Romanzo della guerra santa (XLIX)
Ieri
Al tempo della pace di Brest Litovsk tra la Russia bolscevica e la Germania ancora kaiserista, nel marzo 1918, sorsero nel campo proletario e rivoluzionario vivaci polemiche. La classe proletaria russa, avendo rovesciato feudalesimo e capitalismo, doveva a qualunque prezzo arrivare alla pace e liquidare la guerra; ovvero doveva volgere la vittoria rivoluzionaria ad una "guerra santa", proclamata per rovesciare il potere imperiale tedesco, e per far avanzare la rivoluzione sociale in tutta Europa? È strano che, mentre i comunisti marxisti, ala estrema del movimento socialista europeo ed italiano, approvavano e comprendevano la politica leninista del basta con la guerra e l'accettazione delle condizioni imposte a Brest "senza neppure discuterle", anarchici e sindacalisti rivoluzionari, anche di quelli che alla guerra borghese e all'interventismo erano stati contrari fin dal 1914-'15, si entusiasmarono non poco per la parola e per l'idea della "guerra santa proletaria". È strano perché, dato che la guerra si fa con l'esercito, e i libertari rimproverano ai marxisti l'impiego di un apparato autoritario statale per la direzione della lotta all'interno, non si vede come si concilierebbe una rivoluzione senza potere di Stato con una rivoluzione che arma eserciti per fare guerre vere e proprie. La massima espressione dell'autorità statale è il fatto militare; la guerra contro eserciti moderni e con mezzi moderni (e altra non se ne può pensare) esige un organismo col massimo di accentrata unità, di disciplina assoluta, e di autorità gerarchica. Se per noi marxisti risulta impossibile, per un periodo non breve di trasformazione, affidare la fondazione dell'economia non capitalistica e non proprietaria alla iniziativa autonoma delle libere comuni federate industriali o agricole, come vuole la formula libertaria, e quindi sosteniamo che non può farsi a meno della forza dello Stato operaio, e della centrale direzione del partito di classe, molto più evidente ci appare l'assurdo che quel federalismo possa stare a base di mobilitazioni e operazioni militari. Passato è da un secolo il tempo dell'idea borghesoide di una guerra sorta da un fiammeggiante ideale delle masse, condotta dagli scalzi figli sol di rabbia armati. Nella guerra i metodi di organizzazione, di pianificazione da un centro, toccano il più alto vertice. Se anche noi marxisti, dopo la utilizzazione pienissima di tutti i portati della tecnica moderna, oggi monopolio dei capitalisti, scorgiamo, alla fine, una organizzazione sociale senza interventi coattivi e coercitivi, è certo che premessa di questo superiore stadio del comunismo è non solo l'attuazione di una serie vastissima di misure sociali, ma soprattutto il superamento decisivo dell'epoca delle guerre e degli eserciti statali.
La guerra è condotta dai grandi centri depositari di una rete immensa di risorse tecniche ed economiche, da centri sempre più poderosi; ed è questo il tragico insegnamento degli ultimi tempi. I larghi appelli alle formazioni irregolari, ai resistenti, ai patrioti, ai maquis e così via, hanno avuto come traguardo, non un serio spostamento dei rapporti di forza militari (perché il danno che, pur dissanguandosi, quei movimenti hanno fatto al "nemico" è stato nullo in rapporto ai risultati delle forze ufficiali e regolari) ma il risultato politico di svuotare le energie delle masse, ed eliminare le opposizioni alle porcherie e sopraffazioni che i vincitori si prefiggevano di compiere, dopo il successo, al puro servizio degli interessi delle classi dominanti, e in dispregio di tutte le promesse di libertà, di civiltà, di giustizia.
Se vi è un fatto sociale che non sarà mai spontaneo, esso è la guerra, soprattutto la guerra moderna. In essa si raggiunge il massimo di maneggio, da parte di un pugno di dominatori, di moltitudini passive, incoscienti, meccanizzate in una rete che distrugge qualunque tendenza all'iniziativa, riducendo gli uomini a tanti Robot omicidi. In principio noi marxisti potremmo non escludere che, per lo sviluppo della rivoluzione, si debba impugnare, come quel duro, odioso espediente che è il potere di Stato, anche questo della guerra combattuta con inquadramenti militari.
È strano però, come dicevamo, che esso entusiasmi i libertari, che tutto vogliono e si illudono di poggiare sull'autonomia della "persona umana". Sacra la persona umana, santa la guerra; sono espressioni di puro ideologismo borghese, del più sucidamente ipocrita, e ci fanno sorridere. Milioni di viventi possono bene essere immolati, per il filisteo, al sinistro feticcio della guerra: l'idea della guerra santa si ricollega invece, per noi marxisti, non ad una guerra del futuro da nobilitare rispetto alle criminali guerre di ieri e di oggi, ma ad un maggiore impiego del misticismo e del fanatismo, che, uniti alla sopraffazione e alla coscrizione, conducono una volta di più milioni di oppressi a dare la vita in servizio degli sfruttatori e degli oppressori.
La guerra, come fatto storico positivo e fondamentale, non può essere ignorata ed esorcizzata, come non può il cretinismo democratico eliminare ed esorcizzare l'urto violento delle classi: se ne deve dunque vedere lo svolgersi storico, non partendo da esaltazioni morali, ma col metodo marxista del determinismo.
Nella Storia del movimento operaio, di Dolleans, a tendenza anarcoide, si fa di tutto per gettare luce sinistra sulla posizione di Marx ed Engels nel 1870. Il primo scriveva al secondo, il 20 luglio, parole di questo genere (non ci è dato controllare traduzioni e ritraduzioni): "I Francesi hanno bisogno di bastonate. Se vincono i Prussiani, la centralizzazione del potere statale gioverà alla centralizzazione della classe operaia tedesca. La preponderanza tedesca, inoltre, sposterebbe il centro di gravità del movimento operaio europeo-occidentale dalla Francia in Germania... il che significherebbe la preponderanza della nostra teoria su quella di Proudhon". Il 31 luglio risponde Engels: "La mia fiducia nei risultati militari dei Tedeschi cresce di giorno in giorno. Siamo noi che abbiamo vinto la prima seria battaglia". E il 15 agosto: "Elevare l'antibismarckismo a nostro unico principio direttivo sarebbe assurdo. Oggi, come nel 1866, Bismarck fa un pezzo del nostro lavoro; a modo suo e senza saperlo, ma lo fa". Marx si sarebbe poi estremamente inquietato perché la frase della sua lettera sullo spostamento del centro di gravità del movimento operaio fu citata nel testo del Manifesto di Brunswick dei socialisti tedeschi, mentre non doveva essere resa pubblica.
Tutto ciò sbocca nell'imputare la crisi dell'Internazionale all'orgoglio e allo spirito di dittatura di Marx, tutto volto a liquidare il "maledetto russo" Bakunin. In altra citazione, poi, Engels investe anche il nuovo regime francese repubblicano, scrivendo a Marx il 7 settembre 1870: "Questa gente che ha tollerato Badinguet per vent'anni, oggi pretende, poiché le vittorie tedesche le hanno regalato una Repubblica (e quale!) che i Tedeschi abbandonino immediatamente il sacro suolo della Francia; se no, guerra ad oltranza... Spero che, passata la prima ubriacatura, ritornino in senno, ecc.".
Al solito la grande questione storica, sulla rivoluzione, tra autoritari e libertari, si vuol ridurla, da chi non arriva, non diremo a capirla, ma ad impostarla sul suo vero piano, ad una questione di personale temperamento dei famigerati capi. Recentemente hanno recensito non so dove il millesimo libro su Lenin, di cui ci vantiamo di non aver letto il secondo. Fin dai congressi a Londra, fin dai soggiorni in Svizzera, Lenin è descritto come l'uomo che insaziabilmente, atto per atto, prepara di lunga mano la soddisfazione del suo innato bisogno di potere, di comando, della sua avidità di condannare e far giustiziare uomini! Scienza ed arte borghesi, in pari grado putrescenti, cercheranno fino nell'utero materno l'impronta di sadica fame di dittatura di quei grandi, trasformando in tali serie a fumetti, solo prodotto alla portata di autori editori e lettori dalla pelle isterica e dal cervello atrofico, il contributo sereno, e fuori da ogni passione soggettiva, dato da essi alla teoria dello Stato del potere e della dittatura, in rapporto alle classi.
Carlo Marx, Federico Engels, Vladimiro Lenin, furono uomini cui rompeva tremendamente le scatole la sola idea di assumere cariche e ricevere onori. I primi due se la fecero franca e la soddisfazione traspare, per chi sa leggere, da ogni rigo delle loro manifestazioni nel campo politico e pratico. Il terzo, in diversa fase storica, per il determinismo dei fatti fu alla testa dello Stato, senza che nella sua semplicità nulla di nulla mutasse. Batti e ribatti sulla dottrina, sferza e risferza tutti quelli che vanno fuori dal seminato e che, sotto la spinta della loro estrema inconcussa convinzione e decisione di essere stati creati per "sacrificarsi" a dirigere tutto, invertono e rovesciano l'azione fino al tradimento; gratta e rigratta gli stessi compagni e seguaci cui ad ogni momento viene una febbricola deviazionista; ad un certo punto un Lenin si decide a fare lui, restando lo stesso uomo con lo stesso sorriso indescrivibile e di infinita bonaria tolleranza per le debolezze, le vanità, e le fesserie continue anche dei migliori, conservando le stesse abitudini di vita del tempo della miseria. La sua compagna Nadejda Krupskaya, al Cremlino, era la stessa delle pensioncine di quart'ordine a Zurigo.
Vi è un gustoso aneddoto narrato da Wolfe. Non poteva evitare qualche "visita" di imborghesite signore, mogli di capi socialisti, e si parlava di cucina. Io, diceva Nadejda, mi servo della stufa, in cui introduco una unica pentola con tutto quello che abbiamo da pranzo. Ma davvero?! Ed il tempo di cottura? Dipende, fu la tranquilla risposta; anche sei ore, quando Vladimiro è immerso nel lavoro; anche dieci minuti, quando abbiamo troppa fame.
Questo fu l'uomo che covava, secondo gli imbecilli, il serpe venefico della sete di dominio. La storia rivoluzionaria lo pose al vertice della piramide della dittatura, che pesava inesorabile sugli interessi, i pregiudizi e le ipocrisie dei nemici di classe. Che essi non abbiano capito nemmeno chi, in quanto a temperamento, era Lenin, è l'ultima prova della tesi materialistica sul potere, ossia che vi sono alcune cerchie di classe i cui elementi non possono essere convinti da propaganda o da misure costituzionali, ma vanno annientati con la forza; e senza esclusione di colpi.
Questo fu l'uomo, che nessuno mai vide con una qualunque divisa, decorazione, o distintivo di potere e di onore. Hanno dovuto prima imbalsamarlo, per poterlo schiaffare su una tavola da palcoscenico.
Quanto a Marx e a Engels, proprio nullo è l'effetto scandalistico di quelle citazioni, anche senza poterle integrare nei veri testi.
Fare dell'antibismarckismo un principio, significa barattare in uno stupido idealismo ed eticismo il metodo del comunismo critico che trova le cause positive dei fatti storici, e il cui primo versetto dice: non vi fu cosa più inumana feroce ed infame del formarsi del capitalismo, ma tale processo non solo fu necessario, nel senso che costituì la premessa per lo sviluppo al socialismo, bensì, nei tempi e nei luoghi in cui fosse ancora in corso, e se da noi dipendesse, noi, proletari e socialisti, noi lo dovremmo aiutare.
Lo stesso totale abbandono del terreno marxista si è avuto quando si è elevato a principio primo, vuoi la lotta del prete, vuoi la guerra a Guglielmo di Germania, vuoi quella a Hitler. Lo stesso hanno fatto quelli che "dopo aver sopportato Bagnasciuga per venti anni" (in quel passo Marx indica Napoleone III col dispregiativo di Badinguet), e "dopo che le vittorie angloamericane ebbero regalata loro una Repubblica (e quale!) pretendevano, colla politica dei comitati di liberazione, che i tedeschi dovessero lasciare il sacro suolo dell'Italia, senza di che, guerra ad oltranza".
Oggi
La guerra santa non fece fessi i proletari rivoluzionari della Comune di Parigi, e non fece fessi i socialisti italiani del 1914-'15.
Fece purtroppo fessi i proletari italiani dopo i venti anni di Bagnasciuga, e per la difesa di questa repubblica 1946, e perfino della monarchia 1943!!!
Speriamo che lo stesso non sia loro riservato, all'incalzare di un prossimo conflitto tra le due ali di guerrasantisti di ieri.
Se lo Stato russo non avesse degenerato, e con esso il movimento dell'Internazionale comunista fondata da Lenin, sarebbe stato chiaro che la situazione della Seconda Guerra imperialista Mondiale non andava affrontata col guerrasantismo. Un vigoroso partito marxista, ferma la mano e l'occhio sul filo del tempo, avrebbe così proclamato. Nel 1870 l'analisi obiettiva poteva indicarmi - dato che non l'Idea, ma la Forza, è l'agente che muta le prospettive della storia - che la vittoria di Bismarck su Bonaparte era elemento acceleratore e positivo, molto al di là delle opinioni e dei desideri di Bismarck, del processo di sviluppo della lotta di classe europea. Non era ancora chiuso il periodo delle guerre nazionali di progresso: tuttavia fin da allora nell'azione politica ero ben lungi dall'allearmi col governo prussiano, e il mio movimento era quello della Comune, contro cui bonapartisti, repubblicani borghesi di Francia, e militaristi tedeschi, nutrivano l'odio medesimo. Sono maturo abbastanza per bollare di vergogna una difesa, in blocco borghese-proletario, del "sacro suolo della repubblica di Francia".
Questo partito, sui dettami di Lenin e dell'ala sinistra socialista, nella guerra 1914-'18 ne sapeva abbastanza da bollare tutti gli unionsacrismi ad un tempo.
Questo partito, in Russia, nel 1917, imposta tutta la battaglia per prendere il potere (febbraio-ottobre 1917) sulla parola: via dal fronte, liquidiamo la guerra; contro la parola dei borghesi e dei menscevichi: guerra di difesa nazionale rivoluzionaria, guerra santa antitedesca. Dopo la conquista del potere, il partito mantiene il suo programma e liquida la guerra, accettando le pesantissime condizioni di pace dei tedeschi. In una esposizione in dettaglio del periodo tra la Rivoluzione Russa e quella tedesca, vedremo le tappe e i motivi di questa decisa e precisa politica, in cui Lenin fronteggia l'impulsività dei fautori sentimentali della guerra rivoluzionaria.
Questo partito, nella Seconda Guerra imperialista 1939-'45, avrebbe dovuto parimenti sostenere la rottura della politica e dell'azione di guerra entro tutti gli Stati. Un marxista poteva tuttavia conservare il diritto, senza temere che i soliti libertari ideologi lo accusassero di simpatie per un tiranno, di fare calcoli e indagini sulle conseguenze di una vittoria di Hitler su Londra e di un crollo inglese. Questo stesso marxista conserverà il diritto, pur dimostrando che il regime di Stalin non è, almeno da venti anni, regime proletario, di considerare le utili conseguenze rivoluzionarie che avrebbe il crollo - disgraziatamente improbabile - della potenza americana, in una eventuale terza guerra degli Stati e degli eserciti.
L'essenziale sarà di non fare una politica di "guerra santa" in nessun caso. Una tale politica è lì, sulla linea del tempo, nella memoria sicura dell'attuale generazione, a mostrare i suoi effetti e risultati. Liberato coi comitati esapartitici che tutti sappiamo, e colle sventolate di fazzoletti bianchi alle famigerate "jeeps del nostro cuore", il sacro suolo italiano, non ci sono più i tedeschi. Ma gli antitedeschi di ieri, fiutandosi, non sentono più l'odore di santità. Abbiamo la Repubblica (e quale! dicevate bene, don Carlo mio, e quale: più pretesca, codina e affaristica della monarchia) e abbiamo l'opposizione repubblicana, in lotta contro l'inaudito scandalo che i proventi dell'affarismo capitalistico siano monopolio degli uomini politici della maggioranza, mentre nei C.L.N. il lavoro per garantirli era stato fatto da tutti insieme.
Per questo la borghesia italiana si svincolò con la santa guerra da Bagnasciuga, e giustamente il generale Alexander, che stipulò l'affitto, ha voluto chiarire l'equivoco: non offesa ma cordiale stretta di mano.
Da "Battaglia Comunista" n. 13 del 1950