Processi politici: fini e mezzi (VIII)

Ieri

Basta tornare indietro di una generazione per ricordare che nella polemica giornalistica e nelle discussioni tra le persone "colte" o nei salotti borghesi si considerava ancora controverso il giudizio sulla grande rivoluzione francese del 1789. Nessuno più nelle sfere dei benpensanti ne contestava ancora i risultati storici sociali e politici, non essendovi più partiti o correnti fautori della restaurazione legittimista, che sostenessero doversi abolire le "conquiste" realizzate nel mondo sulla base di quegli immortali principii. (Ben vero, una cosa che non lasciava di sbalordire il rivoluzionario Benito Mussolini nel 1912 era che a Napoli si stampasse ancora un settimanale borbonico, Il Vero Guelfo...).

Tuttavia era ancora controverso il giudizio dei posteri ed aperto il dibattito, almeno agli occhi dell'uomo della strada, sulla grave questione degli orrori, dei metodi feroci che la rivoluzione aveva seguito, nella sua lotta rinnovatrice e nella sua avanzata inesorabile. Vada per la libertà eguaglianza e fraternità, vada per il regime liberale e parlamentare e per i diritti dell'uomo e del cittadino, vada per la soppressione delle monarchie assolute e dei privilegi nobiliari e chiesastici, ma ad ottenere tutto questo avrebbero dovuto pensarci su e magari rinunziarvi piuttosto che arrivare alle efferatezze del Tempio, ai leggendari sbudellamenti di parrucchieri - che non avevano ancora scoperto la permanente - sulle duchesse ricciutelle.

Argomento sociale decisivo diventava dunque il "giallo", se pure non si diceva ancora così, la cronaca romanzata e colorita su questi contorni ad effetto dei fatti storici, la dipintura degli orrori. Se da tempo un italiano non tanto fesso aveva spiegato che nel processo politico e storico il fine raggiunto deve essere considerato assai più importante del mezzo adoperato, i discendenti non potevano che arrossire di un antenato così cinico ed immorale come Nicolò Machiavelli.

Svezzare tutte le propagande da questa mania dell'argomento raccapricciante apparve sempre impossibile impresa da quando esso formò la base della diffusione popolare del cristianesimo, e se i reazionari puntavano in primo luogo per la mozione degli affetti e la perorazione di ogni requisitoria sulla Vedova e sul Terrore, i democratici radicali, gli anticlericali massoni non trovavano di meglio che far leva per controbattere sulla Inquisizione e sulle notti di San Bartolomeo.

Non è stato mai possibile chiudere con una sentenza accettata il dibattito su questo punto: chi dei due contendenti sia stato il più crudele, il più feroce. Vi è sempre da ribattere, non se la fanno franca nemmeno Gandhi e Tolstoi. Ma il guaio è che il suddetto uomo della strada non si rende conto che si tratta di una ricerca inutile e che, ammesso che sia possibile discriminare tra le frottole propinate e credute da una parte e dall'altra, non è affatto detto che convenga optare contro chi sta dalla parte, nel passato nel presente e nel futuro, dei mezzi più duri, e che la questione sta sempre altrove.

Nelle guerre di una generazione addietro, era una gara dalle due parti a scoprire nelle carni dei propri feriti le palle dum-dum. I proiettili ammessi dalle convenzioni internazionali del civile mondo capitalistico dovevano essere conici ed uscire da canne rigate, non dovevano produrre infezioni o devastazioni dei tessuti, bastava che mandassero legalmente all'altro mondo. Allora non si parlava ancora di aviazione, gas asfissianti, bombe atomiche e simili giocherelli.

Il clou della battaglia polemica parallela a quella dei cannoni nella guerra 1914 fu intorno alle mani mozze dei bambini belgi e alle atrocità delle orde cosacche dello zar, che non facevano prigionieri.

Oggi

Basterebbe l'ignobile spettacolo del processo Kravcenko a stabilire che siamo tuttora allo stesso punto e che compatte mobilitazioni a fine di propaganda puntano sul capitale idiota degli orrori. Soprattutto gli anglosassoni sono convinti di avere vinto con tale espediente due guerre e non sono disposti a mollare. Montagne di carta stampata sono rovesciate sul mondo, e costituiscono anche un buon affare poiché se libri e riviste di scienza storica e sociale sono indigesti o di poco larga richiesta, il pubblico si getta invece tremendamente "incannarutito" (ossia come il ghiottone sui migliori manicaretti) sulle pagine che ricavano le leggi della scienza storica dalle descrizioni abilmente anatomiche sugli interrogatori di terzo grado a base di unghie estirpate, mutilazioni oscene e vivisezioni di cavie umane.

Da decenni si conduce la campagna contro la rivoluzione russa con queste spregevoli invenzioni e le stesse accuse sono rimbalzate sconciamente nell'ultima guerra da un fronte all'altro. Metà del mondo giura che gli affossatori di Kathyn erano tedeschi, metà li crede russi. A questa specie di letteratura appartengono per il novanta per cento i libri impressionisti sulla Russia e sui ricordi di guerra e i minestroni di autobiografie romanzate di maniaci passivi della persecuzione sulle polizie hitleriana e staliniana.

Molte di queste infamie possono non essere inventate, a chiunque si attribuiscano, ed è impossibile andare a fondo in queste ricerche. Ma, più che impossibile è inutile, come in nessun caso il raccontarle può servire a fini meno che loschi di organizzazioni propagandistiche tendenziose.

Gli stalinisti mal si dibattono contro la sapiente ciurmeria del libro di Kravcenko e di tutto il movimento di tale natura, dopo il gavazzare che hanno fatto nel parallelo metodo di propaganda adoperato dalla stessa organizzazione capitalistica contro il nazismo e il fascismo. Essi saranno vittime di questo lurido armamentario, e lo saranno a giusta ragione perché ne sono stati i complici.

Hanno così sconvolto tutto il procedere della formazione della nuova coscienza storica nell'avanguardia proletaria. Essi accettano stupidamente la discussione se vi sia più libertà in Russia di quanta ve ne fosse in Germania sotto Hitler o ve ne sia oggi in America. Non sono più all'altezza della critica e della condanna della libertà borghese che gli agenti di polizia e i venduti sono ben padroni di scegliere. Non possono rispondere che i comunisti, per conto loro, scelgono la dittatura rivoluzionaria, poiché hanno fatto per loro conto baratto e mercato di tutto, hanno anche essi barato e speculato sullo slogan imbecille della lotta per la libertà tout court ed oggi è la proverbiale biscia che morde il ciarlatano.

Può fare impressione che il comunista tedesco di opposizione Heinz Neumann, un generoso e leale combattente del proletariato, sia finito in una soppressione silenziosa e che la sua compagna sia stata palleggiata tra la polizia sovietica e quella nazista con tanti altri infelici, povera risacca umana dell'ondeggiare della politica dei grandi poteri. Ma non si pensa quale più grave problema storico da meditare e studiare per la conduzione della lotta proletaria sia quello che emerge dal racconto della vedova. Perché mai la tattica russa in Italia sia nel 1923 che nel 1943 è stata tutta nella consegna: "lottate per la libertà, scegliete la libertà, bloccate con liberali di ogni sfumatura"? - e perché invece in Germania quando Neumann voleva il blocco contro Hitler di tutti gli antifascisti, il fronte unico per la libertà, lo si è sconfessato? - e perché ancora dopo il 1941 si è tornati a lanciare il grido della campagna per la libertà e del fronte unico antinazista con tutti i democratici del mondo?

Sono questioni ben più pesanti di quella sul dubbio se il militante Neumann sia stato tenuto in un albergo, in una prigione o in una camera a gas, per quanto queste immagini facciano fremere.

Sono questioni che hanno attinenza col sabotaggio e il disfattismo di tutte le risorse della rivoluzione mondiale.

Perché solo dei comunisti che non abbiano ad ogni svolta scelto qualche cosa nel campo nemico, che considerino la libertà borghese e la oppressione borghese come la stessissima cosa in ogni situazione, possono avere oggi il diritto di sputare in viso ai Kravcenki e alla fabbrica che li produce, nascosta come quella delle bombe atomiche nei deserti del Nuovo Messico e del Dakota.

Da "Battaglia Comunista", n. 10 del 1949

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