Bordiga al CE del PCd'I
Napoli, 18 febbraio 1924
Carissimi compagni,
anzitutto alcune osservazioni sulla procedura, prima che sul merito, della quistione della proposta vostra per la mia candidatura.
Dopo l'abboccamento del 10 corrente con Palmi e G. la prima comunicazione vostra che mi è giunta è stata la lettera mandata a mano del 15 (N. 794 R.) alla quale ho risposto la mattina del 16. Solo il pomeriggio di tal giorno ho avuto la lettera del 13 (N. 728 R.).
Il tenore di tali due lettere mi è sembrato strano, dopo che nell'accennato colloquio, di cui certo non si fece un verbale né che si concluse con un patto scritto, si era nella sostanza giunti alla conclusione di lasciar cadere prima di renderla ufficiale la proposta dell'Esecutivo. Dato che si parlava della cosa da molto tempo, che io ero venuto a Roma proprio per definirla, come da vostro invito, che i miei interlocutori erano due membri, e della cosiddetta maggioranza, dell'Es., che perfino per certe incidentalità tecniche si alluse... alla irrevocabilità del mio rifiuto, dati i precedenti della mia condotta in questa ed altre quistioni, mi pareva che essa non dovesse essere riaperta. Aggiungo che nel mio colloquio con altro compagno questi sembrò spendere molto poco calore nell'insistere contro la mia determinazione.
Ad ogni modo poiché avete voluto fare il passo ufficiale, espongo qui, come promettevo nella lettera del 16, ordinatamente i motivi del mio atteggiamento e la risposta alle obiezioni politiche e organizzative-disciplinari che ad esso sono state mosse.
Anzitutto va stabilito che si deve discutere la vostra proposta in quello che è il suo effettivo carattere politico, e non solo dell'aspetto disciplinare formalistico, di cui pure dirò. Voi mi avete dichiarato che intendevate che io figurassi nelle liste, in tali circoscrizioni e con tali indicazioni di preferenza da assicurare la mia elezione come il primo o uno dei primi dei compagni su cui facevate assegnamento per la composizione del nuovo gruppo parlamentare, affermando che io avrei potuto ottimamente indirizzare la azione parlamentare del Partito in modo assai migliore, più energico, più efficiente, che il vecchio gruppo parlamentare non avesse fatto.
Io ho dichiarato che un tale progetto non rivestiva carattere di reale vantaggio per il partito, a causa della portata assunta dai noti dissensi tra il gruppo di compagni di cui io faccio parte, e che dirigeva il partito fino a tempo addietro, e la Internazionale Comunista, dissenso che non occorre qui tratteggiare di nuovo.
Non si tratta di una mia opinione, ma di una questione di fatto. Dal IV Congresso io ed altri compagni del vecchio C.E. , colla ripetuta presentazione delle nostre dimissioni, affermammo che si era delineata una impossibilità nostra a dirigere il partito secondo le linee che, di pieno diritto, la Internazionale aveva stabilite. Di questa impossibilità prese atto la Internazionale col provvedimento, la cui gravità ed [parola incomprensibile] ho in altra occasione illustrato, preso dal C.E. allargato del 23 che deponeva la Centrale del Partito italiano, dopo aver dichiarato che le direttive dalla stessa seguite non avevano corrisposto alla disciplina e alle esigenze della azione comunista in Italia.
Nessuna opposizione o rimostranza venne fatta al provvedimento, pur tanto discutibile nella sua procedura e nel merito delle sue motivazioni, da me e da altri compagni, convinti che in un modo o nell'altro si imponeva l'abbandono della dirigenza del partito da parte del gruppo che, con chiaro e preciso metodo, lo aveva diretto fin dalla sua costituzione.
Da questa constatata incompatibilità a funzioni direttive che nulla secondo me è venuto a modificare dopo, e che solo un vastissimo [parola non comprensibile] con partecipazione di tutto il partito e successiva decisione dell'Internazionale, avrebbe virtù di modificare, io traggo con rigore di logica la incompatibilità per il partito ad affidarmi funzioni preminenti nella sua azione al Parlamento borghese, dove, in maniera che più facilmente si presta a spiacevoli ripercussioni dei dissensi, si ripresentano tutte le questioni su cui vi è stato disaccordo nella dirigenza del partito: tattica verso il fascismo e gli altri partiti borghesi, fronte unico, governo operaio, e così via.
Alla vostra obiezione: non è la stessa cosa essere alla Direzione del partito e al Parlamento, rispondo facilmente.
Tecnicamente - poiché tutto sta nella necessità che il lavoro sia guidato secondo le disposizioni della Internazionale - il controllo e il concordamento preventivo della azione avviene molto meglio per chi stia alla Direzione del partito, trattandosi di preparazione interna di manifestazioni esterne su cui si può quasi sempre intendersi prima ampiamente. Invece per il deputato o il LEADER parlamentare, il controllo è molto più difficile, la necessità di concordi vedute molto più evidente, o almeno nella stessa misura. Politicamente, se è per me un canone fondamentale la omogeneità delle Centrali dei partiti - canone che certo la Internazionale Comunista non riconosce in generale; ma a me basta che nel caso in parola abbia solennemente dichiarato che vi era una eterogeneità che rendeva incompatibile la mia presenza nella Centrale - ancora più condannabile è un dissenso che si presenti sotto l'aspetto della indisciplina agli organi di partito dei rappresentanti al parlamento, in quanto necessariamente questa appare sotto la specie dell'opportunismo tradizionalmente più scandaloso, quella del deputato che dice: io sono mandato qui dagli elettori e non dal partito, e quindi mi pongo al di sopra di questo.
Poiché si parla di mie speciali attitudini a scongiurare la corrente corruzione che si verifica in Parlamento, mi sia dato ricordare che il mio temperamento non mi consente di essere il caloroso sostenitore di una tesi di cui non sia convinto e che non si inquadri in tutto il mio sistema di opinioni e nelle dottrine marxiste di cui sono seguace, e per necessità interprete. Per conseguenza io dovrei al Parlamento essere indisciplinato, e ciò mettendo il mio dissenso nella forma più antipatica, dopo che mi sono tanto preoccupato di soffocarlo anche al di là del mio stretto dovere, oppure dovrei restare completamente passivo e inutile.
Se io ho delle qualità di oratore, è in quanto sostengo tesi di cui sono del tutto investito, mancando di ogni lenocinio, di ogni attitudine al calcolo diplomatico. Io sono un oratore per la propaganda diretta al proletariato: per quella specie di propaganda indiretta che si può fare dalla tribuna parlamentare l'effetto dell'opera mia sarebbe disastroso: mi si consenta di ricordare che, siccome mi sono negato a scrivere prima i miei discorsi, a diffonderne dopo sunti, a correre a rileggere e correggere resoconti e soffietti, di solito quanto dico è sempre travisato sulla stampa, anche quando l'effetto sugli uditori è stato buono. Non si farebbe dunque di me utilmente un oratore parlamentare: se si tratta solo di utilizzare la mia cassa toracica e le mie corde vocali per recitare pezzi scritti da altri, allora credo che si possa facilmente trovare chi farebbe anche miglior effetto. Ma si tratterebbe invece, voi dite, di dare il tono politico: a parte il fatto che forse nella schermaglia parlamentare non potrei farlo come dalla dirigenza del partito, è pacifico che io sono incompatibile a dare questo indirizzo generale, per quanto ho ricordato. Io sto qui discutendo obiettivamente la convenienza per il partito di fare di me un deputato: per questo dico delle mie qualità positive e negative.
Non è poi vero che il partito debba gettare per necessità tutti i suoi uomini nell'agone parlamentare, se il parlamentarismo è per noi solo una delle tante attività, e non quella fondamentale. Mi sia dato osservare che io non mi pongo affatto sul terreno delle mie tesi antielezioniste del 1920, ma su quello delle tesi adottate dalla Internazionale in materia.
Come pure non invoco come motivi accettabili dal partito quelli di carattere soggettivo, come la insuperabile mia ripugnanza a penetrare nel mefitico e spregevole ambiente del parlamento che detesto con tutte le mie forze e nel quale mi auguro di non cadere mai, come mi auguro di non andare in galera e di non essere accoppato, sebbene non intenda escludere che l'azione del partito possa portarmi a queste conseguenze.
Sarebbe poi sciocco attribuire ad un ripicco personale la mia attitudine, collegandola ad un ipotetico mio risentimento per essere stato defenestrato dalla dirigenza del partito. Le necessità di questo fatto sono stato il primo a vederla e sulla procedura, come ripeto posso discutere in via oggettiva, ma non nel senso che essa mi abbia potuto urtare ed offendere.
Se volete che scriva anche il fondo più intimo del mio pensiero come lo manifestai nel noto abboccamento, eccomi a farlo in brevi linee. Io sono prontissimo a restare per sempre un semplice gregario del partito e della causa comunista, e non ho nessuna pretesa a fare il capo per il fatto di esserlo stato o di godere di una certa notorietà e fiducia. Dunque posso restare un semplice soldato, e nulla vi sarà di male. Ma se cerco di considerare spassionatamente come potrò ancora essere un utile istrumento della azione di partito, in relazione a quelle che sono le mie qualità e la mia preparazione, e lo sviluppo della attività del partito e della Internazionale, postomi il problema obiettivamente ecco le conclusioni a cui giungo secondo il modesto mio criterio.
Al principio del 1921 dopo un lungo periodo di attività prevalentemente critica nel senso del vecchio partito, di cui ero alla opposizione, nel quale mai volli cariche di carattere nazionale, passai nella direzione del partito comunista sorto dalla situazione di Livorno e feci del mio meglio per servire la causa nostra nel campo dell'azione. Un dissenso esisteva e si accentuò tra me e la maggioranza, non del partito, ma della Internazionale. Questo dissenso mi ha ricondotto ora nella situazione di chi fa un lavoro critico, o prevalentemente critico, - e per dare ad esso maggiore ampiezza non attendo che le debite autorizzazioni delle gerarchie di partito. Non discuto la differenza radicale tra la situazione di allora e quella di oggi, non discuto, perchè non entra nelle deduzioni che faccio, se io o la Internazionale abbia ragione, e ammetto che vi siano infinitamente maggiori probabilità che un giorno sia io coi compagni a me più vicini a dire: abbiamo errato. Solo, allo scopo di rendere conto della mia condizione di animo, dichiaro che considero che un passaggio a funzioni direttive nel campo dell'azione non può apparire come prossimo. Il mio giudizio su me stesso è che a Livorno fui frettoloso e troppo elastico, che ora si apre una fase lunga in cui prevalentemente farò opera di critica, per poi ritornare ad eventuali compiti di azione.
Quando questo avverrà, mi sia permesso dirlo, credo di poter essere utile alla causa su un tale terreno pratico e con tali funzioni (ripeto posso benissimo non averne nessuna) che rispetto a tale compito la mia trasformazione in un deputato non solo non è un utile avviamento, ma un inutile sabotaggio politico, morale e tecnico. Chi finisce nella carriera parlamentare è quasi sempre, agli effetti della lotta rivoluzionaria e dei suoi quadri, un elemento svuotato e liquidato. Credo che, se merito di essere lasciato a un posto di semplice militante, avendo sempre fatto con lealtà il mio dovere, non merito, e non conviene soprattutto al partito, di infliggermi l'ingresso tra i professionisti della politica parlamentare. Circa la risposta: si tratta di andare a creare il nuovo parlamentarismo comunista; risponderò che come non si poteva logicamente chiedere la fusione coi socialisti a me che non ci credevo, così non si può chiedermi questo famoso e irraggiunto esperimento, ma ricorderò solo che questo difficile tentativo, se ha bisogno di uomini con speciali qualità di serietà, ha non minore bisogno di uomini non paralizzati da un dissenso, come ampiamente ho già detto.
Mi sono messo fin qui su questo terreno: non conviene al partito fare di me un deputato. Ma mi si dirà: non tocca a te valutare se come e quando sarai utilizzato, vi sono organi competenti; essi hanno esaminato e risolto come credono il problema e tu non puoi non accettare la loro decisione.
Ma appunto io ho qui dimostrato che la decisione di tali organi è logicamente pregiudicata da quanto è avvenuto a proposito della direzione del partito italiano, fatto che per la sua maggiore gravità [parola incomprensibile] e inquadra la soluzione del problema attuale. Ed ho tenuto a porre in rilievo quanto dissi per persuadere i compagni a non arrivare alla questione della disciplina, di cui in ultimo, e dopo aver esaminato altre obiezioni, verrò a parlare.
Si è anche detto: il partito si meraviglierà della tua non inclusione nelle liste, essa farà cattiva impressione, si dovrà spiegarsi.
Non escludo che questa meraviglia vi possa essere, ma non sarà ingiustificata, e va ascritta a quell'incitamento al pettegolezzo politico che è una delle conseguenze inevitabili della attività elettorale. Io non sono un deputato uscente, né sono mai stato candidato neppure a un consiglio comunale, si sanno le mie idee sul parlamentarismo; mi concederete che per lo meno uguale sarebbe in altri, che io credo migliori compagni, la meraviglia della mia presentazione. In ogni modo io non solo nulla avrei in contrario che si dessero le spiegazioni che io do più sopra, anzi io ho sempre pregato che si pubblicasse la situazione mia e degli altri rispetto alle cariche direttive. Ma se questo il partito non vuol fare, che non ha che a dire che non tutti gli iscritti devono essere candidati, che non tutti gli uomini noti sono utilizzati dal partito allo stesso modo, che non siamo un partito esclusivamente parlamentare. O si deve dire che non sono nell'Esecutivo: e l'impressione sarà maggiore di quella derivante dal fatto che io non diventi DEPUTATO, cosa che mai fui, o non si deve far sapere, e si deve lasciar credere che io sono occupato a dirigere il partito, e nessuno allora stupirà che io non possa perder tempo a fare il deputato. Certe impressioni e ripercussioni nel partito erano prevedibili, e sono nel bilancio del molto più importante atto compiuto, a ragion veduta, dell'Esecutivo Allargato.
Vi è stato un processo clamoroso e si è fatto del chiasso (attorno) a me. Ebbene, questo criterio che la notorietà designi i candidati, è elettoralisticamente logico, ma non è comunistico. Nulla [parola incomprensibile] di più filisteo ed opportunistico per gli elettori e gli eletti di questo tradizionale fatto: pochi mesi di carcere portano di conseguenza che alla prima occasione la "vittima" presenti al proletariato la nota, e la riscuota sotto forma di voti. Il partito comunista se vuole farà delle elezioni, ma non faccia di queste [parola incomprensibile]. Caso mai si presentino quelli che sono vittime sul serio.
[Il resto della pagina è incomprensibile e quindi lo omettiamo]
Si dice: come dirigente del partito, tu stesso imponesti la disciplina a chi non voleva, nel 1921, essere candidato.
Anzitutto richiamo i veri precedenti: nel 1921, sebbene i motivi fossero assai meno gravi che quelli odierni, il Comitato Centrale deliberò che io non dovevo essere candidato. Molti candidati designati (se non erro) per ragioni che addussero furono sostituiti nelle liste: ed erano spesso ragioni soggettive e di interesse personale. Non ricordo se fu espulso qualcuno, ma mi sia dato chiarire che si parlò di espellere chi aveva negato il suo nome al partito per non correre pericoli, chi all'ultimo momento non firmando la dichiarazione ci lasciò con liste non bloccate, cosa che volevamo evitare per non avere liste comuni coi socialisti. Ma il precedente di espellere chi non voleva accettare chi non voleva essere un eletto certo e un deputato, non credo si sia verificato. Lo stesso IV Congresso non parlò di sanzioni che per i dimissionari, non per i non accettanti, di cariche direttive dei partito, non di posti parlamentari.
Ed io vi dichiarai: il mio nome come quello di ogni compagno è a disposizione del partito: ponetemi in una lista qualunque, non cercando a bella posta le circoscrizioni sicure né dandomi le prime preferenze... Il che se non avete fatto, è stato per altre ragioni forse ovvie, ma non per miei rifiuti. Naturalmente la mia proposta non voleva dire offrire l'esca di un giuochetto o di un tranello, indegno di tutti noi, ma voleva dire...quello che è sopra scritto e nulla di più.
La regola formale: ognuno deve fare senza discutere quella qualunque cosa che il partito gli ordina, non solo in questi termini, non è scritta in nessun posto, ma soprattutto non può sopraffare la realtà e la logica delle posizioni politiche. E qui sul concetto dialettico di disciplina molto vorrei scrivere, se non volessi evitare di trasformare questa lettera già troppo lunga in un progetto di tesi per la Internazionale. La disciplina e l'accentramento massimo sono limiti a cui ci si avvicina con un processo effettivo, che si svolge nel senso dei criteri da me sostenuti per la attività e la politica comunista: rigore e continuità nella dottrina, nella organizzazione, nella azione del partito. Nel 1921 eravamo più vicini a queste condizioni che non siamo oggi, che non si sa dove comincia e finisce il partito, dove comincerà e finirà domani, quali sono i suoi giornali, quali saranno i suoi deputati e così via. Questa quistione si discute su questo terreno e non è serio porla così: tu eri il disciplinatore del 1921; devi essere il disciplinatore del 1924. Non è questione di persone che sono campioni di disciplina attivo passiva, ma di metodi che la disciplina assicurano, di metodi che la allentano. Io sono per la disciplina non come principio metafisico, ma come risultato parallelo e inseparabile degli altri che credo costituire le condizioni perché siavi un vero partito comunista. Tutti noi siamo stati i campioni del frazionismo e della indisciplina nei vecchi partiti e della disciplina nel fondare i nuovi. Ora nella Internazionale vi è una situazione diversissima da quella in cui facemmo opera di tendenza nei partiti opportunisti - e che io senta tali differenze lo mostra il mio scrupolo di evitare ogni manifestazione critica non autorizzata dagli organi competenti, di cui non si può non darmi atto - ma una situazione che deve essere vagliata collo stesso criterio dialettico in fatto di disciplina da applicare e da rispettare. In altri termini io credo che alla conquista della disciplina hanno nociuto le opinioni da me invano combattute, e che il piccolo incidente che oggi si svolge intorno alla mia persona non urta colla disciplina per iniziativa mia, ma per conseguenza di quelle iniziative che ho combattute a tempo, subendole per il rispetto alle maggioranze, che resto nei limiti della disciplina indiscutibile che io riconosco allo stato dei fatti nella I.C. Ma entro questi limiti non vi è e non può esservi, cento episodi di vita interna di tutti i partiti comunisti lo dimostrano, la possibilità di far vivere certe contraddizioni politiche e logiche stridenti, come quella che ho evitata. Di averla evitata mi sento tanto soddisfatto, quanto di avere in altre occasioni similmente opposto resistenza a soluzioni di equivoco nocive al successo della causa rivoluzionaria. Se questo provoca in voi una situazione di disagio e di non buon funzionamento del partito, io vi propongo di cercare insieme le cause e i rimedii, che non sono certo nella mia volontà. Ricerca che non può farsi da oggi a domani, per un singolo problema, per il nostro partito, ma che implica la grande discussione internazionale più volte accennata.
Voglio ora, per la storia completa della quistione, dichiarare che non è da me stato affacciato l'argomento che alla comune disciplina dovrei essere sottratto perché sono un "capo" e per pretesi miei meriti. Come vedete questo non ha fatto parte della mia esposizione.
Con saluti comunisti,
Amadeo Bordiga
A.P.C. 246/ 42-47