Ospiti di terra matrigna: l'infame politica agraria del nazionalcomunismo

In Russia come in tutto il mondo la formula sociale del tradimento opportunista nella sua contemporanea ondata "stalinista" è l'alleanza popolare del proletariato salariato - urbano e rurale - con tutte le classi medie, formando il loro insieme il decantato "popolo".

Il marxismo rivoluzionario vide all'inizio della società capitalistica, in Europa da noi ormai lontano di secoli, l'epoca di una tale alleanza, ma non la considerava diretta contro la borghesia, bensì, insieme con essa, contro la reazione feudale.

Cessato tale periodo con la formazione degli Stati democratico-capitalistici si levò la teoria e la fase storica della lotta di classe dei salariati contro la borghesia, e il marxismo considerò le classi medie come succubi e alleate di essa, anche nelle più feroci repressioni del proletariato, e successivamente come fautrici delle guerre di strage imperialista, malgrado che la loro fatale caduta nel proletariato - causata dalle leggi della società capitalistica, e da noi non deprecata ma attesa - dovesse spingere una minoranza audace verso le nostre file, anziché, come generalmente avviene, verso la folle illusione della democrazia economica e della frammentazione della ricchezza di proprietà e di capitale.

Oggi, in tutto il mondo moderno, la formula dell'alleanza tra proletariato e classi medie distrugge la teoria e la politica della lotta di classe, e viene da noi denunziata come alleanza tra borghesia e classi medie contro il proletariato, la sua lotta, la sua rivoluzione, e la sua dittatura, capisaldi del marxismo, e della sua grande rivendicazione da parte della rivoluzione di Lenin.

Un esempio schiacciante di questa tesi storica è la politica agraria che in Italia conducono, a disonore del proprio nome, i partiti comunista e socialista, con la loro difesa, sul terreno delle leggi di blocco dei patti agrari, delle classi medie rurali dei fittuari e dei coloni, che essi confondono crassamente non solo coi piccoli proprietari ma coi braccianti salariati, dichiarando senza esitazioni, che nella loro difesa sono compresi anche i grandi mezzadri e perfino i grandi fittavoli capitalisti, in quanto la lotta sarebbe diretta contro il solo interesse dei proprietari fondiari goditori di rendita versata da fittavoli e coloni in danaro o in natura, e che si tratta di decurtare.

Quale è la composizione della società rurale in Italia? Quali i rapporti e contrasti di classe che ne conseguono?

Alla seconda domanda chiunque senta la tradizione delle grandi battaglie del partito socialista storico, fino alla prima guerra, comprese le sue ali meno rivoluzionarie, non può che rispondere immediatamente che la chiave della lotta nelle campagne è la gloriosissima lotta dei braccianti socialisti contro proprietari grandi e medi, affittuari e mezzadri, segnata da una serie di memorabili scioperi, generose insurrezioni, stragi oscene della sbirraglia dello Stato parlamentare borghese e medioborghese. Quando questa storia verrà scritta si vedrà che il proletariato delle campagne italiane, diffamato come retrivo e analfabeta, sta all'altezza dei suoi fratelli delle città come coscienza sindacale e socialista, e fuori di ogni discussione tiene il primo posto in tutta la dinamica del mondo capitalistico nel campo delle lotte agrarie.

Alla prima domanda è meno facile rispondere.

La popolazione agraria nel suo totale, che si tratta di scomporre, è una parte della popolazione economicamente attiva, e le statistiche la definiscono con criteri molto incostanti, e con riferimento meno dubbio ai soli anni dei censimenti dei quali i più recenti sono quelli del 1931, 1936, 1951. Il solo censimento decente delle aziende agrarie è quello che fecero i fascisti nel 1930, i soli che erano coerenti nel difendere il guazzabuglio dei "contadini", per quelli buona carne da cannone, mentre per i loro più schifabili successori della liberazione nazionale, erano messi insieme come carne da vendere per il voto elettorale. Ci atteniamo alle cifre generiche. Bisogna considerare che tra quegli anni anche il territorio italiano, oltre alla popolazione totale, è variato. Questa era nel 1930 di 41.573.000, nel 1955 è stata di 49.101.000 e le variazioni sono date dagli indici: 1930 : 100; 1936 : 106; 1951 : 114,3; 1954 : 117,6; 1955 : 118,8.

La popolazione attiva sarebbe stata nel 1931 il 55,5%, nel 1936 il 56,2, nel 1951 il 58,8, con una progressione che possiamo ammettere.

La cifre della popolazione agraria comprendono anche quella dedita a caccia e pesca, il che non produce grave scarto. Si avrebbe una diminuzione, anche verosimile: 1931: 44,5% sull'attiva; 1936: 43,8; 1951: 41,2.

La scomposizione della popolazione agraria è fatta diversamente nel 1936 e nell'anno (di cresciuta disgrazia) 1951. Nel primo censimento i salariati sarebbero stati 2.404.700, nel secondo 2.660.236.

In entrambi i censimenti tutti i conduttori coltivatori e lavoratori in proprio sono dati in massa, che comprende piccoli proprietari lavoratori, piccoli fittuari di terra e piccoli mezzadri. Ma presso queste categorie viene considerato che lavora tutta la famiglia, e la si censisce dai 10 anni in sopra, giungendo nel 1936 all'enorme cifra di circa 6.000.000. Nel 1951, pure non essendo in nulla sminuito l'apologismo della famiglia rurale cristianuccia e parcamente dotata di beni terreni (comune ideale di cui i fascisti concordatari lasciano la stecca, avidamente adunghiata, a democristi e socialstalinisti soviet-colcosiani) vengono smistati i capifamiglia conduttori di proprietà in affitto o colonìa dai coadiuvanti; sono dati i primi in 2.476.461 e i secondi in 3.001.771, e in tutto circa 5.500.000. La diminuzione dal 1936 è in parte spiegata dalla diminuzione relativa ed assoluta di popolazione agraria (da 8.689.000 a 8.621.000) in parte dai metodi di rilevamento. In questa breve nota rileviamo soltanto che i lavoratori dipendenti in parte vivono in città e borghi fuori della azienda, e le loro famiglie, come nell'industria, non si interessano del loro lavoro se non in quanto i membri capaci sono braccianti autonomi (giornalieri); in parte sono ingaggiati ad anno e possono dormire nella tenuta, in un certo numero con la casa per la famiglia, i cui membri coadiuvano gratis lo sfruttatore proprietario, affittuario o mezzadro che esso sia, e nel dato ordine sempre più famelico di lavoro altrui.

A nostro avviso i braccianti italiani sono di più, a dispetto delle riforme iniziate dai fascisti e seguite, meno pulitamente, dai post-fascisti, che fino al 1955 hanno chiamato alla proprietà solo centomila assegnatari, per accennare solo a questo punto quanto mai equivoco nei suoi bilanci parassiti ed antisociali.

Dalla statistica delle giornate di lavoro salariale, ai fini dei contributi unificati riversati sul datore di lavoro, nel 1954 i lavoratori iscritti ai ruoli erano ben 4.484.000 (cifra quasi pari a quella degli operai dell'industria). Le giornate furono 807 milioni, ed è ben chiaro che nella realtà sono molte di più.

Il divario si spiega col fatto che moltissimi coltivatori diretti e loro coadiuvanti, dotati di poca terra, si iscrivono ai ruoli e danno lavoro salariato nelle aziende più grandi. Non è facile dire per quanti di costoro la figura di salariato prevale su quella fasulla di "indipendente" o coadiuvante di esso. Noi crediamo determinarla con prudenza estrema definendo autentico proletario rurale chi eroga 250 giornate annue di lavoro salariato; e ben potremmo se volessimo favorire la nostra tesi porne 200. Allora la divisione delle giornate per 250 ci dà il numero di autentici proletari dei campi in 3.200.000.

Ci domanderemo ora quanti di questi hanno l'insigne onore di lavorare, non per un vile grosso proprietario di stile "baronale e feudale", ma per il civile ed iscrivibile ai partiti socialcomunisti grande fittavolo senza più limite di grandezza, e grande mezzadro senza limite a sua volta.

Palmiro è per un limite superiore della proprietà immobiliare, ma non pensa nemmeno ad un limite superiore del capitale (se lo facesse penserebbe una fregnaccia maggiore).

Per risolvere questo problema non abbiamo altro che la statistica fascista. Essa contempla 4.196.266 aziende agrarie che lavorano su 26.525.000 ettari. Al 1954 gli ettari sono, di superficie agraria e forestale (che comprende demani) 27.776.000 e quindi non vi è troppo scarto.

Primo rilievo: la media azienda in Italia è spaventosamente piccola: 16 ettari, e dagli al latifondo, e dagli ad impiccolirla!

La media popolazione attiva dell'azienda con le cifre 1936 è di 2,26 persone (due diconsi persone, e un quarto), e con le cifre 1951 di popolazione agraria, e le 100 aziende poi aggiunte "riformando", scende a meno di due persone.

Queste aziende, come numero e come estensione, sono scaglionate in gruppi secondo gli ettari. Ve ne sono 900.000 di meno di mezzo ettaro! Si spartiscono 199 mila ettari, con la media di 0,22; di 2.200 metri quadrati, un quadrato di metri 47 per 47!

Abbiamo, per farla breve, smistate le aziende minori di 5 ettari, per considerare di massima che non vi lavorino salariati. I distruttori di salariati (dal campo antisocialista, si intende) hanno dato 526 mila ettari finora scorporati ai 100.000 assegnatari, e ci siamo.

Le aziende con meno di 5 ettari sono 3.285.000, ossia il 78% del numero totale. Ma quanto a terra ne hanno solo 5.136.000 ettari, ossia il 23%, e la misura media è di ettari 1,57 per una.

Di queste piccole aziende si fa la seguente ripartizione. Proprietà in conduzione diretta 2.078.000 con ha. 2.972.000, media ha. 1,4; affitti 460.000 con ha. 564.000, media ha. 1,2; colonìe parziarie 287.000 con ha. 602.000, media ha. 2,1; forme miste tra proprietà affitto e mezzadria 460.000, con ha. 998.000, media ha. 2,2.

Ora, prima di passare alle maggiori aziende e loro proletari, ci troviamo davanti ad un dubbio. Tutti i nostri conduttori lavoratori sono solo 2.500.000 nel 1951, e noi abbiamo smistate 3.285.000 piccole aziende. Allora dovremmo impiccolire ancora l'azienda che non ha salariati, e non abbiamo voluto forzare la tesi.

Ecco la nostra ipotesi: in Italia vi sono 1.450.000 piccoli proprietari, 400.000 piccoli affittuari, 250.000 piccoli parziari, 400.000 piccoli conduttori misti, e in tutto i 2.500.000 contadini, indubbiamente importanti come elettori, e come anime che ogni governo cristiano vorrà destinare al paradiso, ma vi sono anche per le dette ragioni 3.200.000 salariati, che importano a noi indipendentemente dal loro numero, ma tuttavia anche col bolso criterio maggioritario dovrebbero pesare di più. Riconosciamo che le cifre sono suscettibili di oscillazioni non bene definibili, ma non crediamo che l'errore probabile sia più del 10 per cento.

A chi stanno di fronte questi 3 milioni 200.000 salariati?

Ci sono rimaste 400.000 aziende a grande proprietà, 110.000 a grandi affitti, 130.000 a grande mezzadria, e 160.000 in forme miste. 800.000 in tutto, né ci preoccupa il fatto che i conduttori non lavoratori siano nella statistica solo 260.000 nel 1936 e - cosa ben strana - 100.000 nel 1951. Un proprietario o fittavolo può avere più aziende; comunque è sempre contro la nostra tesi lo smistamento che conduciamo.

Queste aziende si dividono 21.226.000 ettari, e se attribuissimo loro manodopera proporzionale alla superficie otterremmo che 1.800.000 salariati hanno a che fare con la bestia nera proprietario, 425.000 con la bestia bianca affittuario capitalista, 550.000 col grande mezzadro capitalista, e 415.000 col capitalista misto alle due forme e in rari casi alla proprietà diretta.

Ma mentre la media della grande proprietà è circa 30 ettari, e quindi verte sulle colture estensive, la media dei grandi affitti e colonìe è circa di 6 ettari e verte sulle terre migliori e che assorbono più manodopera. Abbiamo qui elaborata, con specchi di computo che ingombrerebbero questa nota, la seguente partizione.

Proletari con datore di lavoro proprietario 1.810.000; 56%.

Proletari con datore di lavoro fittavolo: 425.000; mezzadro, 550.000; misto 415.000. Totale 1.390.000; 44%.

La formula idiota delle confederazioni cristo-comuniste è facile a riferire. Aiutiamo i 350.000 circa grossi fittavoli e mezzadri a pagare meno rendita ai loro proprietari non conduttori (che stanno fuori della statistica e quindi della popolazione attiva, e non si sa quanti sono, ma quanto a numero di aziende sarebbero 400.000) e questi col maggior profitto di capitale che resterà loro potranno meglio pagare i loro 1.390.000 lavoratori dipendenti, in quanto presi dalla evidente gratitudine per la democratica protezione loro accordata.

Quanto ai 1.800.000 salariati che stanno in 400.000 aziende di grandi proprietari conduttori diretti (e quindi come imprese si riducono ad appena 4-5 operai in media; se fossero industriali sarebbero anche quelli corteggiati: si può dunque prevedere che una cifra assai minore di operai agricoli stanno in aziende numerose contro i cui datori di lavoro si ammette la lotta) in questo caso la lotta salariale avrebbe pieno sviluppo, Di Vittorio permettendo.

Nei casi da "patto agrario" invece la lotta si inverte in un'alleanza in quanto i salariati agricoli nelle organizzazioni sindacali e in quelle politiche devono fare causa comune coi loro datori di lavoro!

Ma la tesi dell'economia conservatrice è che le differenze di interesse e i contrasti - civili! - di ordine sindacale possono sorgere su tanti fronti che si incrociano a piacere e si definiscono coi "patti" di lavoro.

La tesi dei marxisti, anche dei più umili socialisti tradizionali, è che si tratta di una lotta tra classi che si risolve in uno schieramento unico tanto sindacale che politico, e non ammette queste conversioni di fronte. O si difende il salariato contro il datore di lavoro, sia grande o piccolo, sia esso proprietario gestore, imprenditore fittavolo o mezzadro capitalista, svolgendo il dialogo sociale contro il datore di lavoro a nome del prestatore d'opera pagato a salario, o si tradisce ed abbandona la causa del lavoro, non solo intesa nel grande senso sociale, politico e rivoluzionario, ma anche in quello dell'interesse immediato, perché la stessa banale formula dell'unione fa la forza cade quando si dà contrastante disciplina, economica, politica e sociale, a diverse sezioni della stessissima categoria, al milione (forse) di braccianti che hanno davanti a sé la grande proprietà, e saranno facilmente battuti, ed ai due milioni e oltre che si neutralizzano sporcamente, per sposare la causa del loro contropartitario, medio proprietario, grande e medio fittavolo, grande e medio mezzadro che sia.

La formula che secondo noi guida gli opportunisti contemporanei è ben altra. Tre milioni di salariati agrari anche sommati a cinque di industriali non bastano a vincere le elezioni. Molto probabilmente dopo tanto imbonire, con gaia collaborazione fascista, cristiana, e stalinista, due milioni di salariati della campagna, che sono sempre meno di due milioni e mezzo di piccoli conduttori, non saranno bestiame elettorale perduto.

Comunque, al premio di mezzo milione dato dalla piccola borghesia agraria, si somma quello della media e grande vellicata in modo direttissimo: 110.000 grandi fittavoli, 130.000 grandi mezzadri, e 160.000 "grandi misti". Uniti a questi almeno 300.000 dei proprietari non coltivatori manuali, sono altre 700.000 unità che, alla barba dei salariati da esse sfruttati, si gradisce aggiungere al materiale da fogna nella pesca graveolente della scheda.

In materia elettorale, e fino a che il sistema parlamentare non sarà travolto, si sa quale è la regola: la vittoria la fanno i grandi elettori, ognuno dei quali porta i voti dei suoi dipendenti, per poco che si cessi in partenza di staccarli da lui. Volete disprezzare 400.000 "patteggianti agrari" di alto bordo, attirati in alleanza col loro milione e mezzo di sfruttati? Valgono certo più questi del loro milione e duecentomila di "colleghi" di piccolo tonnellaggio, che col patto migliorato, dato che lavorano con le loro mani, restan lo stesso dei disgraziati; perché meno del lavoratore senza terra possono aspirare a redimersi dalla proprietà, dal capitale, dalla religione e dal parlamentarismo, in cui i socialcomunisti della fogna collaborano oggi a tutt'uomo a trascinarli.

* * *

La tesi dell'articolo pubblicato nel numero scorso sulla Infame politica agraria del nazionalcomunismo è risultata ben chiara, sulla elaborazione delle cifre che vennero utilizzate, e che tuttavia abbisognano di qualche precisazione, come siamo soliti fare.

È ben chiara, e lo diviene tanto più quanto più l'esame si approfondisce, e lo si enuclea dalle dubbie statistiche ufficiali, oggi molto inferiori a quelle che tentò di erigere, sempre a fini di classe, il ventennio fascista. L'ipocrita difesa della stabilità dei patti agrari non è che la piattaforma di una bassa manovra parlamentare ed elettorale. Essa non risponde ad una difesa delle forze del lavoro nella campagna, che un sistema come quello italiano opprime ferocemente - mentre un sistema come quello russo di capitalismo di Stato industriale le ha relativamente favorite - ma, sul piano sociale, alla difesa degli interessi economici della borghesia e media borghesia delle campagne, che non lavora manualmente, ossia degli affittuari imprenditori e dei grassi mezzadri pieni di capitale.

Il bolso principio della "giusta causa", ossia dell'immanenza, salvo eccezionali estremi, del contratto corso col proprietario della terra, non salva la possibilità di impiego del lavoro e della permanenza, in un'attività organizzata e in un'abitazione rurale, di famiglie povere e semipovere, ma l'alto profitto del capitale d'impresa impiegato nell'agricoltura, cui l'enorme maggioranza dei datori di lavoro di braccia nella campagna - e quindi in ultima analisi anche dei minimi fittavoli mezzadri e persino proprietari lavoratori - viene data mani e piedi legata in un'alleanza demagogica, paralizzatrice ed immonda.

Tutto questo al solo fine di spostare basi elettorali, e di toccare il vertice imbecille della più vuota di tutte le illusioni di cui viene pasciuto l'italiano povero e mezzo povero: l'avvento della crisi ministeriale, l'apertura di un ennesimo di quei periodi, che con quelli meno frequenti e più puzzolenti ancora delle elezioni dovrebbe maggiormente essere usato dal partito marxista di classe per disonorare il regime italiano, nelle sue disgustanti analogie a quelli dell'occidentale "mondo libero", che ha colonizzato noi a forza di Comitati di Liberazione e di Ministeri Tripartiti, storica incrollabile base al fatto di essere governati da americani e da preti.

Per tornare alla forza delle cifre diamo un quadro sintetico cui faremo seguire un breve commento.

Occorre appena ripetere che i metodi di rilevamento dei quattro censimenti tenuti a base del quadro discordano grandemente tra di loro.

Per la suddivisione tra tipi e grandezze di aziende ci siamo dovuti attenere alla ricerca del 19 marzo 1930, riportata come circoscrizione territoriale, negli annuari di Stato del dopoguerra, ai confini del 1° gennaio 1948, ed in buona sostanza a quelli presenti.

Non avendo elementi analoghi nei censimenti ulteriori abbiamo trascurato l'effetto della variazione di superficie agraria da 25.252.000 ettari a 27.776.000 di oggi, tuttavia non determinati come somma di estensione di aziende ben definite ma con partizione generale della superficie geografica. Abbiamo anche trascurato il notevole aumento di popolazione totale ed attiva, dato che la popolazione attiva nell'agricoltura ha all'opposto accusato una netta diminuzione, che deriva dal fatto storico generale della corsa all'industrializzazione. In mezzo secolo la percentuale della popolazione agraria attiva sull'attiva totale è andata dal 59,8 per cento del 1901 al 42,2 del 1951, e in cifre effettive è scesa da 9.510.000 a 8.261.000, salvo una poco attendibile punta di 10.158.000 nel 1921, subito dopo la prima guerra, in cui forse il rilevamento fu alterato da crisi generale e disoccupazione.

Abbiamo invece adeguati i numeri di popolazione agraria attiva ai dati del 1951 che ci hanno dato il totale di conduttori indipendenti, dei loro coadiuvanti non retribuiti (in sostanza i familiari lavoratori nell'azienda) e di dipendenti lavoratori. Come il lettore sa, dalla statistica delle forze di lavoro e delle giornate erogate nell'anno abbiamo tratto il diritto a far salire il numero dei lavoratori nullatenenti a salario da 2.660.000 a 3.200.000, togliendo la differenza senza tema di grave errore ai coadiuvanti, che quindi scendono a 2.500.000, numero praticamente uguale a quello dei conduttori indipendenti.

Le trasformazioni fatte nella nostra tabella sono le seguenti.

Abbiamo supposto che tutte le aziende minori di cinque ettari siano condotte con lavoro degli indipendenti e dei coadiuvanti, ma senza impiego di salariati.

Poiché tali aziende ci risultavano al 1930 oltre tre milioni (sul totale di oltre quattro) abbiamo ripartito tra esse in proporzione del numero i conduttori, e aggiunti ad essi in pari numero i coadiuvanti abbiamo avuta la totale forza di lavoro, che risulta bene elevata rispetto la superficie. Si tratta infatti dei terreni più intensamente lavorati, più che dei terreni migliori (il che è vero solo in parte) di quelli che l'addensamento della popolazione agricola attiva e l'antisociale sminuzzamento delle aziende costringe a tormentare con grave spreco di lavoro: al che invece di rimediare con la grande coltura associata si rimedia con la demagogica esasperazione dello sminuzzamento, nel che i nazionalcomunisti sono più antimarxisti dei radicali borghesi, più retrivi dei baroni del latifondo e più neri dei preti.

Di questo grado di intensità di lavoro abbiamo data un'idea con l'indice dei lavoratori su un ettaro, che nella coltura parcellata è di oltre un'unità.

Passando alle grandi aziende diamo ora la doppia partizione tra esse dei tre 3.200.000 braccianti. Quella data nel numero scorso è in ragione della superficie totale per ogni forma di conduzione, e ci dà 1.825.000 proletari dipendenti da conduttori proprietari, e 1.375.000 dai conduttori di altra forma, cari ai socialcomunisti. Ma la proporzione non pare giusta, ove si tenga conto che tra le grandi aziende a proprietà si ha un'alta media estensione, di 30 ettari, che nelle altre forme scende di molto, fino ai 14 delle colonìe. Sarebbe quindi giusto dividere in ragione composta, diretta della superficie totale e inversa della media estensione. Ciò si ottiene, sempre in via di grande approssimazione, dividendo in ragione del quoziente delle due grandezze, che altro non è che il numero delle aziende, il che abbiamo fatto in una seconda riga. In effetti dunque dei 3.200.000 proletari è la minoranza, 1.400.000, che lavora per proprietari (anatemizzati dai nazionalpattisti, ma con qualche occhiata tenera ai minori, che andando da 5 a 10 ettari sarebbero pure 236.000 aziende su 400.000, con conseguente calcio nel sedere ad oltre circa 1 milione di proletari!). L'evidente maggioranza di salariati, 1.800.000, sta sotto la sferza di fittavoli e mezzadri che ha l'ordine di leccare in nome della giusta causa permanente, espressione senza senso degna degli slogans del moderno gergo alla cocaina.

In queste aziende a salariati l'indice di intensità di lavoro scende a una bassa frazione di ettaro, soprattutto nella proprietà e nell'affitto ove la maggiore media estensione permette un certo impiego di macchine, mentre il suo crescere relativo nelle forme di mezzadria e colonìa mista non è che l'indice della loro gravosa antisocialità e antiproletarietà, che ne dovrebbe fare incoraggiare la più rapida possibile sparizione, non a vantaggio del piccolo possesso conduttore ma della grande azienda unitaria sociale.

Il programma che in questa materia unisce ministeriali e crisisti non merita il solo epiteto di conservatore, ma quello di retrogrado, non solo rispetto alla grande impresa capitalista agraria, e ad una franca agricoltura borghese, ma anche a quello colcosiano sovietico, che dal socialismo nella terra è almeno tanto lontano, quanto la prima. Demagogia e forca si scambiano una meritata e reciproca stretta di mano.

La parte inferiore del nostro quadro dà il totale delle forze di lavoro agrario, sommato dalle due prime parti, e suddiviso per forme di conduzione. Gli indici medi di estensione e di intensità sono intermedi alle due prime parti della tavola, come è logico, ma bastano a mostrare come la forma peggiore sia la mezzadria, pura o mista, ideale della presente campagna.

  Numero aziende (.000) Superficie (.000 ha) Superficie media (ha) Numero conduttori (.000) Numero coadiuvan. (.000) Forza lavoro (.000) Intensività (lavoratori per ettaro)
Proprietà 2.078 2.972 1,4 1.450 1.450 2.900 0,98
Affitto 460 564 1,2 400 400 800 1,42
Colonìa 287 602 2,1 250 250 500 1,21
Miste 460 948 2,2 400 400 800 1,19
Totale 3.285 5.086 1,57 2.500 2.500 5.000 1,03

 

  Numero aziende (.000) Superficie (.000 ha) Superficie media (ha) Salariati per superficie Salariati per numero di aziende Intensività (lavoratori per ettaro)
Proprietà 400 12.113 30,4 1.825 1.400 0,12
Affitto 106 2.774 26,2 420 375 0,14
Colonìa 244 3.555 14,3 161 2.674 14,3
Miste 161 2.674 16,3 410 565 0,20
Totale 911 21.116 23,2 3.200 3.200 0,15

 

  Numero aziende (.000) Superficie (.000 ha) Superficie media (ha) Forze lavoro Intensività (lavoratori per ettaro) % proletari sulla forza lavoro
Proprietà 2.478 15.085 16,1 4.300 0,29 32,6
Affitto 566 3.338 16,0 1.175 0,25 32,0
Colonìa 531 4.157 7,8 1.360 0,33 64,3
Miste 621 3.672 5,9 1.365 0,37 41,2
Totale 4.196 26.252 6,25 8.200 0,31 39,1

Un'ultima riga sta a dimostrare quanta è la forza di lavoro in forma salariale dipendente, oggi abbandonata al suo triste destino, rispetto alla totale, che comprende la forza di lavoro pseudo-padronale (conduttori e familiari). Da essa emerge che la posizione più critica del proletario agricolo italiano si verifica, più che di fronte al proprietario e al fittavolo, proprio davanti al colono parziario puro o misto, vera base di un'Italia borghese e controrivoluzionaria, sia il suo volto fascista, o repubblicano.

Nel censimento fascista più recente del 1936 si tentò di dare la distinzione, oltre che tra conduttori e lavoratori, anche tra quelli dei primi che conducono terra propria od altrui, e tra affittuari e coloni parziari. Tra questi furono censiti 532.000 capifamiglia, che corrispondono al nostro numero di 250.000 piccoli conduttori, solo ove vi si aggiungano i capi delle 244.000 grandi colonìe. Per le conduzioni dirette in proprietà e affitto, e anche per le miste, non si ha grande contraddizione tra lo smistamento fascista del 1936 e quello ultimo del 1951. Nel primo però sono i coadiuvanti coloni che risultano in numero eccessivo, oltre 1.200.000, e la cosa si spiega poco anche se si tiene conto che noi abbiamo portati 500.000 coadiuvanti a proletari per documentata ragione, e che nel 1936 tutta la popolazione agraria attiva eccedeva di circa 400.000 unità sulla nostra.

In questo caso il marxista risponde che la quantità diviene qualità. L'ideale piccolo-borghese per cui si batte la sinistra dell'Italia resistenziale e repubblicana, anche nel fabbricare falsi ufficiali, è squisitamente rimasto un'ideale fascista. Senza con ciò lasciare di essere altamente cattolico e nero.

Poche altre considerazioni sull'argomento, in difesa dell'eroico lavoratore nullatenente della terra italiana, figlio di forme superiori di secoli a quelle che hanno ridotto il gregge del contadiname alla forma umiliante e servile della fame di terra. Di quei compagni, che come anni addietro narrammo con le parole stesse di un giornale borghese del primo Novecento, cadevano di piombo carabiniero sui ponti della bonifica capitalista padana, gridando: compagni, avanti! viva il socialismo! (Ambrogio Fusetti).

I 5.000.000 di forze di lavoro "indipendenti" stanno di fronte a 3.200.000 di dipendenti senza terra e senza patto (i decantati e infettati compartecipanti non sono che un ventesimo forse dei proletari). Ma questo rapporto di braccia non resta lo stesso come rapporto di bocche. Ai braccianti bisogna aggiungere le loro famiglie, che vivono tetramente nelle cento città storiche italiane derivate dai liberi comuni del Nord come dalle grandi borgate dalla rudimentale edilizia di Puglia e di Sicilia, in cui pure secoli di convivenza tra derelitti insegnarono di più che l'egoismo spietato della piccola casetta chiusa in poca terra. Ammesso che anche tra i braccianti vi siano donne e fanciulli a salario autonomo, ciò non toglie che altri ne restano, donne e ragazzi ultradecenni, nella popolazione non attiva. Quindi sono almeno di pari numero le parti di popolazione agraria da difendere sul terreno dei patti tra lavoratore e datore di lavoro, e quelle da difendere coi patti tra lavoratore in proprio e proprietario.

Il reddito magro dell'agricoltura italiana di divide dunque ancora peggio di quello che le cifre di superficie e di forza lavoro ci hanno detto. Ed esso è già deteriore rispetto a quello modesto di tutta la popolazione, per quanto la teoria fasulla del reddito nazionale non abbia altra funzione che occultare la sua partizione tra le classi.

Nel 1955 il reddito del settore agrario è stato il quarto di quello nazionale, giusta le cifre di questo tipo. Ma ben sappiamo che la popolazione attiva agraria è il 42% dell'attiva, e quindi il reddito medio agrario è circa la metà di quello medio nel settore non agrario. Se si introduce il rapporto alla popolazione non attiva, per la già fatta considerazione il proletario scende almeno di un altro terzo al di sotto del piccolo conduttore - mentre i grandi si fanno la parte, che la statistica ignora, del leone.

Nel Piano decennale Vanoni il reddito medio dovrebbe salire del 5% annuo, e dunque diventare 165 contro 100. Ma esso è un piano di investimenti, e pertanto caldeggiato ed esasperato dal nazionalcomunismo, e la parte consumabile dovrà scendere dall'80 al solo 75%. Quindi salirà da 80 a 123 con aumento da 100 a 150 circa.

Ma è decretato che la "struttura" del reddito vari a carico dell'agricoltura, che dal 26 per cento di cui sopra scenderà al 20. Quindi esso salirà solo da 26 a 30 e solo nel rapporto da 100 a 115.

Ci si potrà dire che riuscendo il piano "benesseresco" l'occupazione, come struttura dell'atteso "pieno impiego", sarà in agricoltura solo del 33% al posto dell'odierno 41, come vuole il piano; e ammesse le proporzionalità tra occupati e consumanti quel reddito sarà ripartito tra meno consumatori, e da un indice 100 andrà ad un indice suppergiù uguale al 150 generale... Ma resterà sempre la condizione di sfavore dei proletari pagati in sola moneta, pochi a lavorare e molti a mangiare, a dispetto del mirifico "pieno impiego", di cui riparleremo nel 1964.

Ciò che interessa la scuola marxista (e non i fessi che, ad ogni passo rivendicando tradizioni costituzionaliste, rooseveltiane, bonomiane, nittiane, vanoniane, degasperiane magari, leccano il dietro a quella del benessere) è che il solo erogante di forza lavoro produce valore consumabile, e di esso riceve una bassa parte. Il piccolo mezzadro, fittavolo, e proprietario, lavoratori manuali, si illudano pure di arrivare a consumare tutto il loro lavoro e non cedere plusvalore, col ridurre i due primi quella quota di esso che è la rendita padronale, mentre è proprio il terzo, che ne detiene la legale conquista, il più fesso.

A noi interessa che in nessun momento si faccia dimenticare al proletario come il plusvalore a lui sottratto a fini non sociali, come non sociali sono quelli di ogni economia mercantile, viene spartito tra proprietario, affittuario imprenditore, o colono parziario quanto i primi assoldatore di salariati, e che egli deve condurre la sua lotta contro il fronte unito di questi vari tipi di spartitori, a mezzadria o meno, di sopralavoro.

Le forme degeneri ed immonde di agitazione dei partiti che oggi abbindolano i lavoratori italiani possono definirsi, degnamente, come: la mezzadria del filisteismo tra classe dominante e classe dominata. In che, sta la morte della Rivoluzione.

Da "Il Programma Comunista" n. 7 e 8 del 1957

Archivio storico 1952 - 1970