprofitto" o "profitto parassitario" ai produttori e ai consumatori. Si è nel 1920 e, in fatto di cultura economica marxista, pare d'essere… ai nostri giorni!

(42) Il rovesciamento della prassi netta teoria marxista, 1951, ripubblicato in Partito e classe, Ed. il Programma comunista, Milano, 1972, reprint 1978, p. 121.

(43) Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione, Dibattiti congressuali del Psi, 1892-1921, Bari, 1969, p. 833.

(44) Op. cit., p. 835. Si veda per es. Bordiga nel suo discorso sul fascismo al IV Congresso mondiale (Protokoll des IV. Kongresses der K.I. etc., Amburgo 1923, p. 332): "Io non sostengo che in Italia - come ha detto in questi giorni il comp. Zinoviev - il Partito socialista avrebbe potuto fare la rivoluzione; ma almeno avrebbe dovuto mettersi in grado di dare una solida organizzazione alle forze rivoluzionarie della classe operaia". Era quello, il punto.

(45) Si spiega cosi quello che ai signori storici sembra un mistero o, viceversa, una fin troppo trasparente dichiarazione di estraneità, il fatto cioè che, pur intervenendo attivamente nell'agitazione dovunque le sue forze fossero presenti (in particolare a Napoli), la Frazione astensionista si sia ben guardata dall'incoraggiarne gli sviluppi anche sul piano meramente rivendicativo, abbia addirittura preferito tacerne, e il 21 settembre abbia accettato come inevitabile il rientro in fabbrica (cfr. in Spriano, op. cit., pp. 154-5, una testimonianza d'archivio). Ma si veda anche il già citato paragrafo 4 del capitolo III del presente volume e, in esso, soprattutto i brani riportati dagli articoli apparsi nel Soviet, coi titoli di Orientarsi e rinnovarsi e Il controllo sindacale, in ottobre e novembre, nei quali la posizione della corrente astensionistica nei confronti dell'occupazione delle fabbriche e dei suoi veri o presunti obiettivi, con particolare riguardo al famoso controllo sindacale, e ben chiarita.

(46) Articolo Domenica Rossa nell'Avanti! del 5 sett., ora in A. Gramsci, L'Ordine Nuovo, 1919-1920, Torino, 1954, pp. 163 e 167.

(47) Cfr. in particolare gli articoli sicuramente suoi apparsi nell'Avanti! del 2 e 3 sett. e intitolati rispettivamente L'occupazione e Il simbolo e la realtà, in cui si dichiara che l'occupazione delle fabbriche non produce in sé alcuna nuova posizione definitiva poiché "il potere rimane nel pugno del capitale" e il suo perdurare "non si può ritenere possibile se non dopo che siano entrati in gioco elementi tali che spostino completamente il centro della lotta attuale, che portino la battaglia in altri campi, che dirigano le forze operaie contro le vere centrali del sistema capitalistico: i mezzi di comunicazione, le banche, le forze armate, lo Stato" (cit. in P. Spriano, op. cit., p. 81). Che poi, il 2 ottobre, L'Ordine Nuovo ricomparso in luce dopo un mese di latitanza tragga dall'occupazione l'insegnamento che "i consigli di fabbrica si sono dimostrati l'istituzione rivoluzionaria storicamente più vitale e necessaria della classe operaia italiana. Le maestranze, lasciate senza guida e senza una precisa parola d'ordine dal Partito Socialista e dai Sindacati, hanno trovato nel Consiglio il loro organo di Governo, si sono strette fortemente e audacemente intorno al Consiglio, hanno vinto perché il Consiglio le ha disciplinate, le ha armate, ha fatto di ogni fabbrica una repubblica proletaria", è solo una delle tante contraddizioni dell'autore.

(48) Del "pessimismo" che lo "dominava nel 1920", Gramsci parla nella lettera del 2.IV.1924 a Z. Zini; in quella del 10.I., le tinte sono ancora più fosche e, nei confronti della classe operaia tirata in causa come rea di scarsa abnegazione, francamente ingiuste (cfr. Due lettere inedite di Gramsci, in Rinascita, 25 aprile 1964).

(49) Le citazioni risalgono, rispettivamente, a un discorso tenuto in novembre al Congresso circondariale della Fed. soc. biellese, di cui si leggono brani in G. Bosio, op. cit., p. 20, e ad un articolo dell'Ordine nuovo 7.IX. 1921, intitolato Aprile e settembre 1920.

(50) Sulla quale cfr. il II volume di questa Storia, pp. 261-263 e 381-383.

(51) Cfr. il II volume della presente Storia, pp. 324-327 e 385-389.

(52) I tre documenti sono stati pubblicati a cura di M. Ferri in Rinascita, 4 aprile 1958, pp. 259 sgg. Si possono tuttavia anche leggere nell'Avanti! ediz. piemont. del 12 ag. 1920.

(53) La volubilità e una delle caratteristiche della traiettoria politica e ideologica di Antonio Gramsci. Alla conferenza di Como del maggio 1924, egli dirà: "Vi sono delle situazioni in cui il 'non aver fretta' provoca la disfatta. Nel 1920, ad esempio, bisognava aver fretta. Io mi ricordo che nel luglio [in realtà giugno] di quell'anno mi recai al convegno astensionista di Firenze a proporre la creazione e costituzione di una frazione comunista nazionale. Il comp. Bordiga anche allora 'non ebbe fretta' e respinse la nostra proposta, in modo che l'occupazione delle fabbriche avvenne senza che esistesse in Italia una frazione comunista organizzata capace di lanciare una parola d'ordine nazionale alle masse che seguivano il PS". Non si direbbe, alla luce (fra tutto il resto) di quanto sopra, che la "fretta" di costituire il partito o anche solo di prepararlo lo distinguesse proprio...

(54) Cfr. le citazioni in P. Spriano, cit., pp. 153 e 174.

(55) A proposito della nota dissonante nei discorsi del delegato dell'IC a Livorno, il Cortesi osserva: "La imminenza dello scoppio rivoluzionario non era", nelle correnti di sinistra italiane prima di Livorno, "una argomentazione caratterizzante delle polemiche: nel Bordiga non vi era mai stata, nel 1919-20, ombra di faciloneria nei giudizi sulla situazione della lotta di classe in Italia, ma soprattutto era stato presente il problema del partito come requisito indispensabile a chi si ponesse il problema stesso della rivoluzione. La deformazione ottica concerneva in particolare il periodo dell'occupazione delle fabbriche, che nel Kabakčev è presentato sotto un aspetto mitizzante al quale i dirigenti comunisti italiani - e soprattutto il Bordiga - non avevano dato adito con i propri giudizi" (cit., p. 855). E, se vogliamo aggiungere la voce di uno storico non certo tenero verso la Sinistra: "Neppure [chissà perché 'neppure'!] Bordiga [...] affermerà mai che l'occupazione delle fabbriche sia stata la classica occasione mancata - scrive lo Spriano (Storia del PCI, vol. I, Da Bordiga a Gramsci, Torino, 1967, p. 81), e aggiunge correttamente: "Ciò non impedisce che l'elemento di fondo della scissione (la convinzione che 'con un Partito com'era il socialista', con il 'sabotaggio' esercitato dalla CGL, bisogni rompere definitivamente) prenda, proprio dall'ottobre del 1920, il suo sviluppo maggiore".

(56) Si badi che, nella nostra ricostruzione dei fatti, abbiamo evitato di prendere come oro sempre colato sia i dispacci ufficiali sulle continue confabulazioni tra esponenti del governo e riformisti, sia i rapporti dei "confidenti" sulle opinioni - scandalose nella formulazione data dai testi in questione, ma tutt'altro che impossibili, nelle linee di fondo - espresse da uomini come Treves o come Turati, prodighi di consigli sul modo di governare al meglio l'Italia borghese. I proletari di allora non ne sapevano nulla: ma avevano abbastanza buon fiuto per subodorare le losche manovre svolte alle loro spalle. Chi, oggi, se ne voglia cavare il gusto, legga l'appendice al volumetto dello Spriano, per es. a pp. 196-197 e in decine e decine di note.