Mai la merce sfamerà l'uomo (2) (CXXI)
II. Stregoneria della rendita fondiaria
Agricolture senza moneta
A definizione del modo e del tempo di produzione capitalista non sta soltanto la fabbricazione degli oggetti manufatti da parte di lavoratori ammassati e non più isolati e la cessata appartenenza del prodotto al lavoratore.
Il capitalismo si definisce anche dall'introduzione del carattere mercantile per i prodotti della terra e la terra stessa - e ciò anche quando il prodotto agrario resti al lavoratore, come nella piccola coltura contadina. In linea molto generale si può dire che manifattura senza mercato e senza moneta non è mai esistita storicamente, anche prima che il lavoro dell'artefice parcellare cedesse il luogo alla grande lavorazione. Per lo meno il baratto deve esistere, ove un uomo vive con la sola attività di produrre, poniamo, sempre zappe o sempre scarpe: dovrà scambiare queste con i suoi alimenti.
Baratto, scambio, mercato e moneta sono infatti apparsi quando la differenziazione della tecnica produttiva da un lato, della gamma dei bisogni e consumi dall'altro, hanno dato grande rilievo alla produzione sistematica dei manufatti. Vi sono state merci prima che uscissero dalle grandi aziende dell'imprenditore capitalista: ne hanno prodotte gli schiavi dell'antichità classica perché le smerciasse il loro padrone, i liberi artigiani del Medioevo smerciandole da se stessi.
Risalendo fino al primo clan comunista possiamo solo trovare che, al fianco dell'agricoltura collettiva e senza diritto personale sui prodotti alimentari, vi fossero alcuni membri della comunità adibiti a lavoro operaio: ma essi erano nutriti sull'ammasso dei prodotti comuni e forgiavano la zappa che doveva sostituire quella consunta quando ciò occorreva, senza diritto di proprietà personale sulla zappa (né da parte del fabbro né da parte dello zappatore).
Ma dal momento in cui la proprietà privata è comparsa, applicata alla terra ed anche applicata all’uomo stesso, la produzione agraria (includendovi l'allevamento degli animali domestici) si effettua in molteplici e generalizzate forme senza intervento di scambio e formazione di merci.
Nella piccola coltura familiare su un campo ormai delimitato lavorano tutti i componenti di essa atti alla fatica, e con determinati cicli sono accumulati i prodotti agrari che tutti consumano. Tale economia vive in un'isola, come tante volte detto, perfettamente chiusa. Nel senso economico non entra e non esce ricchezza o valore; nel senso fisico non esce alcun prodotto di lavoro ed entra soltanto energia termica della radiazione solare, la quale è tanto adatta a trasformarsi in chimismo della terra quanto in forza dei muscoli animali ed umani, ed anche in conoscenza organizzativa collettiva, che le sacrestie della cultura chiamano Pensiero, virtù dell’Io - il solo arnese che di per sé non serve a nulla, o al più come un poco di concime, il che anche gli vieta, a quanto si dice, la sua natura "spirituale".
Supponiamo che nella nostra isola, o compartimento stagno, si stabilisca un equilibrio permanente, uno stato di regime, tra il numero di uomini e di animali e l'estensione della terra (l'intelligentissimo clan comunista non figliava a casaccio, per esistenziali pruriti del soggetto) senza che questa esaurisca la sua fertilità. Allora il dare ed avere della terra, nel suo chimismo ciclico, sarà in pareggio perfetto: il suolo nulla avrà donato alla comunità vivente. Tutta la energia incorporata, nelle sue successive forme, dovrà, ad uno stadio del ciclo, assumere quella di energia muscolare umana e se volete energia organica: il cervello è anche lui un organo.
Fin da questo lontano caso e salvo il consumo di prodotti spontanei di cui abbiamo visto qual conto facesse Lenin (e sappiamo pure che le infiorate indigene delle isole della felicità e dell'ozio, di uno o di due arcipelaghi del Pacifico, si scritturano ormai per il cinema americano in sonanti dollari), si può impiantare la polemica: i valori (per il momento solo di uso e non di scambio), li genera la Terra o il Lavoro?
Economie naturali
In forme di produzione senza scambio sul mercato, ma basate sulla già apparsa proprietà, può già aversi il plusvalore. Indichiamo col termine abbreviato economia naturale quella in cui non si ha scambio e moneta ma solo movimento di prodotti materiali, il che non esclude che sia già comparsa la suddivisione dei componenti della società tra lavoratori e non lavoratori. Quando il vecchio Adamo Smith definisce la rendita fondiaria, egli, sebbene sia mosso dal desiderio di spiegarne l'aspetto, da tempo assunto nell'Inghilterra borghese, di entrata in moneta al proprietario giuridico, include nella definizione il concetto di rapporto in natura e la formula, tra la critica severa di molte altre, è accettata da Marx:
"Dal momento in cui il suolo di un paese è divenuto tutto proprietà privata, piace ai proprietari fondiari, come a tutti gli altri uomini [poteva anche dire: come a tutti gli animati], di raccogliere dove non hanno seminato, ed essi esigono una rendita perfino per il prodotto naturale della terra... Egli (il lavoratore) deve cedere al proprietario del suolo una porzione di ciò che raccoglie o che produce col proprio lavoro. Questa porzione o, ciò che è lo stesso, il prezzo di questa porzione, costituisce la rendita fondiaria".
Dunque concetto principale: una parte del prodotto - concetto storicamente contingente e proprio del modo capitalistico mercantile: il suo prezzo in denaro. Così anche chiusi in una di quelle famose isole, possono vivere un proprietario di schiavi con la sua famiglia, che non solo raccolgono senza aver seminato, ma fanno anche raccogliere a qualche altro (non era venuto ancora Mussolini a trebbiare con le sue mani) quel che si pappano - e dall'altro lato gli schiavi e le famiglie schiave che lavorano. Tutti mangiano i prodotti della stessa terra, ma lo schiavo lavoratore trasforma, poniamo, coi suoi processi muscolari, quattromila calorie in arrivo dalla centrale solare e ne consuma solo duemila. Altro non è il plusvalore, misurato non ancora in sterline, ma in unità di energia. Ed infatti allorché i primi economisti cercano il valore del lavoro operaio, subito si scava l'abisso tra loro e noi marxisti; non lo misurano in uomini-vapore o in calorie (cosa perfettamente identica giusta l'equivalente determinato la prima volta dal fisico Joule) ma lo misurano giusta il prezzo di mercato delle sussistenze che bastano a far vivere l'operaio. Petty lo disse brutalmente:
"La legge... dovrebbe appunto accordare al lavoratore i mezzi indispensabili per vivere; poiché se gli se ne accordasse il doppio, egli allora lavorerebbe soltanto la metà di quanto avrebbe potuto lavorare e avrebbe lavorato altrimenti; e per la società [!] ciò rappresenta una perdita del frutto di una uguale quantità di lavoro".
Evidentemente per i primi (come per gli ultimi) teorici del capitalismo il pubblico che interessa è formato da quelli che raccolgono ove altri ha seminato. Sono dunque economie naturali non solo quella della gens comunista ove son tutti a seminare, ma anche quella agraria schiavista e quella medievale terriera. Nell'ingranaggio della società feudale esiste invero un mercato, ma soprattutto di prodotti artigiani manufatti e assai limitatamente come mercato di prodotti agricoli. Ben vero nelle poco sviluppate città la classe artigiana e la poco numerosa classe di funzionari e professionisti liberali trovano ove acquistare contro moneta i loro alimenti, recati dal contadino suburbano, oppure una certa aliquota di costoro già possiede un po' di terra agraria resa privata e ne ritira i prodotti. Ma il rapporto delle due classi fondamentali: lavoratori della terra e nobili, è regolato non mercantilmente; anzi avviene lo stesso anche per l'ordine sacerdotale. I contadini servi della gleba hanno un certo campo il cui prodotto serve loro di alimento, ma dopo averlo raccolto devono farne una detrazione per la quota che va portata in natura alla casa del signore e per la decima da portare ugualmente in generi alla parrocchia. Il contadino servo della gleba non ha bisogno di fare uso di moneta, come non ne ha bisogno il signore e il prete. Ben s'intende cominciano, in tutto il più vicino Medioevo, i primi accumuli monetari che si sviluppano col commercio e l'usura, e il signore non si limita più alla solita borsa di denaro non contato che nelle grandi occasioni lancia con disprezzo ad un sicario, ma comincia ad avere una cassa, un'amministrazione e un borsellino personale. La trama mercantile si va costruendo sempre più fitta, ma il grosso della produzione agraria funziona senza dovervi fare ricorso.
Marx e i suoi studi - che non sono appunti di letture, ma schemi luminosi della nuova teoria rivoluzionaria - sugli economisti precedenti, ci saranno di guida in questo trapasso dall'economia naturale a quella di scambio, in cui protagonista della lotta sociale è la classe borghese e di immenso interesse sono le teorie che essa stessa elabora sul suo sviluppo, esempio di quanto sia vero che ultimo elemento di una trasformazione storica è la "coscienza", anche collettiva, mentre chiave di essa è la determinazione dalla base economica e il materiale scontro delle forze e delle masse umane in gioco.
Moderna agricoltura mercantile
La forma data dal capitalismo all'agricoltura è quella di mercato, dopo avere schiodato dalla terra da una parte il lavoratore reso "libero" e dall'altra il barone feudale, sopprimendo la inalienabilità del feudo e concedendolo ai borghesi suoi creditori, o concorrenti alle aste, in parte vendendolo a lotti al piccolo e medio contadino. Da questo immenso processo sono sorte svariate forme di esercizio della produzione agricola che tuttora vivono e accompagnato la possente industrializzazione moderna nel campo della produzione di manufatti e servizi diversi.
Per distinguere tra queste forme ci rifaremo anzitutto e dopo aver bene ribadita la preminenza del metodo di derivazione storica, alla chiara, scientifica esposizione dei buoni trattatisti. Riportandoci ancora una volta allo studio Proprietà e capitale apparso nella rivista "Prometeo", ricorderemo come la borghesia rimpiazzò i vecchi codici e investiture feudali con una applicazione piena del "diritto romano" alla privata proprietà del suolo, nella sua tutela e nella sua trasmissione sia ereditaria che contrattuale. Non ripeteremo come uno stesso meccanismo di articoli vale per lo strappo di terra della famigliola contadina e per la proprietà di migliaia di ettari, e quale sia il senso di questo dispositivo.
Lo studio economico mette infatti in evidenza, al posto del criterio di proprietà che è puramente giuridico, quello ben diverso di azienda. Questa essenziale distinzione fu messa avanti da quando comunisti, il cui orizzonte si limitava ad un sindacalismo chiuso nella fabbrica moderna, non capirono nulla delle tesi agrarie dell’internazionale di Mosca e le scambiarono per cose nuove; ma la cosa non è stata digerita dai quattro scolaretti bocciati che oggi fanno da sinedrio specializzato per il comunismo ufficiale di Mosca. La loro vuota demagogia di agitazione è sdrucciolata fino alle - geniali a tempo loro - posizioni dei fisiocratici, ossia alla lotta per la ricchezza-terra e per la spartizione della miseria titolare. Il manuale di economia anatomizza dunque l'azienda agraria e non la proprietà, per sviluppare la genesi della rendita. Ben vero i primi economisti ci dettero anche ammissione che senza l’impalcatura legale la rendita mercantile non sarebbe nata:
"Il proprietario fondiario non riceve niente se non mediante il lavoro del coltivatore; egli riceve da lui i suoi mezzi di sussistenza e i mezzi per pagare i lavori degli altri stipendiati... il coltivatore ha bisogno del proprietario fondiario solo in virtù delle convenzioni e delle leggi" (Turgot, fisiocratico)
Da Blanqui (Storia dell'economia politica, 1839), Marx riporta poi questa definizione dell'agricoltura borghese (tanto brillante quanto la sua famosa: il capitalismo fece della terra un articolo di commercio):
"La proprietà fondiaria uscì per la prima volta dallo stato di torpore in cui l'aveva mantenuta così a lungo il sistema feudale. Questo fu un vero risveglio per l'agricoltura... Essa (la terra) passava ora dal regime della manomorta a quello della circolazione".
Cosa è la manomorta lo chiederemo al manuale. In Italia essa era la sola forma feudale in efficienza, prima della legge che la sterminò. Manomorta sono i possessi immobiliari di chiese, conventi (ordini monastici, non comunità di lavoro diretto come nella dottrina di Benedetto, ma goditori di rendita) ed altri enti pii, che non sono alienabili né trasmissibili, tanto che vi si paga una tassa che sostituisce il gettito che dà al fisco la normale proprietà libera nei trapassi di vendita o successione. Ad esempio in Italia nel 1923-24 mentre i trapassi della terra in circolazione rendevano al fisco statale 500 milioni, la superstite (impropria) manomorta non dette che circa 6 milioni. Altro che feudalesimo da estirpare!
Seguiamo un poco la digressione. Partendo da quelle tasse e dalla media periodicità dei trapassi di proprietà, l'autore calcola che il valore del patrimonio immobiliare italiano fosse nel 1924 di 120 miliardi per la parte agraria privata (totale 200 miliardi). Vogliamo raffrontare questa cifra con quella dei fabbricati, che resterebbe 80 miliardi. Nell'anteguerra avevamo in Italia 30 milioni di stanze abitate; i vani edilizi non pubblici, di ogni destinazione oltre la casa, sono quasi il doppio, ossia 50 milioni; in lire di allora un vano valeva mediamente, tra città e campagna, tremila lire, il che conduce a 150 miliardi. Ciò vorrebbe dire che dovremmo dedurre di più dal totale terreni e fabbricati; ma la vera ragione è che, come il testo avverte, i valori denunziati dai contribuenti sono minori del vero, anche dopo accertamento. Il valore agrario fondiario 1924 si può dunque portare anche a 150 miliardi. Oggi sarebbero circa 8.000 miliardi. La rendita fondiaria di tutte le terre italiane, accentrate o spezzettate, risulta oggi di circa 400 miliardi annui. Il reddito nazionale totale è già ai 10.000 miliardi: la lotta per la spartizione della rendita terriera riguarda solo il 2 e mezzo per cento dell'economia del paese. Ma molto è già spezzettato: quanto sarà la rendita dei baroni, come ci chiedevamo altra volta? Su 45 milioni di italiani abbiamo oltre 8 milioni di proprietari immobiliari si sa bene che la statistica per grandezza di possessi è affare imbrogliato: comunque il fantomatico baronato non incombe sui guai di questo popolo avventurato per più del mezzo per cento. A sentire i vanti de "l'Unità" gli costa di più il partito comunista ufficiale, in quote e sottoscrizioni - quello poi che veramente lo frega.
Bilancio dell’azienda
Prima ancora un pochino di lezioncina:
"La terra coltivata si divide prima in possessi, di cui ognuno, può comprendere una sola o più imprese od aziende, mentre soltanto per rara eccezione può avvenire l'opposto (ma può avvenire: proprietà minori, azienda maggiore). Intendesi per possesso o predio l'assieme di terreni prossimi o non molto discosti tra loro, ad una sola persona fisica o giuridica; e per impresa agraria, podere od unità colturale, quanto di terra coltivata è gestita da un solo imprenditore: proprietario, enfiteuta, affittuario o mezzadro che sia".
Dunque (solito ribattimento chiodi) la questione della piccola o grande coltura va riferita alla grandezza dell'azienda e non alla grandezza del possesso, a quello che Lenin dice monopolio di azienda e non al monopolio di proprietà della terra. Abolire il secondo può essere un programma borghese, che vorrebbe dire, dopo aver messa la terra in circolazione svincolandola dai diritti di feudale signoria, toglierla dal mercato e attribuirla al demanio dello Stato. Ma abolire i1 monopolio di azienda non si può che per la terra e le fabbriche assieme e quindi è compito rivoluzionario e comunista.
Poiché la definizione del latifondo è: grandissima proprietà, piccole aziende, il suo spezzettamento non colpisce né il monopolio giuridico né quello organizzativo, non è programma socialista né borghese avanzato. E' una boiata da affaristi e da pescavoti: nulla più.
Ma veniamo dunque alla generale analisi delle partite di bilancio nell'esercizio agrario, che valgono a definire i redditi dei vari elementi sociali e a studiare le forme diverse di combinazione nell'economia presente.
Attivo, o entrata, è quello dato dalla produzione lorda, o prodotto lordo che, venduto ai prezzi di mercato, fornisce la cifra in moneta della rendita lorda o reddito lordo. Fermiamoci un attimo a stabilire che quantitativamente rendita (rente) è lo stesso che reddito (revenu), ma che useremo il primo termine per rifarci alla rendita che dà un fondo, il secondo al reddito che riceve un proprietario, o anche altra definita persona titolare di azienda. Dunque il solo arrivo di soldi nella cassa del podere è questo: prezzo di tutte le derrate prodotte nell'anno, recate al mercato e vendute.
Tutte le uscite devono venire fuori da questa cifra. Occorre ricostituire innanzitutto quanto la materiale produzione ha assorbito o logorato, ossia il capitale di esercizio. L'economia ufficiale lo divide in capitale fisso, ossia fabbricati, macchine, bestiame e simili, e capitale circolante, ossia sementi, concimi, foraggi, piantine, ecc., distinguendoli per il fatto che il primo è a logorio parziale, il secondo a logorio totale, e quindi stanzia tra le uscite aziendali annue una quota (ammortamento) del capitale fisso che ne assicura la conservazione e tutto il capitale circolante. Il termine capitale fisso prende nell'economia marxista ben altro significato, ed è quindi meglio servirsi del termine capitale costante. In questo marxisticamente mettiamo tutto il circolante e la quota di quello definito fisso che si è logorata. Dedotto dunque come uscita il capitale circolante, e la quota di ammortamento, le spese non sono finite. Fabbricato, macchine, ecc., oltre all'ammortamento, che è una messa a riserva per quando occorrerà rinnovarli in toto, chiedono una annua manutenzione. In una saggia amministrazione si accantona anche altra quota per i rischi cui gli impianti vanno soggetti, e quindi una quota di assicurazione.
L'impresa agraria deve inoltre far fronte a varie altre spese se ha un ufficio di amministrazione, pagare tasse (sul profitto, sul reddito detto agrario per i contributi assicurativi del personale; ma non è considerata qui l'imposta fondiaria che colpisce il proprietario, o l'imponibile dominicale). Chiamiamo tutto questo spese generali. Non basta. Se l'imprenditore non ha capitale liquido e lo prende poniamo in banca, per anticipare una annata di tutte queste erogazioni pagherà il relativo interesse sul capitale di esercizio annuo.
Ed ora veniamo a quanto va alle persone che sono in ballo. L'imprenditore fa lavorare i braccianti ed operai agricoli, e in un anno paga una data somma di salari. Per l'economista comune questa è una delle partite di spesa, per i marxisti è invece capitale variabile.
L'imprenditore poi svolge tutta la sua attività in vista di un guadagno e gli resta quindi un profitto dell'impresa. Qui facciamo le scuse al trattatista respingendo la sua affermazione che tale partita sia compenso di lavoro intellettuale di dirigente. Al più essa va smistata in due, portandola se vi sono tecnici agrari fissi alla partita salari e stipendi per tal parte, e per l'altra restando puro profitto di intrapresa.
Se noi stessimo analizzando una industria manifatturiera avremmo finito, ossia avremmo coperto con le uscite tutto il ricavo avuto in principio dalla vendita dei prodotti. Ma trattandosi di terra agraria, e in virtù del codice napoleonico, occorre riconoscere un'entrata al giuridico proprietario, ossia la sua rendita fondiaria netta. Avremmo fatto presto a riassumere se avessimo usato simboli con lettere, ma qualcuno ci avrebbe ulteriormente compatito come (puah!) teorici.
Usiamo dunque la chiacchierata popolare (abile cioè a far fesso il popolo sovrano) cercando però di essere esatti.
Entra: la rendita lorda, ossia il ricavo della vendita della produzione annua lorda al prezzo di mercato.
Esce: primo, l'ammortamento del capitale fisso; secondo, la sua manutenzione; terzo, il capitale circolante annuo; quarto, la Assicurazione contro rischi; quinto, l'importo delle spese generali; sesto, l'interesse sull'annuo anticipo di capitale; settimo: l'importo dei salari, che vanno ai lavoratori agricoli; ottavo: il profitto, che va all'imprenditore.
Resta: (una volta pagato tutto questo) una differenza attiva che è la rendita fondiaria e va al proprietario della terra.
Dramatis personae
Ed ora si ritirano sia i simboli che le cifre, e vengono sulla scena personaggi viventi. Il proprietario fondiario, ove stia a spassarsela in città, riceve la rendita fondiaria netta. Ove gli appartenga parte del capitale tecnico, riceverà anche una quota di interesse. Il proprietario gestore diretto riceve il cumulo di rendita, profitto, interesse. Il capitalista affittuario riceve profitto o anche parte di interesse. L'affittuario lavoratore (colono) riceve il cumulo di profitto e salario. Il proprietario lavoratore (piccolo contadino) riceve il cumulo di rendita fondiaria, Profitto e salario. Il bracciante agrario, giornaliero o ingaggiato ad anno, riceve solo salario. Va subito fatta una osservazione perché il puro profilo legale della spettanza non soffochi la realtà del rapporto economico e di classe.
In linea generale è fuori di dubbio il ricavo della spettante rendita fondiaria, allorché il proprietario ha dato in affitto un fondo all'imprenditore agrario, sia perché ha legale azione per ripeterla, sia perché spesso detiene una cauzione. Non meno assicurato è il profitto capitalistico dell'imprenditore poiché a sua garanzia, come di qualunque industriale, sta il possesso del prodotto attivo da cui tutto deve venir fuori; salvo casi di eccezione e crisi di mercato, il margine sulle spese non viene meno. E' anche assicurato dalla legge il pagamento del salario al lavoratore da parte del datore di lavoro.
Ma nelle forme miste la cosa cambia. L'affittuario lavoratore è costretto dalla legge a pagare l’affitto al proprietario fondiario, ed ha come garanzia il totale lordo del prodotto, ma il netto ricavo può essere fortemente intaccato nella quota di profitto e magari scendere al di sotto del salario, senza che egli possa rivalersene verso alcuno.
Il proprietario lavoratore dovrebbe cumulare rendita, profitto e salario; ma in effetti se tasse ed interessi di debiti lo soffocano, può accadere, senza che possa avere nessuna azione di rivalsa, che il suo ricavo scenda e che, sparite le quote di rendita e di profitto figuranti nella teorica analisi, egli pure lavori al di sotto del salario medio, sgobbando per lo Stato, la banca, lo strozzino o il professionista consulente.
Fin da questa presentazione di fatto, pacifica tra i vari indirizzi sociologici, è dunque fuori di dubbio che nell'agricoltura, sotto il riflesso, diremmo, per ora puramente contabile, le forme miste sono le più miserabili e le più adatte a richiedere sforzi di lavoro in eccesso sulla remunerazione.
E qui vengono pretesi marxisti a fare campagne per aumentare il numero di piccoli proprietari, coloni, mezzadri lavoratori e impedirne la proletarizzazione. Si spiegherebbe con lo scopo di costoro di evitare di farne dei rivoluzionari, ma per svergognarli non è da trascurare la prova che ne fanno così dei pezzenti assai più sfruttati del lavoratore a salario. Il "popolo" cui fanno appello invece che al proletariato solo, non è una elevazione di questo, ma un suo abbassamento economico, oltre che sociale, intellettuale e politico.
Parentesi lessicale
Poiché siamo un partito e non un'accademia, non è possibile né utile sfuggire ad interferenze tra le varie trattazioni, scritte e verbali, unitarie e periodiche (e la periodicità alle volte è gravemente alterata dalla parvità delle nostre risorse, la nostra miseria materiale non essendo minore di quella del lavoratore "autonomo", che non sfrutta nessuno e non sta al servizio di nessuno). Avendo parlato di capitale, salario e profitto, termini che ricorrono nell'economia marxista applicata alle aziende capitalistiche in generale e non solo a quelle agrarie, dobbiamo (allo stesso tempo) ripetere ed anticipare cose dette e da dire in Proprietà e capitale, e negli Elementi dell'economia marxista, già usciti per il primo tomo, da uscire per gli altri due.
Ci limitiamo qui (in effetti poi la ricerca sulla rendita fondiaria non fa che condurre alla generale dottrina del plusvalore, come passo passo si vede in Marx) ai soli chiarimenti indispensabili per non equivocare nell'impiego dei termini e per evitare accostamenti e discostamenti errati tra enunciazioni che competono ai vari capitoli della teoria, a cui spesso ci vediamo richiamati, senza potervi trovare rimedio nel rinvio ad una sistematica Pandetta e Digesto del marxismo, che i ricchissimi istituti di varie sponde nemmeno sono in potere di edificare. Di solito, ponendo la rendita immobiliare in parallelo al profitto aziendale e all'interesse finanziario, si considera in parallelo e come capitale "patrimoniale" del titolare, e la terra, e la fabbrica e macchine, e il contante. Sono infatti tutti mezzi dell'attuale forma di produzione e tutti assoggettati per la vigente legge a monopolio titolare. Ma assai più complessa è la questione da quando vi si introducono due fondamentali criteri: processo storico, rapporti di classe.
Nell'azienda agraria concorrono capitale terra, capitale tecnico, capitale denaro. Sembra che all'ingrosso il rapporto dell'interesse al capitale denaro collimi quantitativamente con quello della rendita al valore immobiliare: ma bisogna andare adagio, anche quantitativamente, nel farlo collimare col rapporto del profitto industriale al capitale macchine, spesso assai più alto.
Ricordiamo i termini di Marx e applichiamoli all'azienda dianzi descritta. Per Marx non è capitale il costo di un predio fondiario o di una sala di macchine o una somma di denaro. Egli parte assimilando il capitale ad una massa di merci, di prodotti di lavoro umano. Il valore ricavato da queste merci lo si divide in tre parti. La prima è il capitale costante, ossia ciò che l'intraprenditore, cui le merci appartengono e che le vende, ha speso per materie prime, logorio dell’impianto e altre spese generali. La seconda è il capitale variabile, ossia quanto è stato speso in salari di lavoratori. La terza è il plusvalore, ossia il margine che resta a profitto dell'imprenditore. La somma delle tre è il capitale "di arrivo", ossia il valore che sta nelle mani dell'imprenditore, ad operazione produttiva finita, quale che sia il tempo della durata di essa.
Ed allora quale era il capitale costante della nostra azienda? Esso (voglia il lettore essere paziente e attento) si ravvisa nella prima, seconda, terza, quarta e quinta partita di anticipazioni (spese, uscite): Ammortamento impianti; loro Manutenzione; Capitale "circolante" ovvero materie prime; Assicurazione; Spese generali. Tutto ciò è costante in quanto dopo le dette spese al principio del nuovo ciclo produttivo (legato solo in agraria all'anno solare) tutto è ricostituito in pari come era all'inizio. Quale il capitale variabile? La sola settima partita: Salari (e se del caso stipendi). Quale il plusvalore? La somma di tre partite: sesta: Interessi; ottava: Profitto di impresa; ed infine la Rendita fondiaria netta.
Quale la somma dei tre termini: capitale costante, variabile e plusvalore, ossia capitale finale pronto per nuovo impiego? E' chiaro: tutto il valore della produzione in derrate, che in economia rurale è la rendita fondiaria lorda. Per essi è una rendita lorda. per noi è capitale. Quindi il capitale scomposto da Marx è cosa ben diversa dal valore del patrimonio terra e del capitale impianti (fisso).
Nel caso della normale azienda industriale noi chiamiamo capitale in un dato ciclo la somma dei prodotti, che la ragioneria dell'azienda chiama il fatturato, ossia la sua entrata lorda, il suo attivo di gestione. Non chiamiamo capitale il valore di stima (di inventario) delle macchine della fabbrica e delle scorte e nemmeno la differenza tra questo e l'anticipo degli azionisti e questo medesimo capitale azionario, nominale o reale che lo si calcoli, come nei bilanci prescritti dalla legge. Ben vero il valore venale dell'azienda non dipende da una somma di valori di stima e di inventario, ma dalla sua capacità di prodotto lordo e di margine di utile netto su tale prodotto e può quindi essere enormemente superiore, anche alla somma dei diritti degli azionisti, ove ci sono.
Seguendo ora tutto questo verremmo alle sostanziali distinzioni, trattate fra l'altro nel Dialogato con Stalin, fra tassi o saggi di rendita, interesse, profitto e saggio del plusvalore. Il plusvalore è la somma di quelle tre sottrazioni, ma siccome essi lo mettono in rapporto al valore di impianti, noi al vivo valore di trasformazione, la legge di discesa di quei saggi non toglie che sia assolutamente e relativamente sempre più giganteggiante il plusvalore.
Qui basti dire, per passare un poco ai numeri, che un fondo di 1 milione di valore venale può avere una rendita lorda intorno al 10 per cento e netta intorno al 5, ossia 100 mila e 50 mila. Se delle 50 mila di annua spesa 20 mila sono salari, il saggio del plusvalore è il 250 per cento. In una industria non è difficile che con le stesse cifre di entrata e di uscita, ossia con 100 mila lire di fatturato annuo, il valore degli impianti sia solo 500 mila e allora l'economista corrente troverà il profitto del 10 per cento, noi le stesso plusvalore prima detto per il fondo.
Interesse e rendita
Rimandando dunque ad ulteriori esposizioni il problema del profitto aziendale anche in rapporto alle aziende azionarie, parastatali e statali, ripieghiamoci al tempo in cui gli economisti del capitalismo avanzante non erano colpiti da questo aspetto del plusvalore, ma da quelli storici della rendita fondiaria e dell'interesse che allora si diceva apertamente usurario.
Questa è la via che Marx imbocca per arrivare alla comprensione del capitalismo. Se con lui ci si avvia nella giusta direzione, è facile arrivare alla fine del lungo cammino: il capitale si contenterà di minore saggio di profitto, tollererà più alto tenore di vita del lavoratore, ma ugualmente sarà provata, non tanto una moltiplicata sottrazione di plusvalore, che sarebbe risultato platonico, ma sarà provato l'incombere della catastrofe rivoluzionaria.
Ai primi ricercatori sembra del tutto comprensibile che la proprietà della terra comporti una rendita, dato che naturalmente la terra arreca frutti; occorre maggiore sforzo per capire che una somma di denaro prestata arrechi un interesse. Sono ancora ben lontani dal capire che nei due casi la spiegazione sarà trovata solo quando si stabilirà l'origine dei valori nel lavoro degli uomini, che né la terra né il denaro sono come i cioccolatini purganti (voi dormite e Kinglax lavora) e in seguito neppure le macchine, ma che bisogna trovare nel conglomerato sociale i disgraziati che stanno svegli mentre voi dormite.
Cose davvero suggestive si trovano in Petty, ove il lettore sia un Carlo Marx. Egli, scrivendo nel 1679, per primo trova che il valore di una mercanzia, che egli chiama il suo prezzo naturale, si determina dalla quantità di lavoro medio che vi è contenuta. Presto si trova davanti ai problemi, che si concentrano in quello del plusvalore: ossia l'entrata - il reddito - per chi non rende lavoro.
"Ma prima di parlare troppo delle rendite, dobbiamo cercare di chiarirne la natura misteriosa, tanto per ciò che riguarda il denaro, la cui rendita noi chiamiamo usura, quanto per ciò che riguarda la rendita dei terreni e degli edifici".
Petty ha fatto, rispetto ai fisiocratici francesi per cui la rendita fondiaria è la sola sorgente di plusvalore (in quanto la produzione manifatturiera secondo loro non aumenta la ricchezza ma la trasforma con pareggio di valori facendo vivere gli "sterili" industriali ed operai) il passo che vede una seconda forma di plusvalore nell'interesse. Egli suppone che un uomo su una data terra faccia da sé tutti i lavori, zappi, semini, raccolga, trebbi, ecc., conservi il seme per l'altra annata, deduca dalla raccolta quanto gli basta a campare: il grano che gli resta costituisce la vera rendita fondiaria naturale. 0 meglio sarà questa la media del sovraprodotto così ottenuto in un periodo di sette anni.
Questo vale, Marx illustra, definire la rendita come un sopralavoro del produttore oltre il salario e la ricostituzione del capitale, invece di (e dunque mentre noi marxisti la definiamo come): una semplice eccedenza del lavoro impiegato sul lavoro necessario. Sintetico, ma già enunciato. Un eccesso del grano prodotto su quella minore quantità che il contadino unico avrebbe dovuto produrre solo per mangiarla. Parole di Petty, ma musica di don Carlo.
Petty poi vuole esprimere quella rendita in denaro inglese, ossia compulsare il conto corrente di Robinson Crusoè sulla Banca d’Inghilterra. In ciò è sagace. Quelle quantità di moneta, poniamo di argento, che un minatore potrebbe estrarre nello stesso tempo, riducendo il suo consumo al minimo indispensabile, da una miniera del metallo, dedotto quello che avrebbe pagato per vivere: ossia la massima economia del lavoratore salariato che si alimenti nel più frugale dei modi. Questo in linguaggio di Marx significa porre la rendita eguale a tutto il plusvalore, profitto compreso. Con un nuovo "tratto di genio" Petty vuole, dopo aver trovato il frutto, ossia aver calcolata in denaro la rendita annua, trovare il valore commerciale della terra (mal tradotto nell'edizione francese: du pays).
Egli dice infatti: "il valore naturale della proprietà libera della terra". Ebbene ecco il procedimento veramente originale: si domanda quante rendite annue può valere il terreno, quanto cioè il compratore è disposto ad anticipare in moneta corrente. Egli dice che ciò corrisponde al tempo di vita su cui possono contare di sopravvivere un uomo di 50 anni, uno di 28 e un bambino di 7, ossia nonno, padre e figlio, non essendo il caso di pensare a una più estesa, e non contemporanea, discendenza. Queste tre vite sono valutate in Inghilterra ognuna a 21 anni (egli ci ha dato le differenze di 22 e 23 tra le generazioni), quindi la terra vale 21 annate di rendita.
Marx osserva che ciò vale fare la "capitalizzazione" degli economisti comuni: 21 o 20 rendite significano il tasso del 5 per cento, ossia il compratore ha calcolato che la terra gli renderà quanto il suo denaro messo ad interesse del 5 per cento annuo. Ma Petty vuole partire dalla rendita come forma madre del plusvalore e se avesse così ragionato avrebbe dedotto la rendita come derivato della forma interesse.
La deduzione di Petty è tanto più interessante in quanto potrebbe servire a stabilire un nesso generico tra la prolungata vita delle generazioni nel mondo moderno e la discesa del tasso di profitto. Noi calcoliamo oggi non 21 ma 30 anni per una generazione e Stalin, che ci teneva tanto a Voronoff (sia pure con magro esito), ne avrebbe pretesi almeno 35 per il "paese del socialismo". Perché allora negare la discesa del tasso, in tre secoli, dal 5 al 3 per cento?
Ma Petty non risponde alla obiezione che in altra forma fa Marx, ossia che, dopo mangiate le 21 rendite, il valore venale della terra di norma sarà ancora lì per altri ventun'anni o un'altra vendita alla stessa cifra. E ciò il diritto lo esprime con la ereditarietà di essa senza limiti di generazioni. Per confutare Petty occorre una formulette di calcolo integrale. Ed allora, ad evitare scandalo, racconteremo una storiella.
La servetta e il calcolo integrale
Quando ero ragazzo con tutti dieci alla quarta elementare e dominavo da maestro le quattro operazioni dell'aritmetica, la serva di casa mi poneva di continuo in imbarazzo. Io sono analfabeta, diceva, voi che siete istruito fatemi il conto di quanto devo avere risparmiato per poter cessare di servire e assicurarmi una lira al giorno (prevedo le insinuazioni sull'età dello scrivente: fino al 1916 si campava con una lira al giorno; tre o quattrocento di oggi: avrà almeno cinquant'anni). Dall'alto della mia cultura la maltrattavo: bestia! perché io faccia un simile calcolo occorre che tu mi dica in che anno morirai. Ella mi guardava con compatimento e con sforzi enormi cercava di spiegarmi che quel dato non occorreva (faceva evidentemente conto su più dei 21 striminziti anni di Petty). Se da simile lunga lotta uscii sconfitto è perché la serva applicava, ed io no, il calcolo integrale. Il dato che occorreva non era la vita della donna, ma il tasso di interesse: il suo gruzzolo lungi dal non bastarle se avesse vissuto quanto Matusalemme, le è certamente sopravvissuto (svalutazioni a parte!).
Una somma di 1 lira dopo un anno, se messa a frutto (non ne vorrete sapere meno di una povera analfabeta del... stavo per dire secolo scorso), diventa 1 lira e 1 soldo. Ma se io voglio riscuotere una somma di 1 lira tra un anno, basterà che oggi accantoni (in banca) 95 (circa) centesimi.
Quindi 1 lira di oggi è 1 lira; una del prossimo anno 0,95; una tra due anni (circa!) 0,90; una fra tre anni un poco più di 0,85. Non crediate che una tra dieci anni sia mezza lira, è invece "a valor d'oggi" 61 centesimi e quella tra venti anni non è zero ma 38 centesimi. A questo ci arrivai quando oltre alle quattro operazioni imparai le potenze; se volete credetemi sulla parola.
Ora il problema è questo: quanto devo "stanziare" per pareggiare la somma dei valori attuali di queste rendite future tutte uguali, ma distanti da oggi sempre più anni? Quanti anni? Tutti gli anni fino alla fine... del capitalismo. Qui dal calcolo infinitesimale potremmo passare ai concetti einsteiniani di relatività, che danno una misura alla infinità dello spazio e del tempo: ma stiamocene agli economisti borghesi per cui la rendita è "perpetua" e gli anni da mettere nel conto infiniti. Ed allora faccio un'addizione: 1 lira, più 0,95, più, più, più... 0,61 ... più 0,38, più, più, più... so che la lunghezza dei "fili" incute rispetto, ma i più non ci starebbero nel giornale. Gli addendi scendono, scendono, ma non finiscono mai. La parola integrazione col suo anfigorico suono (che vorrà dire anfigorico? ecco l'occasione che lo ha spiegato) non significa che addizione. Non ve la sto a fare a pie' di colonna e vi corroboro con altra storiella. Al confino a Ponza un valente e tuttora efficiente compagno negava che una somma di termini in numero infinito desse un totale finito e invano mobilitavansi per provarglielo il filosofo Zenone, Achille e la sua gara con la tartaruga: per lui Achille non raggiungeva mai la tartaruga.
Ebbene, quella somma è proprio venti lire. Integrando l'espressione del valore di oggi di infinite rendite future costanti al tasso del 5 per cento, si ha un capitale di venti volte la rendita. Dopo avere trovato il bandolo, la regoletta diviene facile e nota ad ogni strozzinetto. Il capitale si trova dividendo la rendita per il saggio di interesse: 1 diviso 5 centesimi uguale 20. Scabroso forse? Venti soldi in una lira. La servetta per godere di 365 lire all'anno doveva avere accumulato 7300 lire (o avere scavato nella miniera, a 3,60 al grammo, una pepita di due chilogrammi). Dopo tutto, mica fesso Petty. E meno noioso.