La légalité nous tue (XCV)
"La legalità ci uccide" - ovvero - lo scrupolo di rispettare la legalità ci mena alla rovina. Chi lo disse, e quando? Odilon Barrot, il 29 gennaio 1849. E chi era mai? Il primo ministro francese, designato dal Presidente della Repubblica Luigi Bonaparte, che era stato eletto a suffragio universale con maggioranza schiacciante il 10 dicembre 1848. E il Barrot lo disse nel propugnare, innanzi all'Assemblea Nazionale Costituente, una serie di misure eccezionali, una vera e propria legge polivalente contro gli estremismi "di destra e di sinistra", monarchici legittimisti da una parte, socialisti estremisti dall'altra.
La frase di Barrot è riportata da Federico Engels nella sua prefazione alle Lotte di classe in Francia, di Marx, prefazione che per avere la data del 6 marzo 1895 è sempre passata per un testamento politico, e su cui i socialdemocratici posteriori hanno fatto largamente leva per tentare di far credere che Engels avesse, con quello scritto, dichiarate decadute le posizioni rivoluzionarie, di Marx e sue, dell'epoca 1848-1850.
Non è argomento nuovo, ma è... di palpitante attualità, poiché molte dimostrazioni che si possono trarre, e dal testo, vecchio di più di un secolo, e dalla prefazione, di oltre mezzo secolo, si attagliano assai bene ai nuovissimi eventi... del 1952.
Engels infatti dice che "la storia dette torto a tutti noi e a tutti coloro che la pensavano ugualmente"... ossia che "accettavano la prospettiva che la rivoluzione della minoranza avesse senz'altro a convertirsi in rivoluzione della maggioranza". E passava a descrivere da una parte le diverse condizioni moderne tecniche e tattiche di una lotta insurrezionale tra gli operai dei grandi centri, e la polizia o l'esercito; dall'altra i grandi successi della socialdemocrazia tedesca sul terreno elettorale. Ergo, concludevano i socialpacifisti, i maestri del marxismo sostituirono, alle barricate del 1848, la conquista dei mandati legalitari.
Prima di dare ancora una volta la spiegazione del famoso testo di Engels, va ricordato che questi fa proprie nettamente le tesi fondamentali dello scritto di Marx che, si ricordi bene, è del 1850: e già parla, anche prima della lettera del 1852 che Lenin considerò fondamentale, di "dittatura della classe operaia", in luogo altra volta citato nei Fili.
Due altri passi valgono a stabilire, uno (che Engels riporta nella prefazione rilevando che abbiamo ormai "una teoria di cristallina chiarezza" mancante del tutto ai partiti operai francesi del '48) la parte economica del marxismo; l'altro, la parte politica. Siano essi mille volte trascritti da ogni contemporaneo fessacchiotto scopritor di formule-scombiccherator di tesi!
Passo prima: "Il diritto al lavoro, questa goffa formula in cui primieramente si riassumono le rivendicazioni rivoluzionarie del proletariato... è nel senso borghese un pio desiderio... ma dietro il diritto al lavoro sta (attenti!) la presa di possesso del capitale, dietro questa (ancora attenti!) la appropriazione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe lavoratrice associata, e conseguentemente (massima attenzione!) l'abolizione del lavoro salariato, del capitale, e del loro rapporto di scambio".
Definizione: economia comunista è quella in cui non esiste più rapporto di scambio tra capitale e lavoro. Vedi: capitalismo di stato, Russia, mercantilismo, e relativi chiodi.
Passo storico-politico: "Il proletariato va sempre più raggruppandosi intorno al socialismo rivoluzionario, al comunismo, per il quale la borghesia stessa inventò il nome di blanquismo. Questo socialismo è (primo!) la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, (secondo!) la dittatura di classe del proletariato quale stadio di passaggio, necessario per l'abolizione delle differenze di classe in generale, (terzo!) per l'abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, (quarto!) per il rovesciamento di tutte le idee che germinano da quelle relazioni sociali (la coscienza di massa, che ultima arriva!).
Ed ora, aggiornate, completate, correggete, rivedete, o mozzorecchi che dovreste funzionar solo per orecchie, e mozzarvi a metà la linguina impolpettata.
Ieri
I classici lavori di Marx sulla storia francese sono tre. Le lotte di classe, che riguardano il periodo 1848-1850, sono per Engels "il primo tentativo di spiegare colla sua concezione materialistica un periodo storico colle condizioni economiche corrispondenti". Il secondo lavoro succede immediatamente, è Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, e riguarda il periodo fino al 2 dicembre 1851, data famosa del colpo di Stato con cui il piccolo Napoleone si fece imperatore. Il testo è scritto di getto appena giunta la notizia dell'evento, ed Engels trentatré anni dopo nota, non solo, che la storia della Francia può servire di modello alla storia universale del mondo moderno, ma trova la riconferma nel geniale testo della legge del materialismo storico scoperta da Marx "la quale ha per la storia valore identico all'altra della trasformazione della energia per le scienze naturali". Ghigna oggi su simili affermazioni la "filosofia della scienza" che va in gran moda, ma i conti su tali ghigni si faranno da qui a qualche secolo. La legge della conservazione dell'energia contenuta nella meccanica di Galileo impiegò quattro secoli a mettere in pensione il Creatore, e non qui si discute se le modernissime espressioni fisico-matematiche di tale legge abbiano per effetto un richiamo in servizio di tal personaggio, e del suo primo scudiero, lo Spirito.
Anche il terzo scritto di Marx è scritto nelle fiamme del presente non storico ma cronistico: è costituito dall'Indirizzo della Internazionale sulla Comune del 1871, subito dopo la sua sanguinosa caduta.
La sintesi di tali indagini definitive sta in due risultati, che per chiarezza potremmo dire di politica interna e di politica estera. Il primo dice che, per complesso che sia lo schieramento delle classi e dei partiti in una società, quando il proletariato pone la sua rivendicazione massima, tutte le altre classi e tutti i partiti si gettano contro di lui. Il secondo dice che quando in una moderna nazione o in una moderna capitale gli operai alzano il vessillo di fuoco della vittoriosa dittatura di classe, tutti gli eserciti nazionali, anche tra loro nemici, si confederano contro di lui.
Ribatté, con Lenin, ambo i punti la Comune di Pietrogrado 1917.
Ad un certo punto del racconto, Marx stesso ne dà il riassunto.
La prima Repubblica datava dal 1793, e cadde "il diciotto brumaio, quando Napoleone si era recato all'Assemblea legislativa e ne aveva letto, sia pure con voce affannosa, la sentenza di morte". Minore già, dice Marx, del suo primo modello Oliviero Cromwell, altro "gestore" di una Grande Rivoluzione borghese, che, recatosi senza compagnia alla seduta del Lungo Parlamento, aveva cavato l'orologio di tasca perché quello non potesse vivere un minuto di più del tempo da lui fissato, e ne aveva cacciato i membri, uno per uno, fra oltraggi frizzanti di umorismo. Sì, ci sono momenti in cui la storia borghese, fatta da questa classe di salumai e di agenti di pegno, si fa pure stringere la mano; non certo è tra questi il momento in cui Benito si calca sulla testa il cappello a tuba, per la commedia insulsa del 28 ottobre.
Nel 1815 vince la Restaurazione e torna il re Borbone legittimo; allora soltanto la borghesia perde il potere, ma non certo torna indietro la struttura sociale di Francia. Lo riconquista nella rivoluzione del Luglio 1830, ed anche in quelle giornate di insurrezione sono gli operai di Parigi che spazzano via le forze reazionarie, ma solo per spianare la via alla "monarchia di luglio", borghese costituzionale e parlamentare nelle midolla.
La storia che Marx espone si apre col 24 febbraio del 1848, data di nascita della Seconda Repubblica. Più numeroso e robusto, il proletariato di Parigi prende le armi insieme ai borghesi e li spinge inesorabilmente innanzi fino all'abbattimento della monarchia e alla proclamazione della repubblica democratica e sociale. Si apre l'orgia della retorica borghese di sinistra; liberté, égalité, fraternité, e lo spirito di Robespierre sembra aleggiare sulle scritte di fiamma. "Primo periodo. Dal 24 febbraio al 4 maggio 1848. Prologo. Frenesia di fratellanza universale". Il 4 maggio si riunisce l'Assemblea Nazionale Costituente eletta in tutta la Francia: i borghesi repubblicani vi hanno la maggioranza. Nelle loro file si confondono per ora insieme ai legittimisti ed orleanisti, i vari interessi di industriali, banchieri, e le forze elettorali di piccoli borghesi delle città e contadini della campagna. La repubblica uscita dalla rivoluzione getta subito la maschera appena i rappresentanti dei lavoratori chiedono siano mantenuti gli impegni "sociali" presi dal governo provvisorio di febbraio. "Non è la repubblica imposta dal proletariato parigino al governo provvisorio, non la repubblica con istituzioni sociali, non il sogno che passava davanti ai combattenti sulle barricate. La repubblica proclamata dall'assemblea nazionale, la sola repubblica legittima, è la repubblica che lungi dall'essere un'arma contro l'ordinamento borghese, è invece la ricostituzione politica di questo, la restaurazione politica della società borghese, in una parola la repubblica borghese". Il 15 maggio già scoppia il conflitto: i rappresentanti degli operai di Parigi alla testa di una massa armata, invadono l'aula dell'Assemblea. Si scatena in risposta la reazione della polizia, i capi sono arrestati. I lavoratori non possono non raccogliere la sfida e in tre tremende giornate, dal 22 giugno al 25, si battono sulle barricate, soli oramai, contro sbirri, esercito, guardia nazionale fatta da bottegai e intellettuali delle classi medie. Non gli Orléans, non i Borboni, hanno al loro attivo una così feroce repressione: "La repubblica borghese vinse. Al suo fianco stava l'alta finanza, la borghesia industriale, il medio ceto, la piccola borghesia, l'esercito, la canaglia organizzata in guardia mobile, gli intellettuali, i preti, e la popolazione della campagna".
"Col proletariato, nessuno, all'infuori di lui stesso!". Oltre 3000 insorti furono massacrati, 1500 deportati senza giudizio, 15 mila arrestati e poi deportati.
Il secondo periodo va: 1) dal 4 maggio al 25 giugno 1848, e culmina in questa "lotta di tutte le classi contro il proletariato". - 2) Dal 25 giugno al 10 dicembre. Dittatura della pura borghesia repubblicana. Tale dittatura è rafforzata dalla elezione di Bonaparte a presidente il 10 dicembre. Coi voti dei contadini questi ha battuto da lontano il candidato dei repubblicani Cavaignac, ma i rapporti elettivi non divengono subito rapporti di forza. - 3) Dal 20 dicembre al 29 maggio 1849. Lotta della Costituente, col centro borghese e la malridotta sinistra, contro Bonaparte e il "partito dell'ordine" con lui coalizzato. Sconfitta dei primi colle elezioni della Assemblea legislativa.
La frase di Odilon Barrot, che riesumandolo dall'ombra in cui era caduto dal tempo di Luigi Filippo, Bonaparte aveva chiamato al potere, fu detta il 29 gennaio, allorché egli disinvoltamente propose alla Costituente di autosciogliersi. Questa chinò la testa, il governo sciolse i clubs (partiti politici), la stessa guardia mobile di cui si era servito nel giugno, cambiò 50 prefetti nei dipartimenti... Altrimenti, la legalità lo avrebbe ucciso!
Nel terzo periodo da Marx studiato, il proletariato è assente dalla scena. Si va dalla elezione della nuova assemblea, ligia oramai a Bonaparte, al colpo di stato. Ma le lotte tra le varie classi si incrociano. La piccola borghesia tenta di lottare contro la borghesia e Bonaparte, in seguito ad un'onda di dissesti economici che rovinano le piccole fortune. Il 13 giugno 1849 dopo uno sterile tentativo in piazza è battuta. Indi la borghesia, forte al parlamento, tenta di lottare contro Bonaparte. Questi si assicura il controllo dell'esercito e del potere esecutivo, che a lui fa capo come Presidente direttamente eletto. Tardivamente lo stesso partito dell'ordine si allea coi repubblicani e colla stessa Montagna, fatta di socialisti illusi, opportunisti, non rivoluzionari, che in cento passi memorabili Marx di continuo staffila. Questo blocco parlamentare per salvare la libertà non è per nulla appoggiato dalla classe borghese ed affarista, non ha la fiducia del contadiname; finalmente il neo dittatore con un procedimento subdolo che nulla ha della grandezza di un Cromwell o di un Napoleone primo, liquida con pochi arresti che non incontrano resistenza la commedia parlamentare. "Se il manto imperiale cadrà finalmente sugli omeri di Luigi Bonaparte, la statua di bronzo di Napoleone I precipiterà dall'alto della colonna Vendôme". Così chiude nel 1852 lo scritto di Marx; tanto avvenne per ordine della Comune nel 1871.
Alla fine del suo studio sulla formazione di un potere unico, chiaro, sfacciato, totale di classe, Marx scrive il passo famoso sulla talpa rivoluzionaria che ha bene scavato. Giustifica che gli operai di Parigi siano rimasti indifferenti al colpo del 2 dicembre, e registra come risultato utile il pestaggio della menzogna democratica sotto il calcio dei fucili.
Benché, storicamente, dialetticamente, non si giunge a tanto se il proletariato non trangugia il calice del suffragio universale, l'insegnamento di centro è questo: la classe operaia avrà una forza politica quando si saprà preparare al momento inevitabile in cui la borghesia liberale, democratica, costituzionale, repubblicana, griderà che la legalità la frega, e muoverà in un fronte unito totalitario contro la rivoluzione.
Allora se il proletariato, invece di gridare: dittatura di classe contro dittatura di classe! accettando la lotta, a costo di perderla ancora come nel giugno 1848 o nel marzo 1871, griderà: democrazia costituzionale e libertà contro totalitarismo, allora tutto sarà perduto.
"Il suffragio universale aveva compiuta la sua missione. La maggioranza del popolo aveva compiuta la scuola di sviluppo, che è tutto ciò cui il suffragio universale possa servire in una epoca rivoluzionaria. O da una rivoluzione o dalla reazione esso doveva venire eliminato".
Altro che gridare: viva la Repubblica! viva la Costituzione!
"All'alba del 13 giugno il monte ebbe le doglie del parto". Così deride Marx lo sterile proclama dei "socialisti" della Montagna, che denunziavano il Presidente e l'Assemblea dichiarandoli "hors de la Constitution" - fuori della Costituzione.
Vi ricorda questo qualcosa che leggete sui fogli dei "marxisti" di oggi?!
Cada sul grugno dei traditori il ceffone da knock-out! "Viva la costituzione! era la parola d'ordine ivi impartita. Parola d'ordine che altro non significava se non: Abbasso la Rivoluzione!". Firmato: Carlo Marx.
La prefazione di Engels non abbandona in nulla la linea da Marx stabilita. La sua costruzione, riferita ai rapporti di forza della Germania 1895, non si sogna di escludere l'urto finale armato, tratta solo della politica della "provocazione" borghese che riuscì così bene ad Odilon Barrot giannizzero dell'ignobile Luigi Bonaparte, e dice: non saremo così gonzi da attaccarvi in un momento che a voi conviene, a voi impero tedesco, ministero Bismarck, borghesia tedesca. Il succo della lotta è che dobbiamo noi, ad un momento che non viene a "volontà", ma si riconosce nella storia, sapere essere i provocatori.
L'insegnamento di Engels sulla generosa impazienza rivoluzionaria del 1848 era che non bastava che la Francia fosse centralmente controllata da Parigi, e Parigi dai suoi operai. Tantomeno si poteva illudersi che ciò bastasse nella Germania di quel tempo. Ma quando le cifre statistiche delle elezioni hanno confermato ciò che dicono le cifre dello sviluppo industriale avvenuto dopo il 1848, ancora più dopo il salasso prussiano del 1871 alla ricca finanza di Francia, allora si vede avvicinarsi il momento in cui la minoranza rivoluzionaria non rappresenterà solo sé stessa, ma una effettiva maggioranza lavoratrice. Con ciò Engels non condiziona il moto alla "coscienza" e tanto meno alla "consultazione democratica" della maggioranza, ma solo alla fisica esistenza e di una numerosa classe proletaria e di uno sviluppato industrialismo. Inoltre pone in evidenza i fattori internazionali e ricorda la conclusione di Marx fin dal rovescio del 1848; da questo momento ogni lotta rivoluzionaria del proletariato di Francia coinciderà con una guerra mondiale. Fin da allora adopera la parola guerra mondiale, e profetizza così la Comune di venti anni dopo, scatenata dalla guerra europea 1871.
Engels nel 1895 sa di stare nel periodo intermedio tra tale guerra europea e la più volte da lui profetizzata a Bismarck: grande guerra contro le razze riunite degli slavi e dei latini.
Per il momento, dice Engels, senza che i nostri compagni "rinuncino al diritto alla rivoluzione, che anzi è l'unico diritto storico su cui riposano, senza eccezione, tutti gli Stati moderni", noi socialisti tedeschi non siamo alla vigilia di una lotta armata. "Se noi non commetteremo l'insigne follia di lasciarci trascinare in una lotta per le strade per dar loro piacere, ai partiti dell'ordine, allora...". Allora? Quante e quante volte nei giornali di partito e nei congressi abbiamo polemizzato su tal punto, o ombre di Turati, di Treves! Voi leggeste quello che scritto non era: allora senza spargere sangue il processo della diffusione dell'industria e del voto democratico ci consegnerà tutto il potere. Ma non questo Engels scrisse! Il passo infatti prosegue così: "allora non rimarrà ad essi, da ultimo, che spezzare colle proprie mani questa legalità loro così fatale". A parte quindi la peculiare situazione 1895 in Germania, Engels sapeva tre mesi prima di finire che un giorno la legalità sarebbe saltata; confermava che il suffragio universale conduce alla sua fine sotto una delle due dittature. Il periodo progressivo incantò marxisti e materialisti storici come Filippo o Claudio; mai avrebbero essi pensato che conduceva al bagno di sangue del 1914. Allora, mentre Jaurès - oggi ricordato dall'ignobile sciovinista Cachin! - cadeva inorridito, essi si smarrirono per sempre e la storia rimase per loro incompresa. Noi concediamo che la infinita ricchezza dialettica dei rapporti di essa segna con terribile complessità le iniziative di illegalità dei dominatori e degli oppressi, e le loro probabilità di vittoria nella guerra di classe, in cui non si dà quartiere, ma faremmo a pezzi il nostro Marx se una sola volta vedessimo che le schede, e non le armi, abbiano sciolto il nodo.
Oggi
Ci sembra quasi oltraggio al compagno, al lavoratore, al lettore, insistere sul parallelo tra le lotte di Francia di allora e la odierna situazione in Italia, in Francia, in Germania.
Gli Stati borghesi si rinforzano di mezzi potenti di polizia allenati e attrezzati, quando occorre finanziati senza limiti dal dollaro, o riforniti con prontezza di ogni munizionamento dalle flotte che frequentano porti ed aeroporti. Nelle loro feste nazionali, in cui gli operai sono stupidamente condotti a celebrare una loro liberazione recente, si vedono ad occhio nudo sfilare formazioni la cui efficienza cancella il ricordo delle S.S.; per non parlare proprio delle imbelli camicie nere.
Frattanto i rappresentanti del proletariato inquadrato in sindacati o in partiti, non fanno che dedicare ogni ora ad inneggiare al diritto di questi Stati a vivere, a difendersi, a tutelare la loro linea di costituzione. Tale costituzione è democratica, e da ciò si desume subito che lo Stato ha il diritto di reprimere "tutti i tentativi di dittatura".
Con ciò al proletariato si insegna che esso trova tutela in un sistema, che si svolgerà indefinitamente entro i limiti legali delle istituzioni, e quindi è bene che i delegati degli operai appoggino leggi e misure con cui si reprime ogni movimento che minacci attacchi con la forza al potere legale.
Si vuole con ciò ottenere (a quanto si dà ad intendere ai lavoratori rivoluzionari nel segreto dei clubs, che purtroppo non solo non si sono sviluppati in vero partito di classe, ma ridotti ad un ingranaggio di fredde burocrazie) il successo per questo geniale piano.
La democrazia offre delle possibilità che bisogna sfruttare "fino all'ultimo". Bisogna quindi evitare che lo Stato borghese la sopprima, ne diminuisca le garanzie, le possibilità di aver sindacati, giornali, stampa, riunioni, ecc. (si capisce poi, soprattutto elezioni!). Ed allora bisogna impedire che vadano al potere quei gruppi che tali garanzie sopprimerebbero, ed ottenere che lo Stato con mezzi legali reprima quei gruppi, sciogliendo i loro partiti, vietando fin da ora i loro giornali, riunioni, presentazione alle elezioni e simili.
Il solo inconveniente che viene subito in evidenza è il minore. Lo Stato, il governo, il partito di maggioranza oggi al potere, risponde: benissimo. Dunque facciamo una legge che dica che la libertà di opinione di associazione di agitazione è limitata da questa norma: non è permesso enunciare che si possa prendere il potere per altra via che per quella legale. Così scioglieremo, ad esempio, il Movimento Sociale Italiano, poiché si richiama al colpo di forza del 1922. Ma naturalmente la legge sarà "polivalente", ossia chi teorizza il colpo di forza, da destra o da sinistra, perde tutti i diritti di fare lavoro politico ed è colpito da rigori repressivi.
Vengono fuori allora i Nenni, gente non meno lontana dal marxismo di quello che fossero nella Montagna del 1849 i Ledru-Rollin o i Blanc, e dicono: nulla di male, la legge repressiva eccezionale non riguarda noi. Cancelleremo dai nostri programmi la conquista armata del potere e la dittatura del proletariato, essendo certi che almeno per 30 o 40 anni il proletariato in Italia non ha da avanzare altre richieste che quelle pienamente compatibili colla costituzione attuale.
I Nenni sono così certi che il proletariato italiano è fesso, che gli danno 40 anni di tempo per capire, della repubblica borghese, quello che gli operai francesi capirono nei tre mesi dal febbraio al maggio 1848! Ossia che essa è costituita per denegare, per impedire le rivendicazioni di classe. E da allora un secolo è passato di lotte, di sconfitte, di vittorie, di organizzazioni di classe, per arrivare ad un così bel risultato!
Gli operai più risoluti dovrebbero poi credere che questo si dice per conservare allo Stato borghese la debolezza che gli dà la democrazia (senza però un mitra, una jeep, un radar in meno!!!) fino al giorno in cui si scenderà in piazza di sorpresa: e potrebbe essere quello di una dichiarazione di guerra. Ma gli operai non capiscono questo. Depistati completamente, quando hanno visto le destre, i fascisti, riportare successi elettorali nell'ambito democratico, han cominciato a sbigottire: il fascismo ritorna, bisogna difendersi, bisogna rifare contro di esso squadre di azione. Ma a che scopo? Evidente; per difendere dal fascismo De Gasperi, Einaudi, la Confederazione dell'Industria, la... basilica Vaticana, ed altri preziosi fortilizi!
Dall'altro canto, i capi a tale metodo fanno eco, e ripropongono la unità delle forze partigiane, del fronte antifascista, invitandovi tutti i prelodati nominativi ed enti. Manovra anche questa, essi fanno dire, per svalutare democristiani e soci, che contro il fascismo non vogliono fare sul serio. Ma de bon?!
I neo fascisti dal canto loro rispondono analogamente: siamo pronti anche noi a lavorare legalmente e parlamentarmente per 40 anni e per un secolo. Nel 1922 sostituimmo il menar manganelli al gettar schede per il solo fatto che i rossi volevano marciare alla dittatura e che lo Stato, debole, non volle fare una legge per la "tutela della libertà". Ma l'aspetto più grave di tutta la sporca commedia non è la perfetta reversibilità degli argomenti.
Esso sta nella ammissione da parte della immensa maggioranza dei lavoratori (altro che progresso nelle coscienze!) della esistenza di due e più gruppi nei partiti della classe dominante, che per natura, per principio, per abbracciate filosofie, ammettano gli uni di impiegare sempre la persuasione, gli altri la forza. In tal modo viene distrutto ogni residuo di insegnamento della decifrazione marxista della storia, che cioè quando viene il momento che il suffragio è messo da parte, e si pon mano alla forza di classe, tutti i gruppi della borghesia e delle classi medie (che in prima linea affluirono al fascismo anche nel 1922) in fatto ed in principio si schierano per la repressione.
Se gruppi sociali e politici fossero legati inseparabilmente, non ai loro fini di classe e ai loro interessi, ma al rispetto, checché avvenga, di un metodo di azione dettato da principii ideologici, se Nitti o De Gasperi o Pinay o Adenauer fossero di un ette incapaci di abbordare i mezzi propugnati o usati da Mussolini, Hitler, Franco o De Gaulle, quando la situazione lo impone, Marx meriterebbe peggio che la soffitta. Come gli operai furono indifferenti al due dicembre, se lo saranno al loro proprio interesse di classe rivoluzionaria, lo saranno certamente anche quando il piccione viaggiatore di Duclos spiccherà il volo evitando la padella, e i Nenni si aspetteranno un immediato protesto della cambiale, che scadrebbe al 1990.
O scarde di fessi! Scelba si frega le mani per il terno preso con l'aumento di voti monarchici e missini, e voi invocate la legge antifascista! E quello ve la fa votare! Vi urge entrare in una maggioranza. La minorité vous tue! La minoranza vi uccide!
Politiche 1953 = complesso di disastro.
da "Battaglia Comunista n. 12 del 1952